STEFANO di Ricco, detto Stefano fiorentino
STEFANO di Ricco, detto Stefano fiorentino. ‒ Non se ne conoscono i luoghi e le date di nascita e di morte; risulta documentato la prima volta nel 1332 con il fratello Bartolo (Lenza, 2008, doc. I). L’atto notarile, assieme a un secondo registrato l’anno seguente (doc. II), permette di stabilire che entrambi erano pittori e residenti nel popolo di S. Pier Maggiore a Firenze.
Il fatto che Bartolo, citato per primo in entrambi i documenti, sia il contraente nell’acquisto di un terreno per conto di Stefano e dei loro discendenti suggerisce che fosse il più anziano dei due. Immatricolato all’Arte dei medici e speziali tra il 1315 e il 1320 (I. Hueck, Le matricole dei pittori fiorentini prima e dopo il 1320, in Bollettino d’arte, s. 5, LVII (1972), pp. 119 s.), e pertanto nato verosimilmente prima del 1295, Bartolo ebbe almeno un allievo, Michele di Maso, cui fece quietanza nel 1338 (G. Milanesi, Nuovi documenti per la storia dell’arte toscana dal XII al XV secolo, Roma 1893, pp. 35 s.). È quindi ragionevole supporre che Stefano, assente nei registri dell’Arte, condividesse con il fratello la bottega, dove dovette formarsi anche Giotto di Stefano, detto Giottino, se è vero che questi fu effettivamente suo figlio (v. A. Labriola, Giotto di maestro Stefano, detto Giottino, in Dizionario biografico degli Italiani, LV, Roma 2000, pp. 423-427).
Stefano ha da sempre suscitato forte interesse negli studi: la stima non accademica a lui tributata dalle fonti e la perdita delle opere che queste gli riferivano hanno alimentato un mito storiografico rimasto vivo fino ai giorni nostri. Ulteriore elemento di fascinazione fu anche la supposta parentela con Giotto (Libro di Antonio Billi, 1518 circa), di cui era creduto nipote (Baldinucci, 1845). L’anzianità di Bartolo, però, esclude che i due fratelli siano figli del Ricco di Lapo che sposò Caterina di Giotto, confermando quanto già argomentato su altra base documentaria (Lenza, 2008).
L’abilità di Stefano era già chiara ai contemporanei, che lo consideravano uno dei massimi pittori di Firenze sopravvissuti alla peste del 1348: compare infatti in una lista dei «migliori maestri di dipingiere che siano in Firenze» redatta dagli operai di S. Giovanni Fuorcivitas verso il 1349, secondo solo a Taddeo Gaddi, l’erede per antonomasia di Giotto (Chiappelli, 1900). Nel documento pistoiese Stefano è detto «in chasa» dei frati predicatori, e non è improbabile che tale residenza gli fosse concessa dai domenicani come compenso per lavori eseguiti in S. Maria Novella (Ravalli, 2016, p. 147).
Stefano è menzionato da Franco Sacchetti (Il Trecentonovelle, 1385-1400 circa, 2004, novella CXXXVI) tra i migliori maestri dopo Giotto. All’epoca dell’ambientazione della storia, attorno al 1360, il pittore doveva essere già morto, mentre per Giorgio Vasari (1568) la sua scomparsa si dovrebbe anticipare al 1350, quando sarebbe stato sepolto in S. Spirito all’età di 39 anni (1550) o di 49 (1568).
In assenza di opere documentate, le fonti storiografiche sono il principale strumento per recuperare la fisionomia artistica di Stefano. Fu Lorenzo Ghiberti il primo a delineare la sua attività tra Firenze (S. Spirito, S. Maria Novella) e Assisi (S. Francesco); tali notizie confluirono interamente nelle Vite di Vasari (1550 e 1568), fatta eccezione per una tavola per i domenicani, andata perduta. L’aretino aggiunse il ricordo di un soggiorno milanese e – specialmente nella redazione del 1568 – altre opere distribuite tra Firenze, Roma, Pistoia e Perugia. Tra queste sono sopravvissuti alcuni affreschi poi ricondotti dalla critica ad artisti diversi; fa eccezione l’Assunta realizzata nel Camposanto di Pisa, assegnata a Stefano già nel Libro di Antonio Billi (1518 circa): il dipinto ha avuto un’importanza cruciale per la ricostruzione del suo catalogo, essendo l’unica opera nota fino alla sua distruzione bellica nel 1944.
Dalla lettura delle testimonianze antiche emerge il profilo di un pittore dotato di una capacità di mimesis naturalistica non comune, che lo distingue dalla stretta osservanza giottesca. È da interpretare in questo senso il fortunato epiteto «naturae symia», coniato da Filippo Villani (1381-1400 circa), che ricordava Stefano tra i maggiori discepoli di Giotto. Vasari (1550 e 1568) celebrava le innovazioni del «diligentissimo» Stefano nel disegno, negli interessi spaziali e prospettici, nella capacità di raffigurare i corpi con scorci inediti, come nella Caduta degli angeli ribelli che un tempo ornava una cappella di S. Maria Novella, da identificare con l’attuale cappella Gaddi, già dedicata ai ss. Domenico e Michele arcangelo (M. Biliotti, Chronica pulcherrimae aedis magnique coenobii S. Mariae cognomento Novellae Florentinae civitatis, 1586, in Analecta sacri ordinis Fratrum Praedicatorum, Roma 1906-1918, XXIII, p. 116, XXIV, p. 809). Vasari attribuiva a Stefano anche l’avvio di una nuova tendenza della pittura, quella «dolcissima e [...] unita», che dovette svilupparsi in seno all’ultima fase della bottega giottesca e che trovò il suo maggiore esponente in Giottino.
Molteplici sono stati i tentativi di dare corpo alla figura sfuggente di Stefano, identificandolo con l’attività di artefici anonimi (Suida, 1905; Sirén, 1908; Valentiner, 1949; Marcucci, 1963; Caleca, 1979; Boskovits, 1989; Bellosi, 2001). Tra le tesi più note è certamente quella di Roberto Longhi (1951) che, sulla scorta di Adolfo Venturi (1907), riferì al pittore un gruppo di opere poi correttamente restituite a Puccio Capanna (Marcucci, 1963, p. 26 nota 12). Ampio seguito ha avuto anche la proposta di Carlo Volpe (1983), parzialmente anticipata da Paolo Venturoli (1969), che tentò di ricondurre a Stefano buona parte del catalogo del «Parente di Giotto», la cui effettiva esistenza è stata per lo più revocata in dubbio, assorbita entro la poliedrica vicenda di Giotto stesso (Boskovits, 2000a e b).
Seguendo la traccia fornita dalle fonti si è andata ricostruendo l’attività del pittore, incardinata su due opere: l’Assunta di Pisa e, per evidenza di confronto, la Glorificazione della Vergine del cosiddetto Secondo maestro di Chiaravalle, vertice qualitativo del ciclo mariano nell’abbazia cistercense a S. Giuliano Milanese. Fu ancora Longhi (1940) ad argomentare l’identità di mano tra i due affreschi, da lui riuniti sotto il nome di Giottino, e poi spostati da Luigi Coletti (1946) nel catalogo di Stefano. L’attribuzione dell’Assunta è tradita da buona parte delle fonti prevasariane, cui si aggiunge l’attendibile testimonianza di Michelangelo di Cristofano da Volterra (Le mirabili et inaldite..., in Supino, 1896). Per Chiaravalle valgono i ragionamenti stilistici, incoraggiati dalla notizia vasariana di un viaggio del pittore a Milano al servizio di Matteo Visconti, forse da intendere per Matteo II, cosignore del centro lombardo fino alla morte nel 1355 (Romano, 2013, p. 252).
Salvo rare eccezioni (Volpe, 1983), è pressoché unanime il consenso sul legame che intercorre tra le due opere. Tutt’altro che risolto è invece il dibattito sulla loro cronologia relativa e assoluta, inficiato dalla perdita del dipinto pisano e dai problemi conservativi che affliggono il ciclo lombardo, eseguito con larga partecipazione di collaboratori locali. Il rapporto con il Messale di s. Maurilio (Salmi, 1955) ha indotto la critica a datare gli affreschi di Chiaravalle entro il 1347, anno di sottoscrizione del manoscritto, mentre la cronologia dell’Assunta spazia dagli anni Trenta ai Sessanta del Trecento.
Un tassello determinante per la ricostruzione del catalogo di Stefano si è aggiunto con la scoperta del S. Tommaso d’Aquino, che secondo Ghiberti il pittore aveva dipinto in S. Maria Novella (Pini, 2016; Ravalli, 2016), dove a lungo era stato ricercato dagli storici (G. Milanesi, in Vasari, 1568, 1878; Lunardi, 1983; Tartuferi, 2008). L’affresco, disperso dopo il distacco del 1858 e ora riesposto in chiesa, è citato come opera di Stefano da tutte le fonti antiche (tranne il Billi) e riflette le caratteristiche che queste gli riconoscevano come peculiari.
Il santo è inserito in un’edicola capillarmente descritta, un brano di virtuosismo disegnativo che inserisce Stefano nel clima di sperimentazione geometrico-prospettica animato da Taddeo Gaddi e Maso di Banco dopo la scomparsa di Giotto, anticipando le soluzioni adottate dal fiorentino Giusto dei Menabuoi in terra lombarda, a partire dall’impresa di S. Pietro a Viboldone (Milano). La stessa attenzione minuziosa s’intravede nella figura monumentale del domenicano, molto rovinata, il cui volto offre ancora un saggio apprezzabile di sensibilità pittorica. L’analisi dello stile e degli intonaci (nascosti dall’altare), unita a ragioni iconografiche, suggerisce che l’affresco sia stato eseguito verso il 1343-44, assieme al ciclo frammentario dedicato ad Anna e Gioacchino, realizzato da Andrea di Cione nella porzione di muro adiacente.
Le invenzioni dispiegate nel dipinto domenicano mostrano forti punti di contatto con quanto compiuto dai migliori artisti del tempo nella basilica Inferiore di Assisi, durante il secondo decennio: oltre al legame con gli affreschi giotteschi del transetto destro, caposaldo della pittura spaziosa nel Trecento, si individuano rapporti con le vetrate del Maestro di Figline (cappella di S. Ludovico), ma soprattutto con le invenzioni di Simone Martini nella cappella di S. Martino, cui rimanda l’idea di staccare illusivamente l’edicola dal fondo a finti marmi, che aggetta nello spazio dell’osservatore.
Tali osservazioni riaprono la questione della possibile presenza di Stefano nel cantiere assisiate: caduti i tentativi di identificarlo con il «Parente di Giotto», è affascinante l’ipotesi di Filippo Todini di attribuirgli la testa femminile conservata a Budapest, Szépművészeti Műzeum (n. 30), una figura allegorica che dovrebbe provenire dalla decorazione della tribuna nella basilica Inferiore, distrutta da Cesare Sermei nel 1623 (Zanardi, 1978, p. 127; Todini, 1986). Qui, secondo Ghiberti, Stefano aveva affrescato una Gloria celeste, lasciata incompleta, che Ludovico da Pietralunga ricordava come opera di un pittore vicino a Giotto, ma a tratti di qualità più alta. Il lacerto, intimamente giottesco nello stile, vanta un riferimento diretto al caposcuola fiorentino (Boskovits, 1983), mentre parte della critica è favorevole a individuarvi la mano del giovane Stefano attivo nella bottega di Giotto, in virtù dell’accentuato senso grafico e del forte linearismo (per un riepilogo: Ravalli, 2016, p. 168 nota 40).
Ancora problematica è la ricostruzione dell’attività fiorentina di Stefano nel quarto decennio del Trecento. Resta infatti dubbia l’attribuzione della grandiosa Croce nella chiesa di S. Marco (Bellosi, 2001), forse già in esecuzione nel 1339 (Utari, 2013), che risulta più affine allo stile di Puccio di Simone (Offner, 2001). Non convince, inoltre, la proposta di assegnare a Stefano l’Annunciazione detta «dei Legnaioli» (Firenze, Galleria dell’Accademia, n. 455; De Marchi, 2017), eseguita da un anonimo cui spetta anche la Madonna col Bambino di S. Lorenzo a Montisoni (SBAS FI 299950; M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento. 1370-1400, Firenze 1975, p. 231 nota 111), databile negli anni Quaranta del Trecento.
Secondo la proposta di Boskovits (2003), al 1335-45 risalirebbe l’affresco frammentario con i Ss. Biagio e Giovanni Battista con due devoti nella chiesa vecchia di S. Piero in Palco a Firenze, caratterizzato da un morbido pittoricismo dei volti e da un peculiare modo di articolare il panneggio in fitte pieghe tubolari, che richiama le opere già riferite al «Parente». In base a quanto ipotizzato dallo stesso studioso (2008a; 2008b), a una simile altezza cronologica dovrebbe collocarsi la tavola con i Ss. Giovanni Battista e Paolo in collezione Alana (Newark, Delaware), che, pur nelle difficili condizioni conservative, si distingue effettivamente per qualità e invenzione dalla produzione di Bernardo Daddi, cui era tradizionalmente ascritta.
Nel 1343-44 Stefano dovette quindi realizzare il S. Tommaso d’Aquino di S. Maria Novella, dopo il quale partì probabilmente alla volta di Milano, ove, secondo Vasari, «diede [...] principio a molte cose, ma non le potette finire» (1550 e 1568, 1967, pp. 135 s.). Svariate sono state le proposte mirate a ricostruire questo tratto del percorso del maestro, culminato negli affreschi di Chiaravalle, dove gli si riferiscono la Glorificazione e l’ideazione stessa dell’intero ciclo. Ai murali cistercensi sono da collegare alcune imprese decorative lombarde in S. Giovanni Battista a Vertemate (Carotti, 1913), nella cappella del castello visconteo di Cassano d’Adda (Travi, 2003) e nel duomo di Monza (Travi, 1992, pp. 356 s.). Le evidenti affinità tra queste pitture, ugualmente aggiornate sui raggiungimenti della cultura figurativa fiorentina degli anni Trenta, hanno fatto pensare non a torto al lavoro di una medesima bottega coordinata da Stefano (Travi, 2003). Il giudizio della critica non è tuttavia unanime, a causa dei problemi conservativi e della qualità discontinua, come dimostra la proposta di far slittare la cronologia della cappella di Cassano dopo il 1355 (Romano, 2011).
A Chiaravalle sono state avvicinate anche le pitture del palazzo arcivescovile milanese (Boskovits, 1994; Romano, 2014) e quella del Noli me tangere del palazzo vescovile di Novara (Travi, 1996), da leggere nel più ampio contesto della diffusione del linguaggio tosco-lombardo, avviata dalla Crocifissione di S. Gottardo a Milano. Di recente anche per questo affresco è stato evocato un rapporto con Stefano (De Marchi, 2017), ma il grave degrado della superficie dipinta non permette di circostanziare l’attribuzione.
Nel 1349 circa Stefano dovette rientrare a Firenze, dove gli sono state riferite le pitture del sepolcreto Strozzi in S. Maria Novella (Caleca, 1979; Tartuferi, 1995), tuttavia meglio inquadrabili come opera giovanile di Andrea di Cione (L. Becherucci, Ritrovamenti e restauri orcagneschi I, in Bollettino d’arte, s. 4, XXXIII (1948), pp. 24-33). Successivamente si sarebbe spostato a Pisa, e l’Assunta dovrebbe chiudere la sua parabola stilistica, poco dopo la metà del secolo, come suggerito dallo sviluppo meno prospettico del trono e dai dettagli della moda (Coletti, 1947). Tale ipotesi ha ottenuto rinnovato seguito in tempi più recenti, ma parte della critica continua a sostenere una datazione ante 1343, sulla base della presunta integrità dei registri di entrata e uscita dell’Opera del duomo di Pisa dopo tale anno (Caleca, 1979): i libri contabili sono invece lacunosi tra il 1348 e il 1368 (Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 10), facendo decadere questo ragionamento.
Al periodo pisano è stata dubitativamente accostata (De Marchi - Sbaraglio, 2010) anche una deperita Madonna col Bambino (Pisa, Museo nazionale di S. Matteo, n. 502), staccata con ogni probabilità dalla navata destra della chiesa di S. Francesco e ormai difficile da giudicare (Bay, 2014).
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