STEFANARDO da Vimercate
STEFANARDO da Vimercate. – Nacque a Milano attorno al 1230. Non è noto il nome della madre; il padre Resonando faceva parte della milizia cittadina (la sua provenienza dal ceto capitaneale, proposta dalla tradizione erudita milanese, non ha trovato conferma in ricerche più recenti) e apparteneva alla fazione nobiliare esiliata da Martino Della Torre.
Nel 1261 i fuoriusciti tentarono di rientrare con le armi in Milano, ma furono duramente sconfitti a Tabiago: tra di loro, racconta Stefanardo, vi erano anche suo padre (che «iam senex» durante la battaglia o mentre era prigioniero fu ucciso), due suoi fratelli e un cugino che furono tutti catturati e destinati i primi due a morire in carcere (Fratris Stephanardi de Vicomercato..., a cura di G. Calligaris, 1912, pp. 17 s.). Di nessuno dei quattro il cronista ha indicato il nome nei versi della sua opera; il nome del padre è noto da alcuni atti notarili.
All’epoca Stefanardo era già da un decennio (1251) tra i frati predicatori del convento milanese di S. Eustorgio; nel 1255 compare nella documentazione del convento in posizione eminente, secondo solo al priore. Non si hanno però altre notizie su di lui per molti anni, sino al 1289, quando il suo nome è accompagnato dalla qualifica «lector in theologia» (ibid., p. VI). Di lì a breve egli divenne priore di S. Eustorgio, carica che mantenne dal 1290 al 1292: durante quel periodo pare abbia predicato per ordine dell’arcivescovo Ottone Visconti e su indicazione del papa Nicolò IV per una crociata in Terrasanta. In seguito, nel 1295, ottenne per primo l’incarico di lettore di teologia presso la chiesa metropolitana, appena istituito da Ottone Visconti e che probabilmente tenne sino alla morte, databile entro il 1297.
Tranne per il biennio in cui fu priore, dalla documentazione conservata si direbbe che Stefanardo abbia passato quasi tutta la sua vita nel convento di S. Eustorgio, impegnato nell’insegnamento e nello studio.
Alcune delle opere che gli sono tradizionalmente attribuite sono andate perdute: si tratta del De emanationibus opus in novem partes distinctum, del Periachon nominum et nonnulla alia de principiis nominum e della Postilla super Lucam. Sono invece conservati inediti due suoi trattati di diritto canonico, il Tractatus de irregularitate e le Questiones super certis locis apparatus Decretalium (tramandati entrambi dal manoscritto Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 53 sup.). Della sua attività di insegnante sono testimonianza alcuni scritti che gli sono comunemente assegnati; tra di essi, due opere filosofiche: l’elegia De controversia hominis et fortune e il Dialogus de apprehensione seu de potentiis apprehensivis (in passato attribuito ad Alberto Magno e pubblicato nella sua opera omnia).
A parere di Giovanni Cremaschi, l’elegia De controversia... – in cui si coglie l’influenza del De consolatione philosophiae di Severino Boezio, ma anche della lettura dell’Elegia... di Arrigo da Settimello – fu composta nei primi anni Sessanta, subito dopo la resa di Tabiago e prima che, nel 1266, Ottone Visconti giungesse a un interlocutorio accordo con i Torriani. I versi sono introdotti da un prologo in prosa nel quale Stefanardo illustra il contenuto dell’opera: si tratta di una disputa tra l’Uomo e la Fortuna, accusata di essere la causa dell’infelicità degli uomini, in cui la Filosofia, chiamata a presiedere un tribunale composto da filosofi, dimostra come la Fortuna sia strumento della Provvidenza. Il testo poetico è costituito da dodici distinctiones per un totale di 1758 versi, nei quali a parlare è quasi sempre la Filosofia che non solo illustra il ruolo della Fortuna nel quadro provvidenziale, ma fornisce anche nozioni su argomenti diversi (le virtù di alcune pietre preziose, le cause dei terremoti e così via). All’Uomo, che per primo era comparso sulla scena lamentando la sua triste condizione, sono riservate le conclusioni in cui, oltre a omaggiare le virtù della Filosofia, si fa cenno alla tormentata situazione politica del tempo presente: Stefanardo, che nei lamenti dell’Uomo aveva inserito cenni autobiografici (la prigionia del padre e dei fratelli, e la difficile situazione politica della Milano dei Della Torre), alle riflessioni di chiusura affida la condanna degli scontri civili e dei governi tirannici.
Il Dialogus de apprehensione (che Giovanni Cremaschi, Stefanardo da Vimercate, 1950, p. 11, crede perduto) è un lungo trattato scritto pensando alla scuola, composto da dodici parti, il quale fu redatto dopo il 1270, vista la conoscenza dell’opera di Tommaso d’Aquino che rivela. In quest’opera la Filosofia, che già era stata protagonista del De controversia..., rispondendo in forma semplice e sintetica alle domande di un Discipulus, analizza la conoscenza nelle sue varie forme, da quella fornita dai sensi esterni (vista, udito, tatto, olfatto, gusto), a quella derivata dal senso comune e dall’immaginazione, a quella ottenuta con l’intelletto, alla conoscenza che Dio ha di sé stesso. In queste pagine Stefanardo coglie l’opportunità di soffermarsi su questioni di teoria politica (ad esempio, nella pars VII si parla delle varie forme di governo), di dottrina religiosa (nella pars VIII è affrontata l’eresia) e a più riprese (nelle partes VI e IX) torna sulla profezia.
Infine nel frate è stato individuato l’autore del Liber de gestis in civitate Mediolani, un breve poema epico di argomento storiografico, in due libri a loro volta divisi rispettivamente in quindici e undici capitoli (ma l’ultimo capitolo del secondo libro è perduto e se ne conosce solo il contenuto perché riassunto nel prologo), per un totale di 1463 versi. Nel Liber sono ripercorse le vicende milanesi dal 1259 al 1277; fu composto da Stefanardo negli ultimi anni della sua vita, quando sembra essere stato molto vicino all’arcivescovo Ottone Visconti.
L’opera si apre con un prologo in prosa in cui l’autore – dopo avere specificato che i versi impreziosiscono la qualità del racconto, ma non ne alterano la veridicità – ripercorre brevemente il contenuto del poema per facilitarne la comprensione. Il primo libro comincia con alcuni versi dedicati a illustrare le passate glorie di Milano, cui però in anni recenti sono seguiti momenti di decadenza dovuti alle discordie interne e alla divisione della città in due fazioni, una di militi, costretta all’esilio nel 1259, e l’altra di popolo, capeggiata dai della Torre. Momento culmine dello scontro tra le fazioni fu, nella ricostruzione di Stefanardo, la battaglia di Tabiago del 1261, in cui Martino della Torre inferse una durissima sconfitta alla parte dei fuoriusciti. Pochi mesi dopo Ottone Visconti fu consacrato arcivescovo di Milano, ma Martino gli impedì di salire sulla sua cattedra. A questo punto, con un salto cronologico, il racconto passa a riferire di fatti accaduti nel 1266, ai tempi di Clemente IV (grande amico dei frati predicatori, specifica Stefanardo). Di fronte al papa il messo di Napoleone della Torre, da poco signore di Milano (procurator populi, lo chiama Stefanardo), introdotto da un legato di Carlo d’Angiò, difese le ragioni di Milano colpita da interdetto. A questi discorsi seguirono le orazioni dell’arcivescovo Ottone e del rappresentante dei milanesi fuoriusciti: furono parole così accorate, specie quelle dell’anonimo esule, da spingere il pontefice a promettere la cancellazione dell’interdetto solo se le due parti fossero giunte alla pacificazione. Un legato papale venne quindi inviato a Milano e nel Consiglio cittadino espose le condizioni di pace. Ma la speranza si rivelò illusoria e il primo libro termina con un’amara riflessione: poiché i nemici del vescovo avevano ancora grande potere in città, era necessario espellerli per ottenere la pace. Il racconto riprende, dopo un altro salto cronologico, e il secondo libro ha inizio nel 1273, quando Ottone, al seguito di Gregorio X, si trovava in Lombardia e provò a rientrare a Milano. Un balzo ancora e in pochi versi si narrano le battaglie che avrebbero portato nel 1276 alla vittoria dei milites alleati di Ottone, che solo durante questi scontri era diventato il capo della pars estrinseca, e al rovesciamento degli equilibri politici a Milano. Se nel primo libro sono i discorsi pronunciati davanti al papa e al Consiglio di Milano a occupare la gran parte della trattazione e a dar modo a Stefanardo di stendere i suoi dotti versi, in questo secondo libro spetta alle descrizioni degli scontri militari destare la maggiore attenzione del poeta che qui soprattutto mostra la sua abilità a versificare e la sua non comune cultura classica. Dal racconto della battaglia navale che ebbe luogo sul lago Maggiore nei pressi di Germignana (vicino a Luino) a quello dello scontro di Desio, fatale per i torriani, tutto il secondo libro è costituito dal susseguirsi di descrizioni di fatti militari, intervallati da parentesi in cui si elogiano il ruolo di Ottone e il suo desiderio di pacificare Milano.
Il curatore del Liber Giuseppe Calligaris, ricostruendo le letture di classici fatte da Stefanardo, individua riprese dall’Eneide, dalla Farsaglia e dalla Tebaide, i poemi epici che funsero da modello per l’epica medievale. Ma la conoscenza che di Virgilio, Lucano e Stazio ebbe il domenicano era più profonda di quanto Calligaris abbia ritenuto, come dimostra uno studio di Giovanni Orlandi (2000), il quale rileva anche che la perizia nello scrivere versi latini di cui ha dato prova Stefanardo è maggiore di quella dei suoi coetanei milanesi e può essere paragonata a quella di Lovato Lovati, maestro dei preumanisti padovani. Il valore letterario del Liber... è, inoltre, enfatizzato dalla scelta dell’autore di narrare solo alcuni episodi: Stefanardo, infatti, non mirava a ricostruire una spanna cronologica ventennale della storia milanese con pretese di completezza, in cui ricordare i nomi dei protagonisti (sono pochissimi i personaggi che egli menziona) e seguendo l’ordine cronologico come se stesse scrivendo una cronaca in versi. Al contrario egli si è allontanato dalla prassi comune nei poemi storiografici coevi o precedenti per muoversi in modo inconsueto: ha così realizzato alcuni quadri – quasi delle scene – dedicati alla rappresentazione di momenti particolarmente importanti, distanti tra loro in alcuni casi pochi giorni, in altri addirittura anni, seguendo così una via che per certi aspetti richiama il modo con cui Albertino Mussato ha ripercorso la vicenda di Ezzelino da Romano nella sua Ecerinis e invita a leggere il poema milanese tenendo conto delle più dotte produzioni letterarie della fine del Duecento.
Il Liber... è conservato da un solo testimone medievale, il manoscritto O 161 sup. della Biblioteca Ambrosiana, che risale al XIV secolo. Nel codice ambrosiano il testo di Stefanardo è corredato da note esplicative rivolte a lettori che a quell’opera ricorrevano soprattutto per imparare la metrica. Ma il poema o almeno i suoi contenuti circolarono, perché il Liber... fu una delle fonti importanti per le compilazioni di Galvano Fiamma, il quale entrò nel convento di S. Eustorgio nel 1298, poco dopo la morte dello stesso Stefanardo.
Fonti e Bibl.:. Domino Alberto Magno Liber de apprehensione a quibusdam adscriptus, in Beati Alberti Magni Opera omnia, a cura di A. Borgnet, V, Paris 1890, pp. 555-753; Fratris Stephanardi de Vicomercato Liber de gestis in civitate Mediolani, a cura di G. Calligaris, in RIS, IX, 1, Città di Castello 1912; G. Cremaschi, Stefanardo da Vimercate. Contributo per la storia della cultura in Lombardia nel sec. XIII, Milano 1950 (alle pp. 105-187 l’edizione del De controversia hominis et fortune).
V.J. Bourke, The provenance of the “De apprehensione” attributed to Albertus Magnus, in Speculum, XVIII (1943), 1, pp. 91-98; G. Orlandi, Da Marsiglia a Germignaga. Colori lucanei in S. da V., in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, I, Milano 2000, pp. 13-23; C. Cardelle de Hartmann, Lateinische Dialoge 1200-1400. Literaturhistorische Studie und Repertorium, Leiden-Boston 2007, pp. 478-481; S.A. Céngarle Parisi, S. di V. nelle cronache galvagnane, in Filologia mediolatina, XVI (2009), pp. 247-295.