Vedi SPERLONGA dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
SPERLONGA (Spelunca)
Grotta presso il paese omonimo situato sulla costa del Lazio (a 14 km da Terracina) su un promontorio roccioso, propaggine dei Monti Ausoni, affacciata sul sinus Amyclanus così detto dalla favolosa Amicle, colonia laconica che sarebbe stata desolata dai serpenti (Serv., Verg. Aen., x, 564).
Il nome di S. è adombrato per la prima volta in un passo di Svetonio (Tib., 39) e in un altro di Tacito (Ann., iv, 59), là dove è parola del rischio corso da Tiberio, che stava per essere investito da una frana nella grotta naturale inclusa in una villa imperiale presso Terracina. L'imperatore fu salvato dall'intervento tempestivo di Seiano. La villa stessa era chiamata "La Spelonca", onde deriverebbe il nome odierno del paese.
La zona, fertile di vigne produttrici del celebrato saluberrimo vino cecubo, estendeva verso Napoli la catena di ricche ville costiere, che secondo Strabone (v, 233), ospitavano grotte allestite in modo da servire di dimora sontuosa. Il collegamento tra queste ville, d'altronde accessibili principallnente dal mare, era stabilito da una strada, identificata con quella che si vuole tracciata nel 184 a. C. dal censore Lucio Valerio Flacco per servire il centro di Formia, appena eretto a municipio.
Una di queste ville fu parzialmente scavata nel 1955 di là dalla cosiddetta "Galleria di Tiberio" di quella strada Terracina-Gaeta che allora si cominciava a costruire, e che, grosso modo, seguiva, rettificandolo, il percorso a cornice dell'antica tortuosa Flacca. L'edificio, con un fronte terrazzato a nicchie ospitanti fontane, parallelo alla linea di spiaggia a quota 20 m circa, si sviluppava in profondità verso il monte, ed era collegato col mare da una caratteristica rampa a scivolo in opus incertum, sotto la quale passava l'antica Via Flacca. La natura delle murature indicava un'origine del I sec. a. C. e un rifacimento alla fine del sec. d. C. Si credette allora di aver messo le mani sulla "villa di Tiberio", localizzando nel terreno roccioso l'episodio del pericolo corso dall'imperatore. In seguito, alla fine del 1956, un gruppo di ruderi in riva al mare, all'ingresso della vasta grotta scavata nel monte di qua dalla "Galleria di Tiberio" (km 16.400 della Via Flacca) e la grotta stessa, già oggetto di illustrazione nelle stampe di Luigi Rossini (1835) e da cui si avevano vaghe notizie di passati ritrovamenti archeologici, mentre vi affioravano tratti di muro in opus incertum, attrasse l'attenzione. L'edificio a mare fu constatato essere un padiglione con strutture murarie del sec. a. C. (opus incertum), rimaneggiato successivamente, a partire dal principio del I sec. d. C. (opus reticulatum), con pavimenti accurati e rivestimenti parietali in fine stucco dipinto a motivi del II stile pompeiano (prospettive architettoniche rade, con figura umana affacciata a mezzo busto - colonna con simulacro divino femminile). Ma l'attenzione maggiore fu attratta dalla grotta, la quale rivelò alla bocca una inquadratura architettonico-scenografica (ne furono messi in luce resti franati e altri in situ), e un riadattamento interno, ove nel fondo essa si suddivideva in una grotticella a sinistra, adattata a triclinio o cubicolo, con pavimento tessellato, e una grotta più vasta a destra, ove si erano praticati giochi e cascatelle d'acqua a guisa di ninfeo (v.). In mezzo alla grotta (alta circa 12 m) era scavata una piscina circolare, avente al centro il basamento rustico di un gruppo plastico in marmo di dimensioni colossali (5-6 m di altezza). Anteriormente la piscina si apriva su di un'altra vasca, rettangolare, con isolotto centrale, che presentava nelle pareti dispositivi a forma d'anfora per la stabulazione dei pesci. Varie e possenti strutture inquadravano questo sistema, di cui facevano parte altre vasche più a monte, con impianti di drenaggio e una grotticella attigua alla grotta principale, col pavimento scavato a bacino ovale munito di loculi (destinati pur essi evidentemente alla piscicultura), allargata artificialmente e terminante anteriormente a destra con uno sperone di roccia lavorato a forma di prora di nave. Le strutture (argini, dighe, moli) si spingevano innanzi nel mare e sono oggi parzialmente inghiottite dal movimento bradisismico, che ha abbassato il piano di campagna di circa un metro.
Gli scavi, ancora in corso, a monte della spiaggia, oltre ad avere sgomberato un'altra grotticella adattata con pareti a reticolato stuccato e con pavimento di fine tessellato bianco, trasformata in età protocristiana in cappella, stanno rivelando inoltre un complesso di costruzioni con celle, peristilî e terrazzamenti, risalente alla fine dell'età repubblicana, ma con molti rimaneggiamenti successivi databili tra il I e il IV sec. d. C. Nella grotticella, come del resto nella grotta principale, si trovarono anche resti sconvolti di stratificazioni preistoriche. Qualche tratto di muro della villa, nei pressi della grotticella, conformato a bellissimo reticolato, risulta anche rivestito di mosaico vitreo policromo e decorato con modanature di pomice e conchiglie. Questo muro però fu successivamente occultato da un altro, paratoglisi dinnanzi a breve distanza, con nicchie intonacate e resti di pittura. Tutto il complesso dei ruderi antistanti risulta frazionato in tarda età e adibito ad usi scadenti (si trovarono anche resti del forno di una officina figulina), e utilizzato anche parzialmente come area funeraria cristiana, costituendo il sacrato della vicina cappella.
È da notare come si tratti di un complesso, disseminato sulla vasta area di un latifondo, le cui origini risalgono a quel periodo della fine della Repubblica che vide uno splendido fiorire di costruzioni private, pubbliche e sacrali, esteso in tutto il Lazio. Evidentemente il latifondo fu assorbito dal fisco imperiale, che vi finanziò dispendiosi impianti particolarmente adatti alla piscicoltura, allora oggetto di cure speciali da parte dei ricchi proprietarî di ville litoranee. Ma i proprietarî avvicendatisi nella villa ben presto non si accontentarono degli impianti utilitarî: essi vollero, in quella cornice di orrida e stupenda natura, corretta e impreziosita dagli accorgimenti di una consumata arte decorativa, inserire una nota ulteriore di fasto, concentrando nella grotta una vera galleria di cimelî di scultura. Vanno questi dal gruppo, epico o mitico, anche colossale, al ritratto; dal putto sorridente o giocoso all'oscillum decorato a rilievo di figure satiresche, all'erma dionisiaca, alla maschera scenica; dalla severa testa di Atena alla svelta e diafana figura di giovinetta, sacerdotessa o musa, al rilievo neoattico con Venere e Amore. Prescindendo dai ritratti e da una grande figura di Ganimede dal corpo in marmo frigio e dalla testa in marmo bianco, rapito in cielo dall'aquila e che forse era collocato in posizione aerea, ad ornamento della somma bocca della caverna, opera sicuramente di età romana almeno flavia, il rimanente si scagliona cronologicamente nell'ellenismo, con opere in parte sicuramente originali. Un gruppo è addirittura firmato: sul fasciame marmoreo sopra un rivestimento musivo delle soprastrutture della prora di nave rostrata (chiamata da apposita iscrizione musiva sul tagliamare navis argo) che separa la grotta maggiore da un altro piccolo antro loculato a sinistra, leggiamo la firma, questa volta completa di patronimici, dei tre autori del Laocoonte: "Athanodoros figlio di Agesandros, Agesandros figlio di Peonios, Polydoros figlio di Polydoros rodii fecero". È firma autentica e non "etichetta" (come proposto dal Magi). Ma la questione è un'altra, poiché sulla nave, battezzata argo forse solo perché tale nome era tipico per un natante, era rappresentato con certezza non l'avventura degli Argonauti, ma l'episodio omerico di Scilla. Di questo già il Klein più di mezzo secolo fa aveva sospettato il gemellaggio col gruppo del Laocoonte, quale prodotto della stessa officina rodia e forse addirittura della stessa mano: pensandone tuttavia l'originale in bronzo. Qui abbiamo invece (purtroppo in istato estremamente frammentario) un gruppo in λίϑος λαρτιος, caratteristico materiale degli scultori rodi; e figure di maggiore o minore eccellenza, secondo importanza ed evidenza, alcune delle quali però indubbiamente magistrali: tali quella del marinaro, che si aggrappa all'acrostolio; tale la testa di Ulisse col tipico berretto a calotta, dai tratti aggrottati per la sorpresa, dominata tuttavia da una espressione di risolutezza cosciente e di fulminea decisione. Forse il suo corpo si serrava con atto istintivo di ricerca di protezione allo ξόανον di Atena (è inteso il vero Palladio o una di quelle figure lignee, tutela della nave, di cui parla Aristofane negli Acarnesi al verso 547?), idolo arcaicheggiante erigido dall'evoluto casco attico, che una mano ossuta e nervosa, probabilmente quella dell'itacense, brandisce con mossa contratta ma decisa. Altre figure dei compagni in lotta con le protomi canine del mostro o colle sue terminazioni a spire pisciformi son conservate in frammenti, insieme con rari frustuli del corpo e di una mano e del capo di Scilla (questi in grandezza superumana).
L'interpretazione è assicurata da un testo epigrafico latino. Sono dieci esametri con cui un certo Faustino, personaggio noto come ricco proprietario terracinese e come poeta dilettante, amico di Marziale, e perciò forse autore egli stesso dei versi, si vanta di aver organizzato "quest'opera felice", cioè la mostra e lo spettacolo dei marmi, per i suoi padroni imperiali. Egli lo ha fatto con tale impressionante verismo che lo stesso Virgilio, restituito in vita, avrebbe dovuto ritirarsi vinto ove avesse confrontato "la crudeltà di Scilla e la nave inghiottita dai gorghi" coi parti della sua fantasia poetica, i dôli dell'Itacense, le fiamme (dell'Iìioùpersis?), l'episodio dell'accecamento di Polifemo; gli antri, le rupi scoscese, i "vivi laghi" (infernali?): tale è la maestria della mano dell'artefice, seconda solo alla natura. Faustino visse nell'età flavia. Il problema è ora di sapere come il gruppo pervenne nella grotta. Eseguito appositamente da artisti coevi o non piuttosto rimontatovi in una esposizione, curata dal poeta cortigiano di Terracina? In questa alternativa il gruppo può essere stato acquistato e trasferito dall'originaria sede di Rodi. E ciò può essere avvenuto ad opera di Tiberio, uno dei precedenti proprietari della grotta, durante il suo soggiorno rodio, che gli dette agio di familiarizzarsi coll'arte di quegli isolani, da secoli eccellenti nella scultura. Portato dapprima a Roma nel palazzo imperiale, il gruppo può essere stato sistemato in età flavia (forse domizianea?) nella sua cornice più naturale della grotta. L'iscrizione, paleograficamente, nonostante un "omega" dall'incipiente ma singolarissima apicatura (che qualche epigrafista astrattamente giudica tarda) quadra per relativa semplicità di tratto - del resto personalissimo come si conviene ad artista figurativo che poca dimestichezza ha con le lettere - nella fine del II o in quel principio del I sec. a. C. cui l'onomastica rodia riporta un noto Peonios figlio di Agesandros (I.G., xiii, 1.46, 425), probabile figlio del secondo dei nostri tre artefici. Ma l'incertezza del dato paleografico, per quest'opera di difficile discernimento, come sanno e ammoniscono tutti gli epigrafisti che si sono occupati di Rodi - primo lo Hiller - permane, accanto alla difficoltà causata dal tipo "dinastico" degli artisti rodî, i cui nomi si ripetevano da nonno a nipote e si alternavano tra stretti consanguinei. Solo dato certo è quello della demolizione dell'albero genealogico arbitrario del Blinkenberg, che dettò legge per varî decennî, secondo il quale Agesandros e Athanodoros erano fratelli e avevano scolpito il Laocoonte verso il 25 a. C. Circa il Laocoonte stesso e la sua presenza nella grotta, molto fu detto e inesattamente. Fu affacciata l'ipotesi che ad una versione di questo mito si potessero riferire i frammenti di colosso e quelli di un drago irreale con caratteri di sauro e di leone, scoperti al centro della piscina. La colossalità ben si armonizzava con l'indicazione di Plinio, che rileva con particolare curioso la monoliticità di Laocoonte. Tale tesi appare allo scrivente ancora oggi verisimile. Nessuno ha finora spiegato plausibilmente in altro modo il soggetto della figura in lotta col serpente in atteggiamento dinamico, di schema del tutto analogo al celebre capolavoro rodio. Non solo, ma una figura accessoria che si viene ricomponendo frammento per frammento, può integrare in proporzioni minori la figura principale senza necessità di un accoppiamento stretto. Essa, perfettamente inquadrata nello schema laocoonteo, può raffigurare uno dei figli del sacerdote, o, seguendo una delle tante versioni del mito, quella di Enea, che, spaventato alla vista del castigo di Laocoonte, fugge coi suoi. Plinio non parla dei figli, e da pitture pompeiane apprendiamo che questi potevano essere raffigurati anche in sede separata, distanti dal padre. Chi ci potrà mai dire la posizione esatta di questa figura di supposto figlio (od Enea), che può essere immaginato anche come completamento distanziato dal gruppo dell'isolotto, e posto sui margini della piscina, alla bocca della grotta? Va da sé però che la questione dell'interpretazione del soggetto rimane aperta, benché essa sia fondamentale di fronte a quella dell'eccellenza stilistica delle figure. Quella che sembra infatti fuor di dubbio, pur nella folla di problemi, cronologici, soggettistici, schematici, ecc. è l'originalità delle sculture, per il finissimo rendimento dell'anatomia e per il dinamismo di posizione, non solo pari ma superiore al gruppo vaticano. La potenzialità economica dei dominatori di Roma ben poteva pagarsi questo lusso raffinato e fastoso, e sappiamo che Tiberio era, oltreché un amatore, un profondo intenditore d'arte. Oltre ai gruppi ricordati ne esisteva nella grotta un altro, eccellente, del cosiddetto Pasquino (v.). Forse opera rodia anch'esso? e copia o prototipo? i frammenti dell'elmo con ottimi rilievi, del panneggio, degli arti, lasciano adito per lo meno al dubbio. Concludono cronologicamente i rinvenimenti un rilievo marmoreo con Afrodite e un piccolo Erote volante, che dalle caratteristiche eclettiche può supporsi replica di quel simulacro di Venere Genitrice, opera di Arkesilaos, che Cesare espose come statua di culto, capostipite della sua stirpe, nel tempio al Foro che da lui prende il nome; e una gigantesca testa di divinità o di imperatrice velata, recuperata dal sabbioso fondale marino.
Comunque si giudichi sui varî interrogativi aperti - e forse destinati a rimanere tali - una cosa si può dire: che la grotta di S. rappresenta una inscenatura fantastica e tipica, permeata dei più vari e labili elementi del gusto e dell'estro decorativo.
Bibl.: F. Fasolo, Architetture classiche a mare, I) La villa romana di Sperlonga, detta di Tiberio, in Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura, n. 14, 1956; II, Altre antichità del litorale di Sperlonga, ibid., n. 20-21, 1957; H. v. Heintze, Die neuen Funde von Sperlonga, in Gymnasium, LXV, 1958, pp. 481 ss.; M. Cagiano de Azevedo, Sperlonga o della critica d'arte in architettura, in Arch. Class., VIII, 1957, p. 218 ss.; G. Jacopi, I ritrovamenti dell'antro cosiddetto di Tiberio a Sperlonga, in Orme di Roma, IX, Roma 1958; id., Gli autori del Laocoonte e la loro cronologia alla luce delle scoperte dell'antro di Tiberio a Sperlonga, in Arch. Class., 1958, p. 160 ss. Per le segnalazioni e i ritrovamenti remoti cfr. G. Fiorelli, Giovanni Patroni: Sperlonga, in Not. Scavi, 1880, p. 480 s., risp. 1898, p. 493 s.; v. anche C. Picard, Du nouveau sur le groupe du Laocoon, in Revue Arch., 1959, II, pp. 117-119; G. Jacopi, L'antro di Tiberio a Sperlonga, Roma 1963.
(G. Jacopi)
I molti problemi sollevati da queste serie di sculture che decoravano la grotta si stanno ora discutendo ed elaborando da parte della critica archeologica internazionale e i varî aspetti sono stati oggetto di conferenze e di comunicazioni in Roma. Il Krarup ha sottoposto ad un riesame l'iscrizione di Faustino, mettendone in evidenza i precisi riferimenti ai temi dei gruppi statuarî, che sono stati ristudiati dal L'Orange, vagliando anche frammenti dei magazzini. Nel supposto Laocoonte egli, con l'Andreae, vede Polifemo, secondo l'opinione già diffusa fra la maggior parte degli archeologi, che è da ricostruire seduto probabilmente entro una cavità interna della grotta. Contro l'occhio del Ciclope Ulisse ed i compagni, di cui restano varie parti, stavano spingendo il palo acuminato, del quale abbiamo frammenti connessi con una mano. Un altro gruppo doveva raffigurare il ratto del Palladio, e sul basamento centrale del bacino interno è da collocare con certezza il grandioso gruppo della Scilla dalle code serpentine che avvolgevano i naufraghi compagni di Ulisse. La prora di nave viene riferita dal L'Orange all'episodio della morte del timoniere su cui si abbatteva l'albero maestro; la figura del barbato marinaio caduto sull'acrostolio è stata dal Säflund messa invece in rapporto con la Scilla, considerando, contro l'opinione del L'Orange, combaciante con la testa del timoniere la parte di calotta cranica con capelli afferrati da una mano molle, attribuita ad uno dei naufraghi.
L'Andreae ha risollevato il problema della datazione dei gruppi statuarî, su cui varie sono le ipotesi e le opinioni; si discute infatti se siano originali ellenistici collocati nella grotta in periodo imperiale, oppure creazioni della prima metà del I sec. d. C. fatte intenzionalmente per la decorazione della grotta da scultori greci, oppure se siano di epoche diverse.
Bibl.: B. Andreae, Beobachtungen in Museum von S., in Röm. Mitt., LXXI, 1964, p. 238 ss.; H. P. L'Orange, Osservazioni sui ritrovamenti di S., in Acta Instit. Rom. Norvegiae, II, 1965, p. 261 ss. G. Säflund, Fynden i Tiberiusgrottan, Stoccolma 1966.
(Red.)