Ramanuja, Sri
Filosofo e teologo indiano (secondo la tradizione n. Perumbudur, Tamil Nadu, 1017- m. 1137; secondo alcuni studiosi n. 1077 - m. 1157; secondo altri, n.1056 - m. 1137). È considerato il principale esponente del Viśiṣṭādvaita Vedānta, la dottrina filosofica degli aderenti allo Śri Viṣṇuismo. Nato in una famiglia di brahmani, seguendo le tradizioni familiari, R. sposò a sedici anni una giovane della stessa casta. I racconti agiografici narrano però della sua ammirazione per la devozione di un maestro viśiṣṭādvaitin di infima casta, che non lo accettò per questo come proprio discepolo. R. fu quindi a lungo discepolo di Yādavācārya, un esponente dell’Advaita Vedānta. Il loro diverso approccio portò però a dissapori, in seguito ai quali R. si recò dal celebre Yāmunācārya (ca. 926-1028), il sistematizzatore del Viśiṣṭādvaita Vedānta, per chiedergli di accettarlo come discepolo, ma lo trovò già morente. R. divenne perciò discepolo di un discepolo di Yāmuna e subito dopo asceta rinunciante (sannyāsin). A R. sono attribuite nove opere, di cui le principali sono il Vedārthasaṅgraha («Compendio del significato dei Veda», un commento a passi delle Upaniṣad), il commento alla Bhagavadgītā e il suo opus magnum, il commento al Brahmasūtra noto come Śrībhāṣya («Commento del venerabile [Rāmānuja]». Questo rappresenta un punto di riferimento essenziale per la filosofia indiana successiva, sia per la forma di Vedānta teista che vi viene proposta e dettagliatamente esaminata sia per la forma dialettica del trattato, articolato in una lunga esposizione della posizione avversaria (pūrvapakṣa, ➔ Mīmāṃsā) seguita da una lunga esposizione della propria tesi (siddhānta). L’oppositore principale di R. è l’Advaita Vedānta di Śaṅkara e in misura minore la corrente bhedābhedavāda del Vedānta (➔), sostenitrice della tesi che fra brahman, mondo e ātman esista un rapporto di differenza e di non-differenza allo stesso tempo. Spiega invece R. che il brahman è il «controllore», l’anima del mondo inteso come il suo corpo poiché come il corpo dipende per vivere dall’anima, così il mondo dipende dal brahman. Il brahman è inoltre dotato di qualità (saguṇa, ➔ guṇa) ed equivale a un Dio personale, al contrario di quanto affermato dall’Advaita Vedānta. I passi delle Upaniṣad che affermano che il brahman è esistenza (sat), coscienza (cid) e beatitudine (ānanda) equivalgono infatti a dire, continua R., che queste sono attributi di quello e non che fra i due non ci sia alcuna distinzione. La pluralità del mondo è anche dimostrata sulla base del fatto che ogni conoscenza è necessariamente intenzionale, ossia rivolta a un oggetto esterno, è sempre ‘conoscenza di’. Nel fondare la conoscenza, quindi, si fonda anche necessariamente l’esistenza di un suo contenuto. R. può così mantenere una posizione realista, per la quale esistono una pluralità di anime individuali e oggetti inanimati. Il termine viśiṣṭādvaita (letteral. «non dualità del [brahman] qualificato»), successivo a R., allude alla reale esistenza delle qualificazioni del brahman/Dio, di per sé non duale. Anime individuali e sostanze inanimate esistono in forma sottile in Dio e vengono manifestate nel momento della creazione (per R., come per ogni altro pensatore indiano, creazione e distruzione del mondo si alternano ciclicamente) in accordo con un Suo desiderio. Come un attributo non esiste a prescindere dalla sostanza in cui inerisce, così anime individuali e sostanze inanimate non esistono a prescindere dal brahman che quindi può esser detto non-duale (advaita). Per la dottrina della causalità, Svābhāvikabhedābheda (➔) Vedānta, con riferimento alla scuola. La dottrina di R. sarà ulteriormente elaborata da Vedānta Deśika.