splendore (isplendore)
Attenendosi a una distinzione comune nel Medioevo (cfr. Tomm. II Sent. 13 1 a3 " Lux... dicitur secundum quod est in aliquo corpore lucido in actu... Lumen... dicitur, secundum quod est receptum, in corpore diaphano illuminato. Radius autem dicitur illuminatio secundum directam lineam ad corpus lucidum... Splendor autem est ex reflexione radii ad aliquod corpus tersum et politum... ex qua reflexione etiam radii proiiciuntur "), D. definisce lo s. quale " luce riflessa ": Cv III XIV 5 però che qui è fatta menzione di luce e di splendore... mostrerò differenza di questi vocabuli... Dico che l'usanza de' filosofi è di chiamare ‛ luce ' lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio... di chiamare ‛ splendore ', in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso.
Una rigorosa aderenza al valore proprio del vocabolo determina il suo uso in più occorrenze: Cv II IV 17 afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, dove si allude a una luce diretta; si tratta invece di luce riflessa, in III VII 3 certi corpi... tosto che 'l sole li vede, diventano tanto luminosi, che per multiplicamento di luce... rendono a li altri di sé grande splendore. Gli splendori antelucani (Pg XXVII 109) sono il chiarore dell'alba, formato dai riflessi, nel cielo, dei raggi del sole non ancora sorto.
Il termine conserva un valore analogo, anche se più complesso e certo più metafisico che fisico, allorquando il suo uso è suggerito dalla tradizionale metafora della luce, simbolo della perfezione divina che si riverbera di sfera in sfera e sulle creature: Dio pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate (Cv III XIV 4). A questa dottrina si collegano le occorrenze in Pd XIII 53 e XXIX 14, nelle quali le sostanze create sono chiamate ‛ splendore ', cioè luce riflessa della luce divina, mentre nell'esempio del v. 138 La prima luce, che tutta la raia, / per tanti modi in essa si recepe, / quanti son li splendori a chi s'appaia, il vocabolo indica gli angeli, nei quali la luce di Dio, che irraggia di sé tutta la natura angelica, è accolta in tanti modi diversi quante sono, appunto, le Intelligenze motrici.
Questa pregnanza semantica, per la quale il lemma, pur indicando un fenomeno fisico, si rende contemporaneamente disponibile per esprimere una dottrina teologica, motiva la presenza del vocabolo in un gruppo piuttosto numeroso di occorrenze e consente di risolvere alcune difficoltà interpretative poste dal testo alla esegesi.
Per Rime XC 2 Amor, che movi tua vertù dal cielo / come 'l sol lo splendore, il paragone col sole è parso al Fraticelli dissonante con quanto è detto di Amore, perché questo attinge i suoi influssi direttamente dal cielo mentre " il Sole risplende per luce propria e non riflessa ". Come opportunamente osservano Barbi-Pernicone, l'effetto della luce solare non deriva direttamente da Dio, ma dall'operazione delle Intelligenze del cielo del Sole, le quali lo irraggiano poi nei cieli sottostanti. Anche a voler prescindere dall'ovvia suggestione dell'autorità guinizzelliana (cfr. Al cor gentil 5-7 " ch'adesso con' fu 'l sole, / sì tosto lo splendore fu lucente "), l'uso di s. appare qui del tutto coerente al lessico e alla dottrina di Dante. Una conferma si ha in Pd XXI 13 Noi sem levati al settimo splendore, / che sotto 'l petto del Leone ardente / raggia mo misto giù del suo valore, dove la definizione di splendore che Beatrice dà del cielo di Saturno è chiaramente motivata da ragioni del tutto analoghe.
Ancora con riferimento al sole, in Rime CII 20 E mai non si scoperse alcuna petra / o da splendor di sole o da sua luce / ... che mi potesse atar da questa petra.
Per Pd XII 9 canto che tanto vince nostre muse / ... quanto primo splendor quel ch'e' refuse, il Mattalia respinge l'interpretazione consueta (" di quanto il raggio diretto è più luminoso di quello riflesso ", Porena) con la considerazione che, mentre la differenza fra il canto dei sapienti e quello umano è fortissima, D. non accenna mai a una diminuzione di luminosità nel passaggio dall'incidenza alla riflessione. Quanto è stato già detto consente di accogliere, integrandola, la spiegazione proposta dal Mattalia, e d'intendere nel primo splendor il sole e in quel ch'e' refuse la luce che dal sole ci rinviano, per riflessione, le stelle e la luna: una luce, quest'ultima, assai meno intensa, e quindi più sopportabile per la vista umana, di quella solare.
Meno perspicuo è il valore del vocabolo in Pg XXXII 71 un splendor mi squarciò 'l velo / del sonno. Cosa sia questo s. che desta D. dal suo sonno nel Paradiso terrestre, non è affatto chiaro: per Scartazzini-Vandelli sarebbe quello " del grifone e degli altri della processione tornanti al cielo ", ma in questo caso " il termine sarebbe improprio, o bisognerebbe supporre che, nel tornare al cielo, acquistassero una luminosità di cui il testo non parla " (Chimenz); più plausibilmente, il Porena pensa alla " luce dei candelabri, che… presi dalle sette virtù circondano ora Beatrice [cfr. vv. 97-99]. Se è così, D. usa qui la parola... nel suo senso ordinario e non in quello di luce riflessa che di solito le attribuisce ".
Considerazioni simili valgono per Pd XXVI 72 a lume acuto si disonna / per lo spirto visivo che ricorre / a lo splendor che va di gonna in gonna, dove forse splendor è contrapposto a lume non nel senso già illustrato ma in quello estensivo di " stimolo luminoso, non legato ad alcuna immagine ottica ", come suggerisce il Mattalia.
S. significa anche la luminosità degli angeli e dei beati, dovuta alla luce divina che s'appunta (Pd XXI 83) su di essi. In questo senso il vocabolo ricorre con riferimento a Beatrice, una donna, che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira (Vn XLI 11 7); ma, per quanto nell'immagine di Beatrice trionfante in cielo sia il primo germe della mirabile visione di Pd XXXI 71-72 vidi lei che si facea corona / riflettendo da sé li etterni rai, par difficile supporre che qui il vocabolo si carichi di allusioni dottrinarie. O isplendor di viva luce etterna (Pg XXXI 139) è l'invocazione con la quale D. saluta la gentilissima nel Paradiso terrestre, allorquando ella, togliendosi il velo, gli rivela tutta la sua bellezza; in questo esempio, a differenza che nell'altro, la stessa presenza di un'eco delle parole di Salomone in lode della Sapienza (Sap. 7, 26 " candor est... lucis aeternae ") non lascia dubbi che isplendor valga " specchio ", " luce riflessa ", in quanto Beatrice, simbolo " della scienza più alta, quella delle cose divine " (Pagliaro, Ulisse 94), riflette la luce di Dio.
Quasi tutti i commentatori sono concordi nel ritenere che s. valga " luce riflessa " anche in Pg XV 11 quand'io senti' a me gravar la fronte / a lo splendore assai più che di prima, e questo perché subito dopo D. dice mi parve da luce rifratta / quivi dinanzi a me esser percosso (vv. 22-23). Solo il Torraca sostiene che la luce dell'angelo della misericordia percuote direttamente gli occhi di D. con la vivezza intensa di un raggio riflesso, senza che per questo si verifichi il fenomeno della riflessione; ma è spiegazione non convincente, perché quella luce emana, come Virgilio spiegherà, dal volto dell'angelo (v. 28), e non potendo essere né la luce del sole che si riflette sul poeta dall'angelo, giacché questo ha il sole alle spalle, e neppure la luce angelica riflessa dalla terra, dato che questa ha il colore livido della petraia, bisognerà consentire con il Buti e con il Landino, il quale intuì che s. nasconde un'allusione alla luce divina, la quale ferisce la faccia dell'angelo ed è da questa rifratta.
Il maggior numero di occorrenze si ha quando s. è riferito alla luminosità che fascia come un involucro i beati, impedendo la vista della loro parvenza corporea; come avviene per sostantivi di valore analogo (‛ fiamme ', ‛ fuochi ', ‛ luci ', ‛ lucerne ', ‛ soli ', ecc.), s. indica anzi, più che la loro luminosità, i beati stessi: Pd III 109 quest'altro splendor che ti si mostra / da la mia destra parte, Costanza d'Altavilla; V 103 vid'io ben più di mille splendori / trarsi ver' noi; e così in IX 13, XIV 95, XXI 32, XXIII 82, XXV 106.
Solo apparentemente l'accezione ora illustrata ha suggerito l'uso di s. nell'elogio di s. Domenico che per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore (Pd XI 39); per questa definizione v. CHERUBICO.
In un altro ordine si pongono i due esempi dell'Empireo. Sul punto di toccare l'estremo limite della sua esperienza umana e poetica, D. invoca il soccorso della grazia illuminante, per poter comunicare, con la parola, la reale concretezza della sua visione: O isplendor di Dio, per cu' io vidi / l'alto trïunfo del regno verace, / dammi virtù a dir com'ïo il vidi! (Pd XXX 97).
Nonostante la consonanza formale con l'invocazione a Beatrice in Pg XXXI 139 (già citato), alla quale Scartazzini-Vandelli e Casini-Barbi ritengono, a torto, che D. si rivolga anche qui, lo ‛ splendore di Dio ' è lo stesso che il lume dei vv. 61 e 100, cioè - appunto - la grazia illuminante, come ben vide Benvenuto: " dico quod per istud lumen... auctor figuraliter manifestat divinam gratiam ". Né è possibile scoprire una differenza di significato tra s. e luce in Pd XXXI 21 Né l'interporsi [degli angeli] tra 'l di sopra e 'l fiore / .., impediva la vista e lo splendore: / ché la luce divina è penetrante / per l'universo secondo ch' è degno, / sì che nulla le puote essere ostante; gli angeli, quasi diafani per la purità de la loro forma (Cv III VII 5) quali sono, non impediscono né alle anime la vista dell'essenza divina, né a questa di diffondersi come luce indefettibile sulle foglie del candido fiore.
In due esempi s. indica la luminosità degli occhi, con esplicito riferimento alla condizione spirituale e al sentimento di amore: li occhi che nel lor bello splendore / portan conforto ovunque io sento amore (Rime XCI 15); Beatrice sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise (Pd X 62; ma qui il vocabolo, oltre che alla condizione di donna innamorata, potrà alludere alla beatitudine di Beatrice).
In senso metaforico il termine indica i segni esteriori con i quali si manifesta la virtù dell'animo nobile: ne la prima [parte] s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi splendori (Cv IV XXIII 2). Anche più concretamente li splendor mondani (If VII 77) sono " le ricchezze ", " i beni " di questo mondo (ma nella definizione è possibile vedere una volontaria eco dello splende del v. 75, per cui cfr. SPLENDERE).