spoltrire [spoltre, in rima, cong. pres. II singoli
Per " scuotere la pigrizia " appare con una sola occorrenza: Omai convien che tu così ti spoltre (If XXIV 46). È l'ammonimento che Virgilio rivolge a D. nel faticoso cammino fino allo scoglio della settima bolgia.
‛ Poltrire ' è da mettersi in relazione con ‛ poltro ' (v.), un termine usato da D. come aggettivo e che ha avuto due interpretazioni fondamentali: " puledro ", " giovane " e pertanto " pauroso "; ovvero " pigro " (di qui il significato di " letto ", con evoluzione semantica analoga a quella del francese sommier). Il Pagliaro (Ulisse 327 n. 2) accoglie la seconda interpretazione, ma fa derivare il termine non da pulliter, bensì da putris, " putrido ", " molle ", " floscio " (con " il noto sviluppo parassitico di l per ipercorrettismo popolare, cfr. it. ant. alcire ").
Se tutti i commentatori sono sostanzialmente d'accordo sul significato del verbo s., invece il riferimento etimologico non è univoco (riflettendosi qui l'incerta intepretazione di ‛ poltro '); cfr. per es. " idest quod tu exuas pullum, scilicet quod non sis amplius puer et pultronus, sed viriliter et fortiter agas " (Benvenuto), con la chiosa del Vellutello: " da ‛ poltro ', che significa il letto nel quale l'uomo s'appigrisce e s'impoltronisce ".
Il verbo presenta il tipo di composizione con s- (privativo), diffuso soprattutto in Toscana e attestato più volte nella Commedia (v. ‛ sgagliardare ', ‛ sgannare ', ‛ stemprare ', ‛ stenebrare '), ma anche nei dialetti centro-meridionali. Questo tipo ripara in certo modo alla decomposizione fonetica del prefisso dis-, la cui consonante finale si assimila spesso alla consonante che segue (Rohlfs, Grammatica § 1011 bis).
Come osserva il Parodi (Lingua 252), " parecchi verbi della 4ª coniug. non hanno nel presente, contro l'uso nostro, la terminazione -sco ". Tra questi verbi c'è appunto ti spoltre (ma cfr. forbi [If XV 69], non mi garra [XV 92]). La forma del congiuntivo spoltre ha la desinenza -e, com'è normale nella Commedia per tutte le classi di verbi, esclusa la prima (v. Castellani, Nuovi Testi 69, e Parodi, Lingua 253). Quest'ultimo, dal confronto di testi coevi, conclude: " Pare adunque che Dante piuttosto che l'uso dei lirici, abbia seguito qui pure l'uso toscano di poco più di una generazione innanzi alla sua, attingendo in quel moderato arcaismo nobiltà e solennità di linguaggio ". A ciò il Castellani (l. cit.) obietta: " non vi sono prove sufficienti che il tipo -e, -i non fosse proprio della generazione di Dante. Certo che all'epoca in cui fu scritta la Commedia era in piena dissoluzione ".