Spiegazione e comprensione
I termini 'spiegazione' e 'comprensione', ai quali si deve aggiungere 'interpretazione', hanno una notevole importanza nel dibattito sulle scienze umane e sociali, in quanto veicolano questioni teoriche cruciali. A partire dalla loro istituzionalizzazione (fine del XIX secolo) tali scienze si sono impegnate a definire i propri obiettivi, metodi e funzioni. Non potevano perciò evitare di interrogarsi sulle loro relazioni con le scienze della natura. È da tutto ciò che è nata la distinzione tra spiegazione e comprensione.
La distinzione solleva complessi problemi epistemologici, che vanno ben al di là di una semplice discussione terminologica, poiché tali parole riassumono in sé diverse impostazioni di ricerca. Ne sono nate delle controversie che hanno accompagnato endemicamente la storia delle scienze sociali, dalla fine del secolo scorso ai giorni nostri, aventi per oggetto il futuro stesso delle scienze umane e, in fin dei conti, il loro valore conoscitivo.
La riflessione sui concetti di spiegazione e di comprensione appare nelle scienze umane in un contesto che vede il trionfo delle scienze della natura. Questo trionfo porta le scienze umane a domandarsi se esse stesse debbano modellarsi per quanto possibile sulle scienze della natura o se la specificità del loro oggetto debba condurle a concepirsi come distinte da queste. Tale problema ha avuto e continua ad avere due opposte soluzioni.
La prima può essere definita 'positivistica' (le virgolette servono a ricordarci che il positivismo è un movimento culturale complesso che, come vedremo subito, conosce diverse incarnazioni). Tale soluzione è monistica: la scienza è unica, e le scienze sociali ed umane debbono conformarsi alle scienze della natura, sia nei loro obiettivi che nei loro metodi. L'obiettivo principale delle scienze della natura è quello di spiegare, di stabilire la ragion d'essere dei fenomeni osservati o, in altri termini, di ricercare le cause dei fenomeni fisici, chimici o biologici. L'obiettivo delle scienze sociali sarà quindi, per esempio secondo Émile Durkheim, quello di spiegare i fenomeni sociali e cioè di determinare le loro cause. Coloro che optano per una concezione positivistica delle scienze sociali fanno dunque della spiegazione l'obiettivo fondamentale.
La seconda soluzione è al contrario dualistica: scienze umane e scienze della natura riguardano due distinti universi di discorso. Le scienze umane infatti non si interessano tanto ai fatti quanto ai loro significati. Così il biografo di sant'Agostino, di Rousseau o di Goethe - afferma Dilthey - si interroga sul senso che tali personaggi storici hanno voluto dare alla propria vita. A Dilthey fa eco Georg Simmel quando sottolinea che lo storico della Rivoluzione francese difficilmente può esimersi dal presentarla cancellando tutta la propria soggettività; egli la presenterà immancabilmente con simpatia o con antipatia, come la fine o l'inizio di un mondo, come una promessa o un fallimento. L'obiettivo qui non è la spiegazione, ma quello di comprendere o di interpretare. Qualsiasi fenomeno culturale non esiste che attraverso il senso che esso ha per gli uomini. Le scienze umane non dovranno quindi ispirarsi alle scienze della natura. Questa, sommariamente riassunta, è la posizione degli antipositivisti.
È indispensabile per afferrare il senso di tale contrapposizione soffermarsi sul movimento culturale che apparve nella prima metà del XIX secolo e che si è definito 'positivismo'. Il primo punto da sottolineare è che si tratta di un movimento culturale complesso. Il neopositivismo di un Carnap ha poco a che vedere, per esempio, con il positivismo di Comte. Durkheim è influenzato da quest'ultimo, ma se ne distingue per molti aspetti. Milton Friedman è considerato 'positivista', ma in un senso molto particolare: tale qualifica indica in questo caso che l'economista di Chicago difende una posizione epistemologica secondo la quale una teoria scientifica deve soddisfare un solo requisito e non può essere valutata che sulla base di un solo criterio: la sua congruenza con la realtà. Il termine 'positivismo' ha un senso ancora diverso per gli storici positivisti, che assegnano alla loro disciplina una funzione fondamentale, quella di stabilire la veridicità dei fatti. Un altro esempio: il filosofo della scienza Karl R. Popper si è sempre detto ostile al positivismo, ma ciò significa che egli si oppone a un particolare positivismo, quello del Circolo di Vienna, e non accetta la teoria della scienza di Carnap. Ciononostante Popper è stato spesso considerato positivista, e a buon diritto se con ciò si intende che nella sua epistemologia una teoria scientifica si giudica esclusivamente in base alla sua congruenza con la realtà.
Ma per quanto diversi siano i positivismi, vi è tuttavia un nucleo comune la cui esistenza giustifica il fatto che si parli del positivismo al singolare. Si può caratterizzare questo nucleo attraverso le seguenti proposizioni. Innanzitutto il positivismo (più esattamente il denominatore comune ai diversi positivismi) considera la scienza una forma di conoscenza superiore, più solida delle altre. Così Popper non nega l'esistenza di una conoscenza metafisica o di una conoscenza storica; egli pensa però che queste non possano pervenire allo stesso grado di certezza e che abbiano natura diversa da quella della conoscenza scientifica. In secondo luogo il positivismo vede nell'adozione di procedure di indagine che eliminano completamente, almeno in teoria, la soggettività del ricercatore, il segreto dell'efficacia della scienza. In terzo luogo, esso considera obiettivo della scienza quello di ricercare le cause dei fenomeni osservati. Del resto, è determinando con procedure impersonali le vere cause dei fenomeni che la scienza riesce a prevederli: la sua capacità predittiva è dunque un effetto della sua capacità esplicativa. Il positivismo ritiene infine che esista in linea di principio per ogni problema un'unica teoria vera. Spiegazione, obiettività, procedure impersonali, verità unica, sono dunque le sue principali parole d'ordine.
Occorrerà certo introdurre delle sfumature e tener conto, a questo proposito, di divergenze che talvolta riguardano anche punti cruciali. Così alcuni positivisti, a cominciare da Comte, considerano la ricerca di cause una ricaduta nella metafisica. Lo scienziato comtiano deve limitarsi a ricercare le regolarità alle quali i fenomeni osservati obbediscono, deve stabilire delle 'leggi'. Di fatto, i tentativi compiuti per eliminare il concetto di causa dal discorso scientifico sono falliti: una legge non è generalmente altro che una relazione ipotetica del tipo 'Se A allora B'; se ne conclude che, date certe condizioni, A è causa di B. Ad ogni modo, il tema dell'opposizione tra 'legge' e 'causa' che aveva suscitato tanto interesse tra i primi positivisti, ha perduto del tutto o quasi la sua attualità. Durkheim, per molti aspetti vicino a Comte, non ha d'altronde esitato a utilizzare il concetto di causa.
Un altro esempio di divergenza: il positivismo di Carnap si presenta come un 'fisicalismo'. Esso afferma che è possibile, almeno in teoria, tradurre ogni enunciato scientifico in una lista di constatazioni fattuali. In altri termini, una buona teoria scientifica si distingue da una cattiva in quanto può essere ridotta a protocolli irrefutabili. Anche tale concezione è stata abbandonata.Come ben dimostrano questi due esempi, non solo il positivismo è un movimento culturale complesso ma, su molti argomenti, presenta forti divergenze al suo interno. Tali esempi permettono però di mettere in luce anche le convergenze soggiacenti alle divergenze. Comte rifiuta, laddove Durkheim accetta, il concetto di causa; entrambi però ricercano le regole che consentono alle scienze sociali di raggiungere l'oggettività. Comte pensava di affermare il pensiero scientifico escludendo il ricorso al concetto di causa; Durkheim pensava di fare della sociologia una scienza interdicendo al sociologo qualsiasi enunciato relativo agli stati soggettivi degli attori sociali. La stessa cosa vuole fare Carnap con il suo fisicalismo.Sotto nomi diversi, il positivismo ha influenzato tutte le scienze umane, come pure le scienze della natura. L'empiriocriticismo di Mach ha ambizioni analoghe a quelle del fisicalismo di Carnap: una buona teoria fisica è per definizione riducibile a un insieme di enunciati fattuali. Il behaviorismo in psicologia riprende un certo numero di principî basilari del positivismo. Lo psicologo deve limitarsi a studiare relazioni tra fatti osservabili. Così, la psicofisiologia studierà le reazioni del soggetto, le sue 'risposte' a determinati 'stimoli'. Lo schema stimolo/risposta riassume il programma della psicologia behaviorista di attenersi a ciò che è osservabile. Ed è questa regola che farà della psicologia una scienza, distinguendola dalla psicologia 'letteraria' che si trastulla con gli stati di coscienza dell'individuo. In altri termini, proprio perché esclude il ricorso all'introspezione caratteristico della psicologia 'letteraria', la psicologia behaviorista può proporsi come modello di ogni psicologia scientifica futura. Il behaviorismo ebbe un'influenza immensa, ma ben presto dimostrò tutta la sua fragilità. Clark Hull ed Edward C. Tolman videro subito che per spiegare i comportamenti animali, anche in un quadro sperimentale, era impossibile non introdurre delle nozioni soggettive (la 'fame', la 'paura', ecc.).
Durkheim è, se non il fondatore, il primo grande esponente della sociologia positivistica. Egli vuole avvicinarsi il più possibile al modello delle scienze della natura come lui lo intendeva. La sociologia deve stabilire le cause dei fenomeni sociali analizzando, con l'aiuto di procedure impersonali, le relazioni tra i dati di fatto. Tali procedure sono quelle definite nella Logica di John Stuart Mill. Così ne Il suicidio vengono messe in evidenza le correlazioni tra il tasso di suicidi e un certo numero di variabili (età, sesso, stato civile, luogo di residenza, ecc.) e, a partire da uno studio di queste correlazioni, si cerca di stabilire una tipologia del fenomeno e naturalmente di individuarne le cause. L'obiettivo di Durkheim è evidentemente quello di stabilire in sociologia delle leggi analoghe nella loro forma alle leggi delle scienze della natura, a quella di Boyle o a quella di Mariotte per esempio, vale a dire delle funzioni (così i tassi di suicidi sono legati all''anomia' e all''egoismo' secondo una curva a U). La metodologia durkheimiana sembra prefigurare la metodologia positivistica che Carl G. Hempel cercherà di fissare nell'ambito delle scienze umane. Ma se per questo aspetto ricorda Hempel, per altri Durkheim mostra di avere una concezione della causalità 'ristretta', che i positivisti moderni rigetteranno. Secondo tale concezione a un medesimo effetto corrisponde sempre un'identica causa: "Così [...] se il suicidio dipende da più di una causa, è perché, in realtà, vi sono più specie di suicidio" (v. Durkheim, 1897).
In antropologia, come ha felicemente notato Ernest Gellner, il funzionalismo di Bronislaw Malinowski è la manifestazione più chiara dell'influenza del positivismo. Così come la psicologia behaviorista si contrappone alla psicologia introspettiva, o il positivismo sociologico alla filosofia sociale e politica, il funzionalismo malinowskiano si contrappone all'antropologia 'storica', con le sue incertezze e soprattutto con la sua incapacità di eliminare la soggettività dell'antropologo. Per Malinowski l'antropologia è lo studio delle relazioni di implicazione ed esclusione reciproche che sussistono tra le istituzioni sociali e politiche. Tale programma ha avuto dei precursori. Già Montesquieu aveva mostrato che i regimi politici (democrazia, aristocrazia, ecc.) si caratterizzano per un insieme di tratti che si implicano reciprocamente. George P. Murdock realizzerà in modo particolarmente rigoroso il programma funzionalistico: a partire dai dati tratti dagli archivi di Yale su un insieme statisticamente significativo di società 'senza scrittura', egli studia le correlazioni tra le istituzioni relative al matrimonio, alla parentela, alla residenza, ecc.In ogni caso, il funzionalismo malinowskiano è l'equivalente in antropologia del behaviorismo in psicologia. Studiando le correlazioni tra i dati fattuali esso si propone di raggiungere dei risultati incontestabili e spogliati di ogni elemento soggettivo. Lo struttural-funzionalismo sociologico si definirà a partire da un programma praticamente identico a quello del funzionalismo antropologico.
In economia, il positivismo assume la forma di imperativo: evitare ogni ipotesi sulle motivazioni individuali degli attori economici. Tali ipotesi appaiono a un Friedman del tutto oziose. La sola cosa che conta per l'economista 'positivista' è di verificare se la teoria spiega i fatti e se consente delle previsioni confermate dalla realtà.
Esiste dunque nelle scienze umane, sin dalle origini, un potente movimento di ispirazione positivistica. Il suo obiettivo è di spiegare i fenomeni psicologici, sociali, economici o politici, con ambizioni simili a quelle delle scienze della natura, e in particolare quella di eliminare del tutto la soggettività dell'osservatore. Occorre rompere con le discipline interpretative, con la storia e con la psicologia introspettiva attenendosi al dato osservabile ed evitando ogni riferimento alla soggettività degli attori. Il positivismo ha una concezione monistica della scienza: non vi è alcuna differenza fondamentale tra le scienze della natura e le scienze dell'uomo. Le divergenze tra positivisti concernono soprattutto i mezzi che garantiscono l'obiettività della pratica scientifica.
L'influenza del positivismo è stata immensa. Esso ha introdotto una separazione netta tra 'spiegazione' e 'comprensione', 'spiegazione' e 'interpretazione'. La sociologia secondo Durkheim, l'antropologia secondo Malinowski, la filosofia della scienza secondo Popper, l'economia secondo Friedman, la psicologia secondo Skinner, intendono essere scienze esplicative in opposizione alle discipline interpretative quali l'antropologia 'pre-strutturalista', la psicologia tradizionale o la storia così come è considerata dai positivisti.
Positivisti e antipositivisti sono d'accordo sulla distinzione tra due tipi di discipline: quelle orientate verso l'interpretazione e quelle orientate verso la spiegazione dei fenomeni umani. Mentre però i primi vedono nella spiegazione di tali fenomeni il solo obiettivo che possa darsi una vera scienza, i secondi giudicano tale obiettivo illusorio.
Più precisamente, un Heinrich Rickert o un Wilhelm Windelband ritengono che le scienze umane non possano per la natura stessa del loro oggetto mirare soltanto alla spiegazione. Esse si propongono anche di restituire il senso di una istituzione, di una vita, di un avvenimento, ecc., e non solo di spiegarlo. E quando cercano di spiegare un fenomeno, un dato avvenimento storico ad esempio, esse non possono eliminare la soggettività dello studioso. Quando uno storico, o un sociologo, ricerca le cause di tale avvenimento, egli non può evitare di privilegiare quella causa o quel tipo di cause rispetto ad altre, in funzione della propria sensibilità personale e della sensibilità del proprio tempo. L'idea di stabilire le cause obiettive di un fatto sociale o storico è illusoria. In breve, non c'è oggettività quando le scienze sociali e umane si propongono di 'interpretare', ma neppure quando si propongono di 'spiegare'.
La contrapposizione tra positivisti e antipositivisti - tra quanti vogliono assimilare le scienze umane alle scienze della natura, che mirano innanzitutto alla spiegazione obiettiva dei fenomeni psichici, sociali, ecc., e quanti le considerano discipline del tutto diverse - è al centro di due querelles sul positivismo, quella della fine del XIX secolo e quella degli anni sessanta che ha avuto due protagonisti, Karl R. Popper e Theodor W. Adorno. L'eco di quest'ultima con il tempo si è spenta; sopravvive nelle scienze sociali francesi (v. per esempio Dosse, 1995), ma assai attenuata, e questo per due ragioni: indubbiamente per una sorta di effetto-usura e poi perché la discussione ha finito per far emergere una soluzione che ci proponiamo di presentare in seguito.
Non è forse inutile affrontare, seppure brevemente, una questione di storia delle idee, quella della diversa influenza del positivismo a seconda dei paesi e delle discipline. Il riferimento al caso di Durkheim ci consente di insistere su un punto importante, ossia sul fatto che tale diffusione è in parte il risultato di contingenze storiche. Il positivismo era un movimento culturale molto forte in Francia nel periodo in cui scriveva Durkheim. Émile Littré, un allievo di Comte, era un intellettuale di grande prestigio, che esercitava una grande influenza politica all'alba della Terza Repubblica. Egli riteneva che la sua missione consistesse nel diffondere il positivismo di Comte (non però la sua 'oscurantista' religione dell'umanità). I successi delle scienze della natura e l'influenza politica di Littré sono i fattori principali che probabilmente spiegano perché il positivismo fosse più influente in Francia che in Germania in questo periodo. In Germania i successi delle scienze non furono meno grandi; esse non ebbero però un sostenitore così influente come Comte. D'altra parte, i Tedeschi avevano avuto, nella persona di Hegel, una sorta di sostituto funzionale di Comte. Ora, Hegel era assai screditato alla fine del XIX secolo, nel momento cioè in cui si istituzionalizzavano le scienze sociali e il ritorno al kantismo era molto in voga in numerosi circoli intellettuali. Si consideri poi che, sotto l'influenza di Leopold von Ranke e di Theodor Mommsen in particolare, l'indagine storiografico-erudita si era radicata in Germania piuttosto che in Francia. Tali circostanze spiegano perché i sociologi tedeschi, come Simmel, Weber o Sombart, nel definire la sociologia si confrontassero con gli storici piuttosto che con gli scienziati, e perché ricavassero i loro principî epistemologici da Kant piuttosto che dal positivismo. Se è importante richiamare l'attenzione su tali differenze è perché, fino ai nostri giorni, esse hanno sempre avuto un certo peso. Come ha mostrato Raymond Aron, un Lévi-Strauss appartiene a pieno titolo alla tradizione fondata da Durkheim. Lo strutturalismo è in effetti una variante del positivismo, in quanto anch'esso si propone semplicemente di mettere in evidenza relazioni fra dati osservabili. Così, quando studia i miti, lo strutturalista non ne indagherà affatto la genesi o il suo senso, ma studierà soltanto le regolarità che si possono scoprire analizzando insiemi di miti.
Cosa pensare delle obiezioni degli antipositivisti? La persistenza della discussione deriva dal fatto che i loro argomenti sono in parte giusti. Il fatto che lo si riconosca e che allo stesso tempo si riconosca l'importanza delle esigenze del positivismo spiega come mai la querelle non ricompaia oggi che ai margini della comunità scientifica.In effetti, se le scienze umane si pongono spesso problemi di spiegazione, esse si pongono anche problemi che riguardano, nella loro stessa formulazione, l'interpretazione: la Rivoluzione francese è stata o no una buona cosa? Il 1793 era implicito nel 1789? Stalin era inevitabile? La civiltà europea è al tramonto? La pittura moderna è un segno della morte dell'arte? Tali domande non sono evidentemente prive di interesse. Vi sono questioni che, per loro propria natura, sono questioni di interpretazione; si può dare loro una risposta più o meno interessante e 'giusta', ma è vano ricercare una risposta vera.
Un problema è di tipo interpretativo quando la risposta che gli si può dare implica necessariamente l'intervento di giudizi di valore. Per fare un esempio meno grossolano di quelli sopra richiamati, si pensi al lavoro del biografo. Comporre una biografia significa per lo storico - come ha ben visto Simmel (v., 1892) - tentare di unificare gli innumerevoli dati di cui dispone secondo determinati principî direttivi, dando risalto ad alcuni fatti piuttosto che ad altri. Un altro storico, che abbia scelto altri principî di unificazione, darà un peso differente agli stessi fatti. Le due biografie, pur incompatibili, potranno entrambe essere ritenute 'giuste'. Non è invece possibile considerare l'una superiore all'altra. Si ha qui un esempio tipico della situazione interpretativa. In questo caso la risposta alla questione posta non può, in linea di principio, essere unica. Non può esservi una biografia definitiva di un dato personaggio storico. D'altra parte, lo storico non può pretendere di raggiungere l'obiettività. Una biografia può essere più o meno 'giusta', ma non 'obiettiva'. Il biografo introduce inevitabilmente nel suo lavoro dei giudizi di valore, giudicando per esempio questo dato biografico 'importante' e quest'altro 'secondario'. Beninteso, nessun criterio oggettivo può essere associato a questi aggettivi. Come non può essere oggettiva, così una biografia non può essere definitiva: una biografia che annulli tutte le altre è impensabile, anche se è possibile, per esempio, immaginare una teoria definitiva dell'eccezione religiosa americana (v. § 6a).
Interpretare non è naturalmente prerogativa del biografo. Anche lo storico della Rivoluzione francese dovrà scegliere delle linee direttive, ordinare gli avvenimenti in funzione di tali principî. La sua interpretazione potrà essere più o meno 'giusta', ma non potrà essere unica o obiettiva. Così i 'dualisti' della prima querelle sul positivismo hanno ragione quando insistono sul fatto che, allorché le scienze umane si interrogano sul senso di un avvenimento, esse si pongono un tipo di domanda che non ha equivalenti nelle scienze della natura. Il senso di una vita o di un avvenimento non è unico, la storia della Rivoluzione francese viene sempre riscritta daccapo, come le biografie di Luigi XIV o di Pietro il Grande, e ciò non dipende in genere dalla scoperta di elementi nuovi, ma piuttosto dal fatto che, per definizione, un nuovo punto di vista è sempre possibile e si legge sempre il passato alla luce del presente. Stalin ci fa vedere Pietro il Grande in modo diverso. Occorre inoltre notare, con gli antipositivisti, che ci si può trovare in una situazione interpretativa anche quando si affrontano problemi di tipo causale. Uno stato di cose può essere così complesso che non si può pretendere di individuare tutte le cause che lo determinano e ancor meno valutare obiettivamente l'importanza relativa dei singoli fattori. Quando Marx afferma che la conquista dell'America Latina fu una causa importante del declino del mondo feudale e della nascita del mondo borghese, egli enuncia una proposizione vera. La conquista provocò un afflusso di metalli preziosi e questo un'inflazione cronica. Ora, mentre il signore feudale in tale situazione difficilmente poteva mantenere la stessa rendita senza correre i rischi di una jacquerie, il borghese poteva ottenere prestiti, investire e arricchirsi, in quanto rimborsava i suoi debiti con una moneta svalutata. Ma se non vi sono dubbi sull'esistenza di questa causa, non possiamo pronunciarci in merito alla sua importanza rispetto ad altri fattori, come quelli religiosi evocati da Weber o le innovazioni tecniche. Non si può dunque ricostruire in modo obiettivo la rete causale che ha determinato l'ascesa della borghesia; si può invece in modo assolutamente certo rispondere alla questione se la conquista dell'America Latina contribuì a questa ascesa: qui le dimensioni dell'interpretazione e della spiegazione convergono.
L'origine delle confusioni che caratterizzano le ricorrenti querelles sul positivismo che si sono avute in un passato più o meno recente non è dunque molto difficile da identificare. I dualisti dimenticano che le scienze umane e la sociologia in particolare si pongono questioni che riguardano non solo l'interpretazione ma anche la spiegazione. I monisti commettono l'errore opposto: dimenticano che le scienze umane si pongono anche questioni di interpretazione. Quando poi i dualisti riconoscono che le questioni di spiegazione concernono anche le scienze umane, essi non si rendono conto dell'impossibilità di individuare la totalità delle cause di un fenomeno, e non vedono che, relativamente a una data causa, il sociologo può dare una risposta certa al problema del carattere reale o fittizio della causa in questione.
La confusione deriva inoltre dal fatto che alcuni riducono il positivismo ad alcune varianti che potremmo definire di positivismo 'duro'. Ora, che si tratti delle scienze umane o delle scienze della natura, non si è obbligati a sottoscrivere tali forme di positivismo, né a trattare, come fa Friedman, come una scatola nera gli assiomi che descrivono il comportamento dell'attore sociale o economico. Quando i fisici utilizzano il concetto di forza, si riferiscono a un'entità non osservabile. Ma si ricorre a tale concetto perché esso si dimostra indispensabile. Il sociologo può allo stesso modo introdurre entità non osservabili e, come il fisico, sottoporle a critica. Così, l''orrore del vuoto' che Descartes considerava indispensabile nella spiegazione di ogni sorta di fenomeno fisico è scomparso dal discorso scientifico, mentre le invisibili 'forze' della dinamica sono state conservate. Le stesse scienze della natura non cercano più di eliminare tutte le entità non osservabili ma, appunto, solo quelle di cui conviene disfarsi.
Allorché le questioni poste dalla sociologia classica o moderna riguardano la spiegazione, i positivisti hanno ragione. In questo caso i principî metodologici delle scienze della natura si applicano come tali alle scienze umane. Il sociologo può avere le stesse ambizioni di rigore e di obiettività del biologo o del fisico: utilizzare delle procedure che permettano di neutralizzare la soggettività del ricercatore, cercare di giungere alla miglior teoria possibile per spiegare i fenomeni, ecc.
Si deve richiamare infine l'attenzione su un'ambiguità linguistica. Talvolta i termini 'comprensione' e 'interpretazione' sono considerati come sinonimi e quindi 'sociologia comprendente' e 'sociologia interpretativa' come espressioni equivalenti. In questo caso, si ammette implicitamente che il corrispondente indirizzo sociologico coincide con il programma definito dagli antipositivisti. È molto importante sottolineare che non è affatto in questo senso che Weber parla di 'sociologia comprendente'. Perciò, a più riprese, quando impiega tale espressione, egli precisa: "la sociologia comprendente, nel mio senso". L'approccio weberiano si discosta infatti sia da quello positivistico che da quello interpretativo.
Weber non è certo il solo ad applicare il paradigma della sociologia comprendente, ma è tra i sociologi classici quello che per primo ha attirato l'attenzione sulla sua importanza. Per Weber anche le scienze sociali ricercano le cause di un fenomeno: la spiegazione è dunque il loro obiettivo primario. Così, nell'Etica protestante, egli si interroga sulle cause che determinarono lo sviluppo del capitalismo moderno. Ma poiché le cause ultime dei fenomeni collettivi risiedono in azioni, atteggiamenti e credenze individuali, la spiegazione di un fenomeno non è completa se non rende conto di tali fattori. Comprendere un'azione, ecc., 'renderne conto', significa certo ritrovarne le cause, ma si deve subito aggiungere che per Weber tali cause coincidono con il senso che l'azione ha per l'attore individuale. Così la causa del fatto che io taglio della legna è che desidero farla bruciare per scaldarmi. La spiegazione sociologica è dunque completa allorché il sociologo è riuscito a portare alla luce il senso per gli attori degli atteggiamenti, azioni e credenze individuali che sono le cause del fenomeno che egli cerca di spiegare.
Questi principî definiscono l'approccio che dopo Schumpeter viene indicato con l'espressione 'individualismo metodologico'. Weber ha sempre applicato nelle sue analisi l'individualismo metodologico e lo ha esplicitamente teorizzato in più occasioni: "La sociologia comprendente (nel nostro senso) deve guardare all'individuo singolo e al suo agire come al proprio 'atomo' - se qui è consentito questo pericoloso raffronto [...]. Concetti come 'Stato', 'associazione', 'feudalesimo' e simili designano per la sociologia, in generale, categorie di determinate forme di agire umano in società; ed è loro compito riportarle all'agire 'intelligibile' e cioè, senza eccezione, all'agire degli uomini che vi partecipano" (v. Weber, Gesammelte..., 1922; tr. it., pp. 256-257). Come l'economia "anche la sociologia deve procedere in modo strettamente individualistico dal punto di vista metodologico" (cit. in Mommsen, 1965).
Notiamo incidentalmente che ancora oggi, confondendo il genere con la specie, si ritiene che l'individualismo metodologico implichi una concezione utilitaristica del comportamento. Si tratta di un fraintendimento in quanto nulla ci obbliga a ritenere che un'azione abbia sempre per l'attore il senso di servire al proprio interesse.
Si può illustrare quanto detto finora attraverso alcuni esempi tratti dagli studi weberiani di sociologia della religione. Perché, si chiede Weber, nella Roma antica, nella Prussia moderna e anche altrove, i funzionari, i militari e il personale politico tendenzialmente si sentivano attratti da culti che, come il mitraismo o la massoneria, proponevano un'immagine disincarnata della trascendenza, consideravano quest'ultima sottoposta a regole e concepivano la comunità dei fedeli come gerarchicamente ordinata attraverso il ricorso a riti iniziatici (v. Weber, Wirtschaft..., 1922)? Perché gli imperatori romani, da Commodo a Giuliano, hanno protetto il mitraismo, e i re di Prussia la massoneria? Gli articoli di fede di queste religioni si accordavano con quella che si può chiamare la 'filosofia' sociale e politica di funzionari, militari o politici: un sistema sociale - inteso come un sistema gerarchico-funzionale - presuppone il controllo di un'autorità centrale percepita come legittima e che opera secondo regole impersonali; nello stesso tempo, come effettivamente accade nel caso dello Stato romano o prussiano, questo ordinamento gerarchico deve essere fondato su competenze controllate attraverso procedure formalizzate. Agli occhi di questi attori sociali i principî di organizzazione politica dello Stato si conformano pienamente alla giusta 'filosofia' politica e i riti iniziatici del mitraismo o della massoneria esprimono gli stessi principî sul piano metafisico-religioso. Si deve certo ricorrere ad altri fattori per spiegare l'espansione di tali culti, e sottolineare per esempio che il mitraismo, a differenza del cristianesimo, non proibiva ai propri adepti di praticare altri culti. Alcuni fattori particolari spiegano perché la massoneria non trovò presso la monarchia francese lo stesso sostegno che ebbe presso la monarchia prussiana o inglese. Ma ciò che spiega in primo luogo il successo di tali culti è il fatto che essi contengono rappresentazioni dell'ordine sociale che appaiono valide ad alcune categorie di attori sociali. Un altro esempio, tra le decine che si potrebbero trarre da Economia e società come pure dai saggi di Sociologia delle religioni: i contadini abbracciano facilmente la magia, ci dice Weber, perché l'incertezza caratteristica dei fenomeni naturali li fa considerare governati da volontà capricciose; essi avrebbero al contrario notevoli difficoltà ad ammettere che l'ordine delle cose è sottomesso a una volontà unica, la qual cosa implicherebbe un minimo di coerenza e prevedibilità (v. Weber, 1920-1921 e Wirtschaft..., 1922). È per questo, possiamo aggiungere, che il termine paganus, il quale in origine significa 'contadino' (si pensi al francese paysan), venne utilizzato per designare i 'pagani'. Cum grano salis, si potrebbe dire che i contadini di Weber sono popperiani: abbracciano il politeismo o l'animismo piuttosto che il monoteismo perché quelle 'teorie' appaiono loro più congruenti con il carattere aleatorio dei fenomeni naturali osservati.
L'approccio weberiano soddisfa le esigenze del positivismo, di rendere le scienze sociali altrettanto solide quanto quelle della natura, e allo stesso tempo sfugge alla ingenuità del positivismo 'duro', secondo il quale per essere scientifiche le scienze sociali debbono rinunciare a occuparsi di fenomeni soggettivi. Gli stati di coscienza individuali sono fatti come gli altri: pretendere di eliminarli non significa rispettare, bensì contraddire i principî della scienza. Alcuni autori hanno obiettato che la nozione weberiana di 'senso' (per l'attore) non è chiara e che perciò il concetto di 'comprensione' è incerto. È questa una delle obiezioni mosse alla 'sociologia comprendente' weberiana da un positivista come Theodore Abel. È sufficiente, per rispondere a tale obiezione, precisare che il senso per l'attore si identifica in linea generale con le ragioni che egli adduce a fondamento delle sue credenze.
Certo, come ha messo in rilievo proprio Weber, l'azione individuale può essere ispirata non solo da motivazioni attinenti, da un lato, a quella che egli chiama la 'razionalità strumentale', e dall'altro lato alla 'razionalità assiologica', ma anche dall'attaccamento alla tradizione e da motivazioni affettive. Se il senso per l'attore è la causa delle sue azioni, questo senso non si riduce sempre a motivazioni razionali. Ma non per caso Weber, nella celebre classificazione di Economia e società, pone la categoria dell'azione tradizionale e dell'azione affettiva dopo le due altre categorie dell'azione razionale rispetto allo scopo e razionale rispetto al valore; quelle gli appaiono infatti meno importanti di queste per il sociologo. La differenza di importanza si misura soprattutto nelle analisi concrete di Weber. Solo eccezionalmente egli si accontenta di fare appello all'attaccamento alle tradizioni o a fattori affettivi, specialmente quando si tratta di render conto della diffusione delle credenze religiose, e insiste sempre sul ruolo limitato di tali fattori.
D'altra parte, 'comprendere' un'azione o una credenza non è affatto una pratica misteriosa che riguarda l''intuizione'. 'Comprendere' un'azione significa costruire una teoria di quest'ultima che soddisfi i requisiti che definiscono abitualmente una teoria scientifica. Allorché si vede qualcuno tagliare della legna in inverno, si può formulare l'ipotesi che il suo intento sia quello di procurarsi i mezzi per scaldarsi. Se egli lo conferma, o meglio ancora se mette della legna nel camino e se cerca di accendere il fuoco, non vi sarà ragione di procedere oltre. Ma il sociologo può certamente difendere un'interpretazione del comportamento dell'attore anche se smentita da quest'ultimo. Non vi è ragione di supporre che l'attore conosca del tutto il senso della propria azione, ancor meno che egli sia capace di enunciarlo o disposto a farlo. Ma solo se l'ipotesi meno complicata e più verosimile si dimostra insostenibile se ne ricercheranno altre. Per sostenere che il nostro uomo vuole mostrare al suo vicino come si taglia la legna, si dovrà per esempio stabilire che il vicino partecipa effettivamente alla scena e che aveva bisogno di essere istruito su questo punto. Per affermare che egli sacrifica a un culto oscuro, per esempio al dio dei tagliaboschi, si dovrà dimostrare questa ipotesi appurando alcune circostanze: per esempio, se il nostro uomo assiste ad altre cerimonie importanti dello stesso culto. In breve, la validità di una teoria che assegna determinate ragioni a un'azione si stabilisce come per tutte le altre teorie: essa deve essere coerente e congruente con i fatti conosciuti. Lungi dall'essere misteriosa l'operazione della 'comprensione' consiste dunque nel risolversi in favore della teoria che, fra tutte quelle intrinsecamente coerenti, meglio si accorda con i fatti. La sociologia comprendente non si discosta in alcun modo dai principî che governano la ricerca scientifica negli altri ambiti. Non vi sono, in questo orientamento, 'criteri specifici' di validità scientifica.
Le 'ragioni' sono entità non osservabili, ma questo non condanna il sociologo all'arbitrarietà. Ricostruire le invisibili ragioni che hanno ispirato i personaggi storici è un obiettivo essenziale della storia, e questa giunge frequentemente a delle conclusioni certe: benché lo storico non disponga di testimonianze dirette su questo punto, egli può per esempio affermare che, se Lenin avesse ritenuto la guerra utile alla rivoluzione, non si sarebbe pronunciato contro di essa nel 1915 (v. Sokoloff, 1993), o che le rivolte antifeudali dei contadini francesi alla fine del XVIII secolo derivavano dal fatto che i diritti feudali impedivano loro di avvantaggiarsi dell'espansione dei mercati, e non già dal fatto che tali diritti imponevano l'abbandono dell'economia di sussistenza (v. Root, 1994).
Può infine essere esaminata un'altra interpretazione del comportamento del tagliatore di legna: non è impossibile che tale comportamento sia privo di senso, cioè non obbedisca ad alcuna ragione, e che il nostro uomo abbia semplicemente la mania di tagliar legna senza che questa azione sia guidata da alcuna finalità, né quella di scaldarsi, né quella di fare dell'esercizio, né quella di compiere un rituale, né altre. In questo caso la sua azione può e deve essere analizzata esclusivamente come l'effetto di uno stato d'animo. Ma si converrà che il comportamento in questione si situa ai limiti della normalità.
Dobbiamo evitare di introdurre teorie psicologiche congetturali, inutilmente complicate o francamente inaccettabili. Così il sociologo non può ammettere che l'adesione a un sistema di credenze si spieghi 'in ultima analisi' con il fatto che tali credenze sono conformi agli interessi del soggetto sociale. Secondo alcune varianti particolari di queste teorie utilitaristiche tali interessi sarebbero determinati dalla posizione di classe dell'attore. Si tratta di teorie inammissibili - osserva giustamente Weber - nella misura in cui pretendono di avere una validità generale.In uno dei testi di Sociologia delle religioni, Weber prende posizione, in effetti in modo un po' equivoco, contro due teorie della religione particolarmente influenti ai suoi tempi (e che lo sono anche ai nostri giorni): quella di Marx e quella di Nietzsche. Per Marx le credenze religiose sono al servizio degli interessi di classe, hanno la 'funzione' di difendere tali interessi; per Nietzsche, esse sono 'dettate' ai soggetti sociali da interessi psicologici risultanti dalla loro posizione nella società. Ecco il testo di Weber: "Si è tentato di interpretare il rapporto tra etica religiosa e posizioni di interessi, in modo tale da far apparire la prima come una mera 'funzione' di quest'ultime. Non soltanto nel senso del cosiddetto materialismo storico [...] ma anche in senso puramente psicologico" (v. Weber, 1920-1921; tr. it., vol. I, p. 330). Weber parla qui di etica 'religiosa', ma il rilievo si applica evidentemente all'etica e all'assiologia in generale. Nella spiegazione marxista i valori religiosi assolvono una determinata 'funzione': servire gli interessi della classe dominante. Ora, avverte Weber, non si possono spiegare i valori con la loro funzione sociale e ancor meno con quella particolarissima funzione che è la difesa degli interessi della classe dominante. Da parte sua, il funzionalismo nietzscheano spiega i valori religiosi supponendo che essi abbiano una funzione psicologica benefica per i 'dominati'.
Nel testo qui richiamato Weber si limita a esprimere i propri dubbi sulla spiegazione marxista e a rigettarla senza discuterla, forse perché gli sembra squalificata dal suo riduzionismo estremo. Il termine stesso 'materialismo storico' appare a Weber una stranezza, senza dubbio perché esso propone di attribuire delle cause 'materiali' ai processi storici e in particolare alla genesi delle credenze collettive. Il fatto che le teorie funzionaliste marxiana e nietzscheana dei valori siano prese in considerazione insieme indica a ogni modo che Weber rifiuta le spiegazioni del materialismo storico per ragioni esclusivamente scientifiche. Dobbiamo fare questa precisazione perché, al tempo in cui Weber scriveva, il marxismo aveva in Germania una indubbia influenza politica. Ora, come è noto, Weber seguiva con passione la vita politica tedesca (v. Mommsen, 1959).
A differenza della teoria marxiana, la teoria nietzscheana del risentimento è discussa nei dettagli nel seguito del testo. Il cuore dell'argomento di Weber è che i meccanismi proposti da Nietzsche spiegano forse la sensibilità di alcuni individui a determinate dottrine etiche di carattere religioso, e più generalmente a determinati valori, ma che essi non riescono a spiegare in generale l'influenza di teorie e valori. L'interesse, e specialmente l'interesse determinato dalla posizione sociale, può far sì che si presti attenzione a una teoria, ma non è sufficiente a spiegare che vi si creda. Abbracciare una dottrina significa percepirla come 'persuasiva'. Non vi è certezza né pratica né teorica che non riposi su determinate ragioni: si accetta una teoria quando si hanno delle ragioni per accettarla, e non perché si ha un interesse ad accettarla.
Senza dubbio Weber avrebbe concesso agli storici, per richiamare qui un esempio a lui caro, che il calvinismo riuscì a conquistare i piccoli artigiani delle città perché - come Balzac aveva già dimostrato nel suo Catherine de Médicis - cristallizzava dei risentimenti, e i borghesi perché conferiva loro quella dignità negata dal cattolicesimo (v. Trevor-Roper, 1967). Ma ciò non basta a spiegare il successo 'fulminante' di questo movimento religioso e la sua diffusione nelle più diverse realtà geografiche.
Come ha osservato Robert A. Nisbet (v., 1966), sulla scia di Marx, Freud e Durkheim, i sociologi sono propensi ad ammettere che azioni, atteggiamenti e credenze dei soggetti sociali si possano spiegare evocando delle cause nascoste. In virtù di un siffatto causalismo, questi autori hanno favorito la banalizzazione dell'idea di 'falsa coscienza'. Essi rifiutano il concetto di comprensione poiché partono dal presupposto che il senso per l'attore non costituisce la causa delle sue azioni, ammettendo così che la coscienza è strutturalmente falsa. Forse non si è ancora misurata l'importanza della rivoluzione intellettuale contenuta in questa 'nuova' psicologia.Il concetto di falsa coscienza descrive indubbiamente dei processi psicologici reali. Il soggetto sociale si inganna sulle proprie ragioni o motivazioni: io credo in quel che dice un amico, ma il mio spirito critico è 'accecato' dall'amicizia. Se viene impiegata in un contesto come questo, la nozione di falsa coscienza non presenta difficoltà particolari; essa descrive una classe di stati di coscienza ben definiti ed empiricamente individuabili: qualsiasi osservatore può constatare che quanto dice il mio amico è falso, che io non me ne rendo conto, che lo difendo con deboli argomenti, ma che d'altra parte do chiaramente l'impressione di agire in buona fede, ecc. In un altro senso si può utilizzare il concetto di falsa coscienza anche per descrivere il caso in cui un soggetto assume una situazione nuova sotto categorie improprie, semplicemente perché non dispone di categorie adeguate. In breve, il concetto di falsa coscienza può descrivere in modo perfettamente accettabile stati di coscienza ben determinati. Ma tutt'altra cosa è supporre che la coscienza sia strutturalmente falsa, come accade in alcune tradizioni di pensiero, e specialmente in quelle che partono dal presupposto secondo cui, poiché non possono esistere certezze obiettivamente fondate, ogni sentimento di certezza è illusorio e attesta la falsa coscienza del soggetto. Un'obiezione decisiva può essere immediatamente mossa a tale teoria: perché mai chi la sostiene sarebbe immunizzato contro la falsa coscienza?
L'approccio della sociologia comprendente può fornire delle teorie che obbediscano a criteri di scientificità analoghi a quelli che definiscono le scienze della natura. Questo rilievo è essenziale, poiché conferma che il concetto di scientificità non deve essere definito diversamente a seconda che si tratti delle scienze dell'uomo o delle scienze della natura. Due esempi classici illustreranno questo punto.
Il fenomeno della religiosità americana è apparso profondamente enigmatico a molti grandi sociologi. Esso infatti rappresenta una sfida alla 'legge' evolutiva enunciata da Comte, dallo stesso Tocqueville, da Durkheim e da Weber, secondo la quale la modernità comporta ciò che Schiller, Balzac, lo stesso Weber e altri ancora hanno chiamato il 'disincantamento del mondo'. Questa legge è perfettamente fondata, anche se approssimativa e passibile di eccezioni, per esempio quella americana. Ora, l'enigma deriva proprio dal fatto che gli Stati Uniti sono la società in cui, secondo i principî che ispirano la legge in questione, il disincantamento dovrebbe essere più pronunciato. Perché la società più moderna, e anche la più materialistica, rimane invece la più religiosa delle nazioni occidentali? Proprio per il suo carattere sconcertante il caso ha richiamato l'attenzione di Smith, Tocqueville, Weber e di molti autori moderni. Ma questi ultimi non paiono aver apportato elementi fondamentalmente nuovi: un po' come la teoria sul pendolo è in sé conclusa dopo Huygens, si ha l'impressione che la teoria policefala di Smith-Tocqueville-Weber esaurisca largamente il tema dell'eccezione religiosa americana.
La religiosità americana si spiega, osserva innanzitutto Smith, con la diversificazione dell'offerta religiosa: ciascuno può trovare nelle innumerevoli sette presenti sul territorio americano, e che risalgono alle ondate successive di immigrazione, un corpo dogmatico conforme alle sue aspirazioni. Quando invece, come nell'Inghilterra di Smith, l'offerta religiosa è monopolistica, chi, per una ragione o per l'altra, non può accettare un dato punto del dogma o del culto non ha altre soluzioni se non quella di uscire dalla comunità dei fedeli. La teoria di Smith rende conto senza dubbio di una parte del fenomeno dell'eccezione americana. Essa spiega forse anche il fatto che oggi i paesi dove l'ateismo è più sviluppato sono quelli, come i Paesi Scandinavi, in cui esiste una Chiesa dominante in situazione di monopolio quasi perfetto, avente per di più lo statuto di religione di Stato.
La teoria smithiana spiega dunque sia l'eccezione americana che molti dati relativi, segnatamente, ai tassi differenziali di ateismo. Ma essa non spiega che parzialmente l'eccezione americana. Tocqueville completa la costruzione teorica di Smith. La fioritura di istituzioni religiose in America (una moltitudine di sette, non una Chiesa dominante) ha avuto altri effetti oltre quelli su cui ha insistito Smith. Essa ha reso poco plausibile la concorrenza tra religione e politica che si era creata per esempio in Francia durante la Rivoluzione del 1789. Di conseguenza, le sette americane hanno conservato alcune funzioni sociali essenziali (sanità, istruzione, assistenza) che nelle nazioni europee sono passate nelle mani dello Stato. Il carattere federale dello Stato americano, con la delimitazione delle sfere di competenza delle strutture federali, ha agito nello stesso senso. Ne deriva che il cittadino americano incontra le istituzioni religiose nella sua vita di tutti i giorni; come potrebbe sviluppare in queste circostanze dei sentimenti negativi nei loro confronti? Oltre a ciò, la molteplicità delle sette ha fatto sì che si sviluppasse una grande tolleranza nei confronti delle 'credenze dogmatiche'. Poiché le credenze variano da una setta all'altra, si è rapidamente arrivati all'idea secondo cui le verità dogmatiche dipendono in larghissima misura dalla valutazione personale. Questa valorizzazione dell'interpretazione personale del dogma, latente nel protestantesimo, si rafforza là dove esiste una pluralità di sette.
Tutto questo ha prodotto, a sua volta, un effetto di cruciale importanza: essendo le credenze dogmatiche molto diverse, il fondo comune del protestantesimo americano è di natura molto più 'morale' che 'dogmatica'. I cristiani e i protestanti in particolare si riconoscono nei valori morali di cui il cristianesimo è portatore piuttosto che negli articoli di fede che entrano in concorrenza con l'interpretazione scientifica del mondo. Di conseguenza, la religiosità americana ha risentito meno di quella francese dei progressi della scienza.
Weber aggiunge a questa teoria un elemento essenziale (v. Boudon, 1993). L'importanza del mito egualitario negli Stati Uniti (che si spiega col suo carattere di paese di immigrazione) fa sì che i simboli della stratificazione sociale (nel linguaggio, nell'abbigliamento, ecc.) siano molto meno marcati che in Francia o in Germania. Ora, poiché esiste sicuramente una stratificazione negli Stati Uniti, e poiché la vita sociale nei suoi aspetti più semplici e ricorrenti comporta che si sappia 'con chi si ha a che fare', vale a dire che si possa valutare immediatamente il posto dell'altro nella scala sociale, è importante poter disporre di simboli di stratificazione. Poiché le differenze nell'abbigliamento, nel linguaggio, nei gesti, nei segni ufficiali di distinzione (onorificenze, titoli più o meno altisonanti), ecc., non hanno negli Stati Uniti l'importanza che hanno altrove, sono le appartenenze religiose a servire da "sostituti funzionali" (per usare l'espressione di Robert K. Merton). Perché vengono ad assumere questa funzione? Perché sulla base della storia dei fenomeni migratori, esiste una correlazione fra appartenenza religiosa e ondate migratorie, e quindi fra tale appartenenza e la posizione nel sistema di stratificazione, poiché un gruppo ha più chances di far parte delle élites se corrisponde a una immigrazione più antica. Se la teoria di Smith-Tocqueville-Weber dell'eccezione religiosa americana non è stata quasi messa in discussione in seguito, e non è stata integrata se non nei dettagli, è perché essa fornisce una spiegazione dei fenomeni esaminati perfettamente soddisfacente dal punto di vista scientifico. Allo stesso tempo, questa teoria continua a ispirare un gran numero di ricerche (v. Chaves e Cann, 1992).
Perché tale teoria è soddisfacente? Perché le sue proposizioni empiriche sono congruenti con la realtà (è vero che esistono delle sette negli Stati Uniti, e una religione dominante in Francia, in Germania o in Inghilterra; che i compiti educativi e assistenziali sono più spesso svolti da istituzioni religiose negli Stati Uniti che non in Francia o in Germania; che l'ateismo è più diffuso in Inghilterra che non negli Stati Uniti, ecc.). In breve, questa teoria contiene numerose proposizioni di cui si può valutare la congruenza con la realtà e che da questo punto di vista (popperiano) sono quindi perfettamente accettabili. Molte altre sue proposizioni, però, non sono empiricamente verificabili: allorché si è in disaccordo con un sistema dogmatico, si tende a ricercarne un altro (Smith); si possono avere sentimenti negativi nei confronti di istituzioni di cui si apprezzano i servizi (Tocqueville); quando si sente di appartenere a una comunità e le opinioni divergono sul tema A e convergono sul tema B si tende a definire la comunità sulla base di B (Tocqueville); la competizione cristallizza l'ostilità (Tocqueville); l'interazione elementare non può fare a meno di simboli di stratificazione (Weber), ecc. Tutte queste proposizioni sono altrettanto poco direttamente 'controllabili' quanto quelle che postulano l'esistenza di forze che fanno oscillare il pendolo. Ma esse sono scientificamente ammissibili, perché di ciò che enunciano possiamo trovare moltissime applicazioni in altri casi. Questi enunciati 'psicologici' o 'sociologici' sono ammissibili quanto gli enunciati 'fisici' della legge del pendolo di Huygens.
Tale esempio è sufficiente a dimostrare che si trovano facilmente nelle scienze sociali teorie che possono essere valutate in base agli stessi criteri che si utilizzano per valutare una teoria delle scienze della natura. La teoria policefala in questione è accettabile quanto quella di Huygens e per le stesse ragioni: perché essa soddisfa autorevolmente i criteri, popperiani e non popperiani, che permettono di valutare una teoria scientifica.
Pur non dichiarandosi positivista, Weber afferma costantemente la capacità della sociologia - come lui la intende - di essere solida quanto le scienze della natura. D'altra parte, egli appare pienamente cosciente, nelle sue analisi come nei suoi testi teorici, del fatto che la sociologia da lui preconizzata non si discosterà dalle procedure delle altre scienze. Nel sottolineare che il sociologo deve innanzitutto ricercare le cause reali dei fenomeni collettivi, egli condivide l'obiettivo centrale del positivismo. Nell'affermare il principio secondo cui è necessario scacciare i 'fantasmi collettivi', considerando i fenomeni collettivi come il risultato di atti, credenze o atteggiamenti individuali, e individuando nel 'senso per l'attore' di tali atti, credenze e atteggiamenti la loro causa reale, egli definisce un criterio che permette al sociologo di evitare il ricorso a entità non osservabili. Questi principî gli appaiono tali da rendere la sociologia una scienza come le altre. Si tratta per il sociologo di ritrovare le cause dei fenomeni che studia costruendo teorie esplicative che siano congruenti con la realtà e i cui elementi non osservabili siano scientificamente ammissibili. L''ansia esistenziale' di cui Weber parla nella sua teoria della magia, l'ansia di sopravvivere che è alla base delle ricette mediche utilizzate dall'agricoltore o dal pescatore, non è più direttamente osservabile delle 'forze' di Huygens; ma chi solleverà la benché minima obiezione dinanzi a tale concetto? Se le si esamina con attenzione, le teorie proposte da un Tocqueville o da un Weber (e naturalmente da altri) per spiegare gli innumerevoli fenomeni enigmatici che essi studiano, riposano sempre su un insieme di proposizioni psicologiche come quella appena evocata; tali proposizioni hanno da una parte la caratteristica di non essere direttamente controllabili, dall'altra quella di essere scientificamente ammissibili perché, come le forze di Huygens, veicolano dei concetti (quali appunto 'l'ansia di sopravvivere') indispensabili alla spiegazione dei fenomeni più diversi.
Perché gli intellettuali francesi - si domanda Tocqueville ne L'ancien régime - alla vigilia della Rivoluzione credevano così fortemente nell'idea di Ragione con la R maiuscola e perché questa fede si diffuse alla velocità della luce fra la popolazione francese? La questione ha tutti i caratteri di un enigma, perché lo stesso fenomeno non si produsse nello stesso periodo, per esempio, né in Inghilterra né negli Stati Uniti.
In effetti, secondo Tocqueville, gli scrittori e i cittadini francesi della fine del XVIII secolo avevano buoni motivi per credere nella Ragione. La Francia di quel tempo era in uno stato tale che le istituzioni tradizionali a molti apparivano illegittime. Così, secondo l'istituzione della divisione in 'stati', la nobiltà era superiore al Terzo stato, ma i nobili non partecipavano né agli affari politici locali, né alla vita economica, e consumavano il loro tempo a Versailles; quelli tra loro, sovente squattrinati, che rimanevano in campagna si aggrappavano tanto più ai loro privilegi quanto più erano sprovvisti di mezzi economici (è per questo motivo che venivano chiamati hobereaux, ossia falchi). Non vi era dunque alcuna ragione per trattare i nobili come superiori. Una simile superiorità giuridica era il prodotto della tradizione, ma veniva percepita come una disfunzione e di conseguenza come illegittima. La stessa cosa può dirsi di molte altre istituzioni. Tutto ciò generò la convinzione che le tradizioni sono cattive, le istituzioni sono prive di funzioni, nient'altro che residui di un morto passato, lo status delle persone è disgiunto dalla loro importanza sociale, e nel complesso all'origine di tutti i mali vi è l'eternizzazione di un ordine ormai obsoleto. Si stabilisce allora un'equazione: tradizione = caos = ineguaglianza = ingiustizia = istituzioni che non funzionano affatto; e per opposizione, ragione = pianificazione = eguaglianza = giustizia = progresso.
Da qui la visione 'artificialista' delle società sviluppata dai filosofi illuministi, e l'ardente volontà di ricostruire la società secondo un piano razionale: tutti "pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari attinte alla ragione e alla legge naturale, le consuetudini complesse e tradizionali che reggono la società del loro tempo" (v. Tocqueville, 1856; tr. it., p. 230). Tocqueville non considera mai queste credenze (che peraltro non condivide) come prive di senso. Al contrario, nel contesto francese, gli intellettuali avevano delle buone ragioni per credervi, così come i loro colleghi inglesi avevano delle buone ragioni per non farlo. In Inghilterra infatti i nobili avevano un ruolo fondamentale nella vita sociale, politica ed economica a livello locale. La superiorità accordata ai costumi e alle tradizioni era dunque percepita come funzionale e di conseguenza come legittima. Dietro la valorizzazione della Ragione contro la tradizione che caratterizzava la situazione francese, Tocqueville scopre in altri termini un procedimento argomentativo che ne fonda il senso per ciascun individuo e spiega quindi come essa sia potuta diventare collettiva. Tale argomentazione poggiava su una vera e propria teoria politica, la quale afferma per esempio che le distinzioni sociali possono essere percepite come legittime a condizione di essere fondate su funzioni sociali la cui importanza è riconosciuta da tutti. La presenza in forma latente di tale argomentazione nella mente degli individui spiega perché l'appello dei philosophes alla Ragione avesse incontrato un successo immediato tra la popolazione. Al limite, si può ben spiegare una credenza collettiva, secondo Tocqueville, mostrando che essa è il risultato di una argomentazione implicita che forse nessuno degli attori ha mai sviluppato pienamente, ma che si può con qualche verosimiglianza attribuire all'attore ideale che li rappresenta tipicamente.
Si deve sottolineare che il modello della sociologia comprendente nel senso di Weber può essere considerato una generalizzazione di quello della rational choice, in cui i fenomeni collettivi sono analizzati come prodotti dell'aggregazione di azioni individuali, la causa di queste azioni è il senso per l'attore e tale senso consiste nelle ragioni che l'attore ha di compiere l'azione in questione; ma qui interviene una restrizione rispetto al modello weberiano: le ragioni degli attori consistono sempre, secondo il modello della rational choice, in considerazioni di interesse.Questo accostamento ci consente di fare una considerazione. Le scienze sociali appaiono oggi caotiche. Tale impressione deriva dal fatto che esse utilizzano molteplici paradigmi: paradigmi positivistici di tipo causale, paradigma utilitarista, paradigmi antipositivistici. Il paradigma della sociologia comprendente nel senso di Weber è, a quanto sembra, il solo che abbia una reale capacità di unificazione. (V. anche Epistemologia delle scienze sociali; Individualismo metodologico; Positivismo e neopositivismo).
Boudon, R., European sociology: the identity lost, in Sociology in Europe. In search of identity (a cura di B. Nedelmann e P. Sztompka), New York-Berlin 1993, pp. 27-44.
Chaves, M., Cann, D., Regulation, pluralism and religious market structure: explaining religious vitality, in "Rationality and society", 1992, IV, 3, pp. 272-290.
Dosse, F., L'empire du sens, Paris 1995.
Durkheim, É., Le suicide. Étude de sociologie, Paris 1897 (tr. it.: Il suicidio. Studio di sociologia, Torino 1969).
Gerth, H.H., Mills, C.W., Introduction, in M. Weber, From Max Weber. Essays in sociology, New York-Oxford 1946 (tr. it. in: Max Weber. Da Heidelberg al Midwest, Milano 1991).
Mommsen, W., Max Weber und die deutsche Politik, 1890-1920, Tübingen 1959.
Mommsen, W., Max Weber's political sociology and his philosophy of world history, in "International social science journal", 1965, XVII, 1, pp. 23-45.
Nisbet, R.A., The sociological tradition, Glencoe, Ill., 1966 (tr. it.: La tradizione sociologica, Firenze 1977).
Root, H.L., La construction de l'état moderne en Europe. La France et l'Angleterre, Paris 1994.
Schweisguth, E., Grunberg, G., Bourdieu et la misère: une approche réductionniste, in "Revue française de science politique", 1996, XLVI, 1, pp. 134-155.
Simmel, G., Die Probleme der Geschichtsphilosophie: eine erkenntnistheoretische Studie, München-Leipzig 1892 (tr. it.: Problemi di filosofia della storia, Torino 1982).
Sokoloff, G., La puissance pauvre. Une histoire de la Russie de 1815 à nos jours, Paris 1993.
Tocqueville, A., L'ancien régime et la Révolution, Paris 1856 (tr. it.: L'antico regime e la rivoluzione, Torino 1989).
Trevor-Roper, H., Religion, the Reformation and social change and other essays, London 1967 (tr. it.: Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma-Bari 1975).
Weber, M., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 voll., Tübingen 1920-1921 (tr. it.: Sociologia delle religioni, 2 voll., Torino 1976).
Weber, M., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922 (tr. it.: Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1967).
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, 2 voll., Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, 2 voll., Milano 1961).