GUAZZO, Stefano
Nacque a Casale Monferrato nel 1530 (ma alcuni storici collocano la nascita nella vicina Trino), ultimo dei quattro figli di Giovanni, fedele funzionario dei Paleologhi prima e poi dei Gonzaga.
La famiglia Guazzo era originaria del territorio pavese e suoi rappresentanti si ritrovano con ruoli di prestigio in molti centri dell'Italia settentrionale. Giovanni Guazzo era divenuto tesoriere dei Gonzaga per l'amministrazione di Casale allorché questi acquisirono il Marchesato monferrino: la sua fedeltà nello svolgimento del delicato incarico è testimoniata dai ripetuti apprezzamenti che i duchi di Mantova e soprattutto la reggente di Casale, Margherita Paleologa, madre di Guglielmo Gonzaga, gli rivolsero, come testimoniano le lettere dei Gonzaga conservate presso l'Archivio storico di Mantova e le lettere edite del Guazzo.
La famiglia Guazzo fu al centro dei difficili rapporti che i Gonzaga instaurarono con il Monferrato, da quando il trattato di Cateau-Cambrésis, nel 1559, confermò il Marchesato alla dinastia mantovana, nella persona del duca Guglielmo. Poco gradito alla popolazione e circondato da una fama di governante dispotico, Guglielmo comprese la necessità di normalizzare gradualmente la regione e chiamò a rappresentare il potere ducale a Casale gli ultimi membri della vecchia dinastia di regnanti del Marchesato, i Paleologhi. La madre Margherita era la più sicura mediazione tra le aspirazioni locali di autonomia e la strategia gonzaghesca di annessione. Il governo di Margherita si basò sulla collaborazione degli ottimati casalesi e i Guazzo furono proprio l'esempio più caratteristico di questo particolare ceto cortigiano, simbolo di tradizioni locali ma pure conquistato al mito del principe e dell'autorità.
Il G. studiò a Pavia, dove frequentò i corsi di Andrea Alciati e divenne dottore in giurisprudenza: alla morte del maestro gli dedicò versi di compianto in latino (Carmina), raccolti, insieme con quelli di altri autori, in un volume pubblicato a Pavia presso F. Moscheni e G.B. Nigro nel 1550. Quando il fratello di Guglielmo Gonzaga, Ludovico, nel 1554 andò in Francia a prendere possesso dei feudi lasciatigli dalla nonna materna Anna d'Alençon, il G. lo accompagnò con l'ufficio di segretario. Dei sette anni trascorsi in Francia abbiamo qualche informazione dalle scarne lettere inviate a Margherita Paleologa - inedite -, in cui dà notizie sulla salute e sugli svaghi del futuro duca di Nevers, in toni che testimoniano devozione e scrupolo. Nel 1561 il G. era a Mantova per le nozze del duca Guglielmo con Eleonora d'Asburgo: il ritorno in Italia coincise con l'inizio della reggenza della Paleologa nel Monferrato, che per il G. e per Casale significò, nei sei anni della sua durata, un periodo di provvidenziale equilibrio tra una discreta autonomia politica e culturale e il prestigio di una dinastia ricca di tradizioni e in espansione come i Gonzaga. In questi anni il G. partecipò attivamente all'Accademia degli Illustri, che lo vide tra i fondatori nel 1561 e che raccolse e istituzionalizzò l'eredità della vecchia Accademia degli Argonauti, creata da Niccolò Franco vent'anni prima (l'attività dell'Accademia fu occasione di rapporti con letterati ed eruditi, quali B. Tasso, A. Ingegneri e G. Vida). Nel 1563 il G. era di nuovo in Francia per una missione presso Carlo IX e nel 1566 fu inviato a Roma per portare le congratulazioni dei duchi di Mantova al nuovo papa Pio V; nello stesso anno, in maggio, sposò Francesca Da Ponte che morì nel 1575. Nel 1566, in dicembre, alla morte di Margherita, fu chiamato a pronunciare, dinanzi agli Accademici Illustrati, la commemorazione della marchesa: l'Oratione in morte di madama Margherita Paleologa duchessa di Mantova et marchesana del Monferrato apparve nelle Lagrime de gl'Illustri Accademici di Casale in morte dell'illustrissima et eccellentissima madama Margherita Paleologa (Trino, G.F. Giolito, 1567). Lo stesso anno il G. prospettò a Ludovico in Francia, la possibilità di ritornare al suo servizio.
A sancire la fine di un periodo di tolleranza verso i desideri particolaristici dei Monferrini, nel 1567 Guglielmo Gonzaga entrò a Casale con un esercito per ristabilire con decisione l'autorità dei duchi mantovani. Ma questa prima occupazione di tre mesi non fu sufficiente per assicurare stabilità al governo, e nel settembre 1567 Guglielmo ritornò in forze, accompagnato dal cugino Vespasiano, che aveva dato già prova del suo valore militare combattendo a più riprese per l'imperatore contro i Francesi. Vice di Guglielmo, Vespasiano aveva pure il compito di smussare le divergenze che, anche a proposito del Monferrato, andavano dividendo sempre più i due figli di Margherita, Guglielmo e Ludovico, il primo filoimperiale, il secondo legato al re di Francia e addirittura inviato come luogotenente nei territori piemontesi. Uno scontro tra i due per il dominio di Casale fu evitato dalle misure, poliziesche e diplomatiche insieme, di Vespasiano, che intimò di abbandonare Casale entro 24 ore ai militari francesi e a quanti li sostenevano. Il 5 ottobre si sparse la voce di una congiura contro Guglielmo e Vespasiano reagì con arresti e processi dei più noti oppositori. È solo leggenda municipale la voce - riportata da alcuni biografi del G. (Canna, De' Conti) e drammatizzata dal romanzo storico ottocentesco di Pietro Corelli che prende il titolo dal probabile ispiratore e vittima della congiura, Oliviero Capello - che il G. avrebbe partecipato all'organizzazione dell'agguato: ciò appare molto improbabile proprio alla luce dei suoi rapporti con i Gonzaga. Vespasiano rimase a Casale fino alla fine del febbraio 1568, difendendo l'ordine gonzaghesco anche con il prestigio della sua complessa personalità. In realtà, la fedeltà del G. ai Gonzaga difficilmente può essere messa in dubbio: ne è una spia diretta il ritratto di Vespasiano che egli propone nella Civil conversazione, dove l'autore della repressione casalese è presentato come un generoso e brillante animatore di intrattenimenti mondani.
Nei primi anni Settanta il G. si trasferì a Olivola, una villa di campagna presso Ozano, vicino a Casale, dove trascorse la maggior parte del tempo fino alla morte, insieme con i figli Olimpia e Giovanni Antonio. Nel 1580 si sposò una seconda volta, con una Bartolomea che morì sei anni dopo di peste. Questo secondo lutto accentuò molto la malinconia del G.: egli ne parla spesso nelle lettere e nella Civil conversazione dichiara di volerla combattere con le relazioni mondane. L'ipocondria accentuò le condizioni di salute complessivamente precarie: le visite al suo ritiro di Olivola di numerosi letterati di passaggio indicano tuttavia una costante popolarità. L'erudito e scrittore d'arte Gregorio Comanini lo collocò tra gli interlocutori del suo dialogo Il Figino (Mantova, F. Osanna, 1591). Il G. fu in contatto con il duca Carlo Emanuele I di Savoia, cui avrebbe inviato (secondo Canna e altre fonti), nel 1588 una raccolta di proverbi alla cui composizione definitiva avrebbe lavorato vari anni senza concluderla: non ne rimane però traccia, salvo l'ampio ricorso ai proverbi nella Civil conversazione. Quando, alla fine del 1589, dopo il matrimonio della figlia Olimpia, il G. si trasferì a Pavia per accompagnare il figlio Giovanni Antonio, studente di diritto presso quell'Università, fu ricevuto con grandi onori. Insignito della cittadinanza onoraria, fu accolto nella locale Accademia degli Affidati ed entrò in stretti rapporti con una delle maggiori famiglie della città, i Beccaria. Allestì una Ghirlandadella contessa di Casale Angela Bianca Beccaria (Genova, Eredi di G. Bartoli, 1595), composta da versi di vari autori - tra cui il figlio Giovanni Antonio -, alla cui composizione lavorò negli ultimi anni di vita.
Il G. si spense a Pavia il 6 dic. 1593 e fu sepolto nella chiesa di S. Tommaso de' Predicatori.
Le opere del G. ebbero tutte una grande diffusione in Italia e in Europa; tra di esse anche le Lettere volgari di diversi gentiluomini del Monferrato (Brescia, L. Sabbio, 1563), da lui raccolte per magnificare testimonianze della civiltà casalese. Numerosissime le edizioni e le traduzioni della Civil conversazione, dopo la prima stampa bresciana, presso T. Bozzola, e quella veneziana, per A. Salicato, eseguite entrambe nel 1574, seguite dall'edizione, ampliata dall'autore, ancora presso Salicato, del 1579. Eguale sorte arrise anche alla raccolta dei Dialoghi piacevoli, apparsa per la prima volta presso A. Vertano, a Venezia, nel 1586. Negli ultimi anni della sua vita il G. lavorò a una prima silloge delle proprie Lettere (B. Barezzi, Venezia, 1590), cui seguirono numerose altre edizioni via via ampliate fino a quella del 1606, sempre presso Barezzi.
La matrice classicista del G., formatosi nell'ambito di un attivo centro di provincia qual era Casale, diviso tra tradizioni locali e l'attrazione intellettuale e aristocratica di Mantova e degli altri principati padani, è tutta nell'adesione ai valori e ai modelli derivati dagli autori latini e dell'umanesimo volgare. Riferendosi a questo patrimonio stilistico, ma anche etico e speculativo, la cultura del G. è la testimonianza di una sorta di riduzione al senso comune e di diffusione di un patrimonio culturale prestigioso. In questa prospettiva vanno lette le rime encomiastiche o di compianto, costruite secondo il cliché di un latino liricizzante o di un volgare petrarchista ora sobrio e parcamente paludato, ora tentato da una più pesante complessità metaforica; così come pure l'antologia epistolare del 1563 concepita come una galleria di protagonisti della civiltà municipale casalese. Dietro l'omaggio reso alla nobiltà di sangue e d'intelletto, nella raccolta allestita dal G. c'è la difesa di una dimensione di domestica colloquialità, di aurea mediocritas della comunicazione epistolare, che ricorre nella dedica a Vincenzo Gonzaga della raccolta di proprie lettere allestita nel 1590: le lettere, afferma il G., "s'hanno a scrivere con un certo né troppo né troppo poco di famigliarità onde mostrino una nobile rustichezza, una adorna trascuratezza, un riverendo disprezzo, una studiosa famigliarità".
Allo stesso ideale di scambio e di quotidiano colloquio si richiama la raccolta dei dodici Dialoghi piacevoli, per i quali è difficile ricostruire articolatamente la cronologia della composizione a causa del carattere fortemente unitario del volume e del disporsi degli argomenti dei dialoghi secondo un ideale itinerario, costruito ad arte, che conduce dalla corte all'accademia. Nel primo dialogo, Della prudenza del re congiunta con le lettere, è affrontata la questione del "buon governo" e della formazione del principe; le qualità, diversamente distribuite da Dio, vanno coltivate nel principe attraverso la teologia, la storia, la retorica e la filosofia, in una prospettiva di coesistenza armonica di tradizione degli antichi e mutamento dei costumi. Il tema si sdoppia nel secondo dialogo, Del principe della Valacchia, dove alla perfetta immagine principesca si contrappone quella del cortigiano, che deve essere oratore, poeta e diplomatico. Il terzo dialogo, Del giudice, e il quarto, Dell'elettione dei magistrati, illustrano le qualità che il principe deve ricercare nella scelta dei suoi rappresentanti, i quali non dovranno mai dimenticare di esser guardati come "membra e immagine del principe". Una materia indispensabile alla vita di corte è nel Delle imprese, che offre una riflessione sui meccanismi significanti di queste immagini parlanti ripercorrendo la nutrita trattatistica dell'epoca. Il Del paragone dell'arte e delle lettere ripropone il classico confronto attraverso un ricco repertorio di massime che vanno da Dante all'Ariosto, a L. Alamanni, giungendo alla conclusione della necessità dello stretto "dialogo" tra l'una e le altre. Il Del paragone della poesia latina e della toscana presenta la tipica materia del dibattito accademico e consiste in un duplice repertorio di esempi, che illustra le difficoltà e i pregi delle due tradizioni poetiche sostenendo l'esigenza di una loro coesistenza. Nel Della voce fedeltà si confrontano due accademici, un Illustrato e un Affidato, in una discussione di natura linguistica che offre il pretesto per un omaggio a Ludovico Gonzaga. Il nono dialogo, il più ampio della raccolta, è dedicato all'Onore universale, di cui si ricerca una definizione attraverso una ricchissima serie di esempi che ne illustra ampiamente la fenomenologia fino all'originale, quasi prebarocca, trattazione degli onori funebri. Nel dialogo Dell'onor delle donne la definizione dei vari tipi di onestà femminile ripercorre le trattazioni cinquecentesche in merito, da G.F. Capra a B. Castiglione, da Erasmo a S. Speroni, da A. Piccolomini a T. Tasso. Il Conoscimento di se stesso presenta un più evidente registro moraleggiante, anche per l'insistenza della trattazione sulla sfera del privato: alla questione se sia più utile conoscere se stessi o gli altri, si risponde con la necessità di una conoscenza graduale, che conduca fino allo specchiarsi in Dio. L'ultimo dialogo, Della morte, è di nuovo un ampio repertorio di detti, proverbi, allegorie, paragoni, immagini scritturali, novelle, con l'obiettivo di esaltare la vita eterna dell'anima e l'ordine universale, cui si giunge svincolandosi dalle cure mortali.
Al di là dell'erudizione e dell'oratoria dispiegata, i Dialoghi sono una riproposta di quella cultura e di quella tradizione su cui poggiava il complesso impianto della Civil conversazione. La vicenda editoriale dell'opera maggiore del G. è significativa di una fortuna che, in Italia, non avevano conosciuto opere di autori più prestigiosi. Dopo la seconda edizione ampliata del 1579, si contano 43 edizioni italiane fino alla metà del secolo XVII, oltre a traduzioni in latino, inglese, francese, tedesco. Alla cultura dell'Inghilterra dei Tudor la Civil conversazione giunse nella traduzione di George Prettie, per poi diffondervisi come raccolta di consigli cortigiani, con riferimenti impliciti ed espliciti nelle opere di G. Harvey, E. Spenser, R. Greene, D. Tuvil, che ricordano il G. come un conservatore della saggezza classica attraverso exempla e proverbi. In Francia l'opera guazziana giunge presto, tradotta già nel 1579 da G. Chappuys e F. de Belleforest; la sua presenza costante è testimoniata, fino al Seicento inoltrato, da numerose opere dedicate al comportamento mondano (da G. Bouchet a N. Faret), che riproducono passaggi e argomentazioni della Civil conversazione, oltre che da Montaigne, che avrebbe revisionato i suoi Essais per l'edizione del 1582 anche raccogliendo alcune suggestioni offerte dall'opera del Guazzo. In Germania l'opera fu tradotta in latino e pubblicata a Colonia nel 1585 in chiave accesamente antiprotestante; nelle traduzioni successive il libro assunse i tratti ora del trattatello politico, ora della dissertazione moralistica, ora della riflessione sui diritti individuali nel contesto delle relazioni sociali, fino a riproporsi come modello, accanto alle opere di Castiglione, Della Casa, G.C. Della Scala (Scaligero), e nella cultura illuminista di Adolph von Knigge, autore, nel 1788, di un trattato Sul modo di comportarsi con gli uomini.
L'eccezionale diffusione europea del testo guazziano va motivata nella straordinaria ricettività che l'opera dimostra, capace di nutrirsi dei più diffusi luoghi comuni della tradizione sul comportamento, sui rapporti interpersonali, sulle relazioni all'interno delle gerarchie sociali. L'elogio della misura e della discrezione, del rispetto dell'esistente e della sua pluralità, l'omaggio alla civilitas come richiamo ai grandi modelli di matrice umanistica e la loro riconduzione a una prudenza quotidiana, nobilitata da quel principio di ideale armonia di cui era già intessuto l'ideale aristocratico del Cortegiano, fanno della Civil conversazione un classico "provinciale", che si fonda sull'etica del vivere civile e del consenso alle gerarchie sociali e ai ruoli che ne conseguono.
Dedicata a Vespasiano Gonzaga, in quattro libri, l'opera propone i dialoghi tra Guglielmo Guazzo, fratello dell'autore, ammalato di febbri ma soprattutto di malinconia, e Annibale Magnocavallo, filosofo e medico, che intende indurre l'amico e paziente a curarsi soprattutto attraverso la conversazione con gli altri. Nel primo libro, le ragioni del solitario che fugge la moltitudine per ritrovare se stesso sono confutate dall'affermazione perentoria del valore centrale dell'"uso", cioè delle consuetudini, che offrono il parametro di quello che è buono e giusto perché ritenuto tale dalla maggioranza degli uomini civili. Se la solitudine viene condannata come condizione del difetto, la conversazione è invece l'occasione per la conoscenza degli uomini e l'allontanamento dei vizi che inficiano le relazioni interpersonali, la maldicenza, l'adulazione, la menzogna, la superbia.
Nel secondo libro, muovendo dall'impossibilità di definire un principio unico per una pratica che assume tanti aspetti quanti sono gli individui che vi si dedicano, si inizia a esaminare la fenomenologia della conversazione nelle sue diverse modalità: se è pubblica o privata, se in essa è più importante parlare o ascoltare, come devono essere atteggiati i gesti e la lingua per rendere più efficace il colloquio e quali sono i "costumi" da cui nasce la conversazione migliore. Quindi si esaminano i modi della conversazione tra amici, tra giovani e vecchi, letterati e illetterati (dove spesso ha la meglio il buon senso di questi ultimi), tra letterati, tra nobili e plebei, definendo anche tutti i vari gradi (nobiltà, seminobiltà ecc.) a cui è possibile lo scambio. Ripercorsa la tradizionale discussione sulla nobiltà e sui suoi valori (nobiltà di nascita, di spirito, di censo), i due interlocutori dibattono i modi della conversazione tra laici e religiosi e tra uomini e donne. Su questo tema si schiude l'amplissimo repertorio di tradizionali considerazioni, consigli e giudizi relativi al genere femminile: il G. da un lato ripropone i luoghi comuni sulla natura delle donne e la loro conseguente subordinazione agli uomini, ma dall'altro mostra sensibilità verso una valutazione sociale di esse più giusta e dignitosa. Infine viene affrontato il problema della lingua. Enunciato il principio che della lingua occorre valutare, oltre alla bellezza, il valore, cioè l'uso che gli individui ne fanno, il G. contrario a ogni tipo di eccesso, promuove un ideale di plurilinguismo temperato dal gusto e dal buon senso, che ancora una volta si misura più che su una teoria astratta con il ricorso alla prassi quotidiana e al principio del consenso "dei più".
Nel terzo libro è esaminata la conversazione tra padri e figli ed è introdotta la problematica inerente l'"economica", l'amministrazione della casa e le relazioni interpersonali all'interno delle pareti domestiche, microcosmo che, per la sua specificità, consente al G. di enunciare con precisione i valori di ordine, armonia e rispetto reciproco, che investono direttamente la sfera dell'etica. Le relazioni tra padri e figli forniscono un modello di rapporto pedagogico basato sull'autorità, che si ripropone anche nel rapporto con la moglie e con i servi: in tutte queste circostanze la conversazione si pone come medicina delle cattive disposizioni d'animo e veicolo dei valori della tradizione.
Nel quarto libro muta radicalmente la struttura enunciativa del trattato: nel dialogo tra i due interlocutori si innesta il ricordo di un convito svoltosi a Casale, alla presenza di Vespasiano Gonzaga, presso la dimora della nobildonna Caterina Sacco. Questo convito assume presto la configurazione di luogo deputato della conversazione e la narrazione che Annibale Magnocavallo fa degli intrattenimenti conviviali costruisce una sorta di messa in scena dei principî illustrati nella prima parte dell'opera. All'interno di un gioco di società, vengono descritti gli esempi di conversazione tra gli individui e tra gli oggetti, e al rapporto conversativo è riconosciuta un'intrinseca produttività che fa generare il nuovo da due interlocutori. Ma la conversazione del quarto libro afferma la sua vivacità e ricchezza anche nei modi conviviali: battute, scherzi, motti, ironie impreziosiscono la dimensione teatrale della pagina e restituiscono il senso di mondanità preziosa dell'incontro, dettando infine il senso profondo e la cifra stilistica dell'opera. Si conferma, proprio in queste pagine dedicate alla rappresentazione-narrazione di un emblematico convito, l'intenzione del G. di sottrarsi all'astratta teorizzazione tipica di tanta precettistica per guardare piuttosto alla realtà concreta. È un riferimento alla prassi come superamento della dogmaticità in direzione del "senso comune", cui il G. tanto spesso si richiama, all'"opinione" dei molti a cui è costantemente ricondotta e dimensionata una cultura derivata da elevate e composite tradizioni. È l'ideale di mediocritas come misura di vita e di giudizio intorno al quale ruota tutto il sistema retorico, speculativo ed etico dell'opera guazziana: il proposito della Civil conversazione è quello di elaborare una generale strategia delle relazioni interpersonali fissata sull'apparenza e sull'esteriorità. I consigli che il G. dà sui rapporti di conversazione appaiono regolati da un'etichetta strutturata secondo un valore non lontano dalla "grazia" definita dal Castiglione. Ma se nell'opera di questo il modello dominante era quello di un'autorappresentazione dell'uomo di corte che costruisce la propria immagine esibendola come su di un palcoscenico, in una rappresentazione che sembra trascendere qualsiasi concreto referente, nei testi del G. è venuta a mancare la scena privilegiata su cui esibire il comportamento eccellente - la corte - e la dimensione civile della trattazione si converte anche in precettistica, dettata dalla necessità che la prescrizione etica si dia come principio d'ordine nelle relazioni interpersonali, in un contesto universale di pubblici e mutui scambi.
Fonti e Bibl.: Per le fonti e la bibliografia sul G. si veda l'edizione della Civil conversazione, a cura di A. Quondam, Ferrara 1993; inoltre: V. De' Conti, Notizie storiche della città di Casale e del Monferrato, Casale 1840, V-VI, passim; P. Corelli, Oliviero Capello, storia del Monferrato del secolo XVI, Casale 1848; G. Canna, Della vita e degli scritti di S. G., Firenze 1872; C. Ornatowski, The "government of the tongue": eloquence and subjection in Renaissance rhetorical theory, in The poetics of reading: textuality and subiectivity, a cura di E. Tinn - K. Mendoza, Columbia 1993, pp. 72-83; A. Pons, Les fondaments rhetorico-philosophiques des traités de savoir-vivre italiens du XVIe siècle, in Traités de savoir-vivre en Italie, a cura di A. Montandon, Clermont-Ferrand 1993, pp. 173-189; M. Pozzi, I trattati di saper vivere tra Castiglione e G., ibid., pp. 214-224.