SPETTROSCOPIA
. La spettroscopia studia lo spettro della luce in relazione con le condizioni fisiche e chimiche della sorgente luminosa.
Tra la composizione chimica della sorgente e la struttura dello spettro esiste una relazione diretta, rimasta per varie ragioni a lungo insospettata. Solo nel 1859 G. Kirchhoff e R. Bunsen riuscirono a mostrare che in certi casi è possibile trarre dall'esame dello spettro conclusioni sicure sulla presenza nella sorgente di certi elementi chimici. Similmente essi mostrarono che è possibile ricavare infomazioni sulla temperatura, pressione e altre condizioni fisiche della sorgente. È ben nota l'importanza che hanno avuto queste scoperte per lo sviluppo dell'astronomia. L'ulteriore scoperta della relazione esistente tra le frequenze della luce di certi spettri e i movimenti che avvengono nell'interno degli atomi e delle molecole, ha fatto della spettroscopia il mezzo più potente per lo studio della struttura di queste particelle.
Dopo la scoperta dello spettro solare (1666) per opera di Newton, i primi sforzi degli spettroscopisti furono naturalmente diretti al perfezionamento dei metodi di osservazione, più che al problema centrale dell'origine degli spettri.
Era infatti necessario anzitutto costruire apparecchi capaci di rivelare la struttura dello spettro molto più in dettaglio che non con la primitiva disposizione di Newton. Occorreva inoltre inventare un metodo per la misura della frequenza ν di una qualsiasi luce monocromatica (o rispettivamente della lunghezza d'onda λ, legata alla frequenza dalla relazione λν = v, velocità della luce).
Lo studio di questi due problemi venne intrapreso con grande energia sull'inizio del sec. XIX.
J. Fraunhofer perfezionò grandemente la primitiva disposizione di Newton, soprattutto con l'introduzione di una o più lenti sul cammino dei raggi (v. in seguito), ottenendo spettri di grande purezza (uno spettro viene detto puro se le parti dello spettro illuminate da diversi colori non si sovrappongono); erano cosi aperte nuove possibilità alla spettroscopia, poiché esaminando lo spettro con un forte oculare diveniva possibile osservare un gran numero di dettagli prima insospettati.
Il problema della misura della lunghezza d'onda venne risolto quasi contemporaneamente (1821) da A. Fresnel e da Fraunhofer, con due metodi essenzialmente diversi. È interessante osservare che il metodo di Fresnel, fondato su fenomeni d'interferenza, benché assai meno preciso di quello di Fraunhofer, si può considerare come precursore dei moderni apparecchi interferenziali (di Michelson, Fabry e Pérot, ecc.), che superano, in precisione e sicurezza delle misure, qualsiasi altro strumento. D'altra parte lo strumento inventato da Fraunhofer, il reticolo (v. reticolo di diffrazione), non solo ha fornito per lungo tempo le misure più precise, ma è stato ed è tuttora il più prezioso strumento spettroscopico, grazie alle sue proprietà analoghe a quelle del prisma. È infatti possibile, mediante i reticoli, ottenere spettri che sorpassano in finezza di dettagli quelli dì qualsiasi apparecchio a prismi. Inoltre i reticoli possono venire adoperati anche in regioni dello spettro (estremo ultravioletto, estremo infrarosso) per cui non si posseggono prismi.
La lunghezza d'onda viene generalmente data in μ (micron) o in Ångström (1 = 10-8 cm.). L'indicazione abbreviata λ 5890 significa (lunghezza d'onda) = 5890 Ångström.
Contemporaneamente ai progressi ora detti, riguardanti soprattutto la tecnica dell'osservazione degli spettri, il campo della spettroscopia veniva considerevolmente allargandosi, grazie alla scoperta delle regioni invisibili dello spettro. La regione infrarossa, costituita da radiazioni di lunghezza d'onda superiore a 8•10-5 centimetri, venne scoperta nel 1800 da W. Herschel, che poté rivelare queste radiazioni sfruttando la loro azione termica. Il metodo inventato da Herschel venne in seguito portato a grande sensibilità da M. Melloni con l'invenzione della pila termoelettrica (1831) e da S. P. Langley col bolometro (1880).
La scoperta dell'ultravioletto fu fatta da J. W. Ritter (1801) nel corso di ricerche sulle azioni chimiche della luce. Queste azioni sono alla base della fotografia, la quale fornisce ancor oggi il mezzo principale per lo studio delle radiazioni ultraviolette.
Non solo in questa regione, ma anche in quella visibile, i servizî resi dal metodo fotografico alla spettroscopia sono incalcolabili. Ormai da lungo tempo qualsiasi ricerca spettroscopica di qualche precisione viene compiuta col metodo fotografico. Questo permette infatti di registrare in breve tempo un gran numero di particolari che possono venire in seguito esaminati con cura, quante volte si vuole, senza limiti di tempo; d'altra parte esso permette, usando pose molto lunghe, di osservare radiazioni troppo deboli per essere percepite dall'occhio.
Come abbiamo detto, il problema essenziale della spettroscopia è quello dell'origine degli spettri. L'attenzione dei fisici venne particolarmente attratta su questo problema dalle ricerche di Fraunhofer sullo spettro solare.
Avendo, come si è detto, straordinariamente perfezionato i metodi di osservazione, Fraunhofer scoprì che lo spettro solare non era un continuo, come Newton aveva creduto, ma era solcato da un numero straordinario di sottilissime righe scure. Il significato di queste righe non doveva però apparire che in seguito alle fondamentali ricerche di G. Kirchhoff e R. Bunsen, e alla conseguente scoperta del fenomeno dell'inversione.
Questi autori stabilirono che lo spettro della luce emessa da un vapore monoatomico è costituito da una successione discreta di righe luminose, caratteristiche dell'elemento costituente il vapore. Così, per es., il vapore di sodio (ottenibile facilmente ponendo un po' di cloruro di sodio nella fiamma di un becco Bunsen) emette una caratteristica luce gialla quasi monocromatica, costituita più precisamente da due righe vicinissime, le ben note righe D del sodio (λ 5890 e λ 5896). Orbene, ogni volta che queste righe vengono riscontrate in uno spettro, possiamo concludere con certezza che nella sorgente si trova del sodio. In questo modo è sorto un nuovo metodo di analisi chimica, estremamente potente, sia perché permette talora di rivelare tracce minime di una sostanza, sia perché, essendo indipendente dalla distanza della sorgente, può venire applicato a corpi lontanissimi come le stelle. L'astronomia ne è stata completamente rinnovata.
A questa importante scoperta seguì quella dell'inversione: le radiazioni che una sostanza emette sono anche quelle che essa può assorbire. Se, per es., si manda un'intensa luce contenente tutte le frequenze visibili (un "continuo") attraverso una fiamma al sodio, nella luce trasmessa si riscontrano mancanti precisamente le frequenze corrispondenti alle due righe D; appariranno quindi nello spettro due righe scure al posto occupato, nello spettro di emissione della fiamma, dalle due righe chiare. Kirchhohff riuscì anche a dimostrare, con un ragionamento termodinamico, che è stato poi modello a infiniti altri ragionamenti analoghi, che vi è una relazione quantitativa tra assorbimento ed emissione di una determinata radiazione.
(Questa relazione dipende dalla temperatura della sorgente e ha quindi un senso solamente quando questa temperatura ha un significato ben determinato, il che può non avvenire in particolari condizioni di eccitazione).
In questo modo erano poste le basi per l'interpretazione delle righe oscure di Fraunhofer, che potevano venire individuate come spettro di assorbimento dovuto a un'atmosfera gassosa circondante il sole; bisognava cioè ammettere che nel sole vi fosse una parte centrale più brillante, che emette uno spettro continuo; di questo continuo una parte viene assorbita dall'atmosfera circostante, dando luogo a uno spettro d'assorbimento, che ci rivela la composizione chimica di tale atmosfera.
In laboratorio, uno spettro di assorbimento si può ottenere interponendo la sostanza da studiare tra lo spettroscopio e una sorgente che emette uno spettro continuo. Spettri continui vengono emessi in generale da solidi o liquidi, ma eventualmente anche da sorgenti gassose. Per esempio uno spettro continuo ultravioletto molto usato in ricerche spettroscopiche è fornito, in opportune condizioni, da un tubo pieno d'idrogeno percorso da una scarica elettrica. Si è potuto dimostrare che questo continuo è dovuto alla molecola d'idrogeno. In linea generale, però, i corpi allo stato molecolare emettono spettri di bande, ben distinguibili (v. molecola, XXIII, p. 551), dagli spettri di righe, che vengono invece attribuiti agli atomi.
L'interpretazione della complicata struttura degli spettri di righe è attualmente un problema risolto, almeno nelle sue linee generali; ma che ha richiesto parecchi decennî di lavoro sperimentale e teorico. Si deve soprattutto a J. R. Rydberg, F. Paschen e C. Runge, e a W. Ritz, la scoperta d'importanti regolarità nella successione delle righe spettrali, che hanno posto le necessarie basi sperimentali per l'edificazione di una teoria razionale degli spettri. Parte essenziale nello sviluppo della teoria ha anche avuto l'effetto magneto-ottico scoperto da P. Zeeman (v.) nel 1896.
La moderna teoria degli spettri ha le sue origini nei lavori di H. A. Lorentz, M. Planck, A. Einstein; le basi ne sono state poste nel 1913 da N. Bohr, e la forma, in certo senso, definitiva ne è stata raggiunta nel periodo dal 1925 al 1927 (v. atomo; quantistica, meccanica).
Allo stesso modo come gli spettri di righe hanno fornito la base indispensabile per la conoscenza della struttura dell'atomo, così gli spettri di bande hanno fornito un metodo prezioso per lo studio delle molecole. È nata così, per opera di J. Franck e altri, una nuova chimica. La struttura di molecole assai complesse ha potuto venir chiarita soprattutto grazie all'effetto Raman (v. raman, sir chandrasekhara venkata).
Prima di entrare in un esame più accurato dei metodi e degli strumenti della spettroscopia, si riassumono alcuni risultati in una tabella, contenente le lunghezze d'onda delle righe spettrali più note e di punti dello spettro interessanti sotto qualche aspetto. Nella prima colonna è indicato l'elemento che produce la riga. Nella seconda r r significa riga di risonanza (v. in seguito), rp riga proibita. La terza colonna contiene l'indicazione della riga, secondo Fraunhofer, nello spettro di assorbimento del sole. La lunghezza d'onda è data in Ångström (= 10-8 cm.) o in micron (i μ = 10-4 cm.).
Metodi di osservazione.
Strumenti spettroscopici. - Come abbiamo già accennato, lo studio degli spettri si può fare mediante strumenti di varî tipi, ognuno dei quali può presentare particolari vantaggi, secondo il genere della ricerca.
Prisma. - Il tipo più semplice di spettrografo a prisma, discendente diretto della disposizione usata da Newton (v. spettro), è illustrato nella fig. 1. La luce viene immessa nell'apparecchio attraverso una fenditura sottile F, regolabile, posta nel piano focale di una lente collimatrice C. I raggi luminosi, dopo aver attraversato il prisma, vengono concentrati dalla lente obiettivo O, nel cui piano focale P è posta la lastra fotografica (al posto dello schermo). Se la luce è monocromatica, si forma così sulla lastra un'immagine nitida della fenditura, ossia una riga, la cui posizione dipende dalla lunghezza d'onda della luce. Le lenti devono essere, possibilmente, acromatiche, il prisma dev'essere in posizione di deviazione minima (v. prisma), poiché ciò riduce le aberrazioni. Ciò nonostante, l'immagine della fenditura non è perfetta, in particolare essa non è rettilinea.
Analogamente è costruito uno spettroscopio, cioè un apparecchio che permette l'esame diretto dello spettro. Basta sostituire alla lastra un oculare, mediante il quale viene osservata l'immagine dello spettro che si forma nel piano focale dell'obiettivo. L'obiettivo e l'oculare sono in generale riuniti, formando così un cannocchiale, puntato all'infinito. Nella sua forma più semplice lo spettroscopio si ottiene posando un prisma sulla piattaforma di uno spettrometro. Questo è costituito da un sostegno, su cui è montato rigidamente il "collimatore" (fenditura e lente collimatrice) e un cannocchiale (che va puntato all'infinito) girevole intorno a un asse verticale. Su quest'asse è centrata la piattaforma, essa pure girevole. Cannocchiale e collimatore sono orizzontali. L'apparecchio è fornito di un cerchio graduato, che permette di misurare l'angolo tra due posizioni diverse del cannocchiale. Nel piano focale dell'obiettivo del cannocchiale si trova una scala micrometrica o un reticolo (due fili in croce).
Per misure precise si usano spettroscopî e spettrografi più complessi, costruiti con varî principî (v. spettrografo; spettroscopio).
Dispersione e potere risolutivo del prisma. - La descrizione sommaria da noi data dello spettrografo a prisma è sufficiente per una discussione delle proprietà più importanti di questo strumento.
Si chiama dispersione dello spettrografo la quantità dx/dλ, ove dx è la distanza, sulla lastra, di due righe di lunghezza d'onda rispettivamente λ e λ + dλ. Indicando con f la distanza focale dell'obiettivo e con l'angolo di deviazione del prisma per la lunghezza d'onda λ, si ha evidentemente dx = f dϑ. Si può dimostrare che dϑ/dλ (la dispersione del prisma) è data da
dove n è l'indice di rifrazione e t1 t2, a hanno il significato che risulta dalla fig. 2. I due raggi ivi disegnati possono essere due raggi qualunque del fascio parallelo che attraversa il prisma; in particolare si tratti dei due raggi estremi che limitano il fascio; in tal caso, se il prisma è completamente utilizzato, si ha praticamente t1 = 0, t2 = b (base del prisma), a = apertura del fascio uscente, e finalmente
La possibilità di vedere distinte due righe molto vicine non dipende però soltanto dalla loro distanza, ma anche dalla loro finezza, la quale a sua volta dipende dalla larghezza della fenditura. Converrà quindi usare una fenditura molto sottile.
La diffrazione impedisce però di ottenere righe infinitamente sottili. L'importanza di ciò fu riconosciuta chiaramente da lord Rayleigh a cui si deve il classico ragionamento seguente.
L'immagine della fenditura nel piano P (fig. 3), quando la fenditura diventa molto sottile, è in realtà un'immagine di diffrazione, della classe di Fraunhofer (v. interferenza e diffrazione). Supponendo la fenditura infinitamente sottile e la luce perfettamente monocromatica, possiamo trattare il fascio uscente dal prisma come se fosse limitato da un diaframma D. L'immagine di diffrazione all'infinito (ossia nel piano focale P della lente) è in questo caso ben nota: una frangia centrale brillante, con deboli frange laterali. La distribuzione d'intensità è rappresentata nella curva della fig. 4. Il primo minimo d'intensità si presenta a una distanza angolare dal massimo, data da
ciò corrisponde a una distanza
nel piano focale P.
Trascurando le deboli frange laterali (che contengono meno del 5% della luce) vediamo che due righe appariranno completamente separate solo se la distanza dei loro centri è maggiore di 2 f
Tuttavia è possibile distinguere l'esistenza di due righe anche quando le loro immagini si sovrappongono in parte. Nella fig. 5 sono disegnate le distribuzioni d'intensità di due righe i cui centri distano solo di
(curve 1 e 2) e la distribuzione somma (curva 3). In queste condizioni l'occhio può ancora in certi casi vedere due righe luminose separate da una riga scura (il minimo di curva 3). Naturalmente tale possibilità dipende sia dalle condizioni d'intensità, sia dall'occhio stesso. Eventualmente, con metodi fotometrici, si potrà raggiungere una risoluzione un po' maggiore. È però opportuno fissare, per convenzione, il caso rappresentato nella fig. 5 come limite di risoluzione dell'apparecchio. Si dice dunque che due righe sono appena separate quando il centro dell'una cade sul primo minimo dell'altra; indicando con λ e λ + Δλ le rispettive lunghezze d'onda, si chiamerà "potere risolutivo teorico" dell'apparecchio il numer (λ/Δλ). Sarà dunque
e mediante la (1) otteniamo la formula fondamentale:
Illustriamo questa formula con un esempio classico. La luce gialla del sodio è costituita da due righe molto vicine (le righe D), di lunghezza d'onda 5890 Å e 5896 Å. Per separarle, occorre un potere risolutivo 5890/6 cioè circa 1000. Usando un prisma di flint, si ha, approssimativamente:
nella parte visibile dello spettro; in particolare per
Per separare le D del sodio occorre quindi un prisma la cui base è almeno di 1000/965 ~ 1 cm.
Finora abbiamo supposto che la fenditura fosse infinitamente sottile. In realtà la fenditura ha una certa larghezza, e il potere risolutivo ne risulta diminuito. Tuttavia è evidente che esso non cambia sensibilmente, finché l'immagine della fenditura nel senso dell'ottica. geometrica non diventa di larghezza paragonabile con quella dell'immagine di diffrazione considerata precedentemente. Siccome il flusso luminoso attraverso la fenditura cresce proporzionalmente alla sua larghezza, conviene appunto allargare la fenditura finché la larghezza "geometrica" dell'immagine e quella "di diffrazione" sono dello stesso ordine. Un ulteriore allargamento non solo va a scapito del potere risolutivo, ma anche non reca vantaggio dal punto di vista dell'intensità luminosa, poiché l'aumento del flusso luminoso va speso ad aumentare la larghezza dell'immagine, senza che aumenti sensibilmente nello stesso tempo l'illuminazione delle varie parti dell'immagine.
Reticolo. - Gli spettroscopî a prismi, benché utilissimi, sono inferiori sotto molti rispetti ai reticoli. Questi sono costituiti in generale da una successione di righe equidistanti scalfite in una superficie liscia, di vetro o metallica. Se la superficie è metallica, il reticolo può venire usato solo per riflessione. Consideriamo questo caso, che è il più interessante, e supponiamo dapprima che la superficie sia piana.
Nella fig. 6 è rappresentata la sezione di un reticolo secondo un piano perpendicolare alle scalfitture. Sia un fascio di raggi incidenti, paralleli e monocromatici, paralleli al piano della figura, e formanti un angolo ϕ con la normale alla superficie del reticolo. Soltanto i tratti intermedî tra le scalfitture riflettono nel modo normale; in queste condizioni non si hanno soltanto i normali raggi riflessi (ϑ = ϕ), ma anche raggi diffratti in altre direzioni. Si può dimostrare che l'intensità dei raggi diffratti si concentra quasi interamente in alcuni massimi (molto pronunciati e sottili, se il numero delle scalfitture del reticolo è grande) in alcune direzioni, parallele al piano della figura, e tali che:
dove a è la distanza tra due tratti successivi del reticolo e m = 0, ± 1, ± 2, ... I raggi riflessi corrispondono a m - 0; mentre i massimi corrispondenti a m = ± 1, ± 2, .... si dicono rispettivamente del I, II, ... ordine.
Poiché la posizione di un massimo dipende, oltre che da m, anche da λ., vediamo che il reticolo possiede proprietà dispersive analoghe a quelle del prisma. Si userà quindi una disposizione analoga: fenditura, lente collimatrice, reticolo, obiettivo. Nel piano focale dell'obiettivo si formeranno ora non più uno spettro, ma diversi spettri, corrispondenti ai varî ordini. Se la luce incidente si estende a un intervallo spettrale esteso, si potrà avere una parziale sovrapposizione di spettri dei diversi ordini, che talvolta disturba l'osservazione.
Rowland ha costruito reticoli d'inimitabile perfezione, che, essendo incisi su un pezzo di superficie sferica invece che piana (reticoli concavi), uniscono in un certo senso le proprietà di uno specchio concavo a quelle di un reticolo. Ciò permette di evitare l'uso di lenti nello spettrografo, vantaggio inestimabile nello studio dell'ultravioletto e dell'infrarosso. Per queste radiazioni non si posseggono infatti lenti acromatiche; al disotto di λ 1200 non si hanno addirittura lenti di nessun genere.
Grazie alla loro alta perfezione i reticoli di Rowland sono diventati il più prezioso mezzo di ricerca spettroscopica in tutto il mondo. Esistono varî modi dì montare un reticolo concavo. I più noti montaggi (di Rowland, di Paschen, di Eagle) si fondano sulle proprietà del "cerchio di Rowland": la fenditura è posta in un punto della circonferenza tangente al reticolo e di diametro uguale al raggio di curvatura del reticolo. Gli spettri dei varî ordini sono tutti a fuoco sulla circonferenza medesima. Il montaggio di A. Eagle è rappresentato nella fig. 7. La lastra fotografica L è montata a un'estremità di una lunga cassetta e può ruotare intorno a un asse verticale. La fenditura è montata lateralmente in posizione tale che la sua immagine nel prisma P a riflessione totale, che devia i raggi verso il reticolo, sia posta un po' sotto il centro della lastra fotografica. La relazione col cerchio di Rowland è indicata lateralmente nella figura. I cerchi, tutti dello stesso diametro, hanno i centri nei punti 1, 2, 3, e 4 rispettivamente, e le posizioni corrispondenti della lastra e del reticolo sono indicate con gli stessi numeri. Il montaggio di Eagle è molto compatto e robusto e viene spesso preferito. Per lo studio dell'estremo ultravioletto si usano montaggi del tipo di Eagle, essendo così ridotte al minimo le dimensioni dello spettrografo, che bisogna vuotare (v. in seguito).
I montaggi sul cerchio di Rowland hanno però tutti lo svantaggio di non essere stigmatici. A ogni punto della fenditura non corrisponde sullo spettro un punto, bensì una lineetta parallela alle scalfitture del reticolo. È quindi necessario che la fenditura sia rigorosamente parallela alle scalfitture stesse, o le righe spettrali risultano allargate. L'astigmatismo va inoltre a danno dell'intensità dello spettro.
Si nota perciò oggi una tendenza verso montaggi stigmatici; secondo un'osservazione di F. L. O. Wadsworth, ciò si può ottenere illuminando il reticolo con luce parallela; montaggi realizzati secondo questo principio hanno dato buoni risultati.
Una proprietà importante ma sgradevole dei reticoli è quella di dare fantasmi; in seguito a imperfezioni periodiche nella struttura del reticolo, questo può dare oltre le immagini del I, II, III, ordine anche immagini molto più deboli, in altre posizioni. Queste immagini, dette fantasmi, si osservano in genere solo per le righe spettrali più intense. Trovandosi in un punto non corrispondente alla loro lunghezza d'onda, simulano righe inesistenti.
Interferometri. - Quando si richiede un altissimo potere risolutivo, come in certe ricerche sull'effetto Zeeman o sulla struttura fine e iperfine delle righe (v. oltre), bisogna ricorrere ad apparecchi interferenziali come quelli di Michelson, Lummer e Gehrcke, Fabry e Pérot.
L'interferometro di Fabry e Pérot (di gran lunga il più utile tra quelli citati) viene usato quasi esclusivamente nella sua forma più semplice, che ha ricevuto dagli autori il nome di étalon. Esso è costituito (v. figg. 8 e 9) da due lastre di vetro accuratamente piane, separate da un anello metallico (di invar) o di quarzo fuso, che esse toccano in tre punti. Il contatto è assicurato da molle, variando la tensione delle quali si può e si deve fare in modo che le due superficie interne delle due lastre siano accuratamente parallele. Queste superficie sono lievemente argentate; lo spessore dello strato d'argento deve essere tale da soddisfare le due opposte esigenze di un alto potere riflettente e di un basso potere assorbente.
Siccome assorbimento e riflessione dipendono dalla lunghezza d'onda, lo spettroscopista deve possedere i mezzi per rifare egli stesso l'argentatura, adattandola alla regione dello spettro che vuole studiare. E anche opportuno possedere un certo numero di anelli di vario spessore, in modo da poter variare la distanza tra le lastre, per esempio da 0,5 a 5 centimetri.
L'uso dell'apparecchio si fonda sull'osservazione delle frange di uguale inclinazione (vedi interferenza e diffrazione), o di Haidinger, date dalla lastra a facce parallele costituita dall'aria interposta fra le lastre di vetro. L'interferenza avviene tra i raggi che sono stati riflessi un diverso numero di volte dalle due facce argentate (fig. 8). L'alto potere riflettente di queste fa sì che il numero di raggi interferenti sia molto grande, e si può mostrare che a ciò è dovuta la grande sottigliezza delle frange d'interferenza, che costituisce la condizione necessaria per avere un alto potere risolutivo. Com'è esposto alla voce reticolo di diffrazione, il potere risolutivo di un apparecchio dipende oltre che dal gran numero di raggi interferenti tra loro, anche dall'ordine dell'interferenza, cioè dalla differenza di cammino ottico, espressa in lunghezze d'onda, tra due raggi interferenti consecutivi. L'enorme potere risolutivo del Fabry-Pérot è appunto dovuto all'altissimo ordine delle interferenze osservate, essendo la differenza di cammino ottico uguale a
dove d è lo spessore della lastra d'aria e ϑ l'inclinazione dei raggi rispetto alla normale alla lastra. Se, per es.,
l'ordine è 100.000.
Poiché i raggi interferenti sono tra loro paralleli, le frange sono all'infinito, e vengono quindi osservate con un cannocchiale telescopico puntato normalmente alle lastre. Se la luce è monocromatica, si osserva una serie di frange chiare, aventi la forma di sottili cerchi concentrici (fig. 10). Le frange chiare sono infatti date da quei raggi per cui
(m ordine della frangia), raggi che evidentemente costituiscono un cono, il cui asse è parallelo all'asse del cannocchiale.
La sorgente luminosa, se è monocromatica, viene posta direttamente dietro all'apparecchio, senza interposizioni di lenti o fenditure. Può venire usata una sorgente estesa, con grande vantaggio per l'intensità. La luce incidente sulla prima superficie argentata viene in gran parte riflessa, ma si può mostrare che per raggi soddisfacenti alla condizione (2) la luce riflessa si distrugge per interferenza, nel centro di una frangia l'intensità è quindi il 100% di quella della luce incidente (prescindendo dall'assorbimento dell'argento, che in realtà non è trascurabile).
Se la luce non è monocromatica, ma costituita da alcune righe estremamente vicine, la complessità della radiazione si manifesta in una struttura delle frange (fig. 11). Se però la distanza delle componenti è più grande, nasce l'inconveniente della sovrapposizione degli spettri dei varî ordini, già incontrato nei reticoli; ma qui assai più serio. Perciò il Fabry-Pérot da solo non è sufficiente per l'analisi di spettri complessi, mentre rimane lo strumento principe per lo studio della struttura fine e iperfine delle righe. Per evitare l'inconveniente ora detto, si suole usare il Fabry-Pérot in serie con un monocromatore o con uno spettrografo, in un modo su cui non possiamo qui dilungarci.
Sorgenti luminose. - La sorgente luminosa deve soddisfare condizioni molto diverse secondo che si studia uno spettro d'emissione oppure di assorbimento.
Come abbiamo già detto, gli spettri d'emissione più interessanti sono quelli emessi dai corpi allo stato gassoso; essi ci dànno informazioni dirette sulle proprietà dell'atomo o della molecola. Lo spettro emesso da un elemento varia molto secondo il modo dell'eccitazione. Si consideri, per es., un vapore metallico in una fiamma; l'eccitazione avviene per urto tra atomi o molecole, e le energie messe in giuoco nei singoli urti sono dell'ordine di kT, dove k è la costante di Boltzmann (k = 1,37 × 10-16 erg grad-1) e T è la temperatura assoluta. Se, p. es., T = 730, kT è uguale a 10-13 erg.
Si consideri invece l'eccitazione mediante elettroni accelerati da una differenza di potenziale di 6 Volt. L'energia cinetica degli elettroni risulta uguale a eV = 4,8•10-10
= 10-11 n erg, ossia circa 100 volte il valore trovato per la fiamma. È per questo che la fiamma costituisce uno dei modi di eccitazione più deboli che si conoscano. In essa gli atomi difficilmente vengono ionizzati, si osserva perciò soltanto lo spettro di righe dell'atomo neutro e anzi solo una parte di questo.
Molto più energica è l'eccitazione nell'arco elettrico e nei tubi di Geissler-Plücker. Nell'arco ciò è dovuto in parte alle temperature assai alte che si raggiungono, in parte alla scarica elettrica. Nei tubi di Plücker l'eccitazione è di origine completamente elettrica, è cioè dovuta agli urti che subiscono elettroni e ioni accelerati dal campo elettrico. In via secondaria si ha anche eccitazione per effetto della stessa luce emessa.
In queste sorgenti lo spettro dell'atomo neutro è completamente sviluppato; nell'uso moderno, "spettro d'arco" significa appunto spettro dell'atomo neutro, col che non si deve intendere che l'arco non emetta anche (ma più debolmente) righe dell'atomo ionizzato. Queste ultime sono invece predominanti in sorgenti a eccitazione più energica, come nei tubi di Plücker con forte intensità di corrente e soprattutto nella scintilla, e costituiscono perciò lo "spettro di scintilla". È pratica corrente indicare i varî gradi di ionizzazione con un numero ordinale: così, per esempio, Na I si riferisce allo spettro dell'atomo neutro di sodio, Na II al sodio una volta ionizzato, ecc.
È ovvio da quanto precede che il tipo di sorgente andrà scelto secondo l'elemento e secondo il grado di eccitazione che si desidera, ma vi sono anche altri criterî di cui bisogna tener conto.
In generale l'emissione della luce da parte di un atomo viene perturbata dagli atomi vicini. La pressione del gas influisce quindi sensibilmente sulla finezza delle righe spettrali, avendosi in genere maggior finezza per gas molto rarefatti. Un'influenza particolarmente forte viene esercitata dagli ioni; si comprende quindi l'importanza dell'intensità della scarica elettrica. Volendo righe molto sottili, bisognerà quasi sempre contentarsi di deboli intensità di corrente. Oltre che sulla finezza queste perturbazioni possono anche influire sulla posizione del centro delle righe, un fatto di cui bisogna tener gran conto nelle misure in cui si desideri una grande precisione.
Un'influenza notevole ha anche la temperatura; tra l'altro, per via dell'effetto Doppler (v. doppler, christian, XIII, p. 156 seg.): la frequenza emessa da una molecola o da un atomo dipende dalla sua velocità rispetto all'osservatore; il moto termico disordinato fa sì che le frequenze emesse dalle varie molecole non siano rigorosamente uguali, ma fluttuino intorno a una posizione media. Ne risulta un allargamento delle righe spettrali, che cresce con la temperatura. Per lo studio delle strutture iperfini delle righe occorrono quindi sorgenti fredde.
Lo spettro del mercurio viene studiato assai bene mediante l'arco tra elettrodi di mercurio (fig. 12) che emette alcune righe nel visibile, e nell'ultravioletto una riga molto intensa e ben nota (λ 2537). Per l'osservazione di questa riga occorre che le pareti della lampada siano di quarzo. Questa sorgente è assai utile, tra l'altro, per lo studio dell'effetto Raman.
Analogamente lo spettro di un metallo può venire studiato facendo scoccare l'arco elettrico tra elettrodi del metallo stesso. Particolarmente noto è l'arco a ferro, venendo le linee di questo elemento usate come riferimento nelle misure di lunghezza d'onda (v. in seguito). Grazie alle perturbazioni a cui abbiamo accennato, la posizione delle linee dello spettro è lievemente diversa nelle varie parti dell'arco, e le perturbazioni sono particolarmente forti in vicinanza dei poli. Per questo si raccomanda di limitare mediante diaframmi il fascio di luce emessa, utilizzando solo la parte centrale dell'arco. Particolari garanzie dà a questo riguardo l'arco nel vuoto, che si ottiene ponendo gli elettrodi in un recipiente a tenuta, in cui viene in seguito fatto il vuoto.
Lo spettro d'arco di varî elementi può venire anche studiato ponendo la sostanza da studiare sul polo inferiore (positivo) di un ordinario arco a elettrodi di carbone. Le righe emesse dalla parte centrale dell'arco sono più allargate di quelle dei vapori più freddi circostanti. Si osservano facilmente in queste condizioni "righe invertite" con la distribuzione d'intensità rappresentata nella fig. 13. Il minimo centrale è dovuto all'assorbimento, da parte di vapori esterni, della parte centrale della riga allargata emessa dalla regione interna dell'arco.
Come abbiamo detto, la scintilla fornisce un modo di eccitazione assai energico. Si usano in generale elettrodi della sostanza da studiare oppure elettrodi di platino su cui vien posta la sostanza stessa. La scintilla si fa scoccare mediante una bobina d'induzione e può venire assai rinforzata inserendo una capacità in parallelo con la scintilla. Il potenziale può venire variato con una scintilla ausiliaria in serie, di lunghezza variabile. Se la scintilla è nell'aria, le righe dell'azoto e dell'ossigeno sono in genere presenti nello spettro, ma vengono facilmente identificate; se disturbano l'osservazione, possono venire eliminate mediante un'autoinduzione in serie con la scintilla.
La forma più violenta di eccitazione che si conosca è data dalle scintille nell'alto vuoto con alte differenze di potenziale (fino a 105 Volt/mm.). Questo tipo di scintilla (hot spark) è stato usato con grande successo per lo studio dell'ultravioletto; esso ha permesso di spingere il limite dell'ultravioletto da 510 Å (Lyman) fino a lunghezze d'onda dell'ordine di 100 Å.
I tubi di Plücker sono sorgenti di luce molto convenienti e possono dare righe molto sottili. I processi mediante i quali avviene l'eccitazione nella scarica elettrica sono ormai conosciuti bene, almeno nelle loro linee generali. Importanza fondamentale a questo riguardo ha l'esistenza di stati quantici discreti (v. atomo); un elettrone non può perdere sensibilmente energia in un urto contro un atomo, se la sua energia cinetica non è superiore a un certo valore eV (V potenziale di eccitazione) che dipende dall'atomo. Se nel gas vi sono atomi e molecole di varie specie, gli elettroni perdono energia per urto contro gli atomi a potenziale di eccitazione più basso, a danno dell'eccitazione degli atomi a potenziale di eccitazione più alto. Si comprende quindi la grande sensibilità dello spettro rispetto alla composizione chimica del gas.
Misure spettroscopiche. - Le prime determinazioni di lunghezza d'onda vennero fatte da Fraunhofer mediante i suoi reticoli misurando le quantità a e ϑ dell'equazione (incidenza normale):
Questo metodo, che è il più semplice e naturale, è stato in seguito abbandonato, almeno nelle misure di alta precisione, per la difficoltà di determinare a e ϑ con la precisione desiderata. Il primo passo importante nella nuova direzione venne fatto da Rowland, con la sua famosa scala relativa delle lunghezze d'onda. Questa era costruita paragonando le lunghezze d'onda di diverse righe col metodo delle coincidenze che si fonda sul fatto che se, per es., una riga ha lunghezza dl'onda λ e un'altra
l'immagine del second'ordine' 3 della prima riga coincide con quella del terz'ordine della seconda. Con una serie di confronti tra righe coincidenti o quasi coincidenti in diversi ordini, Rowland poté misurare la lunghezza d'onda di numerose righe spettrali riferita a quella delle righe D del sodio. Il grande potere risolutivo e l'estrema perfezione dei suoi reticoli concavi indussero Rowland ad attribuire alle sue misure relative un'estrema precisione. Nel metodo era invece nascosta una fonte d'errori, che apparve quando misure di alta precisione vennero fatte con un metodo completamente indipendente, mediante l'interferometro di Michelson. Le discrepanze tra i risultati dei due metodi vennero spiegate da H. Kayser, che poté mostrare che piccole imperfezioni nella struttura del reticolo potevano portare a errori assai più grandi di quelli previsti da Rowland.
L'avvento dei metodi interferenziali ha segnato una nuova epoca nella spettroscopia, accrescendo enormemente la precisione delle misure sia relative sia assolute di lunghezza d'onda. Così, per es., Fabry e Pérot hanno potuto col loro strumento confrontare la lunghezza d'onda della riga rossa del cadmio col metro campione depositato a Parigi, raggiungendo la precisione di 1 su 10.000.000. Un confronto di questo genere è però difficile e faticoso, assai più che il confronto tra due lunghezze d'onda. La riga rossa del cadmio, essendo stata misurata così accuratamente, può servire come termine di confronto per la misura di altre lunghezze d'onda. A questo essa si presta particolarmente bene, tra l'altro per la sua grande finezza.
In condizioni normali la larghezza della riga (dovuta in parte all'effetto Doppler, in parte alla struttura iperfine) è inferiore al centesimo di Ångtröm, e il centro della riga può essere naturalmente fissato con una incertezza assai minore.
Per queste e altre ragioni si è visto che la lunghezza d'onda di una riga come quella del cadmio costituisce un campione di lunghezza, che, essendo indistruttibile e ricostruibile in qualsiasi posto, seguendo solo certe prescrizioni (v. in seguito), è sotto molti aspetti superiore al metro campione conservato a Parigi. Perciò un congresso internazionale nel 1907 stabilì un'unità di lunghezza spettroscopica, detta Ångström internazionale (designata con I. A), definita mediante la lunghezza d'onda λ della riga rossa del cadmio con l'eguaglianza:
il rapporto essendo scelto, in base alle misure di Fabry e Pérot, in modo che la nuova unità coincida, entro la precisione delle misure, con l'Ångström (= 10-8 cm.). Per un'esatta definizione della unità è stato necessario specificare le condizioni in cui la riga è prodotta (scarica elettrica in un tubo a vapore di cadmio, con limitazioni, su cui non vogliamo insistere) e in cui la lunghezza d'onda è misurata (aria secca a 15° e pressione di 760 mm. di Hg con gravità nomiale g = 980,67).
Le lunghezze d'onda sono oggi espresse tutte in I. A e la loro determinazione richiede quindi solo misure relative. Le righe confrontate direttamente con la λ 6438, con metodi interferenziali, vengono considerate, previa approvazione dell Unione astronomica internazionale, come campioni secondari di lunghezza d'onda. Esistono attualmente numerosi campioni secondarî, appartenenti in gran parte all'arco a ferro; vi sono però anche 24 righe rosse e arancione del neo e 10 righe azzurre del cripto.
Per farci un'idea, molto sommaria, del come le misure di lunghezza d'onda possano venir fatte, supponiamo di avere un étalon di Fabry e Pérot di 0,5 cm. di spessore. Supponiamo inoltre di sapere, da una misura mediante un reticolo, che la lunghezza d'onda della riga rossa del cadmio è 6438,5 ± 0,1. (L'idea di utilizzare contemporaneamente i dati, meno precisi, dei reticoli è di lord Rayleigh). Ne deduciamo che la differenza di cammino ottico tra un raggio che attraversa (normalmente) la lama d'aria una sola volta, e un raggio che l'attraversa con uno zig-zag è di 15.531,6 ± 0,25 lunghezze d'onda. Questo si può chiamare "ordine" (frazionario) del centro delle frange. Vediamo che la precisione è sufficiente per dire che la prima frangia circolare avrà l'ordine 15.531. Misurando ora il diametro angolare di tale frangia possiamo con facili calcoli ricavare l'ordine del centro con grande precisione. Troveremo che esso risulta di 15.531, 6412; prendendo il reciproco abbiamo con grande precisione il valore di λ in cm.
In realtà le cose sono alquanto più complicate; in particolare non si usa, come abbiamo supposto, una lunghezza d'onda sola, ma piuttosto il rapporto, misurato con un reticolo, di due lunghezze d'onda. Lo spessore dell'étalon non si può considerare lo stesso per tutte le lunghezze d'onda; ciò è dovuto a un piccolo cambiamento di fase nella riflessione della luce sulle superficie argentate. Inoltre il confronto col metro campione richiede altre operazioni su cui non possiamo qui insistere.
Nel lavoro spettroscopico ordinario, tuttavia, la lunghezza d'onda di una riga può venir determinata con grande precisione senza ricorrere a metodi così delicati come quelli interferenziali. Nel caso più semplice, la riga da misurare fa parte di uno spettro contenente alcune righe già ben misurate precedentemente (p. es., righe campioni). La lunghezza d'onda che si desidera si può allora dedurre con metodi d'interpolazione: la posizione delle righe sullo spettro viene determinata accuratamente con un comparatore; se lo spettro è normale, cioè se la dispersione è costante, basteranno due righe di riferimento, e si userà l'interpolazione lineare; in genere però lo spettro non è rigorosamente normale, e occorre perciò la misura di tre o più righe e l'uso di formule d'interpolazione più complesse, qualora la riga da misurare non sia per caso compresa tra due righe note molto vicine.
Se lo spettro non contiene righe già note, si può fotografare accanto ad esso uno spettro di confronto, sia facendo le due fotografie successivamente, e coprendo nei due casi parti complementari delle fenditure, sia contemporaneamente mediante un prisma a riflessione totale (v. spettrografo). Perché ciò sia possibile, occorre naturalmente che lo spettrografo sia stigmatico. Con i reticoli concavi montati alla Rowland (astigmatici) occorrono particolari artifizî. Come spettro di confronto è molto usato quello dell'arco a ferro, che possiede un gran numero di righe sottili e ben definite (particolarmente l'arco nel vuoto). Queste sono state assai ben misurate, e catalogate da Fabry, che ha pubblicato una serie di fotografie delle varie parti dello spettro, su cui si legge senz'altro la lunghezza d'onda di una riga con quattro cifre. Una di queste è riprodotta nella fig. 14. Il valore preciso della lunghezza d'onda può poi dedursi da tabelle, come quella di H. Kayser (Tabelle der Hauptlinien der Elemente, Berlino 1926). La riga che si vuol misurare viene poi confrontata con due o più righe del ferro per interpolazione.
Normalmente le lunghezze d'onda vengono date per aria secca a 15° e 760 mm. Come abbiamo detto, però, il dato più significativo è la lunghezza d'onda λ nel vuoto. Perciò sono state eseguite da W. F. Meggers e C. G. Peters misure molto accurate dell'indice di rifrazione dell'aria per le varie lunghezze d'onda. Il risultato viene rappresentato dalla formula:
a 15° e 760 mm. (λ in Å).
Tabelle per la trasformazione delle lunghezze d'onda dall'aria al vuoto sono state pubblicate da H. Kayser.
Un dato quantitativo molto importante relativo a una riga è, oltre λ, la sua intensità. Della misura delle intensità si occupa la spettrofotometria. Questa si fonda sulla misura dell'annerimento della lastra fotografica nelle varie parti dello spettro, misura che si può fare esplorando le varie parti della lastra mediante un sottile pennello luminoso; dall'attenuazione del pennello dopo attraversata la lastra si risale all'annerimento. Il risultato di una misura del genere è rappresentato nella fig. 15. Non è da credersi però che l'annerimento dia senz'altro l'illuminazione della lastra poiché, com'è noto, esso dipende in modo complicato dal tempo di posa, dal modo dello sviluppo e da altri fattori. Occorrono perciò, per la fotometria quantitativa, metodi di taratura, su cui non possiamo però qui dilungarci.
Ultavioletto e infrarosso. - Dobbiamo ora considerare brevemente quelle modificazioni che è necessario apportare all'ordinaria tecnica spettroscopica quando la si voglia rendere adatta allo studio dello spettro invisibile.
Com'è noto, il limite dell'ultravioletto può venir posto a 3900. Con; mezzi ordinarî si può giungere sino a 3600. Al disotto di questa lunghezza d'onda si deve abbandonare l'ottica di vetro (prismi e lenti), che non è più sufficientemente trasparente. Si può ricorrere a lenti e prismi di quarzo sino a λ 1840, di fluorite sino a λ 1200. Siccome il quarzo è birifrangente, i prismi vanno tagliati in modo che il cammino dei raggi nell'interno del prisma sia approssimativamente parallelo all'asse ottico. Anche il potere rotatorio del quarzo costituente il prisma e le lenti deve venire compensato; negli spettrografi autocollimatori ciò avviene automaticamente, poiché prisma e lente vengono percorsi dai raggi prima in un verso, poi in quello opposto. Gli spettrografi a prismi sono particolarmente utili in questa regione dello spettro; il loro potere risolutivo è qui infatti paragonabile a quello dei migliori reticoli, che sono d'altra parte assai meno luminosi.
I reticoli riprendono invece il sopravvento al disotto di λ 1200, mancando qui completamente le sostanze trasparenti con cui costruire i prismi. E naturalmente, mancando anche le lenti, conviene ricorrere a reticoli concavi. Non si sono però potuti utilizzare qui i meravigliosi reticolì di Rowland, che hanno un raggio troppo grande; inoltre si è trovato convenienza a usare reticoli dotati di un numero minore di tratti per centimetro, fatto a prima vista paradossale, data la minor lunghezza d'onda, che consiglierebbe anzi la tendenza opposta. E del resto la dispersione dell'apparecchio ne risulta infatti diminuita, ma in compenso si può dare alle incisioni del reticolo una forma diversa preferibile per ragioni d'intensità (R. A. Millikan).
Al disotto di λ 1850 bisogna tener conto non solo dell'assorbimento del prisma e delle lenti ma anche di quello dell'aria. V. Schumann è stato il primo a usare lo "spettrografo a vuoto" che si è poi rivelato indispensabile nello studio dell'estremo ultravioletto fino a 140 Å e oltre. Allo Schumann si deve pure l'invenzione di un metodo preziosissimo per sensibilizzare le lastre all'ultravioletto. La scarsa sensibilità delle lastre ordinarie è dovuta al fatto che la gelatina dell'emulsione fotografica non è trasparente ai raggi ultravioletti, i quali non possono quindi impressionare che uno strato sottilissimo dell'emulsione. Le lastre "schumannizzate" posseggono la minima quantità di gelatina compatibile con le proprietà necessarie all'emulsione.
I reticoli vengono montati secondo il sistema proposto da Eagle, che per la sua grande compattezza è evidentemente il più vantaggioso. Esso permette infatti di racchiudere l'intero spettrografo in un tubo metallico, che viene in seguito vuotato. La sorgente luminosa, che è in genere un tubo a bassa pressione in cui avvengono scariche elettriche, può venir montata in comunicazione diretta con lo spettrografo, attraverso la fenditura, in modo da evitare l'assorbimento dei raggi nella sia pur sottilissima parete di separazione. Le moderne pompe a diffusione permettono di mantenere tra i due recipienti la necessaria differenza di pressione.
In parte analoghe sono le modificazioni necessarie per lo studio dell'infrarosso. Anche qui il vetro non è trasparente e occorre sostituirlo con altre sostanze, come il quarzo (trasparente per λ 〈 3,5 μ), il salgemma (〈 15 μ), la fluorite (λ 〈 9 μ) e la silvina (fino a 23 μ). I limiti di trasparenza segnati sono naturalmente mal definiti, dipendendo essi dallo spessore delle sostanze attraversato dai raggi. Lastre di quarzo sottilissime vengono usate infatti per qualunque lunghezza d'onda in apparecchi interferenziali analoghi al Fabry-Pérot. Inoltre il quarzo cristallino ridiventa abbastanza trasparente al disopra di 90 μ.
Le sostanze ora dette vengono impiegate per la costruzione dei prismi e sono anche state molto impiegate per le lenti. Dato però che la trasparenza non è perfetta, è prevalsa la tendenza verso la completa abolizione delle lenti, a favore degli specchi concavi, il cui uso sistematico, dovuto soprattutto a H. Rubens, è ormai tipico nella spettroscopia dell'infrarosso.
Come nel visibile, è possibile e spesso vantaggioso sostituire ai prismi i reticoli. Questi vengono talvolta costruiti con sottilissími fili metallici, tesi tra due asticelle parallele. Si usano anche reticoli incisi su vetro o metallo. In questo campo un grande progresso è dovuto a R. W. Wood che ha insegnato a ottenere, con una forma particolare delle incisioni, spettri di grande intensità. Molto usati sono anche metodi interferometrici, analoghi a quelli descritti per il visibile.
In generale le radiazioni infrarosse vengono rivelate, come già abbiamo detto, con strumenti che ne sfruttano l'azione termica (v. energia raggiante). La regione vicina al visibile può venir però vantaggiosamente esplorata col metodo fotografico. Si trovano ora in commercio lastre fotografiche sensibili fino λ 13.000 (1,3/μ), mentre le ordinarie lastre pancromatiche giungono poco al disopra di μ 7000.
Il problema, assai importante, della produzione di radiazioni quasi monocromatiche viene risolto, per grandi lunghezze d'onda, col metodo dei raggi restanti di H. Rubens, che utilizza il potere riflettente selettivo per certe lunghezze d'onda di varie sostanze. Con un numero sufficiente di riflessioni successive si può ottenere una radiazione che contiene praticamente solo la componente per cui il potere riflettente è massimo. Citiamo ancora il metodo delle lenti di quarzo, con cui il Rubens è giunto fino a 400 μ.
Analisi chimica per mezzo della spettroscopia. - Negli anni successivi alle fondamentali scoperte di Kirchhoff e Bunsen, la spettroscopia venne considerata principalmente come un mezzo per la scoperta di nuovi elementi chimici e più in generale come un metodo di analisi chimica molto potente. Avendo questa parola assunto in seguito un significato assai più vasto, le si è sostituito nel significato originale il termine analisi spettrale.
La caratteristica più saliente di questo metodo di analisi è la sua estrema sensibilità. Uno dei casi più favorevoli è quello del sodio, la cui presenza è rivelata dalle righe D, che, essendo righe di risonanza (v. in seguito), vengono facilmente eccitate, e sono inoltre site nella regione dello spettro a cui il nostro occhio è più sensibile. La presenza di solo 3•10-7 mgr. di Na può in questo modo venire rivelata.
Questa enorme sensibilità, mentre costituisce un vantaggio per ricerche particolari, rende l'analisi spettrale di scarsa utilità nelle analisi chimiche ordinarie, in cui si ricercano soltanto componenti presenti in quantità meno trascurabili. Per questo l'analisi spettrale viene impiegata quasi esclusivamente in certi tipi di ricerca, in cui si ha a che fare con piccole quantità delle sostanze da rivelarsi. Così, per es., essa ha permesso la scoperta di elementi rari, come i gas nobili e alcuni metalli; così essa si presta mirabilmente alla determinazione, anche quantitativa, del contenuto in metalli nobili delle rocce, ecc.
I metodi per questa "analisi spettrale quantitativa" sono stati elaborati da M. N. Hartley e particolarmente da A. De Gramont, e si fondano sull'uso delle cosiddette righe ultime o righe persistenti (raies ultimes) di De Gramont. Queste sono righe caratteristiche dello spettro dell'elemento, di cui si ricerca la presenza, e precisamente quelle che sono ancora osservabiii quando la concentrazione dell'elemento diventa molto piccola. Tabelle di queste righe sono state pubblicate da De Gramont e Boisbaudran, da F. Twyman e da F. Löwe. Così. per es., per il sodio sono indicate le righe D e alcune righe nell'ultravioletto. Le righe persistenti non sono necessariamente le righe più intense quando lo spettro è completamente sviluppato; si sa infatti quanto complessa sia l'influenza esercitata dalle condizioni di eccitazione sull'intensità delle righe.
Se si vogliono utilizzare le righe persistenti per determinazioni quantitative, occorre naturalmente riprodurre con gran cura le condizioni sperimentali, che sono state descritte dal De Gramont. Queste riguardano il modo di eccitazione, il potenziale della scarica, ecc.
È allora possibile, dal numero delle righe persistenti ancora visibili nello spettro, ricavare la percentuale dell'elemento presente nel composto studiato. Ciò si può fare usando i dati in proposito del De Gramont stesso e di altri autori. È però preferibile, dato che le condizioni sperimentali non si possono riprodurre perfettamente, "tarare" in qualche modo l'apparecchio. Il metodo è quindi particolarmente raccomandabile quando si debba compiere una lunga serie di ricerche su campioni simili.
Spettroscopia dei raggi x e γ. - Queste radiazioni costituiscono il prolungamento delle radiazioni qui considerate dalla parte delle piccole lunghezze d'onda. Per esse esiste quindi anche una spettroscopia, fondata su principî analoghi, in parte, a quelli usati per la luce. I metodi e i risultati di questa particolare spettroscopia sono esposti alla voce raggi x e raggi γ.
Struttura degli spettri di righe (e di bande).
L'impressione, che desta, a prima vista, uno spettro di righe, è in generale quella del disordine completo, sia nella posizione delle righe, sia nella loro intensità.
In realtà, in questo caos apparente si nascondono leggi e regolarità di così rara eleganza e perfezione, quali non s'incontrano in alcun'altra parte della fisica.
Uno dei compiti principali dello spettroscopista è appunto quello di mettere in luce queste regolarità, districando il groviglio delle righe con un paziente lavoro di analisi. Uno spettro di righe Si può paragonare a una società d'individui, tra cui esistono numerose e intricate relazioni di parentela, e la scoperta di queste costituisce in generale il primo passo dell'analisi. Esistono numerosi criterî per riconoscere la parentela tra diverse righe, fondati sull'aspetto delle righe stesse o sul loro comportamento (variazioni dell'intensità e della larghezza) rispetto a variazioni delle condizioni di eccitazione (pressione, temperatura, densità di corrente, ecc.); spesso una riga, osservata con forte risoluzione, si rivela composta di due o più righe vicinissime (struttura fine); il confronto delle strutture fini fornisce anch'esso criteri di parentela. Infine, il mezzo di analisi più raffinato è fornito dal principio di combinazione di Rydberg-Ritz. Questo principio asserisce che esiste un modo di parentela, tra quattro righe di uno stesso spettro, che porta alla seguente relazione tra le quattro corrispondenti frequenze:
E appunto il metodo della ricerca delle uguali differenze ha permesso alla tecnica analitica di aver ragione anche dei casi più disperati.
Sarà tuttavia opportuno rivolgere dapprima la nostra attenzione a quegli spettri, che per la loro particolare semplicità sono stati analizzati per primi e con mezzi molto più semplici.
Lo spettro dell'idrogeno è costituito da uno spettro di righe assai semplice e da un complicatissimo spettro di bande, dovuto alla molecola. In condizioni di eccitazione che favoriscono la formazione di idrogeno atomico [tubo dì Geissler molto lungo, osservazione della scarica in punti lontani dagli elettrodi, bassa pressione, presenza di vapor d'acqua nell'idrogeno, ecc.) si può osservare lo spettro di righe praticamente puro. Nel visibile si osservano le righe Hα, Hβ Hγ, Hδ (v. tab. p. 348), che sono le prime quattro di una successione regolare di righe, che prosegue nell'ultravioletto. Questa successione, detta serie di Balmer da J. Balmer, che ne scoprì la legge matematica (v. in seguito), è quella della fig. 16, in cui si scorgono, oltre le quattro righe visibili, anche diverse righe ultraviolette. Il numero delle righe osservate dipende dalle condizioni sperimentali, sia di osservazione sia di eccitazione dello spettro. Come appare dalla legge matematica che daremo in seguito, non vi è un limite superiore al numero delle righe. La successione delle righe converge verso un limite, detto limite della serie (ted. Seriengrenze), sito dalla parte delle piccole lunghezze d'onda.
Lo spettro dell'idrogeno comprende anche altre serie, aventi proprietà analoghe, e precisamente una serie ultravioletta (serie di Lyman) e altre serie infrarosse (serie di Paschen, di Brackett, di Pfund). Queste serie sono così evidenti, che per riconoscerne l'esistenza basta la semplice ispezione dello spettro.
Lo spettro ottico dei metalli alcalini è anch'esso costituito da diverse serie, ma con la complicazione che queste si sovrappongono largamente e non sono quindi così evidenti. Come esempio diamo alla fig. 17 le serie in cui si può decomporre lo spettro del litio. Un modo molto semplice (concettualmente) di analizzare lo spettro può essere il seguente: si osserva dapprima lo spettro di assorbimento del vapore del metallo; questo non contiene che una parte delle righe dello spettro d'emissione, e precisamente è costituito (per tutti gli alcalini) da un'unica serie perfettamente regolare che chiameremo serie principale. La prima riga di questa serie vien detta riga di risonanza.
Cancellate le righe della serie principale nello spettro di emissione, non è difficile riconoscere che le righe rimanenti si ordinano in due serie, le serie secondarie, che per l'aspetto diverso delle righe vengono dette rispettivamente serie sottile e serie diffusa. Una quarta serie molto più debole, la serie fondamentale, è stata scoperta da Bergmann. Non avendo essa nulla di fondamentale, viene anche detta, più opportunamente, serie di Bergmann.
L'analisi di uno spettro non si esaurisce però con la classificazione delle righe in diverse serie, anzi proprio allora comincia la parte più importante; la struttura dello spettro non appare infatti in tutta la sua semplicità che in seguito a ricerche di carattere numerico, di cui dovremo ora occuparci.
Rappresentazione matematica delle serie. - Premettiamo che per tutte le ricerche numeriche sugli spettri le lunghezze d'onda vanno ridotte al vuoto. Si è inoltre trovato che è assai conveniente usare invece della lunghezza d'onda il suo reciproco o numero d'onde, proporzionale alla frequenza. Seguendo l'uso spettroscopico, indicheremo con ν il numero d'onde, invece della frequenza.
Nel 1885 J. J. Balmer scoprì che le quattro righe visibili dell'idrogeno si potevano rappresentare con estrema esattezza con la formula
dando a n i valori 3, 4, 5, 6. I valori successivi di n rappresentano le righe successive, site nell'ultravioletto. Le altre serie sono rappresentate da formule analoghe:
e si possono facilmente immaginare altre serie, site nell'estremo infrarosso, del tipo ν = R/m2 = R/n2.
Caratteristica di queste formule è la rappresentazione delle frequenze mediante. la differenza tra un termine costante per tutte le righe di una medesima serie e un termine corrente che tende a zero per n → ∞. Conseguentemente il termine costante dà la frequenza del limite della serie. Similmente il termine corrente dà la distanza, nella scala dei numeri d'onda, della riga dal limite della serie. Vediamo che queste distanze decrescono secondo una legge molto semplice, cioè come i reciproci dei quadrati dei numeri interi. Si noti inoltre la quasi perfetta simmetria tra termini costanti e termini correnti; vediamo infatti che il termine costante di una serie compare come termine corrente in un'altra serie; su questo fattori d'importanza fondamentale, torneremo in seguito.
Incoraggiati dalla scoperta di Balmer, Rydberg e indipendentemente Kayser e Runge ricercarono analoghe leggi nelle serie degli alcalini. Queste serie non obbediscono ad alcuna legge esatta e semplice come quella di Balmer (ne vedremo la ragione teorica). Tuttavia Rydberg ha mostrato che vale una legge approssimata molto simile e precisamente che la distanza delle righe di una serie dal limite decresce secondo la legge R/(n + a)2, che differisce da quella dell'idrogeno per la presenza della costante additiva α, detta correzione di Rydberg. Per esempio, le serie del litio possono venire rappresentate (trascurando la struttura fine) con le formule:
Vediamo che il valore delle correzioni di Rydberg è diverso secondo la serie. Invece la costante R, detta costante di Rydberg, è sempre la stessa e ha un valore (109.728) molto vicino a quello dell'idrogeno.
Per una determinazione esatta del limite della serie e della costante R la formula di Rydberg può non essere abbastanza accurata; si usano allora formule più complicate come quella di Rydberg-Ritz in cui la correzione α non è costante, ma varia secondo la legge
contenente due parametri aggiustabili a e b.
Dalle formule (4) si ricavano inoltre alcune relazioni, scoperte dal Rydberg e valide per tutti gli alcalini, che costituiscono forse il risultato più interessante. Anzitutto vediamo che i limiti delle due serie secondarie sono uguali; inoltre vediamo che il primo termine corrente della serie principale vale 109.728/(1 + 0,95)2 = 28.857, o più precisamente (per i primi termini la formula di Rydberg dà un errore dell'ordine dell'1%; è quindi meglio usare il valore sperimentale del termine cioè 43.486 − ν) è uguale, entro gli errori sperimentali, al valore 28.583 del termine costante de] le serie secondarie.
Una relazione analoga esiste tra il primo termine
della serie diffusa e il limite 12.203 della serie di Bergmann.
Inoltre (ma qui la verifica è meno precisa) il limite 43.486 della serie principale si ottiene per estrapolazione dai termini correnti della serie sottile dando a n il valore 1, cioè 109.728/(1,60)2 = 42.862.
Tutte queste relazioni, come quelle già trovate per l'idrogeno, indicano chiaramente l'esistenza di una simmetria tra i due termini, vedremo infatti che questa simmetria compare nell'interpretazione teorica degli spettri data da N. Bohr; vedremo inoltre quanto sia ricca di significato la rappresentazione della frequenza come differenza tra due termini.
Stati quantici. - La formula di Balmer. - Nel 1913 il Bohr riuscì a dare un'interpretazione teorica dello spettro di righe dell'idrogeno, mediante una fusione molto audace dei postulati della teoria dei quanti col modello meccanico dell'atomo proposto nel 1911 dal Rutherford. Secondo questo modello l'atomo d'idrogeno doveva essere composto di un elettrone di carica − e e massa m circolante intorno a un nucleo di carica + e e massa M = 1840 m. Il Bohr considera per semplicità solo il caso di un elettrone che si muove intorno al nucleo su un'orbita circolare di raggio r, e mostra (v. atomo: Teoria elettrica dell'atomo), che se la quantità di moto areale è "quantizzata", cioè prende solo valori multipli di h/2 π anche il raggio r e l'energia E del sistema possono prendere soltanto certi valori, e precisamente si ha
Egli ammette inoltre che l'irraggiamento non avvenga nel modo continuo voluto dall'elettrodinamica classica, ma per salti quantici da un valore permesso dell'energia a un altro. Se ν è la frequenza della luce emessa, la quantità di energia irraggiata in un "atto elementare" dev'essere h ν (v. quanti, teoria dei).
Il Bohr mostra allora che, per soddisfare al principio di conservazione dell'energia, la frequenza della luce emessa nel "salto" dall'orbita corrispondente al numero intero n a quella corrispondente a un altro intero m è determinata dalla differenza delle energie corrispondenti alle due orbite secondo la:
Lo spettro di righe dell'idrogeno cosi determinato non solo coincide nella forma con quello sperimentale (eq. 3), ma il valore della costante di Rydberg dato dalla (6):
(il fattore c deriva dalla riduzione a numeri d'onda) coincide, entro gli errori ammessi per le costanti universali e, m, h, c, con il valore sperimentale.
I postulati di Bohr. - Noi sappiamo ora che queste considerazioni non rappresentano che una rozza approssimazione, nonostante l'esattezza del risultato. Senza entrare in particolari sull'ulteriore evoluzione della teoria (per cui il lettore potrà consultare la voce atomo già citata, e le voci quanti, teoria dei, e quantistica, meccanica), possiamo ritenere, delle considerazioni precedenti, due punti essenziali che sono ancor oggi intatti, e che valgono per qualsiasi atomo, e cioè:
a) l'esistenza di una successione discreta di valori permessi dell'energia o livelli energetici:
corrispondenti a certi stati dell'atomo, detti stati quantici stazionarî (primo postulato di Bohr);
b) l'emissione della luce per "salti quantici" o "transizioni" da un livello En a un altro Em con la condizione per la frequenza emessa νum:
(secondo postulato di Bohr).
Significato del limite delle serie. - Se si eccettuano questi due postulati, bisogna dire che la descrizione data degli stati dell'atomo d'idrogeno non dà che un'idea grossolana della situazione, sia perché le orbite circolari considerate non sono che una parte delle orbite quantiche possibili (orbite ellittiche, v. atomo), sia per l'uso stesso del concetto di orbita, e l'imperfezione del metodo di quantizzazione che ne risulta. Tuttavia si potrà ancora ritenere un punto importante della descrizione precedente, e cioè l'esistenza di stati quantici in cui l'elettrone si muove a grande distanza dal nucleo (per n molto grande); l'energia è allora quasi nulla (al limite per n → ∞ si ottiene un elettrone immobile a distanza infinita dal nucleo). Sono le transizioni da questi livellì molto alti al primo, secondo, terzo livello che dànno le ultime righe delle serie di Lyman, Balmer, Paschen, ecc.
Viceversa vediamo che i livelli energeticì più bassì corrispondono a orbite molto strette. Il più basso di tutti, detto livello fondamentale, corrisponde all'orbita più stretta, le cui dimensioni sono misurate da
La sua energia è di:
Questa è dunque (salvo il segno) l'energia che bisogna somministrare all'atomo (quando si trova nello stato normale di energia minima) per portarlo in uno stato "eccitato" molto alto (n molto grande), in cui l'elettrone si trova a distanza molto grande dal nucleo e praticamente immobile. In altre parole, essa è la minima energia necessaria per ionizzare l'atomo.
Gli spettri degli alcalini. - Ciò premesso, siamo in grado di comprendere l'analogia tra le serie degli alcalini e quelle dell'idrogeno. Supponiamo infatti che l'elettrone di valenza, per es. dell'atomo di sodio, venga staccato dall'atomo e si porti a una certa distanza da questo: esso verrà a trovarsi in un campo coulombiano, perfettamente simile a quello dell'idrogeno; si comprende quindi come le orbite più larghe dell'elettrone siano analoghe nei due casi. Se ora supponiamo che, come per l'idrogeno, le successive righe di una serie corrispondano a transizioni da orbite sempre più larghe a un'orbita fissa, comprendiamo l'analogia dell'andamento delle serie degli alcalini con quello delle serie dell'idrogeno. Tuttavia, per giungere a un'interpretazione completa e soddisfacente, dobbiamo premettere alcune importanti nozioni.
Lo schema dei livelli. - La ricostruzione qualitativa e quantitativa dello schema dei livelli di un atomo, a partire dai risultati sperimentali sullo spettro, costituisce lo scopo finale dell'"analisi dello spettro". Cercheremo di dare un'idea del procedimento, esaminando il caso semplicissimo degli alcalini; vedremo che a questo scopo basta utilizzare i risultati sulla classificazione delle righe, e le relazioni trovate dal Rydberg per i limiti delle serie.
È opportuno anzitutto ridurre la relazione fondamentale (8) a una forma conveniente per la spettroscopia, esprimendo le energie in cm-1. In altre parole, poniamo, tenendo presente che i livelli energetici En sono, secondo le convenzioni ordinarie, negativi:
Indicando ora con ν il numero d'onde, la relazione (8) diventa:
Ricordiamo che, poiché
misurare le energie in cm-1 equivale a porre:
La relazione tra righe e livelli, o tra righe e termini, si suole rappresentare graficamente mediante l'annesso diagramma (fig. 18): si scelga su una retta una conveniente scala delle energie; i livelli si rappresentano mediante tratti paralleli tra loro come nella figura; sono segnati, per es., i livelli 0; −2; −3,5; −4. Le quantità Tn, dette termini, che rappresentano, a parte il segno, i livelli in cm-1, possono naturalmente venire segnate su una scala proporzionale alle energie. Le transizioni da un livello a un altro possono venire allora indicate con una freccia, come nella figura la transizione da −2 a −4. La freccia rappresenta dunque la riga corrispondente.
Questo metodo di rappresentazione permette d'illustrare le proprietà degli spettri in un modo molto intuitivo ed evidente. Come prima applicazione, consideriamo il principio di combinazione già enunciato. Siamo ora in grado di precisare che il tipo di parentela tra quattro righe considerato è quello rappresentato nella figura 19. La relazione ν1 − ν2 = ν3 − ν4 è evidente.
Come seconda applicazione, diamo nella fig. 2o lo schema dei livelli dell'idrogeno insieme con le diverse serie.
Consideriamo finalmente gli spettri di assorbimento. È naturale considerare i processi che portano all'assorbimento della luce come i processi inversi di quelli di emissione (ricordando la legge di Kirchhoff). Dobbiamo allora immaginare che un atomo, trovandosi nello stato m, possa assorbire luce di frequenza νnm, passando a uno stato più alto n. In condizioni normali, il vapore di un alcalino, e di molti altri elementi, è a una temperatura tale che gli atomi si trovano quasi tutti nel livello più basso, o fondamentale. Si comprende quindi come lo spettro d'assorbimento contenga solo quelle righe dello spettro d'emissione che corrispondono a transizioni da livelli eccitati al livello fondamentale (per es., lo spettro d'assorbimento dell'idrogeno atomico conterrebbe a temperatura anche abbastanza elevata solo la serie di Lyman). Vedremo che a questo fatto è dovuta la particolare semplicità dello spettro d'assorbimento degli alcalini.
Osserviamo ora che il primo termine Tm dell'eq. (10) corrisponde al livello inferiore o finale. Abbiamo visto nel caso dell'idrogeno (v. anche fig. 20) che le righe di una medesima serie corrispondono a transizioni da diversi livelli superiori a un livello inferiore fisso, esse hanno cioè tutte lo stesso Tm. Inoltre il termine variabile Tn tende a zero al limite della serie, se adottiamo per lo zero dell'energia una convenzione analoga a quella fatta per l'idrogeno.
Ciò premesso, osserviamo che la rappresentazione (4) delle serie del litio ha appunto la forma desiderata. Vediamo, per es., che le righe della serie principale corrispondono a transizioni da certi livelli superiori, che chiameremo livelli p, a un livello inferiore fisso sito a −43.486 cm-1 − 8,5 • 710-12 erg. Come vedremo immediatamente, questo livello è il fondamentale. Comprendiamo così perché la serie principale sia quella che compare nello spettro d'assorbimento. Invece la serie sottile è generata da transizioni da certi livelli s a un livello fisso −28.583 cm-1 = −5,63 • 10-12 erg, che, in base a quanto abbiamo visto, coincide col primo livello p. Analogamente il livello fisso della serie principale appartiene alla successione dei livelli s. Indicando ancora i livelli iniziali delle righe delle serie diffusa e fondamentale rispettivamente con d e f, arriviamo finalmente allo schema (fig. 21) dei livelli del litio, in cui per ovvie ragioni di chiarezza le diverse razze di livelli sono state separate e segnate una accanto all'altra.
Caratteristiche salienti di questo diagramma sono l'esistenza di più razze di livelli (s, p, d, f), aventi diversa correzione di Rydberg e inoltre il fatto che non tutte le transizioni prevedibili secondo lo schema delle eq. (8) e (10) sono realizzate. Vediamo piuttosto che dai livelli p partono transizioni solo per livelli s o d, dai livelli s solo per livelli p, ecc. (il fatto che nello schema non sono segnate transizioni a livelli superiori al primo di ogni serie non ha invece alcun significato essenziale; le righe corrispondenti senza dubbio esistono, ma sono in parti dello spettro scomode da studiare). Vedremo che questo fatto ha un profondo significato teorico; le transizioni non osservate (da s a s, da p a p, da s a d, ecc.) sono "proibite" da certe regole m selezione.
Livelli di un elettrone in campo centrale. - Siamo ora in grado di affrontare l'interpretazione teorica dello schema dei livelli di un alcalino. Sia l'analogia di questo schema con quello dell'idrogeno, sia certe considerazioni teoriche fondate sulla meccanica ondulatoria, permettono di concludere che il problema può venire schematizzato come problema dei due corpi: solo l'elettrone "ottico" o "di valenza" ha una parte essenziale nel problema, e gli elettroni rimanenti si possono sostituire con una carica elettrica immobile distribuita con continuità intorno al nucleo. L'elettrone ottico si muove dunque in un campo elettrostatico centrale, non coulombiano salvo che nella regione esterna all'atomo. Alla voce atomo il lettore troverà maggiori dettagli sulla quantizzazione di questo movimento con i metodi di Bohr-Sommerfeld, mentre in quantistica, meccanica, sono date notizie sul problema analogo secondo la meccanica ondulatoria. Qualitativamente i risultati sono gli stessi: si trova che i livelli dipendono da due numeri quantici, il quanto azimutale l e il quanto principale n. Nel caso in cui il campo è coulombiano la dipendenza da l sparisce, e questa è la ragione dell'apparente semplicità dello schema dell'idrogeno. In realtà ogni livello dell'idrogeno (salvo il primo) risulta dalla sovrapposizione di due o più livelli aventi diverso quanto azimutale, ma coincidenti. Nel caso non coulombiano a ogni valore di l corrisponde una diversa successione d'infiniti livelli.
Fissato l, i livelli vengono contraddistinti col quanto principale n; la scelta di questo è in un certo senso convenzionale, si potrebbero, per es., numerare i livelli con 1, 2, 3,.... È invece più conveniente dare a n i valori
Con questa convenzione il quanto principale viene a coincidere col numero n della formula (5) nel caso coulombiano.
La disposizione qualitativa dei livelli appare nel diagramma (fig. 22), disegnato secondo il sistema già descritto. Le linee tratteggiate uniscono i livelli che hanno uno stesso quanto principale, che cioè vengono a coincidere nel caso limite dell'idrogeno.
Quantitativamente, la teoria permette di giustificare la formula di Rydberg (con un diverso valore della correzione di Rydberg secondo il valore di l; più precisamente la correzione è negativa e va diminuendo in valore assoluto al crescere di l). Questa formula si presenta infatti nella teoria come un'approssimazione assintotica per grandi valori di n. Si comprendono quindi gli scarti, talvolta notevoli, dei primi livelli di ogni serie.
Vediamo ora che l'analogia tra gli schemi (fig. 22 e fig. 23) è completa; resta ancora da stabilire con sicurezza quale sia la corrispondenza tra la classificazione sperimentale in serie s, p, d, f e quella teorica in serie con l = 0,1, 2, ... La chiave del problema è data dalle regole di selezione. Sommerfeld ha mostrato che da un livello con una certa l sono "permesse" (v. in seguito) soltanto le transizioni a stati di quanto azimutale: l + 10 l − 1. Brevemente la regola si scrive
Nella successione di valori 0 ↔ 1 ↔ 2 ↔ 3 ... "combinano" dunque solo valori adiacenti (frecce); osservando che sperimentalmente si trova lo stesso per la successione s, p, d, f si è condotti alla seguente corrispondenza
(per completare la notazione, ai valori 4, 5, 6, ... si fanno corrispondere le lettere g, h, i, ... in ordine alfabetico).
Finalmente osserviamo che i livelli rappresentati nello schema (figura 22) sono tutti i livelli possibili in un dato campo; non tutti però sono accessibili all'elettrone ottico. Per comprendere questo dobbiamo ricordare alcune nozioni su un principio fondamentale della meccanica ondulatoria.
Il principio di esclusione. - Abbiamo già incontrato il concetto di livello multiplo (o degenere) a proposito dei livelli dell'idrogeno; abbiamo visto che il livello n-esimo è in realtà costituito da diversi livelli coincidenti, con l = 0,1, ..., n − 1. Nel caso non coulombiano questi livelli sono separati, ma non è a credersi che ognuno di essi sia semplice. In realtà se noi portassimo un sistema cosiffatto in un campo magnetico, vedremmo ancora ogni livello separarsi in (2 l + 1) livelli equidistanti, e in questo consiste appunto l'effetto Zeeman (v. zeeman, pieter), su cui non possiamo qui dilungarci. Solo i livelli s (l = 0) sono dunque semplici, mentre i livelli p sono tripli, i d sono quintupli, ecc. Veramente neanche questo è corretto, poiché un'ulteriore molteplicità è portata dal "momento intrinseco" dell'elettrone, di cui parleremo in seguito. Tenendo conto anche di questo, si vede che ogni livello è multiplo d'ordine 2 (2 l + 1).
Le proprietà di un atomo si possono comprendere qualitativamente applicando a tutti gli elettroni componenti le considerazioni fatte per l'elettrone ottico. Considerando gli elettroni come indipendenti si può assegnare ad ognuno uno stato quantico determinato. Tuttavia si è limitati in questo da un principio fondamentale (v. quantistica, meccanica), detto principio di esclusione o di Pauli, che non ammette che un livello sia occupato da un numero di elettroni maggiore della sua molteplicità, cioè di 2 (2 l +1). È questo principio che rzegola la struttura ad anelli chiusi deh'atomo, che conduce alla teoria di Bohr-Stoner del sistema periodico. Tale struttura risulta dalla tabella dalla voce atomo, V, pagina 250; notiamo soltanto che gli stati là indicati con 11; 21, 22; 31, 32:, 33; ... sono, nella notazione più recente, designati con 1s; 2p; 3s, 3p, 3d, ...
Come esempio, consideriamo dapprima l'atomo di litio: vediamo che lo stato 1 s è completamente occupato da due elettroni (anello K). All'elettrone ottico sono dunque accessibili solo gli stati 2s (stato fondamentale), 3 s, 4s, ...; 2 p. 3p, ..., ecc. Vediamo ora che, cancellando il livello 1s dal diagramma (fig. 22), questo diventa qualitativamente identico a quello sperimentale del litio (fig. 21).
Se ora invece consideriamo l'atomo di sodio, vediamo che sono occupati gli anelli K ed L, cioè gli stati 1 s (2 elettroni), 2 s (2) e 2 p (6). Per l'elettrone ottico restano liberi gli stati 3 s (fondamentale), 4s, 5s, ...; 3p, 4p, ...; 3d, ..., ecc.
Nell'uso spettroscopico più antico i livelli s dell'elettrone ottico venivano sempre indicati con 1 s, 2 s, 3 s,... (numerazione convenzionale). Nel passaggio da questo sistema di numerazione a quello più razionale ora in uso, la correzione di Ridberg deve naturalmente venire alterata di un numero conveniente di unità. Essa diventa così, in generale, negativa.
La costante di Rydberg e gli spettri degli ioni. - La costante R, che compare a numeratore della formula di Rydberg, non solo ha lo stesso valore per tutte le serie di un alcalino, ma anche per tutti gli alcalini, anzi per tutte le serie di qualsiasi elemento, purché si tratti dello spettro d'arco. Il valore oggi accettato è:
Questa costanza del valore di R si comprende in base all'interpretazione che abbiamo dato degli alti termini delle serie.
Tuttavia si noterà una lieve differenza tra il valore precedente e quelli dati per il litio e per l'idrogeno. Questa differenza è stata spiegata molto brillantemente dal Bohr mediante le classiche proprietà del "problema dei due corpi". Com'è noto, se il "sole" non è immobile, cioè non ha massa infinita rispetto a quella del "pianeta", il problema si può ridurre al caso del sole immobile, considerando il moto relativo. Nelle formule però bisogna sostituire alla massa del pianeta la cosiddetta "massa ridotta", pari a Mm/M + m. Ora abbiamo visto che l'espressione teorica della costante di Rydberg contiene appunto la massa dell'elettrone circolante intorno al nucleo (formula 7). La costante di Rydberg per l'idrogeno è dunque:
in accordo con i risultati sperimentali.
Un'applicazione assai interessante di questa proprietà è stata fatta da H. C. Urey, F. G. Brickwedde e G. M. Murphy nella scoperta dell'isotopo raro H2 dell'idrogeno. Essi riuscirono infatti a rivelare la presenza di questo elemento per mezzo del suo spettro balmeriano, le cui righe, vicinissime a quelle dell'idrogeno, corrispondono al valore
Gli spettri degli ioni sono dominati da due regole molto semplici. La prima afferma che le serie di righe relative a ioni con una, due, ... z cariche elettriche hanno una costante di Rydberg 4, 9, ..., (z + 1)2 volte quella degli atomi neutrali.
La seconda stabilisce un'analogia tra gli spettri degli ioni e quelli degli atomi neutrali; più precisamente si ha che lo spettro di un atomo ionizzato una volta è analogo a quello dell'atomo neutrale che lo precede nel sistema periodico, quello di un atomo ionizzato due volte è analogo a quello dell'atomo che lo precede, ma ionizzato una volta, ecc. (legge di spostamento). Per es., sono analoghi gli spettri H I, He II, Li III, Be IV, hanno cioè tutti uno spettro del tipo balmeriano, ma con costanti di Rydberg rispettivamente R, 4 R, 9 R, 16 R, a parte la piccola correzione per la massa finita del nucleo.
Struttura fine. - Abbiamo già accennato alla struttura, che presentano certe righe (struttura fine). Dobbiamo ora occuparci delle leggi, estremamente semplici ed eleganti, a cui obbedisce questa struttura. Anzitutto però è necessario fare una distinzione essenziale tra struttura fine e struttura iperfine. Mentre quest'ultima (per cui rimandiamo alla voce nucleo) è sempre piccolissima (distanza fra le componenti inferiori a 1 cm-1) e di origine nucleare, la struttura fine è dovuta a un momento magnetico intrinseco dell'elettrone (v.) e va crescendo, in linea generale, col numero atomico dell'elemento da struttura dell'ordine di 1 cm-1 fino a parecchie centinaia di cm.-1 per gli elementi pesanti; la struttura fine è allora dello stesso ordine della "struttura grossa" studiata precedentemente.
Lo spettro balmeriano dell'idrogeno presenta una struttura fine piccolissima; inoltre, contrariamente alle altre caratteristiche dello spettro, essa è più complicata che negli alcalini. La ragione di ciò è da ricercarsi nella particolare "degenerazione" dei livelli dell'idrogeno. Lasciando da parte questo caso particolare (ma pure interessantissimo), ci occuperemo senz'altro degli alcalini.
Consideriamo dapprima la serie sottile. Ogni riga di questa serie e in realtà un doppietto. La distanza tra le due componenti (misurata nella scala dei numeri d'onda) è la stessa per tutte le righe della serie. Essa è piccolissima nel litio (0,34 cm-1) e va crescendo dal sodio (17 cm-1), al potassio (58 cm-1), al rubidio (238 cm-1) fino al cesio (554 cm-1).
Cercando ora di risalire dalla struttura delle righe a quella dei livelli, troviamo la chiave del problema nella costanza della separazione dei doppietti lungo tutta la serie. Questa prova infatti che la separazione è dovuta al livello inferiore, uguale per tutte le righe della serie. Si tratta, come si vede, di una tipica applicazione del principio di combinazione, ossia del metodo della ricerca delle uguali differenze, che costituisce il fondamento di tutta l'analisi delle strutture fini.
Abbiamo così visto che i livelli p sono doppî, i livelli s sono semplici. Ne segue in particolare che la riga di risonanza, ossia la prima riga della serie principale, è un doppietto con la separazione data sopra; invece le righe successive della medesima serie sono pure doppietti, ma con separazioni decrescenti (essendo dovute al termine variabile, invece che a quello costante).
Senza dilungarci nell'analisi delle altre serie, diamo brevemente i risultati:
a) tutti i livelli, salvo gli s, sono doppî,
b) di conseguenza tutte le righe, salvo le s ◄ ► p, potrebbero avere: 4 componenti. Di queste però una ha intensità nulla (è "proibita"); restano quindi tre.
La regola di selezione che elimina una delle componenti si può esprimere per mezzo del "numero quantico" J che ora introdurremo.
Abbiamo visto che ogni livello (doppio) viene caratterizzato da due numeri quantici n, l. Per distinguere le due componenti occorre un terzo numero quantico, il "quanto interno", a cui daremo i valori l + 1/2 e l − 1/2:
Sperimentalmente, j si può definire, per una data componente, dicendo che 2j + 1 è il numero dei livelli in cui la componente a sua volta si separa, quando l'atomo è portato in un campo magnetico (v. zeeman, pieter). Se l = 0 (livelli s), j assume solo il valore 1/2. Invece per un livello p, j = 1/2 oppure 3/2, per un livello d, j = 3/2 oppure 5/2, ecc.
La regola di selezione a cui abbiamo accennato si può esprimere dicendo che j non può variare di più di 1, in formule:
Si confronti questa regola con quella, lievemente diversa, per l.
Come esempio, diamo la struttura (fig. 23) di una riga d − p. Sono indicati i valori di j, in basso è dato l'aspetto della riga nello spettro.
La teoria della struttura fine si fonda sull'ipotesi dell'elettrone rotante di Goudsmit-Uhlenbeck, o sulla forma più raffinata datale da P. A. M. Dirac: l'elettrone possiede un momento meccanico intrinseco (spin) s • h/2 π .
Questo momento si compone con quello orbitale l • h/2 π, si tratta di una somma vetioriale, che però, trattandosi di grandezze quantistiche, non può visualizzarsi completamente. Il momento risultante è:
dove j può assumere soltanto i valori, indicati precedentemente, l ± 1/2. Tale risultato si suole rappresentare (ma, come abbiamo detto, la rappresentazione è più che altro simbolica, sebbene abbia un certo significato) disegnando due vettori di lunghezza s e l rispettivamente paralleli o antiparalleli (fig. 24). La differenza energetica tra i due stati corrispondenti ai due valori di j è dovuta a interazioni di natura magnetica.
Ricordiamo ancora che è possibile, per mezzo dei numeri s, l, j, esprimere in modo semplice le intensità relative delle componenti di una riga, e le separazioni nell'effetto Zeeman.
Spettri dovuti a più elettroni. - Questi spettri sono assai più, complessi di quelli finora descritti; essi sono tuttavia ormai in gran parte perfettamente interpretati. Lo spazio non ci consente di dare di questi spettri una descrizione anche sommaria. Ci contenteremo di enunciare alcuni dei punti più importanti.
La caratteristica essenziale è l'esistenza di un sorprendente legame tra struttura fine e struttura grossa, che ha per lungo tempo incuriosito gli spettroscopisti. Come tipico esempio possiamo citare lo spettro d'arco dell'elio (2 elettroni). L'analisi di questo spettro dimostra che esistono due specie di livelli, orto e para che non combinano affatto gli uni con gli altri. In altre parole si hanno soltanto righe orto → orto e para → para, ma non orto → para o para orto. Le distanze tra i livelli para e orto sono dell'ordine di grandezza della struttura grossa. Tuttavia si osserva il fatto curioso, che tutti i livelli para sono semplici, mentre quelli orto sono tripletti.
La situazione appare ancora più interessante, se si osserva che molte delle caratteristiche dello schema son facilmente interpretabili allargando le considerazioni già fatte per gli alcalini.
Nello stato fondamentale dell'atomo d'elio dobbiamo immaginare che entrambi gli elettroni siano nel livello più basso is, situazione che si può indicare scrivendo 1 s 1 s oppure (i s)2. Supponiamo ora d'innalzare uno degli elettroni a un livello più alto 2 s, 3 s, ...; oppure 2 p, 3 p, ...; ecc. Avremo degli stati che potremo indicare con simboli come
(non occorre considerare stati in cui entrambi gli elettroni sono eccitati; l'energia, a ciò necessaria, sarebbe eccessiva). Poiché il momento areale dell'elettrone 1 s è nullo (l = o), possiamo identificare il momento areale totale dell'atomo con quello dell'elettrone esterno. Esso sarà quindi del tipo:
con L = o,1, 2,... secondo che l'elettrone eccitato è s, p, d, .... Notiamo incidentalmente che nella notazione moderna si suole indicare con lettere maiuscole tutto quanto si riferisce a stati dell'atomo intero, mentre le minuscole vengono usate per i singoli elettroni. Lo stato dell'atomo si dirà quindi S, P, D, ... secondo i valori di L.
Ci aspettiamo ora che, come per gli alcalini, la struttura fine nasca dalle diverse possibilità di orientamento dei momenti intrinseci o spin dei due elettroni rispetto al vettore simbolizzato dal quanto L. Potendo ognuno disporsi parallelo o antiparallelo rispetto a L abbiamo quattro possibilità. A prima vista sembra che ciò debba dare quattro livelli vicinissimi per ogni configurazione, intendendo con questa parola la disposizione degli elettroni simbolizzata da is ns oppure is np, ecc. ... Qui ci troviamo di fronte a un grave problema, poiché, come abbiamo visto, i livelli sono in realtà singoletti e tripletti. Formalmente la cosa si può interpretare dicendo che la separazione del livello avviene sì in quattro, ma di questi tre sono vicinissimi (tripletto) e uno è lontano (singoletto). Resta però da spiegare come mai una separazione così forte possa venir prodotta da un orientamento di momenti magnetici, quando si sa che le interazioni tra questi sono così piccole, almeno per gli elementi leggieri. I. a spiegazione venne preparata dal bel lavoro di analisi compiuto da H. N. Russell e Saunders, e venne data nel 1927 da W. Heisenberg. Non possiamo qui neanche dare un'idea della geniale teoria data da Heisenberg (v. quantistica, meccanica); essa si applica non soltanto all'atomo d'elio, ma anche ad atomi con più elettroni, almeno in condizioni spesso realizzate, che vengono descritte come condizioni di accopiamento di Russell-Saunders.
Ci accontenteremo qui di enunciare alcuni dei risultati più importanti.
Indichiamo con s1, s2, s3,..., sn gli spin degli n elettroni. Essi sono tutti, in valore assoluto, uguali a 1/2, ma possono essere orientati diversamente. La loro somma vettoriale è un vettore S che in valore assoluto non può assumere altri valori che:
oppure:
secondo ch- n è dispari o pari.
Similmente indicheremo con L la somma vettoriale dei singoli momenti areali l1, l2, ..., ln degli elettroni; L è sempre intero. Ora bisogna dire che in generale i vettori L e S non sono "costanti del movimento" né in direzione né in grandezza, mentre è costante per teoremi generali la loro somma vettoriale, che rappresenta il momento della quantità di moto totale dell'atomo, e che indicheremo con J. Tuttavia nelle condizioni di accoppiamento di Russell-Saunders i vettori L e S sono praticamente costanti in grandezza. Ciò si esprime in un modo significativo dicendo che gli spin dei varî elettroni sono fortemente accoppiati tra di loro, e analogamente i momenti orbitali. Questi accoppiamenti non sono però dovuti a forze magnetiche, ma a forze elettrostatiche, e questo naturalmente è il punto misterioso che la teoria di Heisenberg ha permesso di spiegare. Tornando, per es., al caso dell'elio, vediamo che gli spin s1, s2 dei due elettroni sono fortemente accoppiati e si dispongono o paralleli o antiparalleli, dando luogo a S = 1 e S = o rispettivamente. Grazie alla forza dell'accoppiamento, tra i due casi c'è una notevole differenza energetica, e questa è precisamente quella che separa il singoletto dal tripletto (entrambe provenienti da una medesima configurazione). Nel caso dell'elio non occorre considerare l'accoppiamento degli l perché ve n'è uno solo non nullo.
Dobbiamo immaginare due vettori, costanti in grandezza, L ed S, i quali a loro volta si compongono per dare il vettore J. Naturalmente la grandezza di quest'ultimo dipende dall'angolo tra i vettori componenti e sarà massima se questi sono paralleli. La teoria quantistica della composizione di questi vettori insegna che i valori che J può assumere sono precisamente:
A ognuna di queste possibilità corrisponde un diverso stato del sistema e le differenze energetiche sono ora di origine magnetica, cioè piccole (struttura fine).
Ricapitolando, vediamo che uno stato quantico non è individuato completamente dalla sola configurazione (talvolta questa è sufficiente: per es., si potrebbe mostrare che il simbolo 1 s2 2 s2 2 p6 individua perfettamente lo stato fondamentale dell'atomo di argo); data questa, è possibile, mediante regole abbastanza semplici, che non diamo, stabilire quali sono i valori possibili di L e S; i valori di S possono essere tutti quelli indicati in (14 a) e (14 b), ma in generale solo una parte di questi valori sono realizzati, né i valori permessi di L e S si possono accoppiare a piacere. Per es., per una configurazione 2 p2 i valori di S sono 0,1; quelli di L sono, secondo una regola analoga alla (15), o,1, 2; tuttavia soltanto le coppie di valori L = 0, S = 0; L = 1, S = 1; L = 2, S = 0 sono permesse.
Scelta una coppia di valori di L e S resta fissato il livello dal punto di vista della struttura grossa. La struttura fine del livello risulta poi dalle diverse orientazioni di S rispetto a L; il livello diventa così un "multipletto" e il numero delle componenti è, come si vede dalla (15), uguale a 2 S + 1 se L ≤ S, altrimenti 2 L + 1. Siccome il primo caso è il più frequente, si conviene in generale di chiamare molteplicità il numero 2S + 1 anche se L ≤ S.
Secondo che la molteplicità è 1, 2, 3, ..., il termine si dice singoletto, doppietto, tripletto, .... Con questo criterio i termini S degli alcalini sono doppietti come i P, D, ecc. Ciò permette tra l'altro di enunciare in modo generale la regola:
Gli atomi con un numero pari di elettroni hanno termini di molteplicità dispari, e viceversa. Così gli alcalini hanno doppietti gli alcalino. terrosi e l'elio singoletti e tripletti, ecc. La regola è una conseguenza immediata delle formule (14 a) e (14 b).
Come abbiamo già detto, il valore di L relativo a un termine s'indica con la notazione S, P, D, .... Il valore di S si indica scrivendo la molteplicità 2 S + 1 a sinistra del simbolo in alto; così, per es., 2S significa L = 0, S = 1/2, 5D significa L = 2, S = 2, ecc. Un simbolo così fatto comprende naturalmente tutte le componenti di un multipletto. Volendo distinguere le varie componenti, basta dare il quanto J che si scrive a destra del simbolo in basso, per es., 5D1. Diamo alcuni esempî, applicando la regola (15). Un termine 2S è semplice: 2S1/2; un 2P ha due componenti 2P1/2, e 2P3/2; un 3P ne ha tre: 3P0, 3P1, 3P2; un 4P ne ha ancora tre 4P1/2, 4P3/2, 4P1/2; per finire, un 7F ne ha 7: 7F1, 7F1, 7F2, ..., 7F6.
Se ora consideriamo le distanze tra le diverse componenti di un multipletto, troviamo che queste som in generale rette da una regola molto semplice: prendiamo, per es., il termine 7F Dr ora considerato: vedremo anzitutto che le componenti si ordinano per valori crescenti o decrescenti di J; inoltre troveremo che gl'intervalli 7F0 − 7F1, 7F1 − 7F2, 7F5 − 7F6 stanno tra di loro come 1 : 2 : 3 : 4 : 5 : 6 e cioè come i successivi valori di J. Più precisamente per ogni intervallo bisogna prendere il più grande tra i due J che lo delimitano. Questa regola degli intervalli è in generale rispettata. Si hanno però talvolta multipletti deformati, che cioè non obbediscono alla regola; classico è il caso dell'elio. La teoria permette di comprendere sia la regola, sia le rare eccezioni.
Un multipletto si dice normale se il livello più basso è quello col minimo J, invertito nel caso opposto. Non si deve credere però che questo secondo caso rappresenti qualcosa di anormale, essendo all'incirca altrettanto frequente quanto il primo. La denominazione è dovuta al fatto che negli spettri più semplici, analizzati per i primi, i multipletti invertiti sono l'eccezione. Per altri elementi avviene invece il contrario.
Regole di selezione. - Abbiamo già visto a proposito degli alcalini che non tutte le transizioni possibili tra le diverse componenti di due multiplettì debbono per forza corrispondere a righe osservate. Vi sono cioè righe proibite e la regola di selezione che le determina si scrive più in generale:
Vi sono inoltre regole dì selezione relative alla struttura grossa, Lome le
Di queste la prima va confrontata con la Δl = ± 1 degli alcalini; come si vede essa è meno restrittiva. (In compenso vi è una regola, dovuta a Laporte, ma che non possiamo dare qui, che nel caso degli alcalini esclude appunto le transizioni con Δl = 0). Quanto alla seconda, essa non ha un analogo nel caso degli alcalini; essa è appunto la regola che proibisce le transizioni tra il sistema orto e il sistema para dell'elio, e più in generale le "righe d'intercombinazione" tra termini di diversa molteplicità. Non si tratta però di una regola rigorosa, salvo che per gli elementi più leggieri; negli elementi pesanti si trovano spesso "righe d'intercombinazione" (citiamo, per es., la classica λ, 2537 del mercurio).
Ben altro rigore hanno invece la regola relativa a J e quella di Laporte; neanch'esse vanno però intese in senso assoluto. Le righe proibite non hanno cioè intensità nulla, ma soltanto piccolissima rispetto a quella delle righe permesse. Più precisamente il rapporto delle intensità è determinato dal rapporto tra la lunghezza d'onda della luce emessa e le dimensioni dell'atomo. Questo rapporto è, nel campo ottico, dell'ordine da 1000 a 10.000. Siccome però nel rapporto delle intensità esso compare almeno al quadrato, ne segue che le righe proibite sono in generale da 106 a 108 volte più deboli delle permesse.
Siccome le regole di selezione si riferiscono ad atomi isolati, esse possono venire violate da opportune perturbazioni, come campi esterni, elettrici o magnetici, o urti tra i diversi atomi del vapore, ecc. In generale è possibile predire quali regole verranno rispettate in determinate condizioni, e quali no.
Per comprendere il significato delle regole di selezione, ci si può riferire al modello classico di un sistema irraggiante dovuto a Hertz. Esso è costituito, com'è noto, da un "dipolo" oscillante, cioè da una carica positiva e una negativa, la cui distanza varia col tempo secondo una legge sinusoidale. Più in generale, possiamo considerare un sistema di cariche positive e negative moventisi in modo tale che vari continuamente la posizione del "baricentro" delle cariche negative rispetto al "baricentro" delle positive. Si ha, anche in questo caso, irraggiamento di dipolo.
Se ora invece supponiamo che le cariche si muovano in modo tale che i due baricentri considerati siano immobili o si muovano solidalmente, allora la teoria classica di Hertz mostra che l'irraggiamento è enormemente più piccolo, almeno finché la lunghezza d'onda corrispondente alla frequenza d'oscillazione è molto grande rispetto alle dimensioni del sistema.
Applicando queste considerazioni ai sistemi atomici, e introducendo le modificazioni richieste dalla natura quantistica dei fenomeni, si giunge alla conclusione che le regole di selezione esprimono appunto le condizioni necessarie affinché una riga possa venir emessa per irraggiamento di dipolo. A questo risultato si giunge mediante considerazionì di simmetria, o simili, su cui non possiamo qui insistere.
Spettri molecolari. - Questi sono spesso costituiti da sistemi di bande, che, osservate con strumenti adatti, si risolvono in successioni molto fitte di righe (fig. 25). È vero però che talvolta si tratta di vere e proprie bande diffuse, senza alcuna struttura. Anche si osservano spettri molecolari perfettamente continui. Tuttavia in un primo studio, il primo tipo è quello che dà un'idea più adatta di questi spettri. Si tratta dunque in sostanza di spettri di righe, ma aventi una struttura particolarissima. Perciò molte delle cose dette per gli spettri di righe si applicano qui senz'altro. In particolare il principio di combinazione, il concetto di schema dei termini e l'intera teoria degli stati quantici si trasportano tali e quali. Inoltre i principî dell'"analisi dello spettro" sono gli stessi; come per gli spettri di righe complicati, lo strumento principale è fornito dalla ricerca delle uguali differenze, secondo il principio di combinazione. Per ulteriori notizie sulla struttura di questi spettri, v. molecola.
Bibl.: H. Kayser, Handbuch der Spektroskopie, Lipsia 1900-1932, l'opera più nota e completa; K. W. Meissner, Sketroskopie, Berlino e Lipsia 1935, una breve introduzione all'argomento; A. Sommerfeld, Atombau und Spektralllinien, Brunswick 1933, 5ª ediz., una classica esposizione della teoria degli spettri; H. Kuhn, Atomsektren, Lipsia 1934; notizie di carattere più elementare in R. W. Wood, Physical Optics, New York 1934.
Spettroscopia astronomica.
Lo studio spettroscopico del Sole e delle stelle (v. astrofisica; sole; stelle), che ha avuto inizio al principio del sec. XIX e si è rapidamente sviluppato con notevolissimi progressi dalla metà dello stesso secolo, ha aperto una nuova via per giungere alla conoscenza della costituzione fisica degli astri. Le ricerche teoriche e sperimentali nel campo strettamente fisico sull'origine e formazione degli spettri sono state e sono largamente impiegate nel campo astrofisico, come d'altra parte quelle astrofisiche hanno servito a chiarire e sviluppare le prime.
Nel 1864 W. Huggins cominciò a studiare lo spettro di poche stelle luminose e identificava in esse le righe di assorbimento appartenenti al sodio, al magnesio, al calcio, al ferro, all'idrogeno, ecc.; contemporaneamente A. Secchi esaminava un gran numero di stelle arrivando alla sua ben nota classificazione.
Gli spettri delle stelle, come quello del Sole, sono generalmente spettri continui, solcati da righe nere di assorbimento, che mostrano come le stelle siano costituite nel loro involucro esterno (fotosfera) da gas incandescenti. Una piccolissima proporzione di stelle (meno dell'i per cento) presentano nei loro spettri righe luminose, di emissione, ma molto raramente queste contribuiscono con notevoli quantità di luce all'insieme di quella della stella. Le dette righe oscure o luminose, come è per il Sole, possono venire in gran parti identificate con quelle di elementi noti.
Al momento attuale soltanto poche righe che si trovano in stelle eccezionali non si sono potute identificare. È certo uno del fenomeni più impressionanti in tutto il campo delle scienze fisiche quello di trovare che gli stessi atomi esistono e seguono le stesse leggi in tutto l'universo visibile.
Il Secchi ha trovato che praticamente tutte le 4000 stelle da lui osservate si possono classificare in quattro tipi, nel modo seguente:
Nel I sono comprese le stelle bianche o azzurrognole, come, α Canis majoris e α Lyrae. In esse lo spettro visibile è quasi continuo, solcato soltanto dalle quattro forti righe oscure dell'idrogeno Hδ, Hy, Hβ, Hα. Il II tipo è quello delle stelle gialle con numerose righe finissime, cioè il tipo solare, rappresentato da α Boots, α Aurigae, β Geminorum. Il III e IV tipo comprendono gli spettri a colonnato o di bande: nel terzo si trovano le stelle aranciate e rosse, con lo spettro formato da righe nere e lucide interpolate da zone o bande oscure e sfumate. Vi appartengono: α Orionis, α Scorpii, α Herculis. Il IV tipo padre Secchi lo definisce "assai bizzarro e vario; potrebbe credersi a prima vista che esso risulti dal terzo sopprimendo alcune delle righe oscure"; le bande sono illuminate in senso contrario a quelle del terzo, e quindi la luce è più viva dalla parte del violetto e va sfumando verso il rosso. Le stelle di questo tipo sono di grandezza non superiore alla quinta. Un V tipo comprende stelle con spettro a righe lucide come γ Cassiopejae e β Lyrae. Questa prima classificazione, basata, oltre che sulla presenza delle righe spettrali, anche sui colori, venne ben presto adottata e si comprese subito che doveva corrispondere approssimativamente al successivo sviluppo dei corpi celesti.
L'applicazione della fotografia allo studio degli spettri per opera di H. Draper, che nel 1872 otteneva la prima fotografia dello spettro di una stella con le sue righe, dava il modo a lui e a E. C. Pickering di stabilire una nuova e più dettagliata classificazione che è quella oggi generalmente usata dagli astronomi.
Con il prisma obiettivo (v.) si possono ottenere molte immagini di spettri su una stessa lastra (fig. 26), e dall'esame di queste si nota subito che vi sono pochissimi tipi spettrali, in confronto con il numero degli spettri. Questo lavoro di classificare gli spettri stellari è stato estensivamente sviluppato nell'osservatorio di Harvard da Pickefing e dai suoi collaboratori, così che gli spettri di circa un quarto di milione di stelle sono stati esaminati.
Di questi il 99,5 per cento sono compresi in sei gruppi principali, empiricamente chiamati con le lettere B, A, F, G, K, M. Ciascuna di queste classi contiene approssimativamente lo stesso numero di stelle e le variazioni dall'una classe all'altra avvengono gradualmente, formando così una continua e progressiva sequenza. Per indicare lo spettro di una stella compreso, per esempio, a metà fra B ed A si usa il simbolo B5, mentre se è a 8 decimi da B ad A si usa il simbolo B8 e così via. Questa classificazione con una lettera e un indice numerico tien conto di tutte le differenze che è possibile notare negli spettri. Di più questa serie è lineare, essendovi un solo modo di procedere da B verso M, e per di più attraverso un cambiamento continuo. In conseguenza, qualunque sia l'origine di queste variazioni, essa deve risiedere in una condizione principale in cui si trovano le stelle, perché, se esistessero variazioni in due o più condizioni indipendenti, vi sarebbe più di un modo di procedere da una estremità all'altra della serie.
Questa condizione principale è la temperatura. Lo sfondo continuo dello spettro è in stretta relazione con quello che si chiama indice di colore (v. stelle), cioè la differenza fra la grandezza fotografica e quella visuale di una stella, ed è anche un indice di temperatura. La relazione che passa fra l'indice di colore e la classe spettrale è lineare, cosicché le stelle appartenenti ad una data classe sono simili in colore e, viceversa, il colore dà il modo di determinare la classe spettrale delle stelle troppo deboli perché il loro spettro possa venire fotografato.
Quando si usa lo spettroscopio a fenditura, invece che il prisma obiettivo, si ha una migliore definizione delle righe; e di più si può fotografare insieme allo spettro della stella uno spettro di confronto che rende possibile la misura della lunghezza d'onda.
Oltre alle classi accennate, le poche stelle rimanenti vanno ascritte alla classe O che viene prima della B, e alle classi R, N ed S, che vengono dopo la M. Il disordine alfabetico nella sequenza spettrale proviene dal fatto che le lettere vennero usate prima che si potesse stabilire l'ordine effettivo della sequenza e alcune vennero in seguito omesse. Queste varie classi spettrali si distinguono per la presenza delle varie righe caratteristiche. Una data riga raramente si trova in una classe soltanto, ma cambia d'intensità dall'una all'altra; le righe dell'idrogeno più o meno intense si ritrovdno in tutta la sequenza.
Le righe caratteristiche della classe O sono quelle dell'elio ionizzato, dell'ossigeno, dell'azoto, ecc., i cui atomi sono ionizzati due o tre volte. Righe caratteristiche delle classi da B0 a B5 sono quelle dovute all'elio neutro, all'ossigeno ionizzato una volta e all'azoto. Queste righe s'indeboliscono in B8 e scompaiono in A0, mentre compaiono le righe di metalli ionizzati (Ca, Mg, Fe, ecc.); tutte le righe della serie di Balmer dovute all'idrogeno sono al massimo d'intensità in questa classe. A mano a mano che ci si avvicina alla classe F, le righe dell'idrogeno s'indeboliscono e appaiono le righe dell'arco dovute ai metalli; alcune cominciano già alla classe A2. Nella classe G, alla quale appartiene il Sole, le righe dell'arco di metalli, come il ferro, sono più intense delle loro righe rinforzate e le righe dell'idrogeno vanno gradatamente diminuendo d'intensità, mentre le righe del calcio ionizzato diventano sempre più intense. Nella classe K le righe rinforzate, in generale, sono più deboli, e quelle dell'arco più intense, specialmente le righe di bassa temperatura. Nella classe K5 appaiono le bande dovute al titanio, che crescono sempre, più d'intensità in M0, M5 e M8. Le righe di bassa temperatura dei metalli sono molto intense e quelle di alta temperatura sono deboli. Le classi R ed N sono caratterizzate da bande del carbonio e cianogeno, che aumentano d'intensità da R0 ad R5, da N0 a N3. Infine nella classe S appaiono le bande dovute all'ossido di zirconio. In queste classi sono anche presenti le righe della fiamma, cioè di bassa temperatura.
In alcune stelle di classe O (chiamate dal nome dei loro scopritori, stelle Wolf-Rayet) appaiono righe di emissione luminose, allargate in bande, mentre in altre dello stesso tipo si hanno righe di assorbimento, e occasionalmente sottili righe di emissione. Gli elementi a cui si devono queste bande o righe sono principalmente l'idrogeno, come pure carbonio, azoto, silicio, ossigeno ionizzati. Queste stelle di tipo O sono state un tempo considerate come una probabile continuazione della sequenza spettrale, ma le posteriori ricerche hanno dimostrato che esse sono a temperatura più alta delle stelle B, e anche per la loro massa e luminosità vanno collocate al principio dell'evoluzione stellare, prima delle stelle B.
Gli spettri delle nebulose gassose consistono interamente di righe luminose isolate e sono ascritte, insieme con le stelle nuove, alla classe B. Caratteristiche righe di questa classe sono quelle indicate con N1 ed N2, che un tempo si credettero essere dovute ad un elemento sconosciuto chiamato nebulio (v.), ed ora invece, col progresso degli studî spettroscopici, si sa essere dovute ad ossigeno e azoto in alti stati di ionizzazione.
Le teorie atomiche moderne ci spiegano l'apparenza di questi spettri stellari e come la presenza delle righe dovute a diversi elementi, in questa o quella classe, indichi non soltanto la presenza esclusiva di quegli elementi, ma le condizioni favorevoli perché essi appaiano nella fotosfera delle stelle dell'una o dell'altra classe. A bassa temperatura i composti non sono dissociati e le stelle quindi presentano i caratteristici spettri a bande. Quando la temperatura cresce, i composti si dissociano, le bande scompaiono, mentre appariscono le righe di fiamma e poi quelle d'arco dovute ai metalli. Con un ulteriore aumento di temperatura le righe rinforzate degli elementi facilmente ionizzabili cominciano a comparire, mentre svaniscono le righe dell'arco. Con temperature sempre crescenti, le righe rinforzate raggiungono il massimo e poi scompaiono. Ad alte temperature le righe dell'arco sono praticamente scomparse, mentre le righe dell'idrogeno sono intense, essendo l'idrogeno ionizzabile soltanto ad eccitazioni molto alte. Temperature altissime provocano la scomparsa delle righe dell'elio, mentre nelle stelle di tipo O la temperatura è così alta che anche quelle dovute all'elio ionizzato scompaiono.
All'estremità della sequenza degli spettri stellari si hanno le stelle rosse deboli. Come si è detto, nelle atmosfere di alcune si trovano composti di ossigeno, in altre di carbonio. Così a questo punto della sequenza si possono individuare due rami della serie principale: quello delle stelle M, e quello delle stelle R ed N; forse un terzo per la classe S. Si deve pensare che alle temperature, in cui sono possibili le formazioni di composti, una differenza nelle quantità relative degli elementi presenti nella fotosfera produca una grande differenza nello spettro della stella. Per esempio, se vi è meno ossigeno, il carbonio a causa della sua grande affinità per l'ossigeno ne prenderà la più gran parte. e gli altri elementi non verranno ossidati. Quindi lo spettro verrà caratterizzato da bande di composti del carbonio. Se d'altra parte vi è una grande quantità di ossigeno nell'atmosfera di una data stella, allora il carbonio sarà completamente ossidato, e così il titanio, con l'apparizione delle bande dell'ossido di questo elemento. Si può dire in tal modo che le stelle di tipo M ed S hanno un'atmosfera ossidante, mentre le stelle di tipo R ed N hanno atmosfera riducente. Le stelle a bassa temperatura, nelle quali cominciano ad apparire i composti, sono quindi il principio probabile dell'evoluzione individuale.
Via via che le temperature diventano più basse, le formazioni liquide e infine solide sono possibili, come avviene nelle atmosfere dei pianeti, i cui spettri, che sono un riflesso di quello del Sole, presentano bande di assorbimento dovute, per esempio, all'ossigeno, al vapor d'acqua come sulla Terra, a idrocarburi e ammoniaca come nei pianeti Giove e Saturno.
La distribuzione dell'energia luminosa negli spettri delle stelle permette, quando si possano paragonare queste a dei radiatori perfetti, di calcolare la temperatura in base alle leggi di Wien, di Stefan-Boltzmann o all'equazione di Planck; come pure si può dedurla dalla teoria di ionizzazione di Saha, che permette altresì la conoscenza della distribuzione della pressione nelle atmosfere stellari in base alla determinazione dell'intensità delle righe spettrali dovute agli atomi neutri e a quelli ionizzati.
Riepilogando quanto si è detto per i tipi stellari e per le temperature dedotte da Saha per mezzo della sua teoria, da Wilsing e J. Scheiner con misure spettrofotometriche, e da Russell con le misure degl'indici di colore si ha la seguente tabella:
Lo studio accurato degli spettri stellari non solo ha permesso di dedurne le caratteristiche fisiche alle quali abbiamo accennato, ma conduce anche in certi casi alla conoscenza della luminosità assoluta delle stelle e quindi anche a quella della loro distanza. Poichè soltanto per un piccolo numero di stelle è possibile di determinare direttamente, per mezzo del metodo trigonometrico, questo importante dato astronomico (v. parallasse), si comprende quale interesse abbia il nuovo metodo spettroscopico e come si cerchi di renderlo sempre più preciso.
La possibilità di determinare dallo spettro di una stella la sua grandezza assoluta (cioè la grandezza che avrebbe la stella se fosse portata alla distanza di 10 parsec) è stata scoperta da W. S. Adams e A. Kohlschütter nel 1913 a Monte Wilson. Per spiegare in che cosa consista la scoperta e il metodo spettroscopico per le misure delle grandezze assolute e quindi delle parallassi consideriamo le due stelle 61 Cygni e αTauri (Aldebaran), ambedue della classe K, le cui parallassi, uguali rispettivamente a 0″,31 e 0″,07, sono note da misure dirette trigonometriche. Queste parallassi paragonate alle grandezze apparenti dei due astri 5,6 e 1,1 ci dicono che a Tauri è 1100 volte più luminosa di 61 Cygni, pur essendo molto più distante dal sistema solare. Si sospettò che tale differenza di splendore dovesse manifestarsi con qualche particolare carattere spettrale e infatti la riga λ. 4455 del calcio, che è una riga dell'arco, si osserva intensa in 61 Cygni e debole in α Tauri; al contrario la riga di scintilla λ 4216 dello stronzio è molto intensa in α Tauri e meno in 61 Cygni. Altre coppie analoghe di righe offrono lo stesso comportamento. Le righe dell'arco, dette di bassa temperatura, sono quindi dominanti in 61 Cygni, quelle della scintilla, cioè le righe rinforzate, in α Tauri. Le prime si trovano altresì molto intensificate nelle macchie solari; le seconde appaiono preponderanti nella cromosfera. Il loro aspetto diverso nelle due stelle non indica una differenza di temperatura, perché gli spettri appartengono alla stessa classe e la ripartizione dell'intensità dello sfondo continuo è la stessa, ma deve indicare invece una differenza di densità dei vapori assorbenti, perché infatti in tal caso la proporzione degli atomi ionizzati della massa gassosa varia notevolmente.
Lo studio d; analoghe coppie di righe e della variazione della loro intensita relativa, che sfugge quasi a un esame superficiale degli spettri stellari di stelle dello stesso tipo e di diversa grandezza assoluta, ma che è ben misurabile con spettri di sufficiente dispersione e con i moderni metodi spettrofotometrici, ha permesso di tracciare delle curve che dànno il rapporto delle intensità di due righe in funzione della grandezza assoluta. L'insieme di queste curve così stabilite permette dunque, essendo data una stella di parallasse sconosciuta, di calcolare la sua grandezza assoluta mediante il solo esame dell'intensità relativa delle due righe.
L'equazione che lega la grandezza assoluta M con la grandezza apparente m e la parallasse p segue subito dalla detta definizione di grandezza assoluta ed è (vedi stelle, n. 6):
A causa della distribuzione e dispersione delle grandezze assolute nelle varie classi spettrali il metodo è più efficace per quelle da G ad M.
Già nel 1913, prima che le nostre conoscenze sulle distanze e luminosità delle stelle venissero accresciute con le misure spettroscopiche, Russell aveva notato che esisteva una relazione definita e particolare fra le grandezze assolute e gli spettri delle stelle, relazione che è stata sempre meglio confermata e che è visibile nei due diagrammi (figg. 31 e 32). Le stelle cioè si affollano in due zone, una che scende da sinistra a destra (fig. 31, dove le ordinate M sono le grandezze assolute e le ascisse i tipi spettrali) dalle stelle luminose delle classi B ed A alle deboli stelle rosse della classe M. Le stelle della cintura di Orione, Sirio, Procione, il Sole, 61 Cygni, la stella di Barnard appartengono a questo gruppo, che viene chiamato sequenza principale. Nell'altro ramo, comprendente stelle gialle e rosse, che corre quasi parallelo all'asse delle ascisse, si trovano stelle di alta luminosità, che perciò sono state chiamate da E. Hertzsprung giganti, al contrapposto di quelle di bassa luminosità della sequenza principale che si chiamano nane. Nella fig. 32 è ripetuto sotto altra forma il diagramma della fig. 31, rappresentando le ordinate il numero delle stelle per i diversi gruppi di classi spettrali e le ascisse la grandezza assoluta. Su questi risultati sperimentali è basata la teoria dell'evoluzione stellare oggi generalmente accettata, per la quale la stella, partendo da sfere di gas di bassissima densità e grande volume, e relativamente bassa temperatura (giganti del III tipo di Secchi), passerebbero gradatamente per il secondo e primo tipo, diminuendo gradatamente di massa e aumentando di densità per finire di nuovo al terzo tipo, come stelle nane, alla fine della sequenza principale.
Lo studio spettroscopico dei corpi celesti si è ancora perfezionato per il fatto, che alle misure empiriche della intensità dello spettro continuo e delle varie righe si vanno sostituendo precise misure spettrofotometriche con microfotometri di varî tipi. Con questi strumenti si ottengono diagrammi, da cui si ricava l'intensitȧ nelle varie parti dello spettro e i profili delle righe, e successivamente la quantità di energia dello spettro continuo scomparsa per assorbimento in una determinata riga. Questa quantità viene generalmente chiamata larghezza equivalente e rappresenta la larghezza in unità Ångström, che assumerebbe la riga qualora l'assorbimento fosse totale. Da queste misure si può arrivare alla determinazione del numero degli atomi che sono attivi nella produzione delle diverse righe e quindi alla composizione percentuale delle atmosfere stellari.
Bibl.: Handbuch der Astrophysik, Berlino 1933; Russell, Dugan, Stewart, Astronomy, Boston 1926-1927; J. Bosler, Cours d'Astronomie, III, Astrophysique, Parigi 1928.