MOCENNI, Stanislao
– Nacque a Siena da Alessandro e da Caterina Landi il 21 marzo 1837.
La sua famiglia era una delle più agiate a Siena e poteva vantare legami con la capitale granducale, Firenze, che l’avrebbe di lì a poco (1839) nobilitata, anche se le sue risorse non erano ormai così cospicue. Fu anche per questo che il giovane M. frequentò il liceo militare di Firenze, da cui uscì «licenziato in matematiche applicate» nel settembre 1857 e sottotenente nel I battaglione di fanteria del piccolo esercito granducale. La sua carriera militare – basata quindi sin dall’inizio non su venalità di cariche ma su studi e competenze – proseguì poi, come di norma, con la nomina prima ad aiutante maggiore (aprile 1858) e poi a luogotenente (maggio 1859). Elemento di distinzione, forse per i risultati negli studi, forse per la ridotta attrattiva di una vita di disagi legati al campo, fu la sua assegnazione al corpo di stato maggiore.
Gli stati maggiori degli eserciti italiani preunitari non erano una fucina di ufficiali professionisti accostabili allo stato maggiore prussiano, e poi tedesco, di K. von Klausewitz o H. von Moltke. Né il piccolo esercito granducale era una forza militare temibile. Ma rispetto ai suoi coetanei toscani il M. dovette distinguersi per studi e professionalità. A ciò si aggiunga che, dentro l’esercito granducale, si alimentavano le aspirazioni liberali e talora addirittura democratiche, in genere risorgimentali e unitarie.
Mentre il M. compiva i primi passi della carriera militare l’Italia si faceva unita. In tale processo non tanto la «rivoluzione militare» dell’aprile 1859 quanto il peso politico e finanziario della sua classe dirigente, l’aristocratica consorteria politica e finanziaria dei moderati, garantì alla Toscana e ai toscani un posto da comprimari di rilievo nel processo di unificazione. Ciò fu assai evidente a livello militare, dove alle sole divisioni dell’esercito toscano rispetto a quelle dei tanti eserciti preunitari fu riconosciuto di entrare a ranghi compatti – senza subire, almeno all’inizio, l’umiliazione dell’amalgama e della piemontesizzazione – nel nuovo esercito nazionale.
Trovatosi in mezzo a questa trasformazione generale, il M. fu prima riconfermato luogotenente nell’esercito sardo (marzo 1860) e usufruì poi di una promozione a capitano (22 maggio 1860). Un fatto importante è che il M. continuò nelle sue funzioni entrando, il 1° luglio 1860, nel più prestigioso stato maggiore dell’esercito sardo, e poi italiano, di A. Lamarmora. Il M., «licenziato» liceale e cultore di matematiche, era in grado di cogliere le criticità di questi uffici, dove ufficiali piemontesi non parlavano l’italiano e non si istruivano professionalmente, ma ne faceva comunque parte. Assolse in questo periodo a vari compiti, di fiducia e di prestigio, anche se riservati, fra Napoli, centro militare della lotta al brigantaggio, e Torino, allora capitale del Regno.
L’ufficiale toscano, ora italiano, combatté la sua prima guerra contro altri Italiani. Nella segreteria di Lamarmora, in quegli anni impiegato nella lotta al brigantaggio, il M. operò infatti a Napoli. La sua fu una guerra più «di penna» che «di spada», impegnato per esempio nella mediazione fra il suo comandante, appunto Lamarmora, per il quale scrisse anche un’importante relazione, e la Commissione d’inchiesta chiamata a indagare sull’operato dell’esercito nel Mezzogiorno.
Da Napoli fu poi chiamato a Torino, al comando del corpo di stato maggiore, per collaborare alla predisposizione di piani segreti per una missione in Tunisia che avrebbe dovuto permettere al nuovo Stato italiano di aiutare la Francia di Napoleone III in momentanee difficoltà nel beycato. Ma la missione fu poi annullata. Il M. venne presto nominato ufficiale d’ordinanza onorario di Sua Maestà (5 luglio 1863), fatto che confermava la capacità della sua famiglia di entrare nei circoli più influenti.
Si stava avvicinando lo scontro con l’Austria. Fra il 1865 e il 1866 il M., come scrisse nelle sue memorie inedite – oggi conservate presso la famiglia – svolse mansioni di ufficiale addetto ai servizi informativi. Intanto, ormai quasi trentenne, fu promosso maggiore nel corso della guerra del 1866 (28 luglio). Il conflitto, che pure fruttò il Veneto, gettò qualche ombra sull’istituzione militare nazionale; non arrestò però la carriera del giovane M., che anzi nel contempo aveva consolidato il suo profilo di militare competente, studioso, affidabile. Peraltro un ufficiale di stato maggiore, al tempo, non doveva essere necessariamente un combattente; e così fu per il M., che non a caso, alla fine del conflitto, entrò nella segreteria del ministro della Guerra E. Cugia.
Ebbe modo allora di ampliare ulteriormente le sue conoscenze e di assistere alle importanti riunioni delle Commissioni segrete di alti ufficiali che, revisionando tutta la struttura lamarmoriana dell’esercito italiano, ne denunziarono i difetti resi evidenti dalla campagna del 1866. Sempre nelle sue memorie avrebbe scritto poi di aver avuto l’incarico di centralizzare tutti i rapporti sulla campagna appena conclusa (materiale che poi sarebbe servito ad altri per scrivere la storia ufficiale della partecipazione italiana alla guerra) e di aver quindi maturato la consapevolezza delle manchevolezze e dei problemi della struttura militare italiana, ancora troppo modellata sull’esercito francese «di qualità» e non su quello prussiano – uscito vincitore dalla campagna del 1866 – «di quantità».
Dopo la guerra, fondata a Torino la prima scuola di guerra dell’esercito italiano, il M. vi passò a insegnare servizio di stato maggiore. Era un riconoscimento, e poteva porre il trentenne toscano all’attenzione di tutti gli ufficiali che transitavano dalla scuola. Quella sua funzione docente, esercitata per un biennio, ribadì il suo profilo di «organizzatore», più che di «combattente». Venne poi il tempo del comando di reparto svolto come capo di stato maggiore di due divisioni militari territoriali, prima di Piacenza e poi di Bologna, fra il 1869 e il 1871. Il 13 nov. 1871 ritornò infine formalmente al comando superiore del corpo di stato maggiore, in realtà inviato in Germania come addetto militare: posizione che il M. occupò per più di due anni, dal 1° dic. 1871 al 31 dic. 1873.
Al suo ritorno in patria fu promosso tenente colonnello (7 ag. 1874) e inviato al comando del neoistituito Collegio militare di Firenze. Nel novembre dello stesso anno, in elezioni politicamente importanti, il partito monarchico senese si trovava senza candidato e propose all’ufficiale, ormai distintosi a livello nazionale e con alle spalle persino incarichi internazionali, di rappresentarlo: il M. risultò eletto, trentasettenne. Era ormai militare e deputato.
Gli incarichi ricoperti dal M., pur prestigiosi, non garantivano una carriera più veloce della media. D’altro canto egli non sembrava aspirare a particolari ruoli di comando. La sua destinazione, al rientro da Berlino, sembrava tradire la volontà di tornarsene a casa, o quanto meno vicino a essa. Peraltro la sua vocazione era di uomo di studio, più che d’azione. Gli incarichi nelle segreterie ministeriali, negli istituti d’istruzione militare, come attaché all’estero, lo confermano. Era stato certo in contatto con quel gruppo di ufficiali riformatori, che poi si riconobbero nella figura del ministro della Guerra C. Ricotti Magnani e nella sua politica, attuata dai governi della Destra storica dopo il 1870, di passaggio dal piccolo esercito «francese» lamarmoriano a un grande esercito basato sulla coscrizione obbligatoria e sul modello prussiano. Ma la sua stessa destinazione a Berlino lo aveva tenuto distante dalle congreghe, e nelle sue memorie lesse proprio alla luce di quel suo essere pur sempre un toscano, e non un piemontese, il suo allontanamento dalla scuola di guerra.
Ora, semmai, la politica parlamentare sembrava dargli una possibilità in più – quando e qualora lo avesse voluto – per mettersi in evidenza. Pur tornato nella natia Toscana, il M. continuava pur sempre a essere in circuiti notabiliari: onorifica, ma significativa, fu la sua nomina ad aiutante di campo onorario di Sua Maestà (3 genn. 1876).
La vita parlamentare di un militare deputato, più che un deputato militare, quale il M. lasciava poco spazio alla fantasia. Non comune fu la lunga durata, poiché egli riuscì a rimanere rappresentante del collegio di Siena per non poche legislature, dalla XII alla XX, ossia dal 1874 al 1900. Ma questo non comportò una presenza in aula particolarmente vivace: come per molti altri suoi colleghi militari deputati, gli Atti parlamentari non riportano numerosi interventi, e quelli registrati riguardavano spesso temi tecnici militari, omettendo pubbliche prese di posizione nelle grandi diatribe parlamentari su questioni strategico-militari del tempo (ad esempio fra il riformatore Ricotti e il più cauto L.G. Pelloux). Alcuni interventi rimangono agli atti – ma meno numerosi – su questioni di interesse rigorosamente locali, senesi.
L’orientamento politico dei suoi discorsi e delle sue votazioni fu costantemente ministeriale, conservatore, qualche volta anche più di quanto lo fosse la media della deputazione toscana: nel marzo 1876, quando i toscani votarono la sfiducia a M. Minghetti, portando la sinistra di A. Depretis al governo, il M. votò a destra. Fu poi vicino a F. Crispi; un conservatore come S. Sonnino – non solo per consonanze regionalistiche toscane – lo invitava alle riunioni dei suoi «amici»; negli ultimi anni della sua vita fu antigiolittiano.
Anche in Parlamento il M. mantenne quindi il profilo del «tecnico», dell’uomo delle istituzioni e della burocrazia. Egli non teneva a mettersi particolarmente in evidenza: sapeva di non essere un militare intellettuale come N. Marselli, né un comandane di truppe come A. Baldissera o S. Pianell, né ancora un soldato «politico» come Ricotti Magnani, Pelloux o O. Baratieri. Eppure, da un altro punto di vista, nel pieno dei suoi circa cinquant’anni, la posizione da lui raggiunta testimoniava che quello che era stato il giovane ufficiale toscano si era ormai pienamente integrato nel cuore dell’amministrazione militare e, quindi, dello Stato nazionale.
Non a caso la sua carriera militare procedeva senza scosse, mentre si susseguivano gli incarichi presso l’amministrazione centrale: era un militare di uffici più che di piazze d’armi. Da colonnello svolse il periodo di comando a Roma, presso il 31° reggimento fanteria, per tornare poi allo stato maggiore (adesso, con E. Cosenz, rinnovato e potenziato) a dirigere l’ufficio coloniale, un ufficio che allora si occupava d’Africa e di colonie di altre potenze poiché l’Italia, a parte il minuscolo possedimento di Assab, non ne disponeva. Si spostò d’ufficio, ma non di città, divenendo capo di stato maggiore del corpo d’armata della capitale, per diventare poi comandante della prestigiosa brigata «Aosta». Uomo d’apparato, non si era mai spostato da Roma. Nominato maggior generale il 22 ott. 1884, continuò in quel comando e, promosso tenente generale (27 marzo 1890), si allontanò di poco per comandare la divisione militare di Perugia, per tornare presto nella capitale, al comando della divisione militare di Roma (11 dic. 1892). Forse nessuno di questi incarichi, da lui tenuti negli anni Ottanta, era di particolare rilievo militare, ma tutti insieme confermavano come un ufficiale apprezzato e ora deputato potesse, se capace di stare dentro le reti di relazione che contavano, condizionare a proprio vantaggio le destinazioni di servizio.
Tutto questo si riflesse nell’episodio che avrebbe sancito l’apogeo della carriera del M. e al tempo stesso la sua fine. Infatti, nel pieno di un aspro scontro politico interno alla classe politica liberale – divisa fra le timide riforme del primo G. Giolitti, le strette economie di A. Starabba di Rudinì e il programma baldanzosamente espansionista e imperialista di Crispi – e nel fuoco di una conseguente accesa divaricazione interna fra i militari – fra chi come Ricotti riteneva insostenibile l’ampio ordinamento allora esistente su dodici corpi d’armata e chi invece come Pelloux lo difendeva – il presidente del Consiglio designato da Umberto I, Crispi, propose al deputato militare toscano di assumere l’incarico di ministro della Guerra. Prendendo spunto dei tentativi conciliatoristi crispini, qualcuno malignò che nel pensare al M. il capo del governo avesse tenuto conto anche della parentela con il fratello cardinale Mario Mocenni (1823-1904), da quasi un decennio nella segreteria di Stato vaticana. Il 15 dic. 1893 il M., con una scelta di cui poi ebbe a rammaricarsi, sia pubblicamente sia nel segreto delle sue memorie inedite, accettò.
I problemi fondamentali che il M. dovette affrontare come ministro della Guerra furono di bilancio, di uso dell’esercito in funzione di ordine pubblico, di espansione coloniale. Si trattava di problemi pesanti. Sui temi di bilancio fu accusato ora della demolizione delle finanze pubbliche, ora di rovinare l’esercito per le troppe economie. Il suo progetto di bilancio militare subì uno dei più prolungati attacchi in sede di discussione parlamentare. Ma le cause erano da ricondurre non al M., ma all’entità dei problemi che il bilancio dello Stato si trovava ad affrontare per via di un organico militare troppo ampio.
Per l’ordine pubblico, la situazione in Sicilia e in Lunigiana per l’agitazione dei Fasci portò di nuovo l’esercito nelle piazze e nelle strade, e alla nomina di commissari con pieni poteri. Ma anche qui si trattava di una scelta politica di Crispi e del suo governo, piuttosto che una scelta del solo Mocenni. Piuttosto, a indebolire la posizione personale del M. fu la sua idea di voler ridurre le spese militari senza intaccare l’organico dell’esercito, realizzando una riforma della leva e dei distretti. L’idea, ineccepibile dal punto di vista burocratico, avvicinava un reclutamento di tipo territoriale: cosa che era massimamente temuta dalla Corte, da buona parte della Destra e in fondo dallo stesso esercito. Crispi e il re presero le distanze.
Ma fu il fronte coloniale a essere fatale per tutti. L’espansione italiana in Eritrea aveva fragili basi, la strategia diplomatica e quella militare confliggevano, il governatore locale O. Baratieri sistematicamente ingannava se stesso e il governo, peraltro scavalcando i responsabili politici degli Esteri e della Guerra per fidarsi dei suoi rapporti personali con Crispi. Il M. finì presto schiavo di questo viluppo, che non ruppe e di cui divenne di fatto corresponsabile.
Baratieri aveva invaso il vicinante Tigré, pensando a tutta l’Etiopia. Si illuse, e illuse Crispi, di poter risolvere il problema etiopico battendo arditamente in campo aperto l’esercito del Negus. Si trovò invece ad Adua di fronte a forze incomparabilmente superiori a quanto aveva pensato: il corpo di operazione italiano fu diviso, battuto, annientato. Fu la più grave disfatta europea dell’età dell’imperialismo. Nessun governo europeo, e tanto meno quello di Crispi (e del M.) che sull’espansione coloniale tanto aveva puntato, avrebbe potuto reggere.
Adua travolse Crispi e tutto il suo governo: non poteva non trascinare con sé anche il Mocenni. Forse, per impedire Adua, sarebbe stata necessaria una tempra e una autonomia di giudizio che un funzionario come il M. non aveva. D’altronde, non sbagliando dal proprio punto di vista, Crispi lo aveva scelto proprio perché il M. garantiva essere un subordinato e fedele organizzatore, un uomo della burocrazia e degli uffici. Il governo cadde, e il M. si dimise il 9 marzo 1896.
In risposta a un’accusa di «mentitore» ricevuta in Parlamento da S. Barzilai, il M. affrontò il suo accusatore a duello il 23 marzo 1896: ne uscirono ambedue feriti, per quanto il M. superficialmente. Con carattere punitivo, il generale fu posto prima a disposizione (15 marzo 1896, a decorrere dal 10 marzo) e poi in disponibilità (26 ag. 1896). A quel punto la sua carriera militare era troncata, anche se localmente egli ottenne di essere rieletto al Parlamento il 21 marzo 1897, senza che nessuno ne proponesse la nomina a senatore. Il 9 ag. 1898 fu quindi posto in posizione di servizio ausiliario e il 1° nov. 1901 passò a riposo definitivo: all’ufficiale burocrate fu comminata, per ragioni politiche, una fine burocratica.
Trascorse gli ultimi anni a Siena, dove morì il 21 marzo 1907.
Fonti e Bibl.: Siena, Archivio Mocenni, Memorie (manoscritto); A. Moscati, I ministri del Regno d’Italia, VI, 1889-1896, Roma 1976, pp. 410-414; Storia del Parlamento italiano, X, Dalla guerra d’Africa all’accordo di Racconigi, a cura di F. Brancato, Palermo 1973, ad ind.; Il Parlamento italiano 1861-1988, a cura di P. Buccomino, VI, 1888-1901, Crispi e la crisi di fine secolo. Da Crispi a Zanardelli, Milano 1989, pp. 13, 16 s.; N. Labanca, Autobiografie e burocrazie. Le memorie inedite di S. M. e gli ufficiali dell'Italia liberale, in Ricerche storiche, XXI (1991), n. 3, pp. 837-869; Id., In marcia verso Adua, Torino 1993, ad indicem.