Stato della Chiesa
Nacque da una base costituita dalla sovrapposizione del Patrimonio di San Pietro sul ducatus bizantino, sovrapposizione realizzatasi verso la metà del sec. 8°. Di un duca bizantino si ha notizia per la prima volta nel luglio 592; alla metà del sec. 8° il duca come funzionario bizantino cessava di esistere e alla sua autorità si sostituì quella del papa e dell’aristocrazia senatoria romana, potente localmente anche perché costituiva lo stato maggiore dell’exercitus romanus, ormai anch’esso indigeno. Con la caduta dell’Esarcato nelle mani dei longobardi, quest’aristocrazia senatoria non poté diventare padrona di fatto del ducato (che comprendeva anche la Tuscia meridionale, parte della Sabina, dell’Umbria e della Campania) proprio per la presenza in Roma della curia del vescovo (venerabilis clerus e proceres Ecclesiae) e del vescovo stesso, il papa, forte, oltre che dell’autorità religiosa e del prestigio goduto sull’universitas fidelium, anche della somma dei poteri giurisdizionali e politici esercitati di fatto su Roma e il ducato da quasi due secoli di concorrenza con le autorità bizantine. I papi affermarono perciò questi poteri sia contro l’aristocrazia romana sia contro i longobardi, pur avendo necessità dell’aiuto della prima contro questi ultimi (Gregorio II e III, Zaccaria). Dopo la donazione di Sutri fatta da Liutprando nel 728, seguita poco dopo dall’altra di Bomarzo, Bieda, Orte, Ameria, i papi, di fronte all’insorgente minaccia del re longobardo Astolfo e contro le aristocrazie romana e ravennate, cercando un nuovo protettore, stipularono con Pipino il Breve il Patto di Quierzy, detto promissio carisiaca, in base al quale in caso di vittoria franca contro i longobardi e in cambio della nomina di Pipino a patrizio romano, il ducato di Roma (considerato già appartenente alla Chiesa) avrebbe potuto annettersi la Corsica, la Tuscia longobarda, l’Esarcato, la Venezia, l’Istria, l’Emilia, le città e regioni a sud della linea Luni-Monselice e infine i ducati di Spoleto e Benevento. Il patto non fu mantenuto da Pipino e neppure Carlomagno rispettò integralmente la promissio carisiaca, benché nel 774 egli facesse una vastissima donazione: il territorio prossimo a Roma, l’Esarcato e la Pentapoli. Seguirono l’accordo e le donazioni del 781 (il papa rinunciava al dominio diretto sui ducati di Tuscia e di Spoleto, Carlo garantiva alla Chiesa i possessi patrimoniali nel Beneventano, cedeva Sora, Arpino, Arce, Capua, Teano, Aquino, la Sabina, Viterbo, Orvieto, Soana, Roselle), che furono confermati nell’817 da Ludovico il Pio, nel 962 da Ottone I, nel 1020 da Enrico II. Ma solo le terre più vicine a Roma e al Lazio rimasero in effettivo possesso della Chiesa e dei papi, nei primi secoli del Medioevo; le altre erano contestate dal marchese di Toscana, dall’arcivescovo di Ravenna, dal regno Italico, mentre a Roma e nel Lazio continuava la resistenza di elementi, specie aristocratici, che potevano essere frenati solo con la forza dei franchi. Perciò, caduta la dinastia carolingia, prevalse l’aristocrazia romana, che annullò pressoché il potere del pontefice («età ferrea del papato»). È il periodo delle famiglie dei Teofilatto, dei Crescenzi, dei Tusculani, che si alternavano nel titolo di patricius o signore di Roma. Con l’affermarsi della casa di Sassonia nella direzione dell’impero, il potere passò dalla nobiltà romana agli imperatori, rimanendone praticamente esclusa la gerarchia ecclesiastica. Ma poi, manovrando fra aristocrazia romana, normanni, marchesi di Toscana e impero, Ildebrando di Soana (dal 1073 Gregorio VII) affermò, insieme al principio della riforma della vita degli ecclesiastici e dell’indipendenza di questi dal controllo temporale, anche l’autorità papale sul patrimonio territoriale di S. Pietro. Sino alla fine del sec. 11° il territorio effettivo del Patrimonium Sancti Petri fu quello compreso tra Acquapendente (più tardi tra Radicofani) e Ceprano: l’antico ducato romano più la Sabina e qualche acquisto nella Toscana meridionale e nella Campania, quasi tutta l’Umbria fino al Trasimeno. Su questo territorio e su quello concesso dalle donazioni di Matilde di Canossa, confermate a Pasquale II nel 1102, i pontefici avevano effettiva autorità sin dalla fine del sec. 11°; i decreti sul modo di elezione del papa del 1050 e del 1179 sono insieme un’affermazione dell’autorità della gerarchia ecclesiastica contro l’aristocrazia romana, oltre che contro gli interventi imperiali: autorità che si doveva affermare contro le autonomie dei feudatari e delle comunità; fra queste primeggia il Comune di Roma, le cui prime violente contestazioni del potere papale risalgono al moto popolare del 1143. Dopo la grave minaccia rappresentata per lo S. della C. dall’unione del regno di Sicilia al regno d’Italia e all’impero sotto Enrico VI, Innocenzo III iniziò, durante la minore età di Federico II, la serie di recuperationes che avrebbe dovuto fare del Patrimonio di S. Pietro uno Stato tale da rompere il cerchio creatogli attorno dall’unione, nella casa sveva, di quelle due Corone. Da ciò la lotta contro il ghibellinismo e ogni tendenza unitaria che sarebbe stata esiziale allo Stato della Chiesa. Dopo la vittoria ghibellina di Montaperti (1260), la Chiesa, considerando in pericolo il proprio Stato e sé stessa, affidò di nuovo la difesa del potere temporale a un protettore straniero, Carlo d’Angiò; e dalla battaglia di Benevento (1266) in poi il ducato di Spoleto e la marca d’Ancona fecero parte definitivamente dello S. della C., mentre la dinastia angioina riconosceva sul regno di Sicilia l’alta sovranità della Santa Sede. Nel 1278, per rinuncia imperiale, anche la Romagna era riconosciuta parte del Patrimonio. Lo S. della C. costituiva all’inizio del sec. 14° uno dei più vasti e complessi Stati italiani, sempre più sottomesso anche all’interno all’autorità ecclesiastica, che dal collegio cardinalizio, vera oligarchia, esprimeva i suoi vari funzionari. Era diviso nelle province di Campagna, Marittima, Patrimonio, Sabina, ducato di Spoleto, marca d’Ancona, Romagna, e nei vicariati di Massa Trabaria, Terra Molfa, Bologna. Specie nelle nuove province l’autorità del governo pontificio non si affermava se non per atto volontario dei comuni o per sottomissione, spesso solo formale, dei tiranni locali (come in Romagna). Alcune erano governate ancora da comites, altre (le più recenti, ma in seguito tutte) da presidi o rettori di nomina pontificia (per lo più ecclesiastici) con piena giurisdizione, assistiti da giudici e da consiglieri. Il Comune di Roma, sottomessosi al tempo di Innocenzo III, che aveva avocato a sé la nomina di senatore unico, e ribellatosi poi ancora eleggendo senatori stranieri, sull’esempio del podestà degli altri comuni, nel periodo di Bonifacio VIII aveva rinnovato la sua sottomissione al papato. Il periodo avignonese (1308-77) segna per lo S. della C. un punto d’arresto. A Roma si hanno rivoluzioni popolari e reazioni aristocratiche, nella storia delle quali si inserisce la restaurazione della Repubblica romana con Cola di Rienzo; nelle province ogni comune si amministrava a suo modo, lasciando autorità puramente formale ai rettori o vicari della Santa Sede. Intanto gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Frangipane, i Caetani dominavano nell’Agro; i Prefetti di Vico su Civitavecchia, Viterbo, Corneto, Terni; i da Varano su Camerino; i Montefeltro su Urbino e Cagli; i Malatesta su Rimini, Pesaro, Fermo, Senigallia, Ancona, Ascoli; gli Ordelaffi su Forlì e Cesena; i Manfredi su Faenza; gli Alidosi su Imola; i da Polenta su Ravenna e Cervia; gli Estensi (1317) su Ferrara; i Pepoli, poi i Visconti, su Bologna; in Perugia, Todi, Assisi si alternavano regimi signorili e comunali. Infine il cardinale Egidio Albornoz, con la sua azione politica e militare equilibrata ed energica (1353-57; 1358-67) riportò in gran parte dello Stato la disciplina e l’ordine: le famose Constitutiones aegidianae, che riordinarono amministrativamente lo Stato, rimasero in vigore nel complesso fino al 1816. L’azione di Albornoz riuscì però anche perché in molti casi si limitò ad accettare una soggezione formale e a investire giuridicamente i tiranni dei poteri da loro effettivamente goduti. D’altra parte la necessità per i romani di riavere la corte pontificia rese possibile a Urbano V (1367) di riformare il comune, che da allora vide decadere la sua autonomia. Ma le ribellioni e soprattutto la guerra degli Otto santi (1375-78), condotta da fiorentini e milanesi ai danni dello S. della C., resero vana l’opera di Albornoz. Il ritorno a Roma di Gregorio XI non servì a domare la crisi; inoltre, le complesse e tumultuose vicende dell’elezione del successore (Urbano VI) provocarono la maggiore crisi dello scisma d’Occidente. Lo S. della C. fu allora in pericolo: nel 1401-02 per opera di Gian Galeazzo Visconti, che stava per conquistare Firenze e aprirsi la via verso Roma (era già signore di Perugia, Assisi, Spoleto); e nel 1408-09 e 1411-13 per opera di Ladislao di Durazzo, che si fece dare il titolo di protettore di Roma, poi di signore, e occupò Roma effettivamente, muovendo di lì contro Firenze. Morto improvvisamente (1402) il Visconti, e prima sconfitto e poi morto Ladislao, rimaneva la minaccia di condottieri come Braccio da Montone. Martino V, però, dopo una prima composizione dello scisma a Costanza nel 1418, poté ripristinare la sovranità pontificia di Roma con l’aiuto di Muzio Attendolo Sforza, sopprimendo ogni residuo di autonoma vita municipale. La rivolta contro Eugenio IV nel 1436 e il moto di S. Porcari (1453) contro Niccolò V non cambiarono la situazione. Alla sottomissione di Roma seguì quella delle province (completata nel 1426). Lo S. della C., superata la crisi del Concilio di Basilea, che aveva spinto di nuovo i signori italiani a impadronirsi delle sue terre, si ricostituì quasi intatto (la perdita maggiore fu quella di Ravenna e Cervia, dal 1441 ai veneziani). Divenne così dal 1454 al 1494 uno dei cinque potentati su cui si fondava la «politica di equilibrio» di quel periodo: il secondo per superficie e popolazione, forse l’unico che bastava a sé stesso economicamente (per l’agricoltura), ma debolissimo per l’indipendenza di fatto dei Baglioni di Perugia, dei Bentivoglio di Bologna, dei Malatesta di Rimini, dei Manfredi di Imola, Forlì, Faenza, degli Sforza a Pesaro, dei da Varano a Camerino, tutti nominalmente vicari pontifici; mentre i titoli ducali per Urbino ai Montefeltro e per Ferrara agli Estensi avevano sancito anche giuridicamente una vera indipendenza. Agli ostacoli frapposti da queste forme particolaristiche, feudali e comunali, i papi non poterono reagire, nel loro sforzo di organizzare monarchicamente lo Stato, se non con il «grande nepotismo» eretto a sistema di governo. Ma la creazione delle nuove signorie dinastiche a favore dei figli o nipoti dei pontefici finì per accentuare la disgregazione, contro la quale il nepotismo stesso era stato concepito come utile strumento. Con Cesare Borgia sembrò fosse possibile la formazione di una monarchia assoluta nello Stato della Chiesa. Giulio II riprese questa politica accentratrice, ma in nome dello S. della C. e non per una dinastia: la partecipazione (per un trentennio) dello S. della C. alla grande politica europea e il tentativo, iniziato proprio sotto di lui, di prendere la direttiva della politica italiana, si conclusero però con la sconfitta culminata nel sacco di Roma del 1527. In seguito il bisogno di pace e di accordo con la Santa Sede da parte di Carlo V e la prontezza di Clemente VII a concedergli, con l’incoronazione a re d’Italia e imperatore romano (Bologna, febbr. 1530), il riconoscimento della supremazia spagnola nella penisola in cambio della restaurazione dei Medici a Firenze, permise allo S. della C. di uscire dalla guerra pressoché indenne (Parma e Piacenza restarono alla Chiesa fin quando Paolo III Farnese ne fece un ducato indipendente per Pier Luigi Farnese; Venezia restituì Ravenna e Cervia, mentre Modena e Reggio pervennero agli Estensi). Da quel momento lo S. della C. entrò nel novero dei piccoli Stati italiani viventi all’ombra del predominio spagnolo. Vani furono i tentativi antispagnoli di Clemente VII e di Paolo III, poi di Paolo IV Carafa: nella seconda metà del sec. 16° e durante il 17° la politica della Santa Sede fu legata alle vicende della restaurazione cattolica in Europa e del tutto distaccata dagli interessi particolari del Patrimonio di S. Pietro. I legati di Alessandro VII rimasero esclusi dai trattati di Vestfalia (➔ Vestfalia, Paci di) del 1648, data la presenza di clausole favorevoli a calvinisti e luterani. Nello S. della C. trovarono applicazione, naturalmente, le direttive più rigide dell’azione controriformista. Delle antiche aspirazioni territoriali rimase solo la tendenza a richiamare a ogni occasione sotto la diretta sovranità pontificia i territori giuridicamente spettanti al Patrimonio di S. Pietro (Ferrara nel 1598 allo spegnersi della linea legittima degli Estensi; Urbino nel 1631, all’estinzione dei Della Rovere; il ducato di Castro nel 1649). All’interno invece l’energica politica di Giulio II, accentratrice e limitatrice delle autonomie e dei privilegi dei feudatari e delle città, fu ripresa, dopo Paolo III, da Sisto V (1585-90), che represse spietatamente l’anarchia brigantesca dei nobili e riorganizzò l’amministrazione (con le quindici commissioni cardinalizie o sacre congregazioni per gli affari spirituali e temporali, del 1588), e da Clemente VIII, che istituì la Congregazione del buon governo (1592) per la sorveglianza e il controllo sulle materie patrimoniali dei comuni immediatamente soggetti, la cui competenza fu poi estesa da Innocenzo XI, nel 1704, alle comunità baronali. Al «grande nepotismo» si era venuto sostituendo però il «piccolo nepotismo», su base non più politica e territoriale ma fondiaria e finanziaria; da esso sorsero le nuove famiglie dell’aristocrazia romana (Borghese, Barberini, Pamphili, Chigi, Rospigliosi, Altieri, Odescalchi, Ottobuoni, Pignatelli): solo Innocenzo XI pose fine a questo indirizzo, che aveva esaurito l’erario. Durante il sec. 18° lo S. della C. fu oggetto di ripetuti atti ostili da parte di altri Stati, allo scopo di ottenere dai pontefici concessioni alle riforme dell’imperante giurisdizionalismo, mentre il cardinale G. Alberoni portò a termine l’opera di unificazione amministrativa delle province: riorganizzazione in senso assolutistico, che, se condusse al definitivo trionfo della sovranità pontificia sugli ultimi avanzi delle vecchie autonomie, non rafforzò in modo significativo lo Stato, il quale mostrò la sua strutturale incapacità di resistenza al primo urto con la Francia rivoluzionaria. Col Trattato di Tolentino (1797) si ebbero le prime mutilazioni dello S. della C. col consenso del pontefice (cessione delle Legazioni, rinuncia ad Avignone e al Contado Venassino). Il 15 febbr. 1798 una sollevazione popolare dichiarò la fine del potere temporale dei pontefici e proclamò la Repubblica romana, estesa poi alle Marche e all’Umbria. Seguirono la restaurazione del sett. 1799, poi la Pace di Lunéville (18 febbr. 1801), che riconfermava la sovranità pontificia sul Patrimonio, meno le Legazioni: infine l’annessione delle Marche al regno Italico nel 1808. Il 17 maggio 1809 Napoleone abolì del tutto lo S. della C. senza suscitare straordinarie reazioni da parte degli Stati cattolici europei. La Restaurazione riportò anche i pontefici sul trono dello S. della C., mutilato del Contado Venassino, di Avignone e del Ferrarese (alla sinistra del Po); mentre l’Austria si riservò il diritto di tenere proprie guarnigioni a Ferrara e Comacchio. Il governo così restaurato si mostrò del tutto impotente dal punto di vista militare e seguì un indirizzo rigidamente reazionario da quello politico, perfettamente allineato ai dettami del sistema metternichiano, che finì con l’alienargli l’animo degli elementi anche più moderati della popolazione, come si vide nel moto del 1831. Deluse le aspettative di rinnovamento suscitate dai primi provvedimenti di Pio IX (1846-48), lo S. della C. si chiuse di nuovo in una politica rigidamente conservatrice, che, dopo il crollo della Repubblica romana (1849), accentuò i suoi aspetti autoritari. A fronte della progressiva crescita del movimento nazionale in tutta la Penisola e alla sfida unitaria che il Piemonte cavouriano lanciava agli antichi Stati italiani lo Stato pontificio non seppe elaborare alcuna strategia di rinnovamento, né sul terreno spirituale, né su quello strettamente politico-diplomatico. Le sue sorti apparivano legate sempre più esclusivamente alla capacità di controllo dell’ordine internazionale da parte dell’Austria e alla solidarietà delle forze conservatrici e cattoliche francesi. E quando queste vennero meno l’antico S. della C. fu travolto, sia pure ultimo tra quelli preunitari. Nel biennio 1859-60 perse dapprima le Legazioni in seguito a sollevazione popolare e plebiscito a favore di Vittorio Emanuele II, poi le Marche e l’Umbria in seguito all’invasione dell’esercito sabaudo guidato dallo stesso Vittorio Emanuele II diretto nel Mezzogiorno attraverso l’Abruzzo a incontrare Garibaldi per assumere il controllo dell’ex Stato borbonico e impedirgli di marciare su Roma. I plebisciti del novembre 1860 sancirono la volontà popolare anche dell’Umbria e delle Marche di annessione al Piemonte. Lo S. della C. vide pertanto il suo territorio ridotto al solo Lazio, difeso dalla guarnigione francese e dall’assoluta intransigenza di Napoleone III. Furono infatti le truppe francesi a respingere nel 1867 a Mentana il tentativo di marcia su Roma delle truppe garibaldine; ma quando nel 1870 il regime bonapartista fu travolto dalle armate prussiane, nessuno Stato europeo intervenne a impedire l’attacco delle truppe italiane a Porta Pia il 20 settembre 1870, né l’esercito pontificio ebbe la forza di resistere. Con l’annessione di Roma al regno d’Italia lo S. della C. cessò di fatto di esistere. Il governo italiano, in base alla legge delle guarentigie riconobbe al papa, oltre a un assegno annuo di 3,5 milioni di lire (ovviamente rifiutato), l’uso dei sacri palazzi e prerogative sovrane che gli permettevano di accogliere rappresentanze diplomatiche straniere; ciò però avveniva a garanzia delle funzioni spirituali della Chiesa, in linea col principio cavouriano di libera Chiesa in libero Stato, non certo per una qualche disponibilità ad arretrare sul fatto compiuto della soppressione del potere temporale e dell’annessione di tutti i territori dell’ex S. della C. al regno d’Italia. Il massimo che lo Stato italiano fu disposto a concedere su questo terreno fu la Costituzione nel 1929 dello Stato della Città del Vaticano, con la stipula dei , che tuttavia non significava in alcun modo la restaurazione dell’antico S. della C. e del potere temporale del pontefice.