Spinoza nella storiografia filosofica e nell’attualismo di Gentile
Soltanto nel 19° sec. la filosofia di Baruch Spinoza viene definitivamente inclusa nel canone filosofico europeo. Non che in precedenza, anche nell’età dell’Illuminismo, non ci fosse stata una significativa diffusione degli scritti spinoziani. Tuttavia, la ricezione settecentesca si era mostrata attenta soprattutto al materialismo dell’Ethica ordine geometrico demonstrata (pubblicata postuma nel 1677) e al tema della tolleranza nel Tractatus theologico-politicus (1670). Si dovettero attendere le lettere di Friedrich Heinrich Jacobi a Moses Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza (1785), la confessione in esse contenuta dello spinozismo di Gotthold Ephraïm Lessing e il conflitto teorico sul panteismo che ne seguì (Pantheismusstreit) perché fossero riconosciute la densità concettuale e l’eleganza della riflessione di Spinoza. Da quel momento in avanti, l’interesse per il filosofo crebbe costantemente fino a culminare nel celebre giudizio di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che nelle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie (1833-1836) ne parlò come del primo dei filosofi moderni.
Rispetto al panorama europeo, ancora a metà Ottocento l’Italia si trovava a dover scontare un significativo ritardo. L’egemonia culturale francese aveva filtrato uno Spinoza sensista e materialista, come prova la scarsa attenzione concessa ai problemi dell’ontologia spinoziana nelle letture di autori della statura di Ludovico Antonio Muratori, Paolo Mattia Doria e Gian Domenico Romagnosi. Fu Bertrando Spaventa a riportare in Italia i temi del dibattito tedesco sulla rilevanza di Spinoza nella storia del pensiero quando con la sua tesi della «circolazione» della filosofia italiana in ambito europeo segnalò proprio nell’Ethica uno degli approdi continentali di motivi e spunti filosofici sorti, originariamente, nel Rinascimento italiano.
Questo antefatto suggerisce l’ipotesi che, quando Benedetto Croce gli propose di curare l’edizione dell’Ethica per i tipi della Laterza, Giovanni Gentile, allora trentaseienne e spaventiano, si sia sentito investito di un compito storico. Certamente egli intese perfezionare la tesi del maestro sulla «circolazione» della filosofia italiana; sicuramente volle affermarsi tra i più importanti studiosi europei dell’Ethica, ma con ogni probabilità scorse subito nel lavoro di edizione del capolavoro spinoziano una preziosa occasione di riflessione teoretica: un’occasione ancor più gradita non solo perché consentiva di ripensare, attraverso Spinoza, tanto Hegel quanto lo stesso Spaventa, ma anche in ragione della forte affinità tra il monismo spinoziano e la marcata propensione unitaria che pervade la ricerca attualistica, sospingendola verso l’individuazione di un punto archimedico al quale tutto ricondurre e nel quale tutto risolvere. Fatto sta che Gentile intraprende un dettagliatissimo lavoro di scavo nella filosofia dell’Ethica studiandone le fonti e rivisitando la tradizione storiografica che su di essa si era esercitata. L’edizione gentiliana non solo costituisce uno strumento di ricerca ancora prezioso nel panorama degli studi italiani ed europei su Spinoza, ma documenta l’inizio di un dialogo con un classico del pensiero che risulterà essenziale ove si intenda ricostruire l’intero processo di elaborazione dell’attualismo.
Un primo sguardo alla bibliografia degli scritti di Gentile su Spinoza non può che rilevare l’esiguità dei titoli. Oltre all’edizione dell’Ethica (la cui prefazione sarà ristampata in Frammenti di storia della filosofia, 1926, con il titolo L’“Etica” di Spinoza), si annoverano soltanto l’articolo Spinoza («Corriere della sera», 22 febbr. 1927) e il saggio Spinoza e la filosofia italiana («Chronicon Spinozanum», curis Societatis Spinozanae, tomus 5, 1927), a cui si devono aggiungere quattro recensioni, tutte pubblicate sulla «Critica». E tuttavia, come ha posto in evidenza Alessandro Savorelli, nonostante i pochi lavori esplicitamente dedicati al filosofo dell’Ethica, il pensiero di Spinoza, insieme a quello di Giambattista Vico, costituisce un’eccezione rispetto allo scarso interesse mostrato di norma da Gentile nei confronti della «filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, fino a Kant escluso» (2003, p. 41). Con pari nettezza, Giorgio Radetti (1948) ha scritto che
pochi filosofi sono così costantemente presenti nelle pagine del Gentile come Spinoza: e non solo in tante pregnanti espressioni, così spesso citate, non solo come un insuperato modello di coerenza umana e di nobiltà speculativa, ma nella sua più intima e fondamentale ispirazione (p. 287).
Nelle opere degli anni Dieci, dalla Riforma della dialettica hegeliana (1913) alla Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) fino ai due volumi del Sistema di logica (1917-1923), si incontrano numerosi riferimenti a Spinoza, il che non si spiega limitandosi a richiamare le due occasioni in cui Gentile lavora sul suo pensiero, entrambe risalenti al biennio 1912-13, quando, mentre tiene un corso su Spinoza all’Università di Palermo, inizia a curare l’edizione dell’Ethica che vedrà la luce nel 1915, 22° volume della collana laterziana Classici della filosofia moderna (cfr. Totaro 1986; sulle vicende editoriali dell’Ethica ‘gentiliana’ si vedano anche le lettere scritte da Gentile a Croce il 22 e il 29 gennaio del 1913, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 4° vol., Dal 1910 al 1914, a cura di S. Giannantoni, 1980, pp. 162 e 220-22). Non resta che prendere qui le mosse dall’edizione dell’Ethica, per il periodo nel quale venne pubblicata, per la cospicua quantità di informazioni contenute nelle annotazioni e per la fortuna da essa riscossa nella storiografia spinoziana a venire.
Le recensioni di altri saggi e traduzioni di argomento spinoziano, redatte tra il 1904 e il 1917 – nessuna delle quali particolarmente generosa di complimenti – aiutano a introdurre l’edizione gentiliana. La prima è dedicata alla ricerca di Edmondo Solmi Benedetto Spinoza e Leone Ebreo (1903): seppure definita inizialmente «un’eccellente monografia», nel corso dell’analisi gli elogi si diradano fino a cedere il passo a una conclusione decisamente critica: «Certo i raffronti che [Solmi] istituisce [tra i Dialoghi di Leone e l’Ethica di Spinoza] sono numerosissimi ma, per dir la verità, non danno tutti quella convinzione che [egli] ne ha ricavata» («La Critica», 1904, 2, p. 316). Nel 1913 Gentile stronca anche la traduzione dell’Ethica di Mario Rosazza (L’Etica: della correzione dell’intelletto, 1913), scrivendo senza mezzi termini che «il signor Rosazza non si intende troppo né di Spinoza né di latino» («La Critica», 1913, 11, p. 139). Due anni dopo, sarà il saggio di Celestino Pulcini L’“Etica” di Spinoza (1914) a essere definito «accurato dunque no, ma acuto meno che accurato» («La Critica», 1915, 13, p. 142). Infine, parole non molto più lusinghiere saranno rivolte alla traduzione dell’Ethica approntata da Erminio Troilo nel 1914, da Gentile liquidata come «inutile» e «imprecisa» («La Critica», 1917, 15, p. 48).
Al di là del merito e della vivacità dello stile censorio, la singolare acredine con cui Gentile valuta gli studi altrui suggerisce l’idea retrostante di una strategia complessiva, finalizzata ad accreditare la propria edizione come l’unico lavoro a partire dal quale i lettori e gli studiosi italiani avrebbero potuto e dovuto in futuro confrontarsi con l’Ethica. In apparenza, fin dalla breve introduzione (che ricostruisce la vicenda biografica e la fortuna degli Opera posthuma), Gentile sembra limitare al minimo gli interventi interpretativi. Conforme ai criteri della collana, dà l’impressione di volere piuttosto restituire al lettore un’edizione corretta nel testo latino e dettagliata nell’individuazione delle fonti. Man mano che ci si inoltra nella lettura delle note, però, si fa strada nel lettore la sensazione che la neutralità esibita nasconda in realtà una ben precisa intenzione esegetica.
Sono citati tutti i più importanti storici della filosofia intervenuti su Spinoza: da Jan Hendrik Leopold a Willem Meijer, da Otto Baensch a Charles Appuhn, oltre, naturalmente, a Jacob Freudenthal, punto di riferimento di Gentile, per quanto concerne l’interpretazione del rapporto tra Spinoza e la filosofia scolastica. Tuttavia, il confronto tra l’Ethica e le sue fonti sembra mirato più a evidenziare gli aspetti di novità della posizione spinoziana che a rintracciare continuità e analogie.
Indubbiamente, la segnalazione delle fonti classiche e scolastiche è precisa e dettagliata, ma ricostruisce nessi esteriori più che relazioni filosoficamente significative. Per questa via Gentile accoglie e riproduce nel proprio commento la medesima dissimulazione barocca che Spinoza aveva riservato ai contenuti eversivi della propria filosofia. Se l’autore dell’Ethica aveva espresso un pensiero nuovo rivestendone gli argomenti con un lessico tratto dalla tradizione, per parte sua Gentile segnala tutte le fonti e, al contempo, non trascura la ratio dissimulativa sottesa alla tecnica spinoziana. Con pazienza rintraccia i riferimenti classici e scolastici, ma appena può rileva come a una similitudine apparente delle forme corrisponda una profonda divergenza nei contenuti. Fa così quando riprende il confronto di Freudenthal tra i concetti, spinoziano e aristotelico, di sostanza per concludere che, nonostante la somiglianza della definizione, «il vero significato, affatto speciale, della sostanza spinoziana, più che da questi ravvicinamenti estrinseci e particolari, [è] illuminato dall’intera struttura della sua definizione» (B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, testo latino con note di G. Gentile, 1915, p. 296, n. 5). Un’operazione analoga Gentile compie a proposito dell’idea di libertà. Segue di nuovo Freudenthal, che aveva ritrovato l’identità di necessità e libertà già in Agostino, Francisco Suárez, Tommaso Campanella, Franck Burgersdijk e Giansenio; ma poi, come per sottolineare il carattere innovativo dell’immanentismo spinoziano, aggiunge che «bisogna sopra tutto ricordare Giordano Bruno e tutta la tradizione stoica e neoplatonica» (p. 304, n. 10). Il culmine di questo stile è raggiunto quando, discutendo il concetto spinoziano di verità, il commento gentiliano scredita preventivamente qualsiasi possibile confronto:
Dunque, se si vuole si noti che S. Tommaso e Spinoza definiscono la verità per l’adeguazione. Ma se le parole sono le stesse, egli è perché alle stesse parole è attribuito un significato esattamente contrario (p. 308, n. 17).
Se indubbiamente nelle annotazioni dell’Ethica grande attenzione è dedicata alla verifica della continuità tra spinozismo e tradizione, l’esegesi gentiliana sembra prevalentemente finalizzata a evidenziare la novità del pensiero di Spinoza nella storia della filosofia. L’accuratissimo lavoro di scavo nella tradizione aristotelica e scolastica contribuirà alla fortuna del commento gentiliano e supporterà il lavoro di molte interpretazioni successive; ma per comprendere lo Spinoza di Gentile sarà indispensabile guardare soprattutto altrove.
Nella conferenza Il concetto della storia della filosofia (1907) Gentile aveva definito l’età moderna come «la conquista lenta [e] graduale del soggettivismo, la lenta graduale immedesimazione dell’essere e del pensiero, della verità e dell’uomo»: la modernità è il tempo della «fondazione, celebrata nei secoli, del regnum hominis, l’istaurazione dell’umanesimo vero» (Il concetto della storia della filosofia, in La riforma della dialettica hegeliana, 19543, p. 114). Solo in epoca moderna, a giudizio di Gentile, la coscienza diviene propriamente padrona della natura e ciò può avvenire perché la filosofia riconosce l’immanenza isomorfa di pensiero e realtà. Con la dialettica di Hegel tale relazione viene ridefinita in termini storici e sarà necessaria la «filosofia di Marx» per riconoscerne anche la natura pratica. Ma della fase iniziale di realizzazione di questo programma di piena sussunzione della natura nel pensiero e nell’azione René Descartes e Spinoza sono i protagonisti.
Descartes è già un filosofo moderno – scrive Gentile – poiché ha affidato al solo pensiero la conferma della realtà sensibile. Superando l’antinomia scolastica tra realismo e nominalismo, Descartes aveva indicato nella «universalizza[zione dell’]individuo» la «condizione imprescindibile per concepirlo». L’evidenza del cogito ergo sum consentiva di riconoscere che «la concretezza dell’individuo (io che penso) coincide con l’universalità del pensiero» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, 19596, p. 71). Il pensiero diveniva così condizione per il riconoscimento tanto dell’esistenza individuale quanto dei contenuti eidetici. Affermare che «la realtà che si pensa è lo stesso pensiero che si pensa» fu possibile solo nel momento in cui Descartes scelse di definire il soggetto come «cosa pensante» (p. 71).
Se la soggettivizzazione cartesiana della funzione pensante costituisce un punto di svolta imprescindibile nell’evoluzione dello spirito, il filosofo delle Meditazioni metafisiche (Meditationes de prima philosophia, 1641) non trascese tuttavia mai l’Io empirico, limitandosi a conferire al soggetto una caratterizzazione meramente individuale e personale. «Il pensiero – osserva Gentile commentando l’Io penso cartesiano – è [il] mio [pensiero]». In questo modo l’attività pensante rimane, nella prospettiva cartesiana, prigioniera dell’«abisso tra individuo e universale», condannandosi a un continuo «oscillare tra un mondo intelligibile ma non reale [ovvero non compreso dal pensiero] e un mondo reale sì, e ben saldo, ma non intelligibile» (p. 72). Risolvendo il pensiero in pura attività individuale, Descartes si era trovato costretto a riconfermare l’estraneità della natura al soggetto e di conseguenza a elaborare un concetto di metodo trascendente e non immanente, mero strumento ma non conseguita verità.
Rispetto al modello cartesiano, Spinoza compirà, a giudizio di Gentile, un passo in avanti e, al contempo, un passo indietro. Da un lato, la sua filosofia sarà protagonista di una spersonalizzazione del pensiero; dall’altro, tale sforzo finirà per privare la riflessione di ogni facoltà dinamica e trasformativa della realtà, sfociando in una sorta di platonismo astratto.
Dal punto di vista storico, la filosofia spinoziana segue dunque e sviluppa, a giudizio di Gentile, la rivoluzione cartesiana consistente nell’atto di subordinazione della realtà alla conoscenza. Come Descartes, Spinoza riafferma l’eminenza della logica sulla natura e conseguentemente intende il pensiero a priori rispetto al dato empirico. La continuità tra le due filosofie non è, tuttavia, lineare e l’approfondimento delle differenze risulta cruciale non solo per completare il ritratto che Gentile disegna dello spinozismo, ma anche per comprendere in quale misura Spinoza debba essere considerato fonte dell’idealismo attuale.
Le differenze tra Descartes e Spinoza sono in primo luogo stilistiche ed emergono dalle domande diverse che i due filosofi si pongono.
Da una parte, Cartesio – scrive Gentile – è pieno della verità sfolgorante del suo pensiero subbiettivo; dall’altra, Spinoza, senza badare a quanto egli stesso attinga per la sua sostanza dal suo proprio pensiero, è con gli occhi assorto nell’infinito che lo attrae e lo conquide in sé (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 19594, pp. 270-71).
Se Descartes è sempre rivolto alla dimensione interiore e personale del pensiero, Spinoza manifesta una maggiore profondità metafisica che gli consente di liberare il pensiero da quel limitante riferimento all’Io caratteristico della riflessione di Descartes. «Cartesio muove dall’uomo», Spinoza, al contrario, «protesta che dal finito non si può passare all’infinito» e per questa ragione postula la necessità di «partire, bensì da Dio, che è infatti il principio di tutto» (p. 240).
Nel Metodo dell’immanenza (saggio scaturito dalla rielaborazione della conferenza palermitana del 1912, quindi contemporaneo al lavoro sull’Ethica) Gentile riconoscerà alla filosofia di Spinoza di avere affermato con «vigore unico l’immanenza del metodo alla filosofia». È a questo lavoro che occorre fare riferimento per comprendere il ruolo innovativo che, a giudizio di Gentile, Spinoza svolge nella storia della filosofia. L’autore dell’Ethica seppe conciliare «la concezione meccanicistico-matematica» della filosofia cartesiana (ma più in generale propria dello spirito del tempo), «portandola al massimo rigore». Spinoza conferì alla verità una qualificazione puramente formale, astratta dal contenuto e dipendente esclusivamente dall’attività del pensiero. Tale caratterizzazione della verità ha comportato che «la certezza» non «sia niente fuori della stessa essenza oggettiva, ossia dell’atto onde si pone un oggetto innanzi all’intelligenza». La riflessione, grazie al contributo spinoziano, giunge così a conquistare «l’immanenza del metodo nella filosofia», intendendo con ciò l’indistinzione e l’unità di conoscenza e realtà (Il metodo dell’immanenza, in La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 216).
Spinoza è il primo filosofo moderno (qui Gentile fa sua l’interpretazione che ne aveva offerto Hegel) non solo perché ha riconosciuto la reciproca e perfetta immanenza della logica all’ordine naturale, ma anche perché lo ha fatto attuando una drastica spersonalizzazione del pensiero. Solo se liberata dall’impropria assimilazione all’individuo empirico, la filosofia può riconoscere la propria immanente verità. «Non il soggetto per lui diventa signore della verità, ma la verità s’impadronisce del soggetto, e lo risolve in sé» (p. 220). Se si ritorna brevemente al commento dell’Ethica, si può riscontrare come Gentile vi confermi la tesi esposta nel Metodo dell’immanenza.
In nessun sistema – scrive – più che nello spinozismo l’intelletto infinito deve essere autocoscienza; perché in nessuno la realtà di Dio è così risolutamente immedesimata con le cose, ossia con tutto ciò che è possibile obbietto delle idee (Ethica, cit., p. 331, n. 12).
Spinoza superò il soggettivismo cartesiano in virtù di una maggiore profondità speculativa, perché guardò Dio e non l’uomo. Fu proprio questa vocazione mistica, però, a rigettarne il pensiero, ancora una volta, in un assetto statico e non dinamico. Seppur non confinato alla soggettività personale di Descartes, la relazione tra pensiero ed estensione non viene colta in Spinoza come nesso dialettico, ma rimane circoscritta nell’idea di sostanza. Fu insomma proprio ciò che consentì all’Ethica di superare il metodo cartesiano nella direzione di un chiuso monismo a ‘imprigionare’ la teoria della sostanza in un assetto non ancora compiutamente moderno. La «convinzione neo-platoneggiante che il vero ordo philosophandi debba muovere dalla natura divina», leggiamo ancora nel Metodo dell’immanenza, «aveva gittato [Spinoza] in braccio al dommatismo» (cit., p. 220). Egli ‘sradicò’ il pensiero dal soggetto, guadagnando la piena identificazione tra metodo e verità. Ma proprio questa elisione ne condannò la filosofia alla stasi, all’incapacità di comprendere la realtà come continuo divenire.
Tutto il vivo della vita – scrive Gentile commentando il concetto spinoziano di sostanza – si contrae e si impietra nell’essere intellegibile, nel mondo sub specie aeternitatis; e l’uomo con la sua speculazione aspira a quella morta quiete dell’amor Dei intellectualis, dove non è più dolore perché non è più vita (p. 221).
Il naturalismo spinoziano finisce così per trascinare con sé una concezione astratta del pensiero e passiva della vita umana. Espellendo dall’idea di ragione ogni antico rifermento alla trascendenza come criterio necessario di verifica della verità, Spinoza traccia la cornice ontologica propria della nozione moderna di spirito, ma non riconosce la storia e il dinamismo in essa immanente quali esiti delle infinite trasformazioni e rielaborazioni della realtà nella conoscenza.
Rispetto al Metodo dell’immanenza, nella Teoria generale dello spirito come atto puro diminuisce drasticamente l’enfatizzazione del ruolo attribuito alla filosofia spinoziana: con maggior frequenza viene ribadita l’identificazione di Spinoza con il platonismo, quasi che il filosofo dell’«atto puro» cominciasse a mal tollerare l’identificazione spinoziana tra immanenza e necessità naturale. La teoria spinoziana della sostanza viene definita, per la verità un po’ sbrigativamente, «mondo delle idee platoniche» (Teoria generale, cit., pp. 100-01) e Spinoza viene accusato di negare la molteplicità nell’immediata unità sostanziale. Non afferrando la natura dialettica della relazione tra pensiero ed estensione, l’Ethica risulta incapace di spiegare come l’individuo possa «conseguire una formazione concettuale positiva» e non solamente «rimanere passivo, in una condizione meramente intuitiva» (pp. 128-29). A differenza del concetto di spirito, che Gentile definisce «soggetto di un’attività dalla quale [rimane] indipendente» (p. 24), la sostanza spinoziana, causa dei propri modi, intreccia un legame di identificazione necessaria e passiva con la molteplicità. Per questa ragione, Spinoza manca l’obiettivo di disporre un percorso gnoseologico capace di consentire un pieno controllo delle passioni e approda, invece, a un ontologismo «inattuale» perché inadeguato a restituire il carattere anche trasformativo della conoscenza. Diverso discorso deve essere fatto, invece, per il pensiero politico spinoziano: nei Fondamenti di filosofia del diritto (1916), il Tractatus theologico-politicus viene posto a confronto con il pensiero di Jean-Jacques Rousseau e riconosciuto quale riferimento decisivo di una teoria che scorge nella sola forza l’origine e il principio del diritto (G. Gentile, Fondamenti della filosofia del diritto, 19553, pp. 80-83; cfr. Cavallera 1995).
Negli anni successivi le accuse di riduzionismo necessitarista e di intellettualismo saranno riproposte da Gentile in più occasioni e lo ‘spinozismo’ del Metodo sembrerà definitivamente assorbito da un’interpretazione dell’immanentismo spinoziano di matrice hegeliana, che ne riduce le discontinuità con la tradizione platonica e il cartesianesimo.
Nel Sistema di logica, Spinoza è definito come il filosofo che ha sancito l’identità tra l’amor Dei intellectualis (Dio che pensa se stesso) e la nozione umana di verità. Pur riconoscendo che nulla si produce al di fuori del pensiero, viene accusato di rimanere ancorato a un’idea statica (platonica) che riduce «il flusso, la mutazione, l’evoluzione della natura a mera apparenza» (Sistema di logica, cit., p. 66). Sullo sfondo di questa interpretazione la capacità umana di relazione e creazione finisce per assumere, nell’Ethica, una funzione del tutto irrilevante in favore di una concezione della natura che «non è individuo, né contingente, né liber[tà], ma specie, legge, necessità, meccanismo, fatto» (p. 66). Anche nell’Introduzione alla filosofia (1933) viene prospettata un’interpretazione dell’Ethica come dottrina negatrice della libertà, sede dell’identificazione intellettualistica tra necessità causale e divenire. Spinozismo rimane sinonimo di «metafisica nel senso kantiano della parola»: privo di ogni nozione autentica di libertà, esso «costruisce la realtà a priori, senza fondarsi sull’esperienza. Deduce more geometrico idee da altre idee dogmaticamente supposte», arrivando così a produrre un pensiero meramente e rigidamente soggettivo «che, collocatosi fuori dalla realtà, ne è rimasto sempre fuori» (G. Gentile, Introduzione alla filosofia, 19582, p. 191).
Dalla lettura degli scritti successivi alla Teoria generale emerge come nel corso degli anni Dieci l’interpretazione gentiliana di Spinoza venga irrigidendosi e tenda a smarrire quei tratti di originalità rispetto al modello interpretativo hegeliano che l’avevano contraddistinta sia nell’edizione dell’Etica sia nella Riforma della dialettica hegeliana, dove Spinoza veniva ritratto come un pensatore ricco di spunti pur eterogenei, provenienti da diverse tradizioni storiografiche, dalla filosofia greca al neostoicismo latino, dal pensiero rinascimentale a Cartesio; come un autore che, a partire da tale molteplicità di fonti, aveva saputo trasformare il cartesianesimo in un monismo immanente che nel pensiero individua una forma di rivelazione essenziale. Le pagine dedicate a Spinoza nelle opere successive alla Riforma della dialettica hegeliana trasmettono, invece, impressioni molto diverse: l’attenzione nei riguardi della complessità del pensiero scema in favore di una più rigida collocazione nel contesto di una concezione unitaria (teleologicamente orientata) della storia dello spirito. Tale prospettiva, sottesa alla Teoria generale e al Sistema di logica, sarà solo in parte ripensata a diversi anni di distanza, allorché Gentile si troverà a dover fare i conti con il problema della rilevanza di Spinoza nel pensiero italiano e dunque, seppur implicitamente, anche con il proprio spinozismo.
L’interesse di Gentile per Spinoza non può essere compreso adeguatamente senza porsi il problema dell’esistenza o meno di un carattere peculiare della ricezione dell’autore dell’Ethica nella filosofia italiana dell’Ottocento. Questo tema è al centro del saggio Spinoza e la filosofia italiana (1927), dove Gentile esplicita una preziosa analogia tra i problemi dello spinozismo e quelli che, prima e dopo Spinoza, hanno caratterizzato la riflessione filosofica italiana. Almeno apparentemente siamo alla ripresa del tema spaventiano della «circolazione del pensiero italiano in ambito europeo» (cfr. B. Spaventa, L’amore dell’eterno e del divino in Bruno, «Rivista enciclopedica italiana», 1855, 1, pp. 44-58, e Id., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, 1909). Fin dal saggio introduttivo all’edizione del 1900 degli spaventiani Scritti filosofici, di cui era curatore, Gentile aveva espresso la propria fervida adesione a questa tesi storiografica. Nel contesto di questo scritto su Spinoza (incluso nel 5° vol. del Chronicum Spinozanum pubblicato all’Aia nel 1927, in occasione del 250° anniversario della morte di Spinoza), il tema della persistenza di analogie tra la filosofia italiana moderna e quella spinoziana viene esteso oltre i confini del confronto con il passato. Sono lontani gli anni delle note all’Ethica, come anche quelli della Teoria generale; meno urgente è l’esigenza di sussumere e ‘superare’ lo spinozismo all’interno di un’idea di storia della filosofia culminante nello storicismo attualista. Gentile si pone piuttosto una domanda analoga a quella che già era stata al centro della riflessione di Spaventa: perché il confronto con Spinoza riemerge sempre – da Bruno a Vico, fino a Vincenzo Gioberti e allo stesso Spaventa – tutte le volte che si affronta il problema dell’esistenza o meno di un carattere tipicamente italiano della riflessione filosofica? Rispondere non implica solo interrogare la storia, ma anche volgere lo sguardo alla propria filosofia.
Non soltanto lo spinozismo viene definito come «l’espressione precisa, netta, coerente, compatta dei motivi che agitano il filosofare tumultuoso e appassionato di Bruno», ma anche rispetto al pensiero di Vico l’immanentismo spinoziano viene definito come «la pietra di paragone del suo rigido naturalismo» (Spinoza e la filosofia italiana, cit., pp. 105-06). Spinoza raccoglie la sfida bruniana di interpretare il rapporto tra Dio e natura in termini strettamente immanentistici, così come Vico, attribuendo la responsabilità delle trasformazioni storiche esclusivamente all’azione umana, rinvigorisce la medesima lotta per l’emancipazione della filosofia dalla teologia combattuta da Spinoza.
A diversi anni di distanza dalla riflessione di Vico, a partire dalla metà dell’Ottocento, la filosofia italiana sembrerà di nuovo «presa e impegnata» con il tema spinoziano dell’immanenza tra pensiero e natura (p. 106), quando una parte dell’intellettualità italiana, di cui Gioberti e Spaventa sono i più illustri esponenti, avvertirà l’esigenza di accompagnare il processo di unificazione del Paese con uno sforzo di integrazione delle correnti più vive della riflessione europea nella cultura della «nuova Italia». Ancora una volta, come ai tempi di Bruno, ritornerà ad avvertirsi l’esigenza di liberare la filosofia italiana da una plumbea cappa oscurantista e autoritaria per cercare una filosofia, al contempo, moralmente autonoma e razionalmente robusta alla quale ispirarsi, e tanto Gioberti quanto Spaventa non potranno che rivolgersi, pur con modalità alquanto differenti, all’Ethica.
Il primo dedica a Spinoza ampie pagine, soprattutto nell’Introduzione allo studio della filosofia (1839-1840). Pur cogliendovi l’esito più pericoloso del cartesianesimo per le conclusioni panteistiche alle quali giunge, Gioberti individua nello spinozismo una «profondità e una forza di ingegno non ordinaria» (Introduzione allo studio della filosofia, 2° vol., 18442, p. 465, n. 49) spingendosi fino al punto di definire l’immanentismo uno «splendido errore» (p. 262). Gentile è perfettamente consapevole della forte influenza del sistema spinoziano sulla riflessione dell’autore del Primato, il cui pensiero «cristiano» e «cattolico», pur avvertendo l’esigenza di comprendere il carattere immanente della relazione tra individuo e natura, esattamente come quello di Spinoza, rimane lacerato nella teorizzazione della propria «formula ideale» («l’Ente crea l’esistente e l’esistente ritorna all’Ente») tra «l’intuizione platonizzante di una realtà logicamente assoluta, senza possibilità di alcuna distinzione né interna, né esterna», e «il sentimento cristiano della vita dello spirito, come libertà e individualità» (Spinoza e la filosofia italiana, cit., p. 104; sulla ricezione di Spinoza in Gioberti e Antonio Rosmini, cfr. Santinelli 1999).
Se Gioberti è stato il primo a riprendere motivi ed esigenze spirituali che furono di Vico e Bruno, riproponendo il problema del rapporto dialettico tra esperienza (mondo dell’esistenza) e fede (mondo dell’Ente), ciò è potuto avvenire per un’esigenza storica obiettiva, che finalmente iniziava ad affiorare anche nella società e nella cultura italiana. Così, dopo Gioberti sarà Spaventa a farsi carico di «affiatare» la ricerca sulla tradizione italiana con il pensiero internazionale (p. 105). Con il suo hegelismo, definito da Gentile «una tutta sua fenomenologia dello spirito», e con il suo concetto di «coscienza assoluta», Spaventa rappresenterà l’approdo di una vicenda filosofica di lungo periodo, avviatasi con il pensiero del Rinascimento italiano, anche se – beninteso – si dovrà ancora attendere l’attualismo gentiliano per fornire una definizione articolata e storicamente adeguata dei problemi posti dal teorico della «circolazione».
Come per Bruno, Vico e Gioberti, anche l’attenzione di Spaventa per Spinoza viene giustificata da Gentile richiamando la persistenza di un comune orizzonte di senso. Se Spaventa aveva introdotto nella filosofia italiana dell’Ottocento una nozione di pensiero non astratta e realisticamente immanente al farsi storico, Spinoza, secoli prima, aveva anticipato la necessaria immanenza del metodo alla filosofia, trasformando la filosofia cartesiana della conoscenza in una metafisica della sostanza. Come Spinoza aveva superato il soggettivismo cartesiano e l’incapacità sua di liberare la verità dallo psicologismo, analogamente Spaventa, approfondendo l’intuizione giobertiana, aveva reimmesso nella filosofia italiana quel concetto di «essere immanente» andato perduto dopo l’epoca aurea del Rinascimento. Il merito che Gentile attribuisce a Spaventa non è però di carattere esclusivamente storiografico.
Non si trattava solo di ripensare in termini dialettici l’intuizione giobertiana, replicando l’operazione compiuta da Spinoza nei confronti di Descartes, né era in questione la semplice rilevazione di analogie. Occorreva anche porre in risalto l’attualità della filosofia spinoziana, ridefinendone il significato sullo sfondo di un nuovo contesto teorico. Per Gentile, Spaventa ha rielaborato la dialettica di Hegel avvalendosi della filosofia dell’Ethica. Spinoza ha rappresentato l’occasione per riplasmare in termini spiritualistici quell’identità di pensiero e realtà che Hegel aveva circoscritto alla concretezza storica e che, viceversa, Gentile mira a ridefinire come pura e «attuale» speculazione filosofica. Per questo motivo, e in particolare per l’attenzione al tema dell’identità degli attributi, Spaventa non rappresenta soltanto la fonte principale della ricezione gentiliana di Spinoza: molto di più, allo Spinoza spaventiano bisogna fare riferimento per comprendere lo ‘spinozismo’ di Gentile (cfr. Radetti 1948, p. 288).
Hegel per primo aveva individuato l’importanza dello spinozismo nella vicenda evolutiva moderna, al punto di affermare l’equivalenza tra il philosophieren e lo spinozieren. Nelle Lezioni hegeliane sulla storia della filosofia Spinoza è colui che aveva identificato senza esitazioni la trascendenza con l’immanenza (per questo vi è definito come il primo filosofo moderno), senza tuttavia riconoscere il carattere soggettivo e dialettico del divenire (con la conseguenza di ricadere così in un naturalismo statico e acosmistico). A questa rappresentazione classica del ruolo storico della filosofia di Spinoza Gentile apporta alcune rilevanti modifiche, traendo per ciò ispirazione da Spaventa. Nel saggio del 1867 Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo (incluso da Gentile negli Scritti filosofici, poi in B. Spaventa, Opere, a cura di G. Gentile, 1° vol., 1972, pp. 465-78), Spaventa aveva definito la filosofia dell’Ethica uno snodo fondamentale nell’evoluzione del pensiero moderno. Sullo sfondo della propria teoria della «circolazione del pensiero europeo», aveva approfondito l’analisi hegeliana di Spinoza, attenuandone la critica di acosmismo. Spinoza era considerato il primo dei pensatori moderni a concepire la differenza non come semplice separazione e distinzione, ma come relazione e opposizione. La definizione spinoziana di attributo aveva aperto alla possibilità di interpretare essere e pensiero come espressioni complementari e, al contempo, reciprocamente necessarie della medesima realtà. Spinoza era giunto in questo modo a definire la sostanza come «infinita medesimezza» e a riconoscere il pensiero e la materia come «infiniti», coinvolti in una relazione reciproca, nella quale ciascun termine, pur differenziandosi essenzialmente, necessita dell’altro per poter sussistere (Il concetto dell’opposizione, cit., p. 471). Spinoza aveva formulato già in termini moderni la relazione tra pensiero ed estensione, tra spirito e natura, come opposizione necessaria e sussistente nell’unità sostanziale. Ciò che invece era rimasto ancora imprigionato in un’antica terminologia e in un’inadeguata struttura concettuale risultava essere – a giudizio di Spaventa come di Hegel – la forma argomentativa della filosofia dell’Ethica. Il limite dello spinozismo concerneva cioè l’incapacità di presentare secondo una modalità concettuale adeguata l’essere come «soggetto» («essenza attuosa»), ovvero come atto creativo libero e necessario (p. 472). Se pertanto Spinoza era ricaduto in una contraddizione che, anche per Spaventa, soltanto la nozione hegeliana di spirito, inteso come identità di a priori e a posteriori, di affermazione e negazione, avrebbe saputo superare, nondimeno l’autore dell’Ethica aveva avuto l’indubbio merito storico di porre «il concetto come sostanza, lo spirito come natura, l’assoluta attività come assoluta inerzia, la libertà come necessità, la finalità come meccanismo, il soggetto come oggetto (l’Io come non Io)», incarnando pertanto «la più alta contraddizione della filosofia» (p. 476).
Se da questo punto di vista l’analisi non sembra differenziarsi da quanto scritto da Hegel e poi ripreso dallo stesso Gentile, ciò che Spaventa segnala come fondamentale nella teoria spinoziana, superando in qualche modo anche la lettura hegeliana, è l’attenzione posta sul pensiero inteso come forma dell’essere, perfettamente isomorfa al divenire del reale. Il rilievo particolare dato alla relazione degli attributi, interpretata non soggettivamente (come aveva suggerito Hegel), bensì ontologicamente come «viva opposizione» mostra, a giudizio di Spaventa, come Spinoza abbia per primo riconosciuto al pensiero una «infinita medesimezza» con l’estensione (p. 471).
Questa sorta di ‘realismo idealistico’ segnalato da Spaventa incontra l’attenzione e il consenso di Gentile, che riprende la tesi interpretativa spaventiana nella propria edizione dell’Ethica proprio quando si trova a commentare il dibattito esegetico sulla natura, soggettiva o oggettiva, degli attributi. In questo contesto, Gentile appoggia il riconoscimento spaventiano della natura ontologica, oggettiva ed essenziale, degli attributi spinoziani, l’emergenza della quale, però, circoscrive al solo momento della conoscenza empirica (Ethica, cit., pp. 301-02). Questo modo di leggere il concetto spinoziano di attributo – caratterizzato in chiave maggiormente ‘realistica’ rispetto alla tradizione esegetica di derivazione hegeliana (si pensi a un interprete come Johann Eduard Erdmann) – mostra come Gentile e Spaventa intendano la sostanza di Spinoza e quale applicazione ne facciano nella propria filosofia. Per entrambi Spinoza ha il duplice merito di concepire in termini realistici l’immanenza di essere e pensiero e di puntualizzare che tale relazione si rivela sempre ed esclusivamente nella conoscenza. È evidente come questa sia un’interpretazione spiritualistica del pensiero di Spinoza che, in qualche modo, finisce per sbilanciare la sostanza, ovvero Dio, dalla parte del pensiero, allontanandola dalla materia.
La forza, riconosciuta da Spaventa, con la quale Spinoza afferma la natura pensata dell’estensione suggerisce a Gentile la possibilità di riprendere tale motivo in una prospettiva filosofica finalizzata a temperare gli eccessi storicistici di Hegel. Spinoza ha individuato la filosofia come l’unica forma nella quale si può verificare l’identità tra Dio e natura. Questo è l’elemento vivo della sua filosofia, che Spaventa suggerisce di utilizzare per correggere Hegel, riproponendo l’eminenza del pensiero sulla realtà. Gentile accoglie tale indicazione trascrivendola, per così dire, in termini storici e dialettici. Non è un caso, quindi, che sia proprio La riforma della dialettica lo scritto nel quale più forte appare il duplice riconoscimento dell’importanza di Spinoza nella storia della filosofia e dell’originalità della lettura spaventiana di Hegel. Coerentemente con il contesto, nel saggio sul Metodo dell’immanenza lo spinozismo è interpretato come la filosofia dell’identità di pensiero e realtà, mentre, nel saggio sulla riforma della dialettica, Spaventa figura come colui che ha mostrato in che modo il pensato sia da intendersi «come la reale celebrazione della potenza del pensare» (La riforma della dialettica hegeliana tentata da Bertrando Spaventa, in La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 30-33).
Una volta riconosciuta la preminenza di impronta spiritualistica del pensiero sul divenire storico, dopo aver preso l’abbrivio per questa riflessione dal confronto con Spaventa e, per suo tramite, anche dalla meditazione sulle pagine di Spinoza, Gentile si mostrerà attento ad accreditare il proprio attualismo come la sola filosofia capace di portare a compimento le intenzioni spaventiane senza però ricadere nell’acosmismo platonizzante ancora proprio del maestro. Ciò non potrà che comportare il sacrificio di Spinoza. Comprendere il pensiero come storia del pensiero e la filosofia come storia della filosofia implicherà ignorare il rischio, ben esemplificato da Spinoza, di intendere la teoresi in termini feticistici e ideologici, facendone neoplatonicamente un’ipostasi mondana della divinità eterna. Per questo motivo nella Teoria generale e, successivamente, nel Sistema di logica, l’Ethica sarà citata soprattutto in relazione alla necessità di superarne l’acosmismo (cfr. Giancotti 1996, p. 353).
Dopo Spinoza, protagonista nella Riforma della dialettica hegeliana, si tratterà quindi di ritornare a Hegel compiendo un classico movimento dialettico di negazione della negazione: riconfermando cioè la dimensione storica del pensiero, pur declinata per intero nel quadro della storia della filosofia e dunque scevra da ogni reale determinazione materiale. Hegel, dunque, prima e dopo Spinoza, così come Gentile prima e dopo Spaventa. Spaventa aveva utilizzato Spinoza contro Hegel, per collocare nel solo pensiero ogni accesso al reale; Gentile riprende Hegel contro Spinoza, per trasformare l’identità naturalistica della ‘necessità’ spinoziana nel libero divenire dello spirito. Per Hegel, Spinoza fu il primo dei filosofi moderni; per Gentile, Spaventa è stato il primo dei filosofi italiani: entrambi si sono mostrati capaci di superare l’astratto psicologismo della filosofia precedente ma al tempo stesso incapaci di concludere l’operazione che avevano avviato, non disponendo di un adeguato concetto di divenire.
Se Hegel aveva sottratto l’immanentismo spinoziano all’acosmismo, Gentile sembra candidarsi a essere colui che trae le conclusioni dalle premesse poste da Spaventa. Come la filosofia dell’Ethica ha saputo contrastare lo psicologismo cartesiano, mostrando la reciproca immanenza di pensiero e realtà, così l’idealismo attuale si pone il compito di definire in forma compiuta il tentativo spaventiano di superare l’astratto intuitivismo di Gioberti. E come Hegel e Spaventa avevano ripreso il monismo di Spinoza, rispettivamente contro Immanuel Kant e Gioberti, così Gentile pone la filosofia dell’Ethica a fondamento di una relazione di immanenza tra pensiero e realtà che deve prima storicizzarsi, riattraversando la filosofia di Hegel per poi riconoscersi nella dimensione integralmente spirituale dell’attualismo.
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