Spettacoli ed esecutori nella Roma imperiale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella Roma imperiale si sviluppa una concezione spettacolare della musica, specie nelle esibizioni di virtuosi solisti, nel gusto per la mescolanza timbrica degli strumenti e nella pratica del pantomimo, una sorta di balletto in cui un unico danzatore si esibisce in tutti i ruoli, accompagnato da cori e orchestre di varia natura.
L’epoca imperiale di Roma si caratterizza essenzialmente per una concezione spettacolare della musica, testimoniata dall’attività delle grandi orchestre, dagli imponenti cori e dalle esibizioni dei virtuosi solisti. La colorita musica popolare dell’impero, con i suoi ritmi ben scanditi dai numerosi strumenti a percussione e con la ricerca talvolta “chiassosa” della varietà timbrica, è indubbiamente un fenomeno tipicamente romano che non trova riscontri in Grecia.
In particolare, notevole successo riscontra nella società imperiale l’attività musicale della categoria dei citaredi, le cui fortune economiche testimoniano quello che è stato uno dei fenomeni musicali più rilevanti dell’intera storia culturale romana: l’affermazione di questi cantori ed esecutori di cetra, dotati di splendide voci, solisti brillanti e virtuosi, richiesti, onorati dagli stessi imperatori e non di rado remunerati con somme eccezionali.
La vita dei citaredi doveva essere molto intensa: quasi sempre d’origine orientale, questi particolari esecutori raccolgono entusiastici consensi, tanto che, a consacrazione del loro successo e soprattutto dopo le vittorie riportate nelle gare musicali, sono celebrati in trionfo e si erigono statue in loro onore. Musici giramondo, sempre pronti a esibirsi in qualche agone internazionale o in altre importanti occasioni, raramente si fermano in un posto a lungo; le richieste si moltiplicano, con appuntamenti stabiliti, e in ogni caso la lunga permanenza nello stesso luogo non giova alla loro popolarità. Alcuni di loro accumulano cospicue ricchezze, almeno a giudicare dagli straordinari onorari puntualmente registrati in alcune iscrizioni d’epoca imperiale. Un bravo citaredo ha comunque anche altre occasioni di guadagno non strettamente legate a importanti celebrazioni quali ludi e feste religiose: i banchetti privati, ad esempio, o le lezioni di musica riservate a influenti personaggi dell’impero.
Come in Grecia, anche a Roma la cetra è considerata uno strumento per esecutori professionisti, utilizzata essenzialmente in due forme di specializzazione musicale: la citaristica puramente strumentale, considerata un’arte minore, poco diffusa nella cultura musicale latina rispetto alla ben più prestigiosa ars citharoedica, consistente quest’ultima nel canto solistico accompagnato da uno strumento a corda e ritenuta la massima espressione di tecnica musicale, superiore a tutte le altre discipline musicali.
Del resto i Romani tenevano in gran conto la capacità di suonare uno strumento a corda in combinazione con la voce: la singolarità e la difficoltà di questa disciplina si basano sulla stretta compenetrazione fra il canto e la musica realizzata da un unico solista, il citharoedus. Egli deve essere in grado di utilizzare al meglio sia le proprie qualità vocali, con un’ampiezza di voce individuata, almeno per un adulto, nella tessitura compresa tra il registro basso e il tenorile, sia quelle di esecutore (artifex) strumentale; l’esibizione, quindi, finisce necessariamente per essere valutata in base alla qualità della voce e alla bellezza della melodia.
I citaredi sono particolarmente favoriti dagli imperatori: il celebre Terpno, racconta Svetonio nell’opera De vita duodecim Caesarum (Nero, 20), sicuramente si faceva ben pagare gli insegnamenti impartiti a un aspirante musicista come Nerone; il suo successore, Menecrates, nominato professore di citarodia dell’imperatore, ricevette patrimoni e case degne di generali trionfatori. Sempre Svetonio (Vespasianus, 19) riferisce che in occasione della riapertura del Teatro Marcello l’imperatore Vespasiano, nonostante la sua proverbiale parsimonia, compensò con ben 200.000 sesterzi i citaredi greci Terpno e Diodoro.
Ugualmente importanti sono gli onori a loro riservati: come narra Cassio Dione nella Storia romana (63, 20, 3), Diodoro ebbe il privilegio di montare sul carro di Nerone in occasione del suo ritorno trionfale a Roma; Carino gratificava poi tutti gli artisti greci, sia attori che musicisti, ricoprendoli d’oro, d’argento e di vesti in seta.
È interessante notare che anche i soprannomi rivelano la provenienza orientale di questi solisti: si pensi a Logus, citaredo al servizio del console Lucio Volusio Saturnino riportato nel Corpus Inscriptionum Latinarum (VI, 7286), il quale conta nella sua numerosa famiglia una solista cantante (cantrix) e ben due actores, o il citaredo Seleucus (fine I sec.), menzionato da Giovenale nelle Satirae (10, 211); un nome che evoca riferimenti all’Oriente ellenistico è ancora Apollonio, vincitore dell’intero ciclo di agoni internazionali. Alcuni nomi acquistano un significato particolare connesso con l’universo mitologico: un citaredo poteva essere soprannominato Apollo o addirittura Orfeo, e uno schiavo musico, una volta liberato, poteva assumere il solenne nome di un figlio di Zeus, Anfione, ancora attestato nel Corpus Inscriptionum Latinarum (VI 10124b), mitico inventore dell’ars citharoedica.
Accanto al fenomeno dei solisti, in periodo imperiale, una delle principali forme di spettacolo coreografico-musicale è il pantomimo, reputato dagli studiosi uno spettacolo tipicamente romano, sebbene di probabili origini elleniche, e definito dai greci “danza italica”. Il pantomimo si diffonde nella capitale al tempo di Augusto: in definitiva si tratta di un balletto tragico o mitologico di più quadri in cui un unico esecutore si esibisce in tutti i ruoli, interpretando una sorta di danza drammatica sostenuta dalla musica. L’aspetto più interessante dello spettacolo pantomimico è che i solisti danzatori, ammirati, osannati, veri e propri factotum, sono accompagnati nelle loro esibizioni da cori e formazioni orchestrali di varia natura, sebbene il ruolo degli strumentisti e dei coristi sia indubbiamente secondario rispetto al saltator.
Il pantomimo rappresenta il più importante esempio di spettacolo romano di epoca imperiale in cui le componenti strumentali e orchestrali sono di notevole rilevanza per la riuscita finale dello stesso spettacolo: grande importanza hanno ai fini del successo popolare di questa forma di balletto la varietà strumentale (tibiae di diversa natura, strumenti a corda e percussioni), con la presenza di quella che potremmo definire “orchestra pantomimica”. Tale elemento sicuramente contribuisce a rendere lo spettacolo una sorta di rivoluzionaria espressione artistica, a tal punto che gli studiosi l’hanno considerato un vero e proprio “nuovo teatro” romano: a partire dagli ultimi anni del I secolo a.C., in piena età augustea, il pantomimo acquista quella caratteristica di spettacolo altamente scenografico che lo accompagnerà per tutta l’età dell’impero romano, almeno per 500 anni, sino al sorgere dell’età bizantina.
Tutto si organizza intorno alla potenza espressiva della musica e ai gesti dell’unico attore-danzatore sul quale, nel tempo, si concentrano le attenzioni del pubblico e ricade l’intero peso dello spettacolo: i pantomimi regolano la messa in scena, dettano i versi al librettista, ispirano la musica e scelgono i soggetti in base alle loro abilità o difetti. Nello stesso tempo non esistono più sulla scena dialoghi, ma soltanto monologhi cantati da un folto coro composto, diversamente da quello tragico greco, da uomini e donne non danzanti che rimpiazzano il solista cantore dell’antica commedia. In definitiva, la musica invade tutto lo spazio scenico e la sua funzione è di mettere in risalto, come un’antica colonna sonora, i contenuti mitici e tragici raccontati dal pantomimo. Il danzatore, dopo l’annuncio dell’araldo, appare in scena indossando preziosissimi costumi di foggia orientale e una piccola maschera sul volto; gli abili gesti, le spettacolari evoluzioni e i rapidi cambiamenti di costume provocano negli spettatori entusiasmo, sorpresa e partecipazione emotiva alla trama. Il danzatore inoltre deve fare anche estrema attenzione a muoversi in sintonia con il materiale musicale sottostante, dotato probabilmente di un carattere definito al quale il pantomimo deve adeguarsi.
Così l’autore greco Luciano di Samosata, nella seconda metà del II secolo, descrive questa forma di spettacolo nella fondamentale opera De saltatione (63): “Gli altri spettacoli ti presentano da vedere o udire ciascuno una cosa sola, che è aulos, o cetra, o voce melodiosa[…]; ma questa del ballo te le presenta tutte, nella sua suppellettile entra ogni sorta di roba, aulos, siringa, nacchere, strepito di kymbala [strumento simile ai moderni piatti orchestrali, costituito da due dischi di bronzo battuti ritmicamente l’uno contro l’altro], bella voce d’attore, concento di cantanti”. Il testo di Luciano conferma che lo spettacolo era quindi dotato di un’orchestra, non sappiamo quanto ampia, in cui, accanto alle tibiae, alle siringhe e al nutrito gruppo di percussioni (kymbala e sandali di ferro, gli scabella), sono presenti anche altri tipi di strumenti, comprese arpe, cetre e lire. In sostanza, l’accompagnamento musicale non è più affidato a un unico strumento (tibia), come nella antica commedia repubblicana, ma a un eterogeneo gruppo di esecutori, soprattutto strumentisti a fiato, il quale agisce in stretta sintonia con il coro.
A tutto questo si accompagna presso il pubblico romano l’attrazione per la musica di carattere orientale, sostenuta dai virtuosi esecutori che continuano ad affluire in Roma dalle più disparate regioni dell’impero, convinti di trovare successo e fortune economiche in una città che indubbiamente offre interessanti opportunità. Da Alessandria proviene il celebre virtuoso d’arpa triangolare (trigonos) Alexandros, il quale tiene a Roma, nella seconda metà del II secolo, un concerto pubblico che, racconta Ateneo di Naucrati nell’opera I Sofisti a banchetto (4, 183e), ha un tale successo da generare una sorta di mania musicale collettiva, tanto che ancora a distanza di tempo gli abitanti di Roma ricorderanno le sue musiche.
In conclusione, il gusto sfarzoso tipico della società imperiale segna la nascita a Roma di una funzione altamente spettacolare e massificata della musica, grazie soprattutto alla creazione di formazioni fondate sulla mescolanza timbrica di strumenti aerofoni, cordofoni e percussivi. Tale gusto per l’eterogeneità strumentale (tibiae, scabella, harpae, citharae), legato anche a un interesse culturale per mode musicali provenienti dall’Oriente, è un fenomeno tipicamente romano che non trova alcuna rispondenza nelle pratiche musicali greche e probabilmente rappresenta il primo passo verso l’affermazione delle grandi orchestre imperiali, di cui riferisce la nota e vivace descrizione di Seneca nella sua Epistula ad Lucilium (11, 84, 109): una quantità spropositata di coreuti riempie le scalee del teatro e suonatori di trombe, tibiae e strumenti d’ogni genere occupano tutta la scena del teatro e perfino il sommo della cavea.
Le orchestre giungono nel tempo a diventare fondamentali nell’ambito della vita sociale e spettacolare romana, accompagnando costantemente gli eventi pubblici, i giochi circensi, i sanguinosi combattimenti dei gladiatori, con fragore di tibiae, citharae, organi e percussioni metalliche, in una sorta di rozza e primitiva eterofonia di suoni e timbri.