speranza (isperanza)
Con valore assoluto, significa l'atto dello sperare, ovvero la fiduciosa attesa di un bene, come in If III 9 Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate: si tratta dell'ultima proposizione dell'iscrizione che D. trova sulla porta dell'Inferno, e a fronte delle precedenti, esplicative e storiche, è quella che qualifica più direttamente la condizione dei dannati nell'assoluta negazione dell'attesa del bene (" prima poena animarum descendentium in Inf. est haec, quod nulla spes in eis relinquitur ex qua unquam sibi sperent ad alicuius boni vel consolationis materiam pervenire ", Graziolo).
Con il medesimo valore ritorna in IX 18 per pena ha la speranza cionca, dove D. si ricollega a quanto Virgilio ha dichiarato dei limbicoli in IV 41-42; Pg III 135 mentre che la speranza ha fior del verde, dove sembra opportuno limitare l'interpretazione alla sopravvivenza della s., come fanno Benvenuto (" donec homo in vita non desperat "), Vellutello, Tommaseo, in quanto il rapporto vita-pentimento (" finché c'è vita e possibilità di pentirsi ", Sapegno) che vari commentatori deducono dalla connessione temporale tra la possibilità del perdono divino e la persistenza della s., impoverisce il valore soggettivo della s. (non si può, infatti, pensare a un soggetto che speri di pentirsi, come stranamente fa Daniello), e inoltre la generica possibilità di pentirsi mal si lega alla proposizione possa tornar, l'etterno amore, essendo l'amore divino disponibile per chi lo speri e non per chi sia solo nella possibilità di pentirsi. Così ancora in Cv III XI 16 non era esso luce né speranza. In If XXIV 12 [il villanello] la speranza ringavagna: la rinascita della s. dopo un improvviso sbigottimento è qui rappresentata con una scena agreste, " un'incantevole apertura di canto, un bellissimo frammento " (Momigliano). Cfr. ancora Pg IV 30.
Nelle attestazioni del Paradiso si determina, nel contesto, come una delle virtù teologali: si veda XX 95 Regnum coelorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza; XXV 53 La Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza (" questo muove Beatrice a dirlo la presente Commedia. È lo fine, al quale la compose per porgere speranza alla umana generazione delli doni di vita eterna; sì che chi così altamente ne tocca, non è da credere ch'elli non ne senta altamente ", Ottimo); e così al v. 87; XXXI 79 O donna in cui la mia speranza vige (" viget circa bonum futurum ", Benvenuto; il congedo da Beatrice si apre con siffatto pegno di perenne legame), XXXIII 12. Con la medesima accezione è attestato anche in Cv III XIV 14, dove se ne illustra il rapporto, " ordine generationis ", con la fede e la carità: da la quale [fede] viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella [speranza] nasce l'operazione de la caritade.
Pur con valore assoluto, è un elemento della casistica amorosa, come in Rime L 42 voi... sete quella... / 'n cui la mia speranza più riposa; LVII 9, Rime dubbie XXII 11, Fiore XXXIV 10 e CLXXII 7 egli abbia paura ed isperanza (dove s'incontra l'unico caso di forma prostetica in poesia).
Riceve una modesta intensificazione dall'attributo pleonastico ‛ buona ', in If VIII 107 lo spirito lasso / conforta e ciba di speranza buona, Fiore III 13 e, personificato, I 14 la quinta appella l'uon Buona Speranza.
Spesso può riferirsi a un oggetto particolare: Pg VI 35 la speranza di costor non falla (che è quella che decreto del cielo orazion pieghi, v. 30); XIX 77 eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza [della beatitudine] fa men duri; XIII 153, XXI 38; Cv II VIII 11 con ciò sia cosa che... siano sanza questa speranza tutti... cioè d'altra vita (una seconda occorrenza nello stesso paragrafo, e un'altra al § 12); IV XI 7.
Ha la specificazione dell'oggetto in If I 54 io perdei la speranza de l'altezza (la sintetica espressione significa la prima disperazione di D., nella selva oscura, di fronte all'aspetto minaccioso della lupa); III 46 e V 44; Vn XI 1 per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea; Cv II I 1 entro in pelago con isperanza di dolce cammino (unica attestazione di forma prostetica in prosa); III XI 16 in che si posava tutta la speranza de la loro salute. Siffatta specificazione assume come oggetto anche la persona da cui si attende un bene, come in Vn XX 1 avendo forse per l'udite parole speranza di me oltre che degna.
Con valore figurato, significa l'oggetto dello sperare (Vn XIX 8 28 io vidi la speranza de' beati), o è l'appellativo della donna di cui si spera l'amore (Rime XLIX 8 mi tien già confortato / di ritornar la mia dolce speranza, e L 27), o significa la ragione o causa dello sperare: Cv III XI 16 talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione (sì come fa Virgilio... che chiama Enea... " speranza de' Troiani ", che è passione, ché non era esso luce né speranza...): cfr. Aen. II 281 " o lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum ". Per il contesto, v. ATTO. V. anche VOCABOLI, TEORIA dei.
La nozione di speranza. - La s. è una delle tre virtù teologali. Queste virtù vengono accordate al credente per una speciale grazia divina, che eleva l'uomo al di sopra delle sue forze naturali, in modo che abbia, confidando in Dio e nella sua onnipotente bontà, la certezza di raggiungerlo e di possederlo come suo ultimo bene. La virtù soprannaturale della s. (cfr. Tomm. Sum. theol. I II 40, II II 17-18) trova un suo primo abbozzo e fondamento nella ‛ passione ' della s. che è nell'uomo. Questa passione, infatti, è una sorta di movente o di forza naturale che agita l'uomo non appena si trova di fronte a un bene futuro, o comunque differito, e il cui possesso, anche se difficile da raggiungere, gli appare possibile. Questa forza naturale esige un certo ardore capace di vincere le difficoltà insite nel raggiungimento del bene proposto.
I teologi medievali, sulla scorta dei filosofi antichi, per esprimere la forza di tale ardore necessaria al raggiungimento del fine, affermavano che la s. è una passione che ha sede nell'appetito irascibile, sede appunto delle passioni che sono eccitate e mosse da ogni bene che si presenti come arduo. La s. è quindi una forza naturale dotata di grande dinamismo. Essa sovente è accompagnata dal timore di non raggiungere il fine perseguito. La s. si distingue dal desiderio, anche se in certo senso lo presuppone; esso infatti è la forza naturale, la ‛ passione ', che muove l'uomo quando si trova al cospetto di un bene assente ma che gli appare facile da raggiungere. Al desiderio, di conseguenza, manca quel dinamismo di cui l'uomo ha bisogno allorché è di fronte a un bene che è difficile ottenere e che caratterizza la speranza.
La virtù della s. trae tutte le proprie caratteristiche dall'omonima passione. Anch'essa cerca di ottenere un bene che non è presente ma futuro, un bene possibile ma difficile da raggiungere. Ciò in cui essa differisce radicalmente dalla passione naturale, è l'oggetto proprio, ciò a cui essa mira. Mentre la passione della s. si trova al cospetto di beni naturali, commisurati all'uomo nel suo stato naturale, la virtù della s. ha come scopo Dio e la beatitudine soprannaturale, un bene quindi che sorpassa tutte le possibilità naturali dell'uomo.
Il bene soprannaturale può ottenersi alla sola condizione che Dio accordi all'uomo il favore, la grazia, di pervenire ad esso, un favore che eleva l'uomo al di sopra delle proprie forze naturali e che gli consente, poggiandosi su Dio stesso, di tendere a lui e al possesso della vita beata, nella quale l'uomo diverrà partecipe della vita stessa di Dio.
Di conseguenza, tutto quanto è richiesto per il raggiungimento di una tale beatitudine è dato all'uomo insieme con l'oggetto stesso della virtù, proprio in quanto Dio, insieme al fine, concede anche i mezzi per poterlo raggiungere. I meriti precedenti il dono della grazia non costituiscono in alcun modo un titolo sufficiente ad ottenerlo, ma semmai dispongono l'uomo a meglio riceverlo; i meriti conseguenti alla grazia, invece, sono un suo effetto, ed entrano solo in via subordinata tra gli elementi che fondano la speranza.
La Speranza Nella Teologia Medievale. - Già nei primi scritti del Nuovo Testamento, la s. è nominata assieme alla fede e alla carità (I Thess. 1, 3); tuttavia i dottori della Chiesa e i teologi giunsero solo lentamente a definirne il carattere specifico. Essi, infatti, confondevano spesso la s. con la fede e la carità, in quanto la fede ha implicita l'idea della fiducia in Dio e la carità è un tendere a Dio come al bene supremo dell'uomo. Ciò contribuiva a rendere difficoltosa una netta e chiara distinzione tra queste tre fondamentali virtù del cristianesimo. Sicché la fede, di cui parla il Vangelo di Giovanni, comprende in sé la s.; e la carità, di cui parla la prima epistola di Giovanni, include in sé la s. e la fede.
Agostino, nell'Enchiridion de fide, spe et charitate, fu il primo a stabilire delle distinzioni più nette. Egli affermò che la fede e la s. sono simili in quanto ambedue vertono su un oggetto ancora oscuro. Fede e s., infatti, sono virtù proprie dell'uomo che è ancora in via, diretto verso il proprio fine soprannaturale. Esse scompariranno solo quando, terminata la vita terrena, l'uomo giungerà alla beatitudine eterna e alla chiara visione di Dio. In quel momento - come già s. Paolo aveva suggerito (I Corinth. 13, 13) - resterà soltanto la carità. Comunque, per s. Agostino, fede e s. si differenziano per tre aspetti: si può credere in ciò che non si spera (ad es. un male, l'Inferno), ma non si può sperare in ciò in cui non si crede; la fede riguarda il passato, il presente e l'avvenire, mentre la s. ha come unico oggetto l'avvenire; la fede concerne noi e gli altri, la s. invece ha come solo oggetto quello che è proprio a colui che spera.
L'insegnamento agostiniano rimase alla base delle dottrine altomedievali sulla s., e venne in seguito sistematizzato e adattato all'insegnamento scolastico da Pietro Lombardo, il maestro delle Sentenze (III Sent. 26; cfr. Mn III VII 6). La teologia posteriore riprese le formulazioni di Pietro Lombardo, a cui va perciò il merito di aver fornito la base alla speculazione ulteriore. La sua innovazione più grande fu indubbiamente una nuova definizione della s., da lui introdotta in apertura del trattato, prima della definizione composta di elementi agostiniani correnti per le scuole. A partire di qui i teologi si dedicheranno al rinnovamento della trattazione sulla speranza. I primi passi furono compiuti da Guglielmo di Auxerre e da Filippo Cancelliere, a cui seguiranno Alberto Magno e, soprattutto, s. Bonaventura e s. Tommaso, con i quali il trattato sulla s. assunse la sua forma classica.
Le questioni proposte erano di regola: in che cosa e perché la s. è una virtù, e qual è il suo oggetto specifico. S. Bonaventura, con sicura intuizione di teologo, comprese che oggetto proprio della s. è il soccorso divino che, correggendo l'uomo, lo rende accetto a Dio e perciò virtuoso. S. Tommaso, come abbiamo già visto all'inizio, ebbe il merito di chiarire la nozione di s. attraverso il confronto con la corrispondente passione naturale, inserendo le intuizioni bonaventuriane nel contesto delle caratteristiche suggeritegli dall'esame della s. come passione condotto in termini aristotelici. Tale impostazione dottrinale diede alla trattazione sulla s. la sua forma compiuta e definitiva; ai teologi posteriori non rimarrà nulla di essenziale da aggiungere.
La speranza in D. e la sua prospettiva teologica. - La teologia della s. viene espressa da D. con brevi notazioni, sparse qua e là nelle sue opere, eccetto il brano di Pd XXV 28-99, dove s. Giacomo Maggiore sottopone D. a un interrogatorio su tale virtù. Che D. conoscesse la s. come passione è dimostrato da If I 41 e 54, dove la s. è considerata in quanto subordinata e tendente alla sapienza umana, impersonata da Virgilio (v. 89). Ma questa s.-passione serve da fondamento alla virtù teologale, di cui Beatrice, che già vive nella beatitudine, offre a D. la certezza e così pure i mezzi per raggiungerla (Pg XXX 83). D. parla più volte delle tre virtù teologali prese nel loro insieme, in quanto tutte e tre sono necessarie per accedere alla beatitudine eterna (Pg VII 34-36, Cv III XIV 15, Mn III XV 8). Esse sono simboleggiate da tre vivide ƒacelle (Pg VIII 89) e dalle tre donne che accompagnano danzando il carro del grifone, tenendosi alla sua destra nel posto d'onore. La seconda donna è vestita di verde in quanto impersona la s. di cui quel colore è il simbolo (XIX 121 ss.); per la stessa ragione la veste verde di Beatrice (XXX 31-33) sta a simboleggiare la medesima virtù. La relazione che intercorre tra le tre virtù è rilevata con esattezza da D.: la s. nasce dalla fede (Cv III XIV 15; cfr. Pd XXIV 74, Mn III III 10), mentre nella danza che le tre donne intrecciano accanto al carro del grifone, ora la fede, ora la carità conducono le altre, e la carità accompagna invece con il suo canto la danza di tutte le altre virtù, tanto teologali che cardinali. In Pd XX 127, D. afferma che furono queste tre medesime donne a battezzare l'animo di Rifeo nel Limbo, mentre Traiano, ricondotto in vita dalla s. di papa Gregorio Magno, ebbe la possibilità di praticarvi atti di fede e di carità (vv. 108-117).
Nell'esame cui s. Giacomo sottopone D. (Pd XXV 40 ss.), il poeta confessa di sentirsi come uno scolaro davanti al proprio maestro, il che consente di concludere che quanto D. dirà della s. riflette l'insegnamento della scuola. Le domande di s. Giacomo a D. riguardano la definizione della s., ciò a cui essa tende e l'origine di essa. Anche in questo caso si tratta di domande tipicamente scolastiche. Alla seconda domanda risponde Beatrice, e dicendo che la s. tende a Dio e alla beatitudine celeste, non fa altro che indicare ciò che i teologi chiamavano la causa finale e l'oggetto materiale della speranza.
Come definizione di essa, D. cita quella che Pietro Lombardo aveva lasciato in secondo ordine perché meno propria e meno tradizionale: Spene... è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto (XXV 67-69; in latino suonava: " Est enim spes certa expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et meritis praecedentibus ", III Sent. 26). Se origine della s., causa efficiente e oggetto formale per i teologi era la rivelazione, per D., in particolare, è quanto è detto in Ps. 9, 11(" Sperent in te qui noverunt nomen tuum "); la rivelazione, cioè, di Dio come appoggio del credente. Tutto ciò riprende, abbastanza chiaramente, quello che era l'insegnamento corrente, anche se la risposta alla terza domanda è espressa in modo piuttosto debole.
Con ogni probabilità l'insegnamento ricevuto da D. non aveva raggiunto la finezza di un Bonaventura o di un Tommaso. In Cv III XIV 14 D. designa la s. con una perifrasi: Lo proveduto desiderare, che è forse una traduzione libera della definizione di Aristotele: " affectio futuri boni ", la ‛ passione ' di un bene futuro (dove passione va intesa nel senso scolastico di " tendenza naturale ", " affezione per "). D. quindi ci testimonia l'insegnamento teologico sulla s. comune alla sua epoca, senza tuttavia arrivare a esprimerne tutta quanta la novità e la penetrazione. Quanto alla definizione dantesca della s. che, come abbiamo già detto, riprende una formulazione del Lombardo, lasciata in secondo ordine come meno propria, va ricordato che forse essa proviene dalla scuola di Anselmo di Laon, che aveva messo assieme materiale di provenienza agostiniana. Questa definizione, con il riferimento ai meriti precedenti, aveva incontrato qualche difficoltà a causa del suo sentore di pelagianesimo. Quanto all'oggetto proprio della s., che Bonaventura aveva posto in evidenza, D. resta più nel vago, senza neanche parlare della qualificazione di esso come cosa ardua e difficilmente raggiungibile. Tutta la dottrina dantesca rimane quindi abbastanza sfocata e, anche se D. non intese scrivere un trattato di teologia, senza dubbio ci saremmo dovuti aspettare un'esposizione più solida.
Speranza e vita spirituale. - Se D. non avvertì la profondità dell'insegnamento dei grandi teologi, che pure venerava, egli nondimeno comprese il ruolo spettante alla s. nell'ascesa spirituale. Possiamo dire, senza tema di esagerazione, che la Commedia è non solo compenetrata di s. soprannaturale, ma da essa riceve tutto il suo interiore dinamismo. In questo D. è un maestro, e riesce ampiamente a riscattare la sua scarsa esattezza teologica. Su questo appunto egli sembra aver accolto la lezione dell'Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura. Già sulla porta dell'Inferno D. legge un'iscrizione le cui ultime parole sono: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate (If III 9). Ma Virgilio l'aveva già in precedenza rassicurato che tutto il periplo attraverso l'Inferno e il Purgatorio, sino alla porta del cielo, si sarebbe compiuto sotto l'egida di Beatrice, il cui pensiero aveva saputo mantenere in D., malgrado le sue aberrazioni, il desiderio della vita beata.
Come si vede, per D. i santi sono capaci di mantenere in vita la s. ed esserne anche la causa. Il viaggio attraverso l'Inferno e il Purgatorio è un ripercorrere le successive fasi della vita di D., come dire che anche nella più grande oscurità la s. era rimasta viva. E le purificazioni che segnano le tappe della traversata del Purgatorio (le sette P cancellate dagli angeli), sono altrettanti segni di speranza. Per D. la vita spirituale non soltanto è fondata sulle virtù teologali, ma consiste nello stesso continuo accrescimento di tali virtù. E l'accrescersi della s., che è come un pregustare la felicità eterna, traspare lungo tutto il Paradiso, nel quale D. vive della gioia procuratagli dalla speranza. Ma già nell'Inferno, e dai primi canti, essa è presente, nella figurazione di II 127-129 Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo. Nel Purgatorio la s. delle anime espianti è esente da ogni dubbio (III 73, XIII 85-87, XXVI 53-54), e nell'addio di Virgilio si misura tutta la diversità che separa D. dalla sua guida: Il temporal foco e l'etterno / veduto hai, figlio; e se' venuto in parte / dov'io per me più oltre non discerno (XXVII 127-129). La s. di D. diviene a questo punto quasi realtà vissuta, per spiegarsi in tutta la sua pienezza nel Paradiso. Nell'esplosione di letizia che in Pd XXV precede l'apparizione di Giacomo, si avverte tutta la gioiosa certezza che la s. sa conferire alla vita. Mentre Pietro e Giovanni, che esamineranno D. sulla fede e la carità, sono soffusi l'uno di chiarore e l'altro di ardente fervore, la presenza di Giacomo è tutto un pregustare la gioia celeste (vv. 13-27).
Per concludere diremo che se nella dottrina della s. D. non dice nulla di nuovo dal punto di vista teologico, di grande importanza è invece il ruolo che egli conferisce alla s. nella vita cristiana, laddove descrive l'itinerario dell'anima umana e la sua ascensione spirituale. Meglio di ogni teoria o esposizione libresca, la Commedia fa toccare con mano quale sia l'importanza della s. nella vita dell'uomo, tanto che essa può ben dirsi una grande lezione di s. per l'intera umanità.
Bibl. - B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1949², particol. pp. 134-135; A. Ariaens, Met D. naar God, Soesterberg 1955, 459 ss.; S. Pinkaers, La nature vertueuse de l'espérance, in " Revue Thomiste " LVIII (1958) 405-442, 623-644 (con bibl. nelle note).