stati e paesi, nomi di [prontuario]
Agli inizi del XXI secolo sono 873 le entità statali riconosciute dalla comunità internazionale, a cui ne vanno aggiunte altre il cui status, però, non è ancora ratificato: come è facile immaginare, un numero così vasto profila un campo talmente variegato da porre difficoltà e dubbi anche sotto il profilo linguistico. Infatti, l’abbondanza di stati e la varietà delle loro denominazioni rimettono in movimento un settore onomastico tutto sommato stabilizzato da prassi a volte secolari.
Dall’URSS si sono avute entità nazionali distinte come la Moldavia (ma anche Moldova, specie con riferimento alla nazionale di calcio), la Lituania e la Lettonia; termini già noti al lessico italiano, come testimoniano le grafie adattate (le prime attestazioni risalgono al 1800): accanto a questi, però, sono comparsi anche il Tagikistan, l’Uzbekistan, l’Azerbaigian e altri ancora. Questi nomi, nuovi alla coscienza dei più, sono entrati nel lessico, provenendo peraltro da un alfabeto diverso, il cirillico, il che ha comportato complesse traslitterazioni e adattamenti minori, spesso con pesanti oscillazioni di grafia nella trasposizione in caratteri latini. Il gruppo [ki], per es., può essere traslitterato come ‹ki› e come ‹chi›, e non mancano attestazioni in cui compaiono, con diversa gradazione, usi molto distanti dalla prassi italiana, come nella grafia alternativa Azerbaijan, o ad essa del tutto estranee, com’è nel caso di Kyrgyzstan. Inoltre, diverse grafie ci pervengono dalle trascrizioni inglesi (Rwanda) o francesi (Rouanda), il che contribuisce a incrementare l’incertezza.
Diverso e paradossale invece il caso della ex-Iugoslavia, perché qui a mostrare oscillazione in italiano è piuttosto il nome-contenitore (coniato a suo tempo ad hoc, col significato di «Slavia del sud») attestato anche come Jugoslavia e Yugoslavia.
Le realtà che hanno fatto seguito allo scioglimento della Repubblica jugoslava presentano, invece, un tasso di ‘italianità’ oscillante nella grafia: alto nel caso di rinomanza e contiguità con vicende storico-economiche d’interesse anche italiano: Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia e Montenegro; modesto nel caso contrario: Herzegovina (annessa alla Bosnia anche nel nome: Bosnia-Herzegovina; ma c’è anche Erzegovina) e Ko(s)sovo, preferito nell’uso alla pur attestata grafia con ‹c›. Dubbi anche sulla pronuncia: Kòssovo o Kossòvo (l’una serba, l’altra albanese), Erzegovìna o Erzegòvina? Nel caso del primo dei due stati nati dalla separazione della Cecoslovacchia, poi, non ha attecchito da noi il nome Cechia, che in quel paese è di uso popolare e che deriva dall’ugualmente popolare (e leggermente spregiativo) Tchekei tedesco.
Va notato come risiedano nel lessico ➔ suffissi che, a pari tasso di esoticità, risultano familiari in virtù di una più lunga consuetudine: -stan è attestato, con Pakistan (più raro Pachistan), già prima della sua costituzione in Stato indipendente (1947), e lo stesso vale per Afghanistan (si noti, nella grafia corrente, la presenza di h in posizione non necessaria sotto il profilo ortografico e, peraltro, assente nell’aggettivo: afgano).
Ancora, nomi di paesi possono presentare, senza che questo comporti scossoni, nessi consonantici ignoti alla tradizione italiana (Vietnam) o, anche, suoni in posizioni sconosciute alla sua prassi: in Bangladesh sopperisce, di nuovo senza particolari patemi, il digramma ‹sh› che, pur estraneo alla nostra tradizione, è stato importato allo scopo (anche nell’interiezione shh!) dall’inglese, dove assolve al compito di rendere quel suono sia in interno (shop) che in fine di parola (Bush).
Dei nomi di paesi è interessante considerare anche la derivazione: come, cioè, si designino «gli abitanti di» e le «cose attinenti a» non solo quando la distanza dalla ‘base’ sia netta: Germania, ma tedesco (esiste però anche germanico, perlopiù a valenza «tedesco antico»); anche, quando non si riescano ad applicare i canonici -e(n)se (cinese, statunitense), -ano (indiano), -ita (vietnamita), ecc. Un caso particolare è quello degli abitanti del Kenya: chiamati tradizionalmente kenioti, sono ora spesso indicati come keniani.
Come si chiama un abitante della Bosnia? Intuitivamente, bosniaco; e uno della Lettonia? Già qui le abituali, macchinali analogie vacillano: si dice lèttone (sdrucciola e con e aperta). Con Tagikistan si esita finché non soccorre tagico (anche possibile con la k); per il Bangladesh non è utilizzabile bengalese, che però attiene al Bengala in senso storico. Rilevanti anche i casi del Myanmar (ex Birmania), per il quale si continua a usare birmano, mentre tailandese ha soppiantato siamese (che però resiste in ambiti ristretti: gatti siamesi, gemelli siamesi).
Esistono lacune e ritardi nell’immissione nei repertori lessicografici (anche in quelli, come il GRADIT, Grande Dizionario Italiano dell’uso, più estesi e più attenti al mutare linguistico e socio-politico) di termini riferiti a realtà ‘nuove’ o più marcatamente ‘esotiche’ (lì nessuno dei nomi di paesi fin qui citati appare come voce, ma sono a lemma Cina, Canada, Francia e molti altri paesi ‘tradizionali’): per es., Bangladesh, non essendo registrato e mancando quindi l’indicazione del derivato, bangladese, si trova in Internet e appare a lemma in più dizionari (e nel Deonomasticon Italicum di Wolfgang Schweickard, proprio sotto la voce Bangla Desh).
Un’ultima considerazione sul genere, maschile o femminile, del nome dei paesi. Non è prevedibile dalla forma, tuttavia si registra negli ultimi tempi una progressiva presenza del maschile: il Costa Rica, per es., ha oramai scalzato nell’uso il corretto la Costa Rica.