Vedi SPERLONGA dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
SPERLONGA (v. vol. VII, p. 439 e S 1970, p. 751)
A tre chilometri a SO dal promontorio di Amyclae, sulla quale è situata la cittadina di S., si apre verso O una grotta larga all'entrata 21,5 m, profonda 30 m c.a e alta fino a 11,5 m, affiancata a NE e SE da due grotte di minori dimensioni e con un'uscita a N. Questa grotta si trova inglobata in una villa marittima come un teatro naturale, all'interno del quale sono rappresentate in quattro grandi gruppi marmorei le più importanti imprese eroiche di Odisseo a Troia e il suo ritorno a Itaca. Tacito (Ann., IV, 59) e Svetonio (Tib., 39, 2) concordano nel definire la villa «praetorium» imperiale e nell'attribuirle il nome di «Spelunca» da cui è derivato l'attuale toponimo. Strabone, che terminò la sua Geografia nel 18 d.C., allude probabilmente a questa «Spelunca» quando scrive (v, 233): «Qui [se. nel golfo di Terracina] si aprono enormi grotte che ospitano grandi e bellissime abitazioni».
A giudicare dalla muratura in opus incertum e dai pavimenti in opus signinum, la villa fu costruita già in epoca tardorepubblicana. Situato dinanzi all'antro, l'edificio, di dimensioni non particolarmente grandi, poggia su un basamento quasi quadrato (c.a 22 m di lato). In epoca protoimperiale, a Ν della villa, fu costruito su un terrazzamento artificiale un portico a due navate, lungo più di 50 m, addossato al pendio; sul suo lato minore orientale si aprivano nicchie che ospitavano giochi d'acqua. I resti di pitture murali di III stile indicano l'epoca di regno di Tiberio.
La parete posteriore del portico separa la villa vera e propria da un grande edificio provvisto di numerosi ambienti in reticolato di pietra calcarea, in cui è senz'altro da riconoscere una caserma pretoriana di epoca tiberiana. Una serie di piccole camere si apre lungo il muro posteriore del portico, costruita contemporaneamente a quest'ultimo; tali strutture sorsero quando la più antica villa fu trasformata nel praetorium menzionato da Tacito e Svetonio, occasione (26 d.C.) in cui l'imperatore Tiberio rischiò di perdere la vita a causa di un crollo di massi.
Il più importante intervento costruttivo effettuato in quell'epoca consistette nell'allestimento della caverna nel già menzionato teatro naturale per l’Odissea. A tale scopo le irregolarità delle pareti furono pareggiate da una fodera muraria che riproduceva le apparenze di una grotta; l'antro venne interamente rivestito di stucco di colore azzurro, con bordure a conchiglie di diversi tipi ottenute a stampo. La decorazione della caverna, costituita da artistiche modanature in pietra pomice colorata, in mosaici a tessere di vetro policromo e lapidee blu egizio e bianche, e conservatasi soprattutto nei bordi a conchiglie impresse, non è stata mai esaminata e documentata in modo soddisfacente. La presenza di simili decorazioni nelle grotte di Tiberio a Capri priva di fondamento l'ipotesi che data questo schema ornamentale in parte a epoca post- tiberiana. Esso fu realizzato in occasione della trasformazione della grotta in teatro naturale per i grandi gruppi scultorei. La realizzazione della piscina di forma circolare risale probabilmente a una fase più antica, tuttavia la sua forma definitiva è anch'essa risultato della sistemazione generale anteriore al 26 d.C. Questa piscina (diam. 21,90 m; prof. 1,50 m) si apre anteriormente in un'altra vasca rettangolare di uguale larghezza e lunga 29,5 m, nella quale si trovano un triclinio a isola e un'adiacente peschiera suddivisa in quattro settori.
La piscina circolare all'interno della grotta è chiaramente distinta da quella rettangolare, situata nella parte anteriore dell'antro, mediante due piattaforme a Ν e a S. Ciascuna di esse conserva i resti di una base (su quella settentrionale era collocato il c.d. Gruppo del Pasquino, su quella meridionale il gruppo del Ratto del Palladio). Al centro della piscina è un basamento di forma cubica (2,50x3,00 m) in opus caementicium, leggermente spostato verso Ν per non impedire la visione dal triclinio dell'adiacente grotta posta a SE.
Alla grotta situata a NE venne conferito l'aspetto di un ambiente a pianta ovale con pavimento a lastre, le cui impronte nello strato preparatorio fanno ipotizzare la presenza di una base per un gruppo scultoreo, forse con Odisseo che porge il vino a Polifemo, cui potrebbe appartenere la testa di Odisseo. Lungo la parete è una panca con nicchie destinate a vasi con piante. Tutt'intorno, nella parte superiore della parete erano inserite grandi maschere in marmo, utilizzate come fonte di illuminazione: nella cavità orale erano probabilmente poste delle lucerne, la cui luce filtrava da occhi, naso e bocca. All'entrata dell'ambiente, sulla sinistra, si apre nel muro una nicchia circolare di funzione non chiara, mentre sul fondo è un cubiculum con tre alcove disposte a croce.
Accanto alla grotta principale si apre un'entrata secondaria molto più piccola, probabilmente artificiale, tramite la quale una sorgente di acqua contenente magnesio affluisce dal pavimento della grotta settentrionale nella piscina rettangolare dell'antro principale. L'accesso secondario a quest'ultima taglia uno sperone calcareo collegato a mo' di ponte con il massiccio roccioso, al quale con lavoro di scalpello venne conferita la forma di una prua di nave, rivestita con mosaico in vetro, di cui rimangono cospicui tratti, attualmente conservati nel museo. Uno di essi, a sfondo rosso e bordo bianco, reca l'iscrizione Navis Argo PH, realizzata con tessere lapidee bianche. Se le lettere PH vanno probabilmente interpretate come abbreviazione di Puppis Haemonia (Ovid., Ars, 1, 6), il nome della nave, Argo, testimonia che qui era rappresentato il mito delle Planktai, le rocce del naufragio. Nell'Ossea (XII, 59-72), Circe mette in guardia Odisseo dal pericolo che avrebbero rappresentato tali rocce strapiombanti durante il suo ritorno in patria; soltanto una nave, Argo, era riuscita, con l'aiuto di Hera, a passare indenne tra di esse. Odisseo deve dunque evitare questi scogli, sebbene ciò comporti l'attraversamento dello stretto tra Scilla e Cariddi. Quale parte integrante della rappresentazione in uno scenario naturale del mito omerico, la prua della nave Argo, intagliata nella roccia, in vista dell'isola Aiaia (Monte Circeo) venne decorata con gruppi marmorei.
Il programma iconografico e l'arredo architettonico della grotta fanno parte di un unico piano originario e l'allestimento si adatta perfettamente allo scenario naturale elaborato artificialmente. In primo piano, in un'ambientazione non realistica, sono collocati, su bassi basamenti in opus caementicium, due gruppi, ognuno composto da due figure, rievocanti l'antefatto delle peregrinazioni di Odisseo, ossia la guerra di Troia: il primo rappresenta il recupero della salma di Achille e delle sue armi, senza le quali Troia non avrebbe potuto essere sconfitta; il secondo è il Ratto del Palladio, in conseguenza del quale Troia venne privata della protezione divina. Al centro e sullo sfondo sono rappresentati con sorprendente realismo i due ostacoli più gravi che Odisseo deve superare nel suo viaggio di ritorno a casa: Scilla e Polifemo.
Il processo di progettazione si attuò senz'altro in base a un rapporto di intesa tra committente, architetto e maestranza di scultori. Prendendo spunto da Omero e, probabilmente anche da Ovidio, il committente formulò la sua intenzione di porre in risalto la figura di Odisseo quale exemplum virtutis, all'interno di una grotta naturale verosimilmente utilizzata come peschiera, adiacente alla sua villa marittima situata non lontano dal leggendario Mons Circeus, emergente dal mare come un'isola. L'ispirazione potrebbe essere derivata da Rodi, laddove, in quelli che H. Lauter ha definito «parchi rodî», sculture erano esposte in scenarî naturali, mentre piccole grotte erano trasformate in teatri naturali mediante la collocazione di statue al loro interno. A ogni modo, da Rodi provenne la squadra dei tre scultori Athanadoros, Hagesandros e.Polydoros, noti dal gruppo marmoreo del Laocoonte e che firmarono il Gruppo di Scilla collocato in posizione centrale. È improbabile che il teatro naturale di S. rappresenti un complesso conchiuso di tipo ellenistico, tuttavia sembra siano state scelte composizioni ellenistiche di gruppo, concepite per luoghi di esposizione diversi, adattate alle caratteristiche specifiche della grotta di S. e copiate in marmo espressamente per essa. Il cospicuo numero di frammenti conservatisi dei quattro gruppi omerici in questione consente, mediante il confronto con altre repliche, di risalire agli originali ellenistici in bronzo.
Da questo punto di vista, il gruppo che pone minori problemi è quello c.d. del Pasquino, che doveva rispondere in modo molto preciso alle intenzioni del committente. Di questa composizione, nota da oltre dieci repliche romane e che secondo un'opinione unanime rappresenta il ratto del corpo di Patroclo da parte di Menelao (Il, XVII, 721), si conservano la testa con elmo e il braccio sinistro del guerriero, la mano sinistra del defunto e le gambe trascinate, a partire dai glutei e dall'inguine, la sinistra mancante di metà femore, ginocchio e tibia, la destra della punta del piede. Il viso del guerriero è molto danneggiato, tuttavia la lavorazione a rilievo dell'elmo, di elevata qualità e in ottimo stato di conservazione, permette di riconoscere nella scultura una replica fedele, anche nelle dimensioni, di un modello noto nelle copie di Palazzo Braschi a Roma, di Palazzo Pitti a Firenze, del Vaticano (da Villa Adriana) e di Varsavia. Il piede sinistro di Patroclo, conservatosi in altre due copie di identiche dimensioni al Vaticano (da Villa Adriana) e in una terza a Budapest, presenta nei confronti di queste ultime, esattamente concordi e dunque aderenti alla versione originale, una significativa particolarità, che per forza di cose ha come conseguenza una diversa identificazione delle figure: nel piede sinistro della scultura in esame il tendine achilleo è reciso, cosicché il tallone poggia sul pavimento in maniera decisamente innaturale, tale che neanche lo scultore era riuscito a controllare del tutto. Invece in tutte le altre repliche, come è normale nel caso in cui il tendine achilleo sia teso, il tallone è distaccato dal pavimento.
Il prototipo del gruppo di S. è stato senza dubbio trasformato in un gruppo nel quale Odisseo recupera la salma di Achille colpito al tallone, allo scopo di condurlo fuori dal campo di battaglia. La vista del piede di Achille con il tendine spezzato ci riporta alla mente le parole che Ovidio (Met., XIII, 283 s.) fa dire a Odisseo: «His umeris, his inquam, umeris ego corpus Achillis, et simul arma tuli» («Su queste spalle, dico, su queste io portai la salma di Achille e al contempo le armi»). Probabilmente il corpo del guerriero morto, i cui glutei non sembra siano stati levigati, ma soltanto scalpellati, era ricoperto da una corazza bronzea; ciò comprova l'ipotesi che il gruppo non rappresenti Patroclo derubato delle armi, bensì Achille, messo in salvo insieme alle sue armi da Odisseo, come vuole la versione del mito tramandata da Ovidio. Nel suo fondamentale studio sulla composizione del gruppo, B. Schweitzer ha dimostrato in modo inconfutabile che l'originale era in bronzo, poiché nelle copie in marmo sono utilizzati puntelli quadrangolari sistemati di volta in volta in punti diversi, dunque assenti nell'originale. Allo studioso dobbiamo inoltre l'indiscutibile attribuzione del gruppo all'arte pergamena. Esso è da porre in stretta relazione con i rilievi del Grande Altare, che studi recenti (Andreae) hanno proposto di datare al decennio compreso tra il 166 e il 156 a.C.
Il gruppo del Ratto del Palladio, collocato sul basamento opposto, presenta caratteristiche stilistiche completamente diverse. Di esso si conservano la testa di Diomede e il suo braccio sinistro che stringe il Palladio, e il corpo di Odisseo. Di quest'ultimo esistono altre due copie di uguali dimensioni nel Museo Nazionale Romano e nel Palazzo Mattei a Roma, esattamente concordi tra loro nella resa di un importante particolare, che nella replica di S. è rappresentato in maniera differente ed evidentemente frainteso. Odisseo avvolge la clamide, nella quale nasconde la spada, attorno all'avambraccio sinistro; nelle altre repliche, come è logico, il panno stretto aderisce alla schiena diagonalmente verso il basso. Nella scultura di S., inspiegabilmente, ricade dalle spalle un lembo rettangolare del mantello che, con debole panneggio, va a ricoprire la schiena dandole rilievo. E probabile che, senza tale accorgimento, il gruppo sarebbe potuto sembrare di minore effetto al confronto della possente composizione del Pasquino, cui esso faceva da pendant. La modifica del mantello nella statua di S. dimostra in modo inequivocabile che la scultura in questione è una copia dello stesso originale riprodotto con precisione dalle repliche romane. Inoltre, poiché nelle tre copie il supporto per la mano destra portata alla barba si trova in un caso al di sopra del capezzolo, nel secondo sul capezzolo, e nel terzo al di sotto di esso, non vi sono dubbî che l'originale fosse privo di puntello e quindi in bronzo.
La composizione immortala uno dei momenti più significativi della narrazione, ossia il balenare degli occhi e il vibrare della lancia, segni tramite i quali il Palladio rivela se stesso, mentre Odisseo, che nasconde la spada nel mantello avvolto intorno al braccio, già pronto a sguainarla, si vede impedita la realizzazione del suo piano, dettato dall'invidia, di colpire l'amico alle spalle e di presentarsi ai Greci come portatore del Palladio. Ovidio non lascia dubbi sulla complicità tra Odisseo e Diomede nella cospirazione. Fatta eccezione per la variante nel trattamento della clamide di Odisseo, il gruppo di S. può considerarsi copia fedele di un modello che, intorno alla metà del II sec. d.C., fu riprodotto anche in un'osteoteca da Megiste in Asia Minore, oggi nel Museo Nazionale di Atene. Soltanto in una certa misura il gruppo si addice alla palese esaltazione di Odisseo che sottende il programma iconologico del teatro naturale; difatti esso ritrae l'eroe in una situazione ambigua, dunque in un modo tutt'altro che insolito nelle diatribe romane, poiché Seneca (Dial., II, 2, 27) parla di Odisseo come di persona che sa vincere i proprî bassi desideri. In base alla tradizione figurativa antica è senz'altro possibile immaginare una versione del Ratto del Palladio che celebrasse Odisseo in modo esplicito nel senso indicato dalle Metamorfosi di Ovidio. La presenza a S. della replica di un gruppo che non si attaglia perfettamente allo spirito generale del programma fa pensare che alla base della sua scelta ci fosse non solo un chiaro messaggio contenutistico, ma l'intento di rievocare noti capolavori artistici dell'epoca precedente. La legittimità di queste considerazioni è dimostrata in modo convincente dall'esistenza di altre repliche e dall'influenza esercitata dal gruppo sui rilievi dei sarcofagi microasiatici di epoca protoimperiale. Non è semplice classificare stilisticamente il gruppo: la lavorazione del marmo risulta simile a quella dei ritratti tiberiani, ma l'originale aveva già influenzato opere neoattiche del periodo intorno al 100 a.C. Studi recenti hanno rilevato la stretta somiglianza tra la testa di Diomede e il ritratto di Eumene II. Si può ritenere che il gruppo del Ratto del Palladio sia un capolavoro di arte pergamena probabilmente creata da Nikeratos negli anni Novanta del II sec. a.C.
Una grandiosa composizione di gruppo è rappresentata dall'Accecamento del gigante Polifemo. Essa è composta da cinque figure, ricostruibili per il 70% c.a grazie ai frammenti conservati, incluse le teste dei due compagni all'estremità del palo, note soltanto da repliche. La ricostruzione, che sebbene incompleta nei particolari riesce a comunicare l'idea e il messaggio del gruppo, è stata resa possibile dall'applicazione di tre criterî. Il primo è offerto dal confronto con una versione dell'intera composizione in un rilievo su sarcofago risalente all'anno 180 d.C. circa, attualmente a Catania. L'intero gruppo consta delle cinque figure che si sono conservate, ossia il gigante semisdraiato, il compagno che gli ha riempito la coppa di vino versandolo da un otre, adesso vuoto, l'eroe Odisseo e i suoi due compagni, intenti a conficcare con tutte le loro forze il palo affilato e ardente nell'unico occhio del gigante. Il rilievo di Catania presenta soltanto i tratti fondamentali della composizione, inoltre i rapporti dimensionali sono diversi. Quindi, esso fornisce soltanto un primo termine di confronto. Poiché nel nostro gruppo, oltre alle braccia di Odisseo, si conservano le articolazioni di tutte le figure, i loro movimenti possono essere ricostruiti con notevole precisione, anche senza far ricorso al rilievo di Catania. Di Odisseo si conserva almeno la spalla destra fino all'attaccatura del braccio, grazie alla quale possiamo dedurre con certezza il tipo di movimento in cui egli era raffigurato. I dubbi sussistono solo relativamente alla torsione della parte superiore del corpo del gigante e alla precisa collocazione del portatore di otre.
Il secondo criterio ricostruttivo consiste, muovendo dal confronto con il rilievo di Catania, nello stabilire i seguenti elementi: la posizione delle figure in base alla concatenazione dei loro movimenti, in primo luogo della figura che stringe l'estremità del palo, conservatasi quasi integralmente; quindi il rapporto anatomicamente plausibile tra le quattro estremità conservatesi separatamente del secondo compagno, il quale, rappresentato accanto al primo, stringe il palo più in alto; l'angolazione secondo la quale il palo è inclinato verso l'alto, nonché la posizione di Odisseo, che, stante su un piano rialzato, con il cavo delle mani dirige il palo nell'occhio del ciclope. La posizione della testa e della parte superiore del corpo del gigante si può dedurre dalla palpebra inferiore del suo occhio sporgente, conservatasi tra i frammenti della testa. Egli è stato rappresentato semisdraiato all'indietro obliquamente, appoggiato alle rocce; non è difficile immaginare che un momento prima egli sedeva sul suo seggio di roccia, protendeva la mano destra verso la coppa che il terzo compagno gli riempiva di vino, mentre Odisseo lo toccava con entrambe le mani tese in avanti, ossia nella stessa posizione in cui ora esse dirigono il palo nell'occhio del gigante.
Di pari passo con la comprensione delle motivazioni che determinano i movimenti delle singole figure e la loro disposizione, risultante dall'insieme delle loro azioni, va necessariamente considerato il terzo criterio, consistente nell'individuazione dei punti di appoggio offerti dal sito di esposizione. Esso consente in una certa misura di delineare gli elementi costitutivi del gruppo e di ripercorrere le fasi di lavorazione. Innanzitutto fu costruito un podio di 1 m c.a di altezza, tra le pareti progressivamente convergenti della grotta secondaria sud-orientale, parallelo al bordo curvilineo della piscina, e su di esso fu installato il gigante. Quest'ultimo venne ricavato in un blocco di marmo poggiato di sbieco su due robusti pali di legno. Questi rimasero inseriti nella schiena del gigante, ad ancorare la scultura al letto di roccia foderato in opus caementicium. Si conservano ancora gli incavi a sezione quadrangolare che arrivano diagonalmente fino al podio; all'interno di essi vennero fissati i pali successivamente inglobati nella muratura del letto di roccia, al di sotto del gigante già collocato nella sua posizione. Inoltre, al margine della volta della grotta sono visibili tre coppie di fori di alloggiamento, nei quali erano fissate le travi per la sicurezza della struttura, probabilmente sostenuta da un elevatore analogo alla machina tractoria descritta da Vitruvio (X, 2, 1 ss.). Sul letto di roccia, su cui gravava il peso del ciclope in marmo, vennero poggiati dei muri di andamento curvilineo destinati a sostenere il completamento della terrazza situata alle spalle del Gruppo del Polifemo, consistente non soltanto nella scala che conduceva alla terrazza dal bordo meridionale della grotta, ma anche in una scaletta nella nicchia del primo muro di sostegno, successivamente obliterato da un muro di sbarramento, lavorato in modo tale da riprodurre l'apparenza di una grotta, sostenente dal retro il Gruppo di Polifemo. Il terrazzo, rivestito di lastre, consentiva la deambulazione intorno al gruppo scultoreo e la visione ravvicinata non solo del suo lato posteriore, ma, in particolare, di Odisseo stante al di sopra del muro di sbarramento. L'asse fra i due pali, sostenenti il blocco marmoreo del gigante in posizione obliqua, determina l'orientamento di quest'ultimo, il quale arriva a toccare il margine del podio con le dita del piede sinistro. La coppia di compagni all'estremità del palo trova posto dinanzi alle nicchie poco profonde nel muro di sbarramento, in cima al quale è la base di Odisseo. Non è facile stabilire la posizione del personaggio con otre sul lato destro del podio, in quanto la figura, a seconda del punto di vista estetico, può essere variamente collocata su un semicerchio il cui raggio è costituito dallo sguardo volto in direzione della testa del gigante. Egli ha adempiuto il proprio dovere, lascia pendere l'otre ormai svuotato del vino e, senza distogliere lo sguardo dal mostro ubriaco riverso all'indietro, prende lo slancio per il salto che lo metterà in salvo. Di particolare effetto nell'allestimento di S., dove il gruppo poteva essere osservato nel suo lato principale dal triclinio a isola, risulta la posizione di questa figura che, con la testa volta all'indietro, fugge in direzione dell'osservatore. Il progetto scenografico dell'artista, che ideò il teatro naturale di S. in base a un rapporto di reciproca intesa con il committente, dimostra tuttavia che il Gruppo di Polifemo non era orientato secondo un unico punto di visione e che è possibile comprendere la ricchezza del suo sviluppo spaziale solo mediante una visione dinamica.
A S. il criterio di presentazione scenografica è evidente dai percorsi di approccio al gruppo. La presenza della piscina circolare impediva un approccio assiale alla composizione, che poteva essere avvicinata seguendo l'arco dello stretto passaggio compreso tra la piscina e la parete della grotta. Avvicinando il gruppo dal lato destro, la composizione era visibile al di sopra delle spalle del compagno con l'otre in fuga, figura che esprime lo stato d'animo dell'intero evento, con la quale ci si poteva spontaneamente identificare. Salendo le scale per osservare Odisseo da vicino era dunque possibile ammirare l'originale costruzione spaziale della figura con l'otre del vino. Rimanendo in piedi, dietro la testa di Polifemo si osservavano i visi affaticati di Odisseo e dei suoi due compagni, intenti a spingere il palo; quindi si poteva avvicinare la scultura di Odisseo e studiarne i tratti del volto caratterizzati da una lavorazione di grande effetto, il cui pàthos barocco richiama immediatamente le sculture dell'Altare di Pergamo. Infine, dall'alto, erano visibili le figure poste più in basso all'estremità del palo e si poteva notare il modo in cui essi stringono il palo dall'alto e dal basso incrociando le mani e inferiscono il colpo con i muscoli che sembrano lacerarsi per la tensione.
Ritornando nello spazio antistante al podio, camminando intorno al gruppo, questo si offre alla vista nella dimensione della sua larghezza. In tale prospettiva risulta con chiara evidenza che il maestro ideatore del gruppo intese riallacciarsi a uno schema figurativo arcaico, quale appare nel noto frammento di Argo databile intorno al 675 a.C. e nell'anfora protoattica di Eleusi. Mentre in Omero (Od., IX, 384-386) il gigante disteso viene accecato dal palo conficcato verticalmente dall'alto e fatto girare su se stesso come un trapano, già nelle opere dei ceramografi arcaici il palo viene diretto orizzontalmente oppure obliquamente dal basso nell'occhio del gigante, caduto all'indietro dalla posizione seduta. Al modo di rappresentazione più completo dell'epoca arcaica, in cui il gigante regge ancora la coppa in una mano e cerca di afferrare il palo che gli ha trafitto l'occhio onde strapparlo dalla ferita, l'artista ellenistico preferisce un momento più efficace della narrazione, che, secondo la definizione di Lessing, lascia libero spazio all'immaginazione e consente di rivivere drammaticamente l'intera vicenda. Si tratta dell'attimo immediatamente precedente alla penetrazione del palo arroventato nella massa gelatinosa dell'occhio. La coppa (di cui si conserva un frammento dell'orlo con l'ansa) caduta dalla mano, le cui dita si sono dischiuse prive di forza, e rotolata sul pavimento rivela quel che è appena accaduto e lascia immaginare quel che accadrà nell'attimo seguente, quando il compagno con l'otre del vino sarà già in fuga per mettersi in salvo nascondendosi in un angolo dell'antro. Un altro importante punto prospettico fu sottolineato dagli architetti mediante l'installazione di una panca presso il margine sinistro del podio, sulla quale, una volta completata la visione del gruppo, ci si poteva sedere per contemplarlo con calma. In realtà, da questa postazione si gode di una visione particolarmente interessante, di accentuata profondità spaziale con linee marcatamente divergenti.
Di particolare importanza per l'effetto globale della ricostruzione è stata la possibilità di integrare le teste di entrambi i compagni all'estremità del palo, mancanti a S., grazie ad alcune copie da Villa Adriana. In questo complesso, oltre a una replica della testa del portatore di otre, sono state rinvenute altre due teste simili per stile ed espressione. Queste appartenevano verosimilmente a una versione del Gruppo di Polifemo esposta nella villa, probabilmente realizzata per la costruzione absidale della valle del Canopo, iniziata nel 126 d.C. secondo la tipologia costruttiva dall’antrum cyclopis, trasformato in Serapeo nel 130 d.C. dopo la morte di Antinoo. In questo edificio il gruppo era verosimilmente allestito secondo quella visione in asse con la figura di Polifemo che, secondo la concezione scenografica degli architetti di S., doveva costituire l'ultima tappa della visione dinamica del gruppo.
Nella sua composizione il Gruppo di Polifemo dimostra una chiara affinità con il Gruppo di Pasquino nel voluto parallelismo delle parti, nel contrasto tra il corpo rilassato, disteso e l'immane tensione muscolare degli altri personaggi. Si può istituire un confronto diretto fra la testa di Menelao del Gruppo del Pasquino e quella del secondo compagno all'estremità del palo visibile dal retro nel gruppo di Polifemo. I tratti dei loro volti tradiscono il lavoro della stessa mano, rendendo probabile l'ipotesi che gli originali di entrambi i gruppi fossero opere di uno stesso maestro ellenistico. Anche il Gruppo di Polifemo rivela una marcata impronta pergamena e la sua realizzazione non può essere cronologicamente distante da quella dell'Altare di Pergamo, risalente al periodo compreso fra il 166 e il 156 a.C. La palese somiglianza con le teste identificate come Mario e Siila della Gliptoteca di Monaco si può spiegare con l'ipotesi di L. Giuliani, secondo cui queste apparterrebbero a repliche augustee delle statue dei due Scipioni più anziani, esposte da Scipione Emiliano dinanzi alla tomba di famiglia negli anni Trenta del II secolo. Scipione Emiliano, come è stato dimostrato, era sensibile alla bellezza dell'arte di Pergamo e potrebbe aver ordinato la realizzazione delle statue a un'officina di scultori pergameni.
Di genere assolutamente diverso è il quarto dei grandi gruppi scultorei mitologici, collocato al centro della piscina circolare su un basamento in opus caementicium e raffigurante, in modo estremamente complesso, l'avventura di Odisseo tra Scilla e Cariddi. L'artista dovette far fronte al problema di rappresentare lo sbandamento dell'imbarcazione nella sua veloce corsa che, per evitare il gorgo di Cariddi, viene a trovarsi alla portata di Scilla, consentendogli così al massimo di ghermire sei uomini. Motivi di spazio impedivano la rappresentazione della nave in tutta la sua lunghezza, pertanto si dovette, come era d'uso sin da epoca arcaica, scegliere una parte per il tutto. L'artista ideatore del progetto riuscì tuttavia a trovare un momento particolarmente efficace che consentiva all'osservatore di immaginare la nave nella sua interezza e di avere una chiara percezione della sua velocità e della presenza di un pericoloso vortice. Si tratta dell'attimo in cui la nave ha già quasi superato le rocce di Scilla e Odisseo, che precedentemente stava sulla prua della nave, da cui aveva scagliato la prima lancia contro il mostro, corre sul ponte fino a poppa per lanciarne una seconda. Egli vi arriva con un balzo nel momento in cui Scilla, che precedentemente aveva scaraventato via cinque compagni dalla nave sfrecciante, strappa il timoniere dalla sua postazione afferrandolo per i capelli con la sua mano possente. Scagliato in aria, l'uomo sente mancare la terra sotto i piedi e le sue gambe, con una forza d'inerzia determinata dalla velocità della nave, fluttuano all'indietro in direzione della prua, che si allontana (e non è rappresentata) in alto. Nello stesso momento la decorazione della poppa si infrange urtando con veemenza contro la mano di Scilla, le prime ordinate dell'àphlaston vanno in frantumi e Scilla si vede sfuggire la preda di mano. L'uomo, in procinto di cadere dal lato della nave, fa appello alle sue ultime forze e si aggrappa con la mano destra alle ordinate, mentre la sinistra, con la quale dovrebbe manovrare il timone, è tesa all'indietro nel vuoto. Proprio quando la nave, la cui velocità è chiaramente percepibile grazie al movimento delle gambe del nocchiero fluttuanti verso l'alto e alla violenza dell'urto, sembra stia per rimanere senza guida, Odisseo salta al timone. Quasi al pari di un vincitore egli scaglia l'ultima lancia contro il mostro per poi impossessarsi del timone e condurre al sicuro la nave e il resto dell'equipaggio. Il timoniere, che Scilla non può più trattenere, sospeso in aria guarda verso il basso e scorge la voragine di Cariddi che si apre minacciosa. Poiché l'artista non aveva altro modo di rappresentare il gorgo, egli lascia che esso si specchi negli occhi del nocchiero dilatati dal terrore. Non si saprà mai se la paura mortale che gli si legge nel volto gli darà la forza di aggrapparsi alla nave della salvezza, o se la violenza del movimento lo farà precipitare nell'abisso di Cariddi. Intanto si compie l'agghiacciante destino dei cinque compagni, dei quali, come era stato predetto da Circe, Odisseo è costretto ad accettare il sacrificio onde mettere in salvo tutti gli altri e se stesso insieme con la nave.
Contrariamente alla descrizione di Omero (Od., XII, 39-127), Scilla non appare qui nelle sembianze di una spaventosa piovra, bensì, come verrà descritta da poeti più tardi e, in diversi passi, da Ovidio (Met., VII, 64 s.; XIII, 730-734; XIV, 60-67 e 70 s.), nell'aspetto di un mostro con la parte superiore del corpo femminile, con due code di delfino e sei protomi canine fuoriuscenti dalla parte inferiore del corpo; essa probabilmente ha già divelto con la mano sinistra il timone di bordo dall'ancoraggio. Già precedentemente agli scavi del 1957 era stata ritrovata una gigantesca mano sinistra con i resti di un palo a forma di clava, purtroppo andata dispersa; questa era con ogni probabilità la mano di Scilla con i resti del timone. Con la mano destra essa solleva il compagno di Odisseo dalla nave e lo lancia al cane affinché questo lo divori e ora afferra il timoniere per i capelli senza curarsi del fatto che nello stesso momento l'àphlaston, veloce come un bolide, le fa sfuggire di mano la vittima, contro la quale sta per avventarsi uno dei cani digrignanti. Tuttavia le restano cinque vittime. Il primo compagno viene lanciato da Scilla al cane che spunta dal suo fianco sinistro; lo sfortunato è afferrato dalla coda sinistra del mostro che gli si avvolge attorno a spirale e lo solleva verso il cane più in alto; questo lo ferisce al ginocchio destro con la zampa e con le fauci spalancate gli azzanna la coscia. L'uomo tende la mano sinistra in basso afferrando le narici del cane e tenta di lacerargli il muso. Le sue estremità si aggrappano a spirale al corpo del pesce e, martoriato, l'uomo rovescia la testa sul lato per non dover assistere alla sua mutilazione mortale.
Il secondo compagno, caduto in acqua a sinistra di Scilla, è riportato su dal cane fuoriuscente dall'aculeo sinistro dell'osso iliaco di Scilla; l'animale lo afferra per la nuca e lo scuote come una preda di caccia allo scopo di spezzargli l'osso del collo. Le gambe divaricate dell'uomo sono levate in aria, mentre egli si tiene con le mani alle zampe del suo aggressore. Il terzo dei compagni, caduto in mare dinanzi a Scilla, viene afferrato alla spalla destra da uno dei cani cresciuti dall'addome del mostro; mentre la zampe adunghiano l'altra spalla e il braccio destro, il cane azzanna la carotide dell'uomo sollevato obliquamente dall'acqua, che riesce ad afferrare con la mano sinistra una zampa dell'animale.
Al quarto uomo Scilla, già intenta ad afferrare il timoniere, infierisce soltanto un colpo, in modo da farlo precipitare in mare a testa in giù. Le sue gambe vengono spinte verso l'alto dal cane fuoriuscente dall'aculeo destro dell'osso iliaco, proteso in alto verso il timoniere, e l'uomo cade a capofitto. Nel momento successivo egli si sarebbe schiantato sugli scogli se il cane fuoriuscente dal lato destro dell'addome di Scilla non lo avesse afferrato al volo con entrambe le zampe per poi azzannarlo al fegato. Il quinto compagno viene avvinto dalla parte destra della coda attorcigliata del mostro e sbalzato via dalla nave. Contemporaneamente il cane che spunta dal fianco destro di Scilla lo assale con gli artigli della zampa possente, che lo colpiscono alla schiena e al petto al di sopra della tortuosa coda pisciforme, e gli morde il cranio spalancando le fauci. Pur avendo la testa spaventosamente attanagliata fra il cane e la coda del mostro, l'uomo afferra il muso del cane, copre i suoi occhi e affonda l'indice nell'angolo esterno dell'occhio per cavarglielo, cioè nello stesso modo in cui vediamo l'avversario di Artemide difendersi dal cane da combattimento della dea nell'Altare di Pergamo. Mentre la mano sinistra è impegnata in questo atto disperato, la destra è protesa in alto con le dita allargate in cerca di aiuto, come se da qualche parte vi fosse ancora un appiglio. Tuttavia, anche questo gesto impressionante, proprio come quello compiuto dal timoniere che tende la mano all'indietro nel vuoto, è notevolmente disturbato da un puntello quadrangolare collocato sul polso.
Da ciò risulta evidente che questi motivi non erano stati ideati per una rappresentazione in marmo, ma per una scultura in bronzo, che può fare a meno di supporti e permette un libero sviluppo dei movimenti. Senza dubbio, i puntelli, originariamente dipinti di scuro, soprattutto sullo sfondo altrettanto scuro dell'antro, non davano tanto nell'occhio quanto il chiarore del marmo, pur tuttavia, qualora si fosse trattato di un'opera originale, uno scultore del marmo avrebbe rinunciato a trattare gli arti delle figure in modo così libero oppure avrebbe fatto in modo che essi si appoggiassero alla massa del marmo in maniera diversa.
Tre ragioni ci portano inequivocabilmente alla conclusione che il Gruppo di Scilla, proprio come gli altri tre gruppi scultorei di soggetto mitologico, non è creazione originale, bensì replica in marmo di un modello in bronzo. In primo luogo va tenuto conto della forma e del numero dei puntelli quadrangolari che fissano tutte le figure in una rete statica. Il secondo motivo è l'esistenza di accurate descrizioni di un gruppo in bronzo corrispondente al nostro fin nei dettagli, esposto nell'Ippodromo di Costantinopoli da epoca tardoantica fino all'anno 1204. La terza considerazione riguarda l'esistenza di imitazioni dello stesso gruppo nella ceramica ellenistica e romana, che sono da far risalire non alla versione in marmo di S., ma all'originale in bronzo, riprodotto, come i gruppi del Laocoonte e del Toro Farnese, anche sui medaglioni contorniati.
Resta infine da discutere un elemento che riveste particolare importanza nell'analisi del significato originario del monumento. Il tipo di imbarcazione sulla quale Odisseo viene qui rappresentato è ben noto da altre testimonianze iconografiche e dalla tradizione storica: si tratta di una triemiolìa rodia del II sec. a.C., una nave che per via della sua maneggevolezza era utilizzata nella caccia ai pirati.
Poiché secondo Palefato (Περί άπίστων, 21) il mito di Scilla era un'allegoria della pirateria, è probabile che l'originale in bronzo del Gruppo di Scilla di S. fosse un monumento ufficiale in memoria dei caduti nella guerra condotta da Rodi contro i pirati, eretto nel periodo fra il 188 e il 168 a.C.
Nonostante costituiscano solo parte dell'intera esposizione, i quattro grandi gruppi scultorei mitologici per primi attirano lo sguardo. Ciò era vero anche nell'antichità, poiché soltanto essi trovano menzione in un centone di dieci esametri risultante da una combinazione di versi virgiliani che, come denotano la grafia imprecisa e gli errori di ortografia e metrica, venne redatto non prima dell'epoca tardoantica da tale Faustinus Felix e riportato su una tavola in marmo affissa alla parete dell'antro tra le due grotte secondarie, probabilmente nello stesso periodo in cui nella villa fu esposta la testa del tetrarca. La poesia fa riferimento all'«astuzia dell'Itacese», all'accecamento di Polifemo e alla «poppa della nave sconquassata nel gorgo», tuttavia non vi è menzione delle altre numerose sculture esposte nella villa di S., che sicuramente non facevano parte del programma mitologico di glorificazione di Odisseo. I reperti scultorei possono essere ricondotti a cinque categorie: A) Sculture a tutto tondo: statua colossale di Ganimede in pavonazzetto; testa di Atena del «tipo Rospigliosi»; testa diademata di Salus; statuetta di donna abbigliata; supporto di statua a forma di peplophòros arcaizzante, al di sopra della quale è gettata una veste. Forse la statua ritraeva Venere nell'atto di svestirsi; peplophòros, testa di Sileno; ragazzo con brocca; tre giovani satiri che spruzzano acqua; fanciullo seduto con maschera di Sileno; tre statuette di maiali.
B) Erme: lulo; Dioniso; Dioscuri.
C) Maschere con funzione di paralumi: maschera tragica, Panchrestos; maschera tragica, Spartopolios; figura barbuta.
D) Rilievi: Venus Genetrix con erote; due oscilla con satiri e Dioscuri.
E) Ritratti: ritratto privato traianeo; immagine colossale di Faustina filia·, ritratto di tetrarca.
Non è possibile stabilire con certezza se la statua di epoca tardo-antonina lavorata per essere esposta nella roccia, raffigurante Andromeda o Esione, conservata dapprima nel Municipio di S., successivamente nel Museo Nazionale di Napoli, provenga da questa villa.
La datazione delle sculture è oggetto di discussione, tuttavia un confronto puntuale e obiettivo del tipo di lavorazione scultorea dimostra che, a esclusione dei tre ritratti e di Andromeda o Esione, probabilmente estranea alla villa, tutte le opere sono da porre in relazione con l'officina diretta da Athanadoros, Hagesandros e Polydoros.
Un legame stilistico con il grande gruppo scultoreo è facilmente individuabile nel tipo di lavorazione del marmo nelle maschere, la cui capigliatura scanalata e fiammeggiante è simile a quella di Diomede, di Odisseo, del gigante o del portatore di otre, sebbene si tratti di lavori di bassa qualità artigianale. Dalle maschere si passa all'erma di lulo e da questa, in base all'esatta corrispondenza della linea del mento, del pomo d'Adamo e dell'attaccatura del collo, al Ganimede, finora datato a epoca flavia. Quest'ultima statua, in marmo frigio, va in realtà inclusa nella serie di esemplari augustei e claudio-neroniani di statue orientali in marmo colorato (R. Schneider, Bunte Barbaren, Worms 1986, pp. 188-195, KO 1-7). La veste colorata designa Ganimede quale figlio di un principe orientale ed è priva di qualsiasi relazione con il «colorismo illusionistico di epoca flavia» (Jacopi, 1963, p. 117). In effetti si è spesso sostenuto che la villa abbia conosciuto una fase flavia, tuttavia tale ipotesi non ha mai ricevuto conferma.
La statua di Ganimede era collocata sopra l'ingresso della grotta, al centro, a designare il luogo come Ilio, da cui l'aquila di Giove conduce nel cielo il figlio del re frigio, denominato Iliadas da Ovidio (Met., X, 160). Il ratto di Ganimede, secondo Virgilio (Aen., 1, 28), era la prima ragione della guerra di Troia che avrebbe comportato la fuga di Enea e la fondazione di Roma. Il gruppo di Ganimede rapito dall'aquila di Giove era collocato su un basamento cubico, tagliato nella roccia in cima alla grotta. Un solco obliquo, praticato sulla grotta, permetteva a Tiberio, che giaceva sul triclinio in cornu sinistro, di vedere il gruppo dal basso stagliarsi contro il Cielo. Da questo punto di vista si ha l'impressione che Ganimede venga a discendere proprio sul triclinio, come coppiere dell'imperatore, paragonato a Giove. E interessante a tal proposito ricordare che Tiberio dopo il crollo di S. si recherà a Capri per abitare nella «Villa Iovis» e che egli anche nel grande Cammeo di Francia viene rappresentato sotto le sembianze di Giove. A S. il solo imperatore poteva vedere Ganimede quasi dirigersi verso di lui, mentre gli altri ospiti, che osservavano il gruppo contro la roccia sopra la grotta, ricevano l'impressione opposta, cioè quella di una figura che si muoveva verso l'alto. Nello spazio sottostante al Ganimede, proteso verso l'alto, è rappresentato Odisseo che, davanti a Ilio, mette in salvo la salma di Achille e, insieme a Diomede, porta via il Palladio rubato. La statua di Ganimede è quindi parte integrante del programma iconologico. Allo stesso tempo la figura del coppiere portato via nel cielo dall'aquila di Giove suggerisce ulteriori associazioni. In primo luogo la rievocazione del rapimento divino in questo paesaggio elisio di una villa affollata di statue di dèi. In secondo luogo la glorificazione del vino, che veniva offerto sui giacigli situati sul triclinio a isola ed esaltato come forza divina anche dagli elementi dionisiaci presenti nelle rappresentazioni scultoree, quali la figura del fanciullo-satiro, il sileno, di cui si conserva soltanto la testa, l'erma dionisiaca e l’oscillum con satiri. Non si tratta soltanto di vaghe associazioni, ma del completamento del corredo generale della villa, in cui accanto al tema eroico di Odisseo troviamo quelli correlati all’otium della villeggiatura di una persona colta, da annoverare, come Orazio, nella pia gens degli adoratori di Dioniso.
Le circa trenta statue e frammenti costituiscono senza dubbio soltanto un campione tramandatoci fortuitamente, ma sufficiente a dimostrare che soprattutto le più piccole sculture da giardino non si differenziavano in modo significativo da quelle che abbellivano molte ville romane. Bisogna comunque sottolineare la qualità, per quanto sia possibile giudicare dai reperti, delle sculture di cui si dispone di altre repliche, quali, p.es., l’Atena Rospigliosi, la statua di donna abbigliata, il fanciullo-satiro, il putto con la maschera silenica. Particolarmente degno di nota è il fatto che una replica della suddetta statua femminile abbigliata fu lavorata a Rodi (A. Linfert, Kunstzentren hellenistischer Zeit, Wiesbaden 1976, p. 120 s., fig. 289) e probabilmente era nota già in patria agli scultori rodî attivi a S., che la utilizzarono come modello. Di grande importanza è anche un altro pezzo, il rilievo con Venus Genetrix, in quanto rappresenta un'ulteriore testimonianza sull'identità del proprietario della villa. Stando alle testimonianze di Tacito (Ann., IV, 59) e Svetonio (Tib., 39, 2), i quali identificano la villa come praetorium e riferiscono che nell'anno 26 d.C. l'imperatore Tiberio rischiò di perdervi la vita a causa di una frana e poté salvarsi solo grazie al coraggioso intervento di Seiano, non può esservi dubbio che Tiberio fosse il proprietario della villa, probabilmente ereditata da sua madre Livia, originaria del limitrofo Ager Fundanus. Alla luce di numerose ricerche e, in particolar modo, dal confronto con le sculture di epoca claudia da Baia, si può affermare con sicurezza che lo stile delle sculture è tiberiano. L'inestimabile ricchezza del corredo della villa depone similmente a favore di un committente imperiale, che per la sua residenza di S. volle un tipo di antrum cyclopis la cui presenza divenne da allora quasi d'obbligo in una residenza imperiale fino alla Villa Adriana, come indicano il triclinio a ninfeo di età claudia a Baia, la Domus Aurea neroniana, la villa dell'imperatore Domiziano sul lago di Albano, nei pressi di Castelgandolfo (Ninfeo Bergamino) e la valle del Canopo nella Villa Adriana.
Di Tiberio è nota la passione per le epiche omeriche, ed è probabile che in Odisseo, che da Circe aveva avuto il figlio Telegonos, leggendario fondatore di Tusculum, i Claudî riconoscessero il capostipite della propria famiglia, così come Enea veniva considerato capostipite della famiglia giulia, fondata da suo figlio lulo. Tiberio, Claudio di nascita, divenne Giulio tramite l'adozione e onorò nella Venus Genetrix la propria capostipite. Questo spiega la singolare presenza del rilievo di Venus Genetrix a Sperlonga.
In realtà nessuna questione importante rimarrebbe senza risposta se considerassimo Tiberio il committente dell'allestimento del praetorium di S., abbandonato, subito dopo il crollo del 26 d.C., per la nuova residenza di Capri; anche qui l'imperatore fece decorare grotte con sculture e, secondo quanto indicato da un'iscrizione, sarebbe ancora una volta ricorso ai servigi di Athanadoros Hagesandrou, il primo dei maestri menzionati nell'epigrafe di Sperlonga. Inoltre, dalla stessa maestranza di scultori il consiglio della corona di Tiberio, designato da Plinio (Nat. hist., XXXVI, 37) come consilium, commissionò la copia in marmo del Laocoonte, che rimase nella proprietà imperiale per essere più tardi trasferita nel palazzo di Tito (nella Domus Aurea di Nerone). Evidentemente con questo dono il consilium principis intendeva ricordare a Tiberio la sua appartenenza alla famiglia giulia; difatti, il gruppo del Laocoonte, che grazie ai ritrovamenti di S. va considerato sotto una luce completamente nuova, rappresenta il sacrificio che dovette essere officiato affinché Enea potesse ricevere un segnale per la fuga e una esortazione alla fondazione del popolo romano e in particolare, tramite suo figlio lulo, della famiglia giulia.
È dalla lettura di Ovidio, il più celebre poeta del suo tempo, che Tiberio poté trarre ispirazione per il programma iconologico dello scenario naturale di S., che con le sue figure accessorie distribuite nello spazio del paesaggio rivela uno schema paragonabile a quello dei paesaggi mitologici della coeva pittura murale pompeiana. A ogni modo, le peculiarità dell'allestimento scultoreo della villa di S. trovano diretto riscontro nell'esposizione del mito quale la si trova in Ovidio. Solo nell'Ars Amatoria (1, 6) la nave Argo viene denominata P(uppis) H(aemonia) e solo nel tredicesimo libro delle Metamorfosi il salvataggio della salma e delle armi di Achille, come pure il ratto del Palladio, sono messi così chiaramente in risalto quali azioni decisive compiute da Odisseo. Le Metamorfosi forniscono la più dettagliata descrizione del cannibalismo di Polifemo (XIV, 167-213), a Scilla e Cariddi si fa riferimento non meno di tre volte (XIII, 730-734; XIV, 60-67 e 70 s.), e inoltre vi troviamo la celebrazione di Ganimede (X, 155-161). Anche l'elemento dionisiaco, sottolineato a S. da maschere teatrali, erme, rilievi e sculture da giardino, svolge in Ovidio un ruolo importante. Tutte le suddette opere di questo autore erano completamente nuove al ritorno di Tiberio da Rodi. Sebbene nell'8 d.C. Ovidio fosse caduto in disgrazia e venisse esiliato da Augusto a Tomis, i suoi lavori continuarono a essere letti. Nel 2 d.C. Tiberio fece ritorno dall'esilio volontario a Rodi e, nominato erede al trono nel 4 d.C., entrò in possesso dei mezzi necessari alla costruzione del praetorium di Sperlonga. Infine, particolarmente significativo è il fatto che, durante il suo soggiorno in Oriente, Tiberio ebbe modo di vedere gruppi scultorei ellenistici originali, successivamente copiati a S., e che l'officina cui venne affidato il compito era rodia. Dunque, tutto porta a concludere che la grotta di S. sia nota a giusto titolo come «Antro di Tiberio».
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