STAZIO
. Dei tre maggiori poeti epici dell'età dei Flavî (69-96 d. C.), Valerio Flacco, Silio Italico e Publio Papinio Stazio, quest'ultimo ebbe più di tutti ricchezza di vena, ma troppo indulse all'artificio, difettò di sobrietà e di disciplina, e disperse così assai spesso, l'effetto di spunti e motivi felici che pur non mancano nella sua poesia: tutti e tre, come è ovvio, ebbero per modello Virgilio, ma Stazio, che è nell'intenzione il più virgiliano di tutti, è difatti quello che più ne resta lontano.
Vita. - "Publius Papinius Statius" (un secondo cognomen, "Surculus" o "Sursulus", che compare in qualche manoscritto, deriva dalla confusione, che abbiamo anche in Dante [Purg., XXI, 89], col grammatico, dell'età dei Claudî, "Statius Ursulus Tolosensis") nacque a Napoli intorno al 45 d. Cristo. Suo padre, di famiglia distinta ma decaduta, era un grammatico di molta dottrina, un maestro di retorica di grido, un poeta non senza valore: le notizie su lui ci derivano dall'affettuoso, ma troppo retorico e diffuso Epicedion che Stazio scrisse in sua memoria, accolto nelle Silvae, V, 3. Anche il giovane Stazio, educato alla scuola e all'esempio paterno, si cimentò presto nelle gare poetiche ottenendo una prima vittoria a Napoli negli Augustali. Passato poi da Napoli a Roma insieme col padre che morì, sembra, nell'a. 80, mentre si accingeva (V, 3, 205) a cantare l'eruzione del Vesuvio del 79, St. visse intensamente la vita della Roma di Domiziano, partecipando alle gare istituite dall'imperatore, nel celebrare e adulare il quale seguì la necessità dei tempi. Vittorioso nell'agone albano, sembra nel 90, con un carme sulle vittorie germaniche e daciche di Domiziano, St. fu vinto, con molta probabilità nel 94, nella gara capitolina. L'insuccesso, certo inatteso, al quale non è escluso si aggiungessero ragioni di salute, indusse St. a lasciare Roma per Napoli, dove lo troviamo già nel 95, data della prefazione del libro IV delle Silvae: non è escluso che facesse ritorno, sia pure non trattenendovisi, a Roma: la sua morte è da porre, con ogni verosimiglianza, nel 96. Aveva sposato una vedova, Claudia, di cui nelle Silvae, III, 5 esalta la fedeltà, ma che non sembra fosse troppo disposta a seguirlo da Roma a Napoli; non ebbe figli. Visse in discreta agiatezza ed ebbe, favorito da Domiziano, un piccolo, ma ben curato possesso ad Alba.
Opere. - 1. La Tebaide (Thebăis) è l'opera principale di St., il poema che aveva richiesto lunghe e assidue fatiche e dal quale il poeta si attendeva l'immortalità. Quantunque la materia fosse tutta greca, modello nella composizione del poema gli era stata l'Eneide; dodici sono anche i libri del poema di St., e la distribuzione della materia è fatta studiosamente in modo che nella seconda metà, come nel poema di Virgilio, si abbiano solo avvenimenti bellici. Ma da questo vincolo derivano gravi difetti di economia: ché, scarseggiando la materia appropriata, nella prima parte del poema che, dopo la dedica e l'accenno alla discordia fra i due fratelli e al consiglio di Giove, muove dall'incontro in Argo alla corte di Adrasto di Polinice e di Tideo, s'introducono deviazioni dall'argomento, e un episodio, di Issipile e di Archembro, occupa senz'altro due libri, mentre nella seconda parte la materia è come contratta negli ultimi due libri che non solo accolgono la narrazione del duello mortale fra i fratelli, ma gli avvenimenti determinati dall'avvento al trono di Creonte, il divieto del seppellimento di Polinice, l'intervento di Antigone, il soccorso di Teseo, l'uccisione di Creonte. La composizione del poema, che manca non solo di un personaggio centrale, ma di una parte centrale, si sviluppa quindi in episodî che possono essere considerati singolarmente, a seconda del vario valore, e in essi si rivelano così i pregi, come i difetti del temperamento poetico e dell'arte di St.: nella ricchezza della fantasia, nell'abbondanza del linguaggio poetico, ma nella mancanza di misura e soprattutto di caratteristica che, solo materialmente, può essere affidata alle tinte troppo forti, agli elementi truci e repugnanti, all'abuso degli interventi divini e delle personificazioni allegoriche. Anche l'espressione, appesantita dagli artifici retorici, pecca di chiarezza.
La questione delle fonti della materia della Tebaide non è per ora di possibile soluzione: St. aveva una larga conoscenza della letteratura greca e latina, ma la perdita della Tebaide ciclica e della Tebaide di Antimaco vietano ogni conclusione e perfino un preciso apprezzamento dei rapporti di St. coi tragici; né è da ritenere improbabile che egli si valesse soprattutto di compendî mitografici. Il poema fu dedicato a Domiziano ed era già compiuto, con ogni verosimiglianza, nel 92. Atteso con viva aspettazione, corrispose appieno al viziato gusto del tempo. La fama di St. resta sostanzialmente affidata alla Tebaide: nel sec. IV Servio lo include fra gli "auctores idonei", e si debbono riportare al secolo V gli Scolî di Lactantius Placidus, tutti alla Tebaide.
2. L'Achilleide (Achilleis) fu cominciata da St. nel 95. Il piano dell'opera era tracciato in modo che tutta la materia mitica relativa all'eroe vi trovasse possibilmente luogo, e il poema comincia con la fuga di Elena con Paride e il tentativo di Tetide per sottrarre Achille alla guerra, ma non va oltre l'azione fortunata di Ulisse e Diomede per rintracciare Achille; in tutto (poiché la partizione dei versi in libri è diversa anche nei codici), un primo libro di 960 e 167 versi per il secondo, divisi secondo la volgata in 674 e 453. L'opera restò interrotta per la morte di St. Vi è minore affettazione e gonfiezza che nella Tebaide, maggiore coesione e una qualche grazia nell'esporre. Delle fonti del poema nulla sappiamo di preciso, ma è legittimo pensare a fonti di erudizione mitografica. Data la sua incompiutezza, l'Achilleide non ebbe la fama della Tebaide.
La migliore tradizione del testo della Tebaide e dell'Achilleide è offerta dal Paris. 8051, detto Puteano, del sec. X.
3. Le Selve (Silvae), fonte principale per la vita di St., sono una raccolta di componimenti d'occasione, in tutto trentadue, divisi in cinque libri, i primi quattro dei quali sono preceduti da dediche in prosa. L'espressione silva (cfr. ὕλη), compare già in Cic., De Orat., III, 26, 103: primumsilva rerum ac sententiarum comparanda est, e significò poi "abbozzo", "improvvisazione": in questo senso l'usò Lucano e con ugual significato l'assume St. Ma non è esatto che tutte, senza eccezione, le silvae siano improvvisazioni, buttate giù in un giorno o due: tale è da credersi non sia la più antica, l'Epicedion in patrem suum, in cui sono evidenti le tracce di una rielaborazione e che sta fra l'86 e il 90, mentre gli altri componimenti cadono fra l'89 e il 95. I primi quattro libri furono editi singolarmente dalla fine del 91 al 95: la pubblicazione del quinto è, con ogni probabilità, postuma. Le Silvae sono in sostanza una miscellanea di poesie liriche, ma di argomento assai vario, e non senza qualche pregio, specialmente dove l'ispirazione è tratta dalla vita familiare ed è, particolarmente, elegiaca o dove procede da spettacoli naturali rappresentati idillicamente. Frequenti i riflessi di Orazio specialmente dalle Odi, di Virgilio, di Ovidio; il metro è, di solito, l'esametro. Fra le Silvae più note sono la celebrazione della colossale statua equestre di Domiziano innalzata nel mezzo del Foro (I, 1), l'Epitalamio di Stella e di Violentilla, che è una delle poche cose belle e delicate che St. abbia scritto e interessa anche per la storia del genere lirico epitalamico (I, 2), l'Epicedio di Glaucias, un fanciullo allevato in casa di Atedio Meliore e a lui carissimo (II, 1), l'Ecloga alla moglie (III, 5), la Saffica a Vibio Massimo (IV, 7), l'Epicedio per il padre (V, 3), la breve lirica al Sonno, che è fra le cose più riuscite delle Silvae (V, 4).
Le Silvae furono scoperte in un codice di San Gallo da Poggio Bracciolini, durante il concilio di Costanza, nel 1417. L'originale è andato perduto e la copia fatta fare dal Poggio, "l'apografo poggiano", è il cod. Matritense, bibl. nat., M 31. Un solo codice più antico del sec. XV esiste, il Laur. 29, 32 del sec. X, ma contiene soltanto il Genethliacon Lucani (Silvae, II, 7) e ad ogni modo esso rappresenta la stessa tradizione del Matritense. L'ediz. principe delle Silvae è del 1472.
4. Degli scritti perduti di St. meritano ricordo l'Agave e il Carmen de bello germanico. L'Agave era una fabula saltica o pantomimo, tratto dalla leggenda di Penteo, e scritto (Giov. VII, 86) per il danzatore Paride. La composizione dell'Agave cade nei primi tempi dell'impero di Domiziano, fra l'81 e l'83 d. C. Del carme celebrativo delle guerre germaniche di Domiziano restano quattro versi, conservati negli Scolî a Giovenale (IV, 94) raccolti da Lorenzo Valla. Si è dubitato a torto della loro autenticità: di essi ci offre una felice parodia la satira di Giovenale (IV, 72 segg.).
Bibl.: Per la vita: F. Vollmer, pref. all'ediz. delle Silvae, Lipsia 1898; I. Hilberg, in Wiener Studien, XXIV (1902); G. Giri, in Riv. di filol., XXXV (1907); L. Legras, in Rev. des études anciennes, IX (1907), X (1908). - Per l'arte di St. in generale: W. Härtel, Studia Statiana, Lipsia 1900; B. Deipser, De P. Papinio Statio Verg. et Ovid. imitatore, Strasburgo 1881; M. Schamberger, De P. Papinio Statio verborum novatore, Halle 1907. - Per la Tebaide: edizioni: A. Klotz, Lipsia 1908; A. S. Wilkins, in Postgate, Corpus poetarum latinorum, II, Londra 1905; H. W. Garrod, Oxford 1906. R. Helm, De P. Papinii Statii Thebaide, Berlino 1892; L. Legras, Étude sur la Thébaide de Stace, Parigi 1905. - Per gli Scolî di Lattanzio Placido, ed. R. Jahnke, Lipsia 1898. - Per l'Alchilleide: edizioni: A. Klotz, Lipsia 1902; A. S. Wilkins, in Postgate op. cit.; H. W. Garrod, op. cit.; L. Legras, in Rev. des étud. anc., X (1908). - Per le Selve: edizioni: F. Vollmer, Lipsia 1898; A. Klotz, ivi 1911; G. A. Davies e I. P. Postgate, in Postgate, op. cit.; F. Leo, De Stati silvis, Gottinga 1893. Recente traduzione di G. Sozzi, Catania 1927. - Per le scoperte delle Selve v. R. Sabbadini, Le scoperte dei Codici greci e latini, Firenze 1905. - Per le opere perdute e la fama di St. nell'antichità: L. Valmaggi, in Riv. di filol., 1893; S. Reinach, in Revue de philol., XXXI (1907); P. Ercole, in Riv. indo-greco-italica, XV (1931).
Stazio nel Medioevo. - La fortuna di St. durante il Medioevo è affidata alla Tebaide; la sua opera rappresentava l'epopea, il genere più imponente che aveva per modello l'Eneide: e da St. si risaliva a Virgilio, accomunando i due poeti nella medesima tradizione poetica. Nelle scuole conventuali, nei manuali di cultura classica ad uso di chierici e di laici, nelle imitazioni e derivazioni dalla poesia latina, St. era letto, citato, parafrasato assieme a Virgilio, a Lucano, a Ovidio. Nelle opere composte in Italia, la sua influenza appare esplicitamente, per esempio, nel Panegyricus Berengarii o nel Liber Majolichinus, cioè in quella letteratura cronachistico-celebrativa che si modellava sul poema epico dei Latini.
Al pari di altre figure della cultura romana, anche St. subì un processo di idealizzazione cristiana, fondata su scarsi elementi e senza neanche il sostegno di qualche singolare leggenda, ché anzi la sua vita fu poco nota: le Selve, da cui poteva risultare qualche riferimento più concreto, non riapparvero che nel sec. XV (scoperte nel 1417 dal Bracciolini, illustrate dal Poliziano allo Studio di Firenze, costituirono per gli umanisti il tipo della poesia di vario argomento e di diversi toni); egli stesso era confuso con il retore del medesimo nome e perciò ritenuto nativo di Tolosa. Dante ne ha ripreso i motivi squisitamente medievali, ma ha vigorosamente intuito i valori stilistici e formativi della sua Tebaide, ricollegandola con deciso giudizio alla scuola virgiliana, a cui fa risalire anche la salvezza spirituale del poeta, che presumeva convertito al cristianesimo dietro la guida profetica della quarta ecloga (Purgatorio, XII e segg.).
Ma la Tebaide fu per la cultura medievale una larga via aperta sul mondo delle leggende greche, che al Medioevo pervenivano sempre di seconda mano, verso alcuni dei miti più avventurosi e più drammatici dell'antichità, sicché divenne il testo per eccellenza delle "storie tebane": tradotta nel francese cortese e cavalleresco del sec. XII (Roman de Thèbes), e poi nell'inglese del Lydgate (Story of Thebes), ripresa con intenti divulgativi e frammentarî nel volgare italiano, divenne fonte diretta del Teseida boccaccesco e del Temple of Mars di Chaucer. In seguito fu ancora tradotta e commentata, con un senso più rispettoso e integrale dell'originale (trad. di Erasmo di Valvasone, in ottava rima, Venezia 1570; di Giacinto Nini, Roma 1630, in versi sciolti, e nello stesso metro di Selvaggio Porpora, pseudonimo del cardinale C. Bentivoglio, Roma 1729); ma la Tebaide sopravvisse anche per il sentimento fatalistico e tragico del suo contenuto, dal quale il teatro classico e neoclassico attinse qualche azione e qualche figura: si pensi a La Thébaïde ou Les Frères Ennemis del Racine e all'Antigone dell'Alfieri, che derivano da St. e non da Sofocle.
Bibl.: A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino 1915 (ristampa), p. 613 segg.; L. Valmaggi, La fortuna di St. nella tradizione letteraria latina e basso latina, in Rivista di filologia, XXI (1893); il Roman de Thébes è edito da L. Constans, voll. 2, Parigi 1890; P. Savj-Lopez, Storie tebane in Italia, Bergamo 1905; id., Sulle fonti della Teseida, in Giorn. st. della lett. ital., XXXVI, p. 57 segg.; C. Landi, Sulla leggenda del cristianesimo di St., Padova 1913. Per altra bibliografia particolareggiata, si veda C. Calcaterra, nell'introd. alla sua ediz. dalla traduz. del Bentivoglio, Torino 1928, specie a pagina lxxxvii.