ARTEAGA, Stefano
Nacque il 26 dic. 1747 a Moraleja de Coca presso Segovia in Spagna, come dichiarò egli stesso iniziando il suo noviziato di gesuita, o a Madrid, come si dovrebbe dedurre dalle intestazioni delle sue opere dove appare come "matritense". Studiò a Madrid grammatica e retorica; il 23 sett. 1763 entrò nella Compagnia di Gesù e fu ascritto alla provincia di Toledo. Nel febbraio 1767, colpito insieme ai suoi confratelli dal decreto d'espulsione dal territorio spagnolo, si rifugiò in Italia, e il 21 giugno 1769, quattro anni prima della soppressione dell'Ordine, abbandonò la Compagnia, pur conservando in seguito il titolo d'abate, forse anche per giustificare il diritto alla pensione corrisposta da Carlo III di Spagna agli ex gesuiti. Mancano notizie della sua vita fino al 1773, ma è molto probabile che si dedicasse esclusivamente agli studi, particolarmente di filosofia, trascurando la teologia, che considerava una "falsa scienza" e per la quale nutri poi sempre una spregiudicata avversione. È certo comunque che dal 1773 al 1778 studiò all'università di Bologna seguendo vari corsi (filosofia, matematica medicina) e orientando il suo pensiero in senso decisamente illuministico e antisistematico con prevalenti influssi sensistici e empiristici. Scarso il suo tributo alla moda tipicamente settecentesca dei letterati verseggiatori: dei suoi componimenti d'occasione, oggi perduti, è ricordato solo quello che egli scrisse in occasione della morte di Carlo III.
Temperamento indipendente e desideroso di un'affermazione individuale, fu indotto "a battere la carriera d'autore", come ebbe a scrivere al Borsa nel 1788 (cfr. la lettera pubblicata da M. Batllori in Arteaga e Bettinelli, 111-112), "per soddisfare a una certa attività naturale che non gli permetteva di vivere nell'inazione, indi per uscire dalla folla loiolitica e dall'oscurità". E in realtà il suo esordio di scrittore non poteva essere più vivace e clamoroso. Nel 1783, dopo essere intervenuto in una disputa tra il p. A. Eximeno e il p. G. B. Martini, autore del Saggio fondamentale pratico di contrappunto, con uno scritto apparso nelle Memorie enciclopediche di Bologna (1782), l'A. fece pubblicare il primo volume del suo lavoro di maggior respiro, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente, Bologna, Trenti, che riecheggia nel titolo Le rivoluzioni d'Italia di C. Denina.
Appena pubblicata, l'opera ebbe una vasta risonanza e suscitò numerosi consensi e dissensi, quest'ultimi dovuti a talune sprezzanti censure rivolte dall'A. a studiosi autorevoli, come l'Andrés e il Tiraboschi, e a operisti e librettisti contemporanei. Insofferente di critiche e tenacemente attaccato alle proprie convmzioni, l'A. ribadì i suoi punti di vista (con l'aggiunta di un'appendice polemica contro il musicista V. Manfredini, che aveva recensito Le rivoluzioni nel Giornale enciclopedico di Bologna dell'aprile 1786) nell'edizione definitiva dell'opera pubblicata a Venezia nel 1786 (ma con la data 1785) da Carlo Palese, cui l'A. l'aveva affidata dopo che il Trenti ne aveva ritardato l'uscita. Comunque anche il Trenti non rinunciò a completare la sua edizione, pubblicando nel 1786 altri due volumi e includendo inoltre nel terzo una controreplica del Manfredini.
Al di là del carattere baldanzosamente polemico di certi giudizi dell'A. e del tono libellistico assunto dalla controversia (tipico in questo senso l'opuscolo che Ranieri de' Calzabigi pubblicò a Venezia nel 1791 per reagire ai rilievi mossigli dall'A.), Le rivoluzioni del teatro musicale hanno una notevole importanza come documento degli sviluppi del pensiero riformatore sull'opera settecentesca. Frutto di interessi e studi maturatisi nell'A. a contatto con il p. Martini, che possedeva a Bologna una cospicua raccolta musicale, esse hanno tuttavia ben scarso valore come excursus storico-erudito sull'opera, mentre conservano molto interesse come enunciazione di una ragionata riflessione critico-estetica sul dramma in musica. Il punto di partenza da cui muove l'indagine arteaghiana è vivacemente espresso nel Discorso preliminare, dove al pungente sarcasmo contro il gusto della "gente di mondo" (che sembra derivato dal Teatro alla moda di B. Marcello) fa riscontro l'intento di tracciare un profilo storico dell'opera e di definirne i caratteri secondo un criterio filosofico che presupponga, oltre ai dati dell'erudizione, il fondamento del gusto, e soddisfi in pari tempo all'impegno (in realtà non mantenuto) di includere nella storia della musica italiana i "cangiamenti della tragedia e della commedia". Il "sistema drammatico" è dall'A. concepito come una sorta di teatro totale, "appoggiato sull'esatta relazione de' movimenti dell'animo cogli accenti della parola o del linguaggio, di questi colla melodia musicale e di tutti colla poesia", sicché per la sua attuazione sarebbe stato necessario riunire in un sol uomo, come si rendeva conto lo stesso A., "i talenti di un filosofo come Locke, d'un grammatico come Du Marsais, d'un musico come Hendel o Pergolesi, e d'un poeta come Metastasio". Ma più che nell'enunciazione di questo sistema drammatico, del cui carattere utopistico lo stesso A. era pienamente cosciente, ma che è stato salutato come un'anticipazione teorica dell'esperienza wagneriana (cfr. comunque la convincente confutazione di questa interpretazione del pensiero arteaghiano fatta da F. d'Amico), le qualità di chiarezza critica e teorica dell'A. emergono dall'analisi dei caratteri dell'opera italiana (da lui indicata come modello del genere, nonostante la constatazione del suo decadimento) e in taluni rilievi estetici circa la verosimiglianza e l'imitazione del dramma in musica e il linguaggio musicale, inteso come espressione dei sentimenti, come "linguaggio naturale", contrapposto al "linguaggio convenzionale", proprio della poesia.
La pubblicazione del primo volume delle Rivoluzioni diede fama all'A. anche fuori dai circoli bolognesi e gli procurò, oltre al raddoppio della pensione regia, la nomina a precettore presso il marchese F. Albergati Capacelli, letterato e commediografo, e quella a socio dell'Accademia di Padova, da lui sollecitata e favorita dal Cesarotti, cui s'aggiunse in seguito quella dell'Accademia Virgiliana di Mantova. L'opera fu poi tradotta in tedesco da J. N. Forkel (Lipsia 1789, 2 voll.) e compendiata in francese dal barone di Rouvron (Londra 1802). L'incarico in casa dell'Albergati, luogo d'incontro di letterati e scrittori, non durò a lungo. Assunto nel febbraio 1784, cessò nello stesso anno, nonostante l'accordo stabilito tra precettore e ospite sui criteri per l'istruzione del marchesino Luigi, ispirati a una pedagogia illuminata e razionalistica (cfr. Batllori, intr. alla Belleza ideal, pp. XVII-XX). Ciò che invece irritava l'Albergati era la spregiudicatezza con cui l'ex gesuita valutava la letteratura italiana, la stessa spregiudicatezza, peraltro priva di quella sprezzante baldanza che vi si volle scorgere, contenuta in una serie di Osservazioni che l'A. pubblicò in appendice alla dissertazione Del gusto presente in letteratura (Venezia 1784) di Matteo Borsa, nipote e segretario del Bettinelli.
Le Osservazioni, benché investano questioni almeno in apparenza marginali, servono a definire gli orientamenti critici dell'Arteaga. All'anafisi della decadenza della letteratura italiana fatta dal Borsa da un punto di vista (evidentemente d'ispirazione bettinelliana) accesamente nazionalistico e classicistico, le Osservazioni sembrano contrapporre una posizione modernista e cesarottiana, non organicamente espressa, ma evidente pur nella frammentarietà dei rilievi. Alla condanna che il Borsa fa dei neologismi stranieri e dell'influenza della filosofia (o del "filosofismo", come si preferiva dire) sulla letteratura, l'A. oppone il concetto della mutabilità delle lingue e l'esigenza di un moderato accoglimento di parole straniere, specie per una lingua come l'italiana che gli sembrava "soverchiamente pusillanime, e assai meno feconda di "quello che altri non crede", e in contrasto anche col parere dell'erudito tedesco di Merian, sottolinea il beneficio ricevuto per l'influsso della filosofia dalla poesia dei Greci e dei Latini. In termini di equilibrato sensismo è confutata un'opinione dei letterato mantovano sull'istinto come risultato di un processo d'assuefazione, che pare sottintendere un più generale criterio di giudizio fermo a presupposti scolastici e precettistici, mentre da particolari rilievi del Borsa l'A. deriva meno importanti osservazioni: sull'eloquenza sacra, in cui trova modo di polemizzare contro i vacui abusi di dottrina teologica dei predicatori italiani; sull'uso della parodia e del ridicolo, con interessanti notazioni sue e dell'Albergati sul carattere di talune commedie antiche e recenti; sui mezzi di restituire il gusto depravato, m cui avanza una serie di proposte, peraltro ingenue, di riforma letteraria per così dire dall'alto (istituzione di una commissione che controlli e stimoli la produzione intellettuale).
Accolte con sdegno dai letterati tradizionalisti e arcaicizzanti (per esempio Clementino Vannetti) e confutate sul piano di una libellistica rivendicazione dei valori nazionali da A. Rubbi, autore dei Dialoghi tra il sig. S. A. e Andrea Rubbi in difesa della letteratura italiana, e da G.B. De Velo (pseudonimo dell'abate Garducci) con la dissertazione Del carattere del gusto italiano e di certo gusto dominante nella letteratura straniera (Vicenza 1786), le Osservazioni portarono anche alla rottura dei rapporti col Bettinelli, cui l'A. rimproverava d'aver gradito la dedica del libello del Garducci e pertanto d'aver autorizzato, l'opinione corrente di una contrapposizione Garducci-Bettinelli da una parte, Arteaga-Cesarotti dall'altra (cfr. Batllori, A. e Bettinelli, pp.107 ss.).
Intanto, in conseguenza dell'ahontanamento dalla casa dell'Albergati, l'A. s'era recato a Venezia verso la fine del 1784, e qui si diede a frequentare la società letteraria e galante che si riuniva nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi. Del temperamento dell'A. la Teotochi lasciò una vivida descrizione nei suoi Ritratti ("chiaro, rapido, succoso" nel parlare, "cuore ardente e immaginazione creatrice", ma orgoglioso e "alquanto intollerante nel giudicare"; "la sua parola era sacra, ed inalterabile come il destino"), dove anche accolse, facendola seguire da una sua replica, una lettera dell'ex gesuita sulla Mirra dell'Alfieri (un articolo sul Filippo per difendere il monarca spagnolo dall'accusa, contenuta nella tragedia alfieriana, d'aver fatto uccidere il figlio, l'A. pubblicò in seguito nell'Antologia romana del 1792), in cui appare chiaramente, attraverso le cavillose argomentazioni di una critica moralistica e stroncatoria, il carattere molto spesso pretestuoso e astratto dei suoi giudizi letterari.
A Venezia l'A. rimase fino al principio dei 1787, allorché preferì stabilirsi a Roma, dove si legò strettamente con J. N. de Azara, ministro plenipotenziario spagnolo presso la S. Sede, al quale aveva dedicato Le rivoluzioni del teatro musicale. I suoi studi letterari furono volti in questo periodo soprattutto alla poesia classica, di cui s'era anche occupato negli anni precedenti, cominciando a Bologna le versioni metriche di Teocrito in latino e dell'Ero e Leandro di Museo in castigliano, e pubblicando a Venezia nel 1787 alcune lettere intorno alla traduzione cesarottiana dell'Odissea. Nel 1791 approntò per il Bodoni di Parma un'edizione di Orazio, che il Vannetti e il Tiraboschi (cui l'A. rispose con una lunga lettera pubblicata dallo stesso Bodoni nel 1793) giudicarono splendida tipograficamente ma di scarso valore filologico, e nel 1794 un'altra di Catullo, Tibullo e Properzio, che egli accompagnò con una prefazione in cui prometteva un commentario alla Chioma di Berenice,pronto nel 1795, ma poi non pubblicato dal Bodoni e smarrito insieme ad altre carte dello scrittore.
Frattanto il contatto a Roma con artisti e teorici del neoclassicismo (E. Q. Visconti aveva collaborato all'edizione bodoniana dei poeti latini), le riflessioni sui trattati del Mengs, del Winckelmann, del Milizia, oltre che sui commentari aristotelici del Cinquecento, i suggerimenti derivati dalla lettura degli articoli dell'Encyclopédie sulle arti e sul bello, l'avevano indotto a dare ordine alle sue meditazioni estetiche e a pubblicarle in castigliano col titolo di Investigaciones filosóficas sobre la belleza ideal considerada come objetd de todas las artes de imitación, Madrid 1787 (nuova ed. a cura di M. Batllori col titolo La belleza ideal, Madrid 1943).
Si è forse esagerato il valore di novità presente in certe parti del breve trattato arteaghiano, del resto non privo di spunti originali. In realtà l'A. resta fermo al concetto di arte come imitazione (che egli distingue dalla copia intesa come riproduzione) senza sospettare il carattere creativo del fenomeno artistico, messo in evidenza dall'estetica successiva. Nonostante l'assunto platonico contenuto nel titolo stesso del suo trattato, la bellezza ideale perde per l'A. la sua definizione di universalità o generalità e si risolve nella bellezza ideale particolare delle singole arti (pittura, scultura, poesia, musica, ecc.), mentre acquista rilievo lo "strumento" di cui ogni singola arte si serve, con una accentuazione dei valori tecnici ed espressivi secondo l'A. indispensabili all'artista per dimostrare la sua bravura nel superare le difficoltà d'esecuzione. La novità del pensiero arteaghiano - a voler tenere conto di certi sviluppi in senso empiristico e antimetafisico dell'estetica moderna - sta caso mai in questa risoluzione della filosofia dell'arte nelle singole poetiche, sempre però sul punto di convertirsi per il loro stretto legame coi concetto d'imitazione in altrettante scienze precettistiche. Ma quanto al riconoscimento che l'A. fa della validità estetica del "feo" e del "malo" (il brutto e il cattivo), esso resta molto al di qua della scoperta del bello deforme enunciata dal Lessing nel Laocoonte e, lungi dall'anticipare la poetica del naturalismo, come pure è stato affermato, esso s"mquadra in una speculazione ancora fondamentalmente aristotelica (l'A. nori fa che sottolineare un noto passo della Poetica sull'efficacia realistica della riproduzione di fatti o personaggi sgradevoli) e in un orientamento di gusto ormai corrente, tipicamente tardo settecentesco e preromantico.
A parte una recensione sulle Effemeridi romane, La belleza ideal non suscitò in Italia, né del resto altrove, le reazioni provocate dagli altri lavori dell'Arteaga. Un'origine polemica, col solito strascico di personali ripicche, ebbe invece la dissertazione Della influenza degli Arabi sulla poesia moderna in Europa (Roma 1791). Qui l'A. volle ribadire la sua opposizione alla tesi "arabista" dell'Andrés sulla nascita della poesia provenzale e modema, già da lui confutata nel primo volume delle Rivoluzioni, ma nel 1790 ripresa e rinverdita dal Tiraboschi che aveva ritrovato e pubblicato, non senza qualche acre punta polemica contro l'A., il trattatello del provenzalista cinquecentesco G.M. Barbieri, Dell'origine della poesia rimata (titolo dato dal Tiraboschi). Nella disputa l'A. si mostra perentoriamente avverso alla tesi dei due storici della letteratura, benché non altrettanto deciso nell'affermare la derivazione delle rime provenzali dai ritmi latini della bassa latinità o dai canti popolari germanici. Ma a parte la validità delle rispettive argomentazioni, che peraltro non hanno del tutto perduto la loro efficacia come termini contrapposti di un problema delle origini tuttora aperto, la controversia metteva in rilievo ancora una volta l'indipendenzadelle posizioni intellettuali dell'A., il quale non si curava di aderire a una tesi che l'Andrés avanzava anche per affermare la priorità della letteratura spagnola sulle altre letterature romanze e che quindi era accolta con favore dai gesuiti immigrati, poco benevoli invece, dopo la pubblicazione delle Rivoluzionie delle Osservazioni, verso lo spregiudicato e polemico ex confratello.
Dopo l'ultima edizione bodoniana dei poeti latini, l'A. non pubblicò più nulla. Nel 1796 accompagnò l'Azara, il marchese Guidi e il principe Braschi nella loro missione di intermediari tra Pio VI e Napoleone; nel maggio era a Firenze dove probabilmente si fermò fino al rientro dell'ambasciatore spagnolo dal viaggio a Bologna e Milano. Ritornato a Roma, vi stette fino alla proclamazione della Repubblica romana e alla partenza del papa; poi segui l'Azara a Parigi, dove era stato nominato ambasciatore. Qui strinse amicizia col musicologo J. Chr. Grainville, che aveva cominciato a tradurre i suoi studi sulla musica antica, le Lettere musico-filologiche e Del ritmo sonoro e del ritmo muto presso gli antichi. Ma la morte, sopravvenuta dopo pochi mesi di permanenza nella capitale francese, lasciò incompiuta questa terminale produzione filologica dell'A. (edita da M. Batllori, Madrid 1944).
Morì infatti a Parigi il 30 sett. 1799.
Bibl.: Oltre a R. Diosdado Caballero, Bibliothecae Scriptorun: S. L supplementum, Romae 1816, pp. 8 ss., Ch. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de' Jésus, I, Bruxelles 1890, coll. 589-591; VIII, ibid. 1898, col. 1695, e J. E. De Uriarte e M. Lecina, Biblioteca de escrittores de la C. d. J. de España, Madrid 1925, I, pp. 315-318, cfr. E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, I, Venezia 1834, pp. 17-20; I. Teotochi Albrizzi, Ritratti, Pisa 1836 (questa IV e definitiva ediz. contiene la lettera dell'A. sulla Mirra e la replica della Teotochi); V. Cian, L'immigrazione dei gesuiti spagnuoli letterati in Italia, in Mem. d. R. Accad. delle Scienze di Torino, Classe di scienze morali, storiche e filol., s. 2, XLV (1895), pp. 1-66; G. Gallerani, Dei gesuiti proscritti dalla Spagna mostratisi letterati in Italia, in Civiltà Cattolica, XLVII(1896), pp. 152-165, 416-430, 549-567; G. Natali, Il Settecento, Milano 1929, I e II, passim; G. Malipiero, I profeti di Babilonia, Milano 1924 (riproduce il cap. XIII delle Rivoluzioni); M. Ménendez y Pelayo, Historia de las ideas estéticas en España, Madrid 1883-1891, t. III, I, pp. 231 ss., II, pp. 555 ss.; Id., Estudios de critica histór. y literaria, ivi 1942, IV, pp. 93 ss.; M. Batllori, E. de A., Itinerario biogr., in Analecta Sacra Tarraconensia, XIII (1937-40), pp. 202-222; Id., Ideario filosófico y estético de A., in Gesammelte Aufsätze zur Kulturgeschichte Spaniens, VII(1938), pp. 293-325; Id., A. e Bettinelli, in Giorn star. d. letter. ital., CXIII (1939), pp. 92-112; Id., Manuscritos de E. de A., in Analecta Sacra Tarraconensia, XIV (1941), pp. 199-216; Id., Amistad de Miranda con E. de A. en Venezia, in Revista nacional de cultura, Caracas 1950, pp.97-103 (la materia di quasi tutti gli articoli del Batllori è riassunta nelle prefazioni alle edizioni da lui curate della Belleza ideal e delle Lettere musico-filologiche, cit.); M. Olguin, The Theory of Ideal Beauty in Arteaga and Winckelmann, in The Yournal of Aesthetics and Art Criticism, VIII(1949), pp. 12-33; R. Allorto, A. e le Rivoluzioni del teatro musicale italiano, in Riv. musicale ital., LII (1950), pp. 124-147; W. Binni, Lo sviluppo del neoclassicismo nelle discussioni sul gusto presente, in Annali d. Scuola Normale Superiore di Pisa, s. 2, XXII (1953), pp. 274-289; F. D'Amico, in Encicl. d. Spettacolo, I, Roma 1954, coll. 975-979; E. Bigi, Dal Muratori al Cesarotti, Milano-Napoli 1960, p. 707.