BONAMICI, Stanislao Antonio Domenico
Nato a Livorno nel 1815 da Carlo e da Carlotta Olivero, ruppe ben presto i rapporti con la famiglia, la quale alimentò, o permise che sorgesse, e variamente si divulgasse, la "leggenda" d'un B. reprobo e avventuriero, non senza che ne venissero irreparabili danni a un'esatta e obiettiva ricostruzione storico-cronologica della sua stessa attività pratica, intorno alla quale si stese un alone come di romanzo, di deteriore romanticismo e "rosso" e "nero". Questo ha contribuito altresì a esagerare o a sminuire (nell'un caso e nell'altro, al di là del legittimo) il luogo del B. nella storia del Risorgimento italiano. Il B. sì fece cappuccino nel 1831, "malgrado (si disse) la opposizione del padre", dopo aver goduto il consiglio e la protezione del Guerrazzi nella prima fase dei suoi studi. Pronunciò quindi i voti di minore conventuale nel 1839 e si segnalò, da allora, in varie località e chiese della Toscana per la sua eloquenza di predicatore (nonché per la sua prestanza e avvenenza fisica).
Delle sue doti di parlatore, e di conquistatore, se non d'anime, certo di uomini e donne, non è a dubitare, come non è a dubitare che appunto quest'abilità "oratoria" sia alla radice degli eventuali suoi successi nel trattare con i propri autori (quando divenne editore) e nel convincerli a stampare presso di lui. È invece, assai dubbio che in questi anni venisse formandosi una cultura adeguata. Parve gran cosa la presunta sua conoscenza di lingue straniere, ma i documenti superstiti del suo francese rigurgitano d'italianismi e di stupefacenti errori ortografici; né il suo italiano va oltre certa nativa facilità o spontaneità toscana. Nessuna prova, d'altronde, d'un suo amore per i classici greci e latini, sebbene nelle scuole ecclesiastiche avesse di certo appreso abbastanza bene il latinuccio corrente, fino a lasciarne inedite (o perdute) vestigia "poetiche". È singolarissimo, anzi, che né di classici né di cose classiche si sia occupato mai da editore, nonostante i fondamenti sostanzialmente classici della sua, e della coeva cultura tosco-neoguelfa (solo esternamente verniciata di ghibellinismo nel Guerrazzi, nel Niccolini e nel Vannucci). E la sua presunta conoscenza del russo non è che un "mito", anzi la conseguenza d'un altro "mito e quello d'un suo eventuale soggiorno e servizio, come lettore dantesco, presso l'imperatrice di Russia, mentre svernava a Nizza. Ora, e lo dimostra la cronologia delle peregrinazioni del B., tutto questo è fola, conseguente al gran "fattaccio" della sua vita.
Nel dicembre 1841 il B. scomparve dal convento di S. Croce in Firenze e la notizia della fuga fu subito divulgata per la sua mancata apparizione sul pulpito del duomo di Prato e per il risentimento, lo stupore e le preoccupazioni del "suo fedele uditorio". Il B., infatti, forse per seguire oltralpe una straniera, un'inglese, protestante e per di più coniugata, con la promessa, o col pretesto, di sposarla, e magari con l'impegno di passar egli stesso dal cattolicesimo all'anglicanismo, abbandonò segretamente la patria e la vita monastica, riparò a Parigi, donde, poco dopo, munito di passaporto francese, rilasciatogli (pare) dall'autorità del Guizot, entrò in Svizzera, domiciliandosi a Losanna. E qui le autorità cantonali vodesi non si opposero a che vi risiedesse "comme pensionaire", tanto più che il B. asserì di voler frequentare i corsi della facoltà teologica, per farsi pastore protestante.
Se questa è la posizione giuridica e lo stato personale del B. già poco avanti l'ottobre del 1842, come si deduce da un documento negli archivi del Consiglio di stato a Losanna, manca, a tacer d'altro, il tempo materiale perché possa aver un briciolo di fondamento la leggenda tosco-domestica delle "avventure" dell'"apostata". Il quale, parecchio dopo la fuga da Firenze., avrebbe fatto pervenire alla famiglia la notizia d'essere (e senza la donna inglese con cui, o per cui, aveva disertato il chiostro) in California, donde, dopo altro non breve intervallo, sarebbe rientrato in Europa, prima per farsi lettore italiano dell'imperatrice di Russia, quindi per farsi insegnante all'università di Ginevra, non senza esercitar nel frattempo, o successivamente, ministerio pastorale nella metropoli calvinista. Distrutto il "mito", resta il non chiaro motivo se non della fuga, che può ben riassumersi in un'avventura più o meno galante, almeno, e soprattutto, del diuturno esilio del B., il quale non era in alcun modo indiziato presso le varie polizie come novatore o patriota o individuo sospetto e politicamente "impegnato"; né è noto il motivo dell'intrapresa attività sua di tipografo-editore vodese, ai margini della cultura e della politica risorgimentali, ma non senza larghe aperture "europeistiche" e non dubbie propensioni "neoguelfe" (o genericamente "moderate"). Probabilmente non vi fu, in tutto questo, una "crisi". Il B. ci vide soltanto, o quasi soltanto, un'occupazione e un affare: in quanto, nell'atmosfera italo-svizzera del tempo e nel gusto del pubblico, al quale è assai probabile ch'egli fosse, da frate predicatore, attento e sensibile, comprese, giustamente, ch'era questa la sua vita.
Nell'ottobre del 1842 il pastore Scholl chiedeva al Consiglio di stato licenza di celebrare il matrimonio del B. con la signorina Emma L. C. Adèle Bégos, figlia di un tenente colonnello del cantone, pur trovandosi il B. nell'impossibilità di ottenere sia dalla famiglia sia dalle autorità toscane la regolare documentazione del suo stato libero: licenza che, in parziale deroga alle disposizioni vigenti, fu accordata il 4 novembre successivo, previo l'impegno al versamento d'un deposito cauzionale (certo inferiore ai 1600 franchi prescritti per legge) da parte del colonnello Bégos e di Louis Secretan-Grivel (o Kessel), ricco uomo d'affari, e assai probabilmente il primo dei finanziatori del Bonamici. Nel 1844, infatti, il B., di concerto con Georges Bridel, acquistava la tipografia losannese di Marc Ducloux e cominciava così la propria fortunosa opera di tipografo-editore, tipografo (benché il macchinario fosse antiquato ed insufficiente all'onere, o all'efficienza, dell'azienda) del vario e molteplice materiale edito dal Bridel prevalentemente in lingua francese, ed editore del nuovo materiale "italiano", che immise in tal modo il B. nell'alveo e nella storia politico-culturale del nostro Risorgimento.
Il B. operò, quindi, innanzi su due fronti, il fronte "elvetico" e l'"italiano", convogliando al potenziamento di quest'ultimo i vantaggi che gli derivarono dalla sua posizione di ex-prete ed esule, su cui riversavano le proprie simpatie e i propri consensi tutti gli elementi progressivi del cantone di Vaud, mentre si combattevano le battaglie teologico-politiche dell'Eglise libre e le battaglie politico-militari del Sonderbund.
Il B. mise la propria tipografia e casa editrice a disposizione dei pastori dissidenti o dimissionari, e, in genere, della stampa "anticlericale", pubblicando, ad esempio (dal maggio 1845), di concerto col Muller Golliez di Morges, l'Anti-Jésuite, presto sostituito dalla Réformation du 19e siècle. Vi si affiancarono numerose pubblicazioni di edificazione protestante e di provenienza anglo-sassone (in versioni italiana elo francese), libri di testo originali o tradotti dal tedesco, libri di amena lettura a sfondo più o meno religioso o rugiadoso, ecc. Ma insieme il B. avvertì, forse per la sua stessa conoscenza diretta del clero e degli ambienti neoguelfi italiani, che si avvicinavano le ore decisive, le ore cruciali del movimento moderato e dell'ideologia giobertiana. E qui doveva egli, pertanto, ricercare. con fondate probabilità di successo, i propri autori: o che non potessero o che non volessero, questi, pubblicar le cose loro in Italia, o che fosse, comunque, più opportuno e in certo senso più pratico, di concerto con editori e librai italiani, procedere di conserva (col Pomba, ad esempio, per la traduzione della Storia degli Stati Uniti di G. Bancroft) o ricorrere, di comune accordo, al cosiddetto "contrabbando legale".
Il Gioberti, a difesa del proprio editore, scriveva nell'aprile del 1847 al censore civile del re di Sardegna, Domenico Promis: "Egli è falso che il B. abbia stampato o stampi opere incendiarie o sovvertitrici. Tutte le opere politiche uscite dai suoi torchi appartengono sostanzialmente alla opinione moderata, nemica delle rivoluzioni, amica delle Riforme" (Epistolario, VI, pp. 231 s.). Ed erano parole di esattissima verità, perché lo stesso eventuale anticlericalismo scoppiato intorno all'incompianto sepolcro di Gregorio XVI si riscattava, o si giustificava, agli occhi e del Gioberti e del B., dell'intera opinione moderata, con l'entusiasmo onde n.era acclamato il successore, nel mentre che, avanti e subito dopo l'avvento di Pio IX al soglio pontificio, la "S. Bonamici e Compagni, Tipografi - Editori" stampava l'editio princeps Della nazionalità italiana di Giacomo Durando, la prima edizione integrale del Sommario del Balbo, la versione francese degli Ultimi casi di Romagna dell'Azeglio e dell'opera poetica del Manzoni. Oltre al De Boni, l'unico, forse, degli autori del B. che propendesse verso sinistra era, di questi anni, l'Amari, il quale, anonimamente del resto, curava e integrava l'edizione del Saggio storico e politico di Niccolò Palmieri. Non mancava (e qui non senza un consapevole raccordo alla migliore e più simpatetica opinione pubblica europea) un'accentuazione antiborbonica (donde la pubblicazione degli scritti di Gabriele Rossetti e di P. S. Leopardi) e un'accorata partecipazione alla tragedia della Repubblica di Cracovia, quasi a internazionalizzare (oltre i propositi e i limiti del moderatismo) la presenza e la partecipazione, o l'insurrezione., italiana. Non mancavano propositi "protestantici" (donde, nel 1847, la "prima versione italiana" della Storia della riforma di F. H. Merle d'Aubigné) o progetti vagamente "sociali" o "socialistici" (donde l'interesse per i romanzi di Eugène Sue e l'invito del B. al Guerrazzi, nel 1845, a tradurre L'ebreo errante). Né mancavano, ed è tratto meritevole d'un approfondimento, ma conforme alla consapevolezza di tendenze o bisogni diffusi in varie classi e paesi d'Europa a mezzo il sec. XIX, interessi "americanistici", non tanto sul piano storico (donde, però, la già ricordata versione da George Bancroft) quanto sul piano "pratico" (donde, nel 1849, la pubblicazione d'un Guide de l'émigrant aux Etats-Unis de l'Amérique, lavorato su lettere scritte e informazioni fornite da cittadini ex vodesi., stabilitisi nell'Illinois e nel Tennessee). Nemmeno mancavano, tuttavia, strane misture, forse ideate a raccogliere suffragi e a vendere nei campi opposti, e a guadagnarsi venia per pubblicazioni "sovversive" o "eterodosse"; onde la versione degli Evangelii, tosto messa all'Indice per i commenti di cui ebbe a corredarla il La Mennais, singolarmente si affianca agli opuscoli dei padri Pellico e Curci contro l'antigesuitismo giobertiano. Le polizie italiane erano però all'erta contro il B. e fermavano o ritardavano o sequestravano "colli di transito" e "balle" di spedizione, con particolare severità il regno di Sardegna e il regno lombardo-veneto, attraverso i cui territori passava la merce destinata a lidi più liberali, non solo alla Toscana (delle ditte Leon di Servadio, Romani, ecc.), ma allo stesso Stato pontificio. Nel che obiettivamente è da riconoscere la ragion prima del successo storico-politico e dell'insuccesso economico-finanziario dell'intrapresa editoriale del Bonamici. Vi s'aggiunse, poco di poi, l'intesa con il Gioberti e la fortunosa pubblicazione del suo Gesuita moderno.Con deliberazione del 25 febbr. 1846 il Consiglio di stato rifiutava al B. "un passaporto per tre mesi per recarsi a Parigi", ma gli consentiva di usare, per il rientro in Svizzera, il passaporto francese di cui si era valso per raggiungere il territorio dell'ospitale confederazione. Il B. ne profittò per incontrarsi col Gioberti, il quale fin dal precedente dicembre pensava di scrivergli, d'intesa col suo procuratore P. D. Pinelli. Questi, anch'egli autore, quantunque anonimo, del B., funse da intermediario e l'accordo fu largamente concluso, con la promessa al Gioberti di 20.000 franchi di guadagno (assai più che non pensasse di poterne ricavare col Méline) e l'impegno del B. a stampare, e a divulgare più o meno clandestinamente in Italia (qualora non si ottenesse licenza, almeno dalla censura sabauda, d'importarli legalmente in Piemonte), quelli che poi divennero i cinque volumi del Gesuita moderno.
L'epistolario del Gioberti e dei suoi corrispondenti subalpini, massime il Pinelli, il Baracco e il conte Ilarione Petitti, permette d'illuminare quasi giorno per giorno la storia pressoché incredibile delle renitenze, resipiscenze, generosità e paure tanto della corte sarda quanto della corte pontificia, le esitazioni dei vari Promis e Castagnetto, i sondaggi a Roma del B., un cui rappresentante, l'inglese Henry Twight, fu arrestato per cospirazione a Macerata (e poi rilasciato per intervento dello stesso Gioberti presso più d'un cardinale di Curia): il tutto da Losanna, appunto, dove il Gioberti, ultimata a Parigi la redazione manoscritta dell'opera propria, si era recato nel novembre del 1846 e donde sorvegliò fino alla primavera-estate del 1847 l'infausta pubblicazione dell'opera. Ché l'impossibilità di smerciarla regolarmente e di assicurarsi un regolare gettito d'introiti; il doversi rimettere alla buona o mala fede di "contrabbandieri" e corrispondenti, cui erano troppo facili l'impunità e il timore di render conto d'una così pericolosa e problematica "partita" commerciale, misero a repentaglio la solidità e solvibilità del B.; donde i giudizi, ora benigni e soverchiamente ottimistici, ora soverchiamente ostili, del Gioberti su lui. E la crisi della casa editrice. Nel 1847 questa dava lavoro a settantatré operai. Neanche un anno dopo, il 12 marzo 1848, un impiegato superstite scriveva ch'erano rimasti in quattro, uno stabile e tre avventizi, per la pubblicazione occasionale o saltuaria di periodici.
Fin dal Natale del 1847 il B. aveva lasciato Losanna, con la moglie incinta e inferma, per un viaggio di ricognizione economica e politica in Italia (e nel frattempo gli moriva una delle figliole): fu a Genova, a Livorno, a Firenze, a Torino, acclamò in aprile il Mazzini a Milano - Quindi rientrò, per constatare il fallimento della propria azienda; non del tutto a torto, ma neanche del tutto a ragione, dichiarandosi "totalmente rovinato in grazia del suo troppo zelo per la patria".
Già nel '46 L. A. Melegari aveva segnalato al Mazzini la possibilità di acquistare (durante una delle crisi passeggere, poi risolte per l'intervento del Bridel, del Secretan, ecc.) la tipografia del Bonamici. Questa fu rilevata ufficialmente dagli operai, con la garanzia del governo cantonale e la copertura degli impianti valutati 25.000 franchi, al probabile scopo d'impedire o di prevenire così la cessione dell'azienda stessa agli esuli della Repubblica romana. La ragione sociale "Genton Luquiens & C.ie" ebbe inizio il 17 luglio 1849, e mantenne il B. come tecnico e impiegato, anche per fornirgli la possibilità di rimborsare a poco a poco i creditori. Al B. non mancarono, tuttavia, difficoltà e fastidi anche di natura "poliziesca"; per esempio, il 29 giugno 1850 fu diffidato a lasciar entro dieci giorni il cantone di Vaud, sebbene al provvedimento non si desse poi corso. La nuova gerenza permise l'affiancamento della società editrice "L'Unione" all'azienda tipografica, la quale consentì quindi al Mazzini la stampa in Losanna dell'Italia del popolo (e, in opuscoli italiani e francesi, degli articoli che v'inseriva a difendere contro la Repubblica francese e i suoi ministri il diritto e l'eroismo della Repubblica romana). Il Mazzini, che nei confronti del B. fu sempre piuttosto severo, pur inchinando a pietà per la moglie e per i suoi quattro figli (a questo lo invitavano i compagni rimasti a Losanna, in specie il cavalleresco e forse un poco innamorato Aurelio Saffi), lo mantenne in una posizione subordinata, sotto l'incauta vigilanza di G. B. Varé, e non senza sollecitazioni, ramanzine o proteste, massime dopo il ritorno a Londra, sperando in tal modo non tanto, o non solo, di salvar il B., ma, e soprattutto, di serbare in vita l'organizzazione pubblicistico - propagandistica che si era formata intorno all'antica tipografia e alla nuova società. "Non vi fu modo. Il B..., datosi al tristo, fuggì, abbandonando moglie e negozio, in Australia" (G. Mazzini, Note autobiografiche, a cura di M. Menghini, 2 ediz., Firenze 1944, p. 325). Il 25 giugno 1852 il B. scriveva, infatti, al Bridel, scusandosi di non essersi ancora sciolto del debito contratto con lui, perché altri creditori più urgenti premevano: "je pars pour Londres tácher de gagner mon pain". La verità della destinazione indicata dal Mazzini trova conferma in una lettera (22 genn. 1853) della moglie del B. al non ancora rimborsato Bridel, in cui l'infelicissima e innamoratissima donna confessava di non aver più nulla e ancor debiti da pagare "et un mari de l'autre cóté du globe", incapace di provvedere ai figlioli.
Da allora il "mito", e il mistero, del B risorgono, e non si è riusciti fin qui né a invalidare il primo né a dipanare il secondo. Quando tornasse in Europa e in Italia, non si sa. Certo dopo il 1859-60, allorché la moglie tentò inutilmente di farsi riconoscere dal governo ex toscano la validità legale del matrimonio o, in linea subordinata, il proprio diritto al divorzio. Quest'ultimo sembra le fosse infine permesso, come nel 1867 fu accordata la bourgeoisie vodese a lei e ai suoi figli, previa la destinazione a tal fine del deposito cauzionale versato dal padre nel 1842. Si fece gran chiasso, dai biografi del B. di tendenze opposte, perché, secondo gli uni, il B. rimpatriato rivestì il saio francescano a Colle di Val d'Elsa e morì in pace con la Chiesa di Roma, non senza godere in conseguenza d'una modesta pensione governativa; e perché, secondo gli altri, fu invece consumata una seconda apostasia, anzi il prete due volte spretato avrebbe contratto un secondo matrimonio, considerando legalmente nulla e non avvenuta l'unione con Emma Bégos, fortunatamente aiutata nella sua vecchiaia e miseria da un sussidio cantonale vodese. La sola cosa certa è che il B. entrò nell'amministrazione scolastica italiana e morì il 10 ag. 1880, insegnante di lettere al ginnasio statale di Trevi (Perugia).
Bibl.: A testimonianza del "mito" B. basti citare gli scritti, pur compilati su una presunta informazione "domestica", di due suoi corregionali, F. Pera, Quinta serie di nuove biografie livornesi, Firenze 1912, pp. 6-9; e P. Barbera, in Annali ital. di arti grafiche, XI (012), pp. 6-9, quando un avviamento all'intelligenza "storica" del (troppo elogiato od eulogizzato) B. aveva pur fornito G. Stiavelli, Un editore benemerito del Risorg. ital., in Il Risorg. ital., I (1908), pp. 862-869 (mentre al Pera e al Barbera troppo si apparentano E. Michel nel Diz. del Risorg. naz., II, Milano 1936, p. 328, ed A. Bertarelli, in Encicl. ital.,VII, Roma 1930, p. 381). Oltre alla lettera di F. D. Guerrazzi al B. dell'8 giugno 1845 (in Lettere, I, Torino-Roma 1891, p. 182; e la nota dell'ed. F. Martini), ai volumi dell'edizione nazionale dell'Epistolario di V. Gioberti, Firenze 1931-1934, ad Indices (specie i volumi VI-VII) e di G. Mazzini (specie i volumi XXII-XXIV, ad Indices), nonché i volumi dei carteggi giobertiani (I-IV, Roma 1936-1937), cfr. i due capitalissimi, perché documentatissimi, scritti (storicamente, però, alquanto estrinseci e sfocati) di D. Silvestrini, Una tipografia del Risorg., Bellinzona 1924, con prefazione di A. Monti (pp. 53 ss., l'elenco cronologicamente ordinato delle opere edite dalla tipografia B. di Losanna) e di G. Ferretti, Esuli del Risorg. in Svizzera, Bologna 1948, pp. 277 ss. (con ulteriore bibl., e a pp. 293 ss. i documenti dell'Archivio Cantonale di Losanna sulle vicissitudini domestiche del B.). Si veda anche M. Menghini, La Società Editrice "L'Unione" di Losanna del 1849, in Accad. e Biblioteche, II (1928), n. 3, pp. 17-26.