SPAZIO
. La questione della natura dello spazio è una tra le più dibattute attraverso tutto lo sviluppo della speculazione umana, cosicché la storia di tale problema viene a riflettere, da un certo angolo visuale, l'intera storia della filosofia. Sul piano oggettivo, cioè dal punto di vista onde il contenuto dell'esperienza si manifesta quale realtà esterna, il problema si presenta in quanto s'indaga la forma e il grado di esistenza obiettiva pertinente allo spazio, in confronto e in relazione alle realtà singole che in esso appaiono comprese. Sul piano soggettivo, cioè dal punto di vista di chi si proponga d'intendere che posto occupi la nozione dello spazio in seno al mondo conoscitivo del soggetto, il problema si presenta anzitutto in forma psicologica, in quanto s'indaga per qual motivo il soggetto stesso possieda tale nozione, o in che modo vi sia giunto; e, pur nella loro varietà, le soluzioni di tale problema psicologico dello spazio si orientano nell'una o nell'altra delle due opposte direzioni possibili, cioè in quella "genetica" e in quella "nativistica". Per la prima, la nozione dello spazio è solo il risultato di un processo psicologico, che viene variamente concepito ma comunque muove dalla conoscenza empirica delle singole realtà estese e giunge da essa all'idea dell'estensione in generale; per la seconda, quella nozione, tenuto conto dei suoi caratteri di necessità e universalità, è invece costituente essenziale dello spirito, e quindi tale che ad esso debba considerarsi appartenente fin dalla nascita dell'individuo. Di questa considerazione psicologica della nozione di spazio fanno naturalmente parte anche le indagini che si propongono specificamente di studiare l'influsso delle singole forme di conoscenza sensibile sul costituirsi di quella nozione, e, p. es., ricercano se essa sia soprattutto promossa da esperienze visive o da esperienze tattili o dalla sintesi delle une e delle altre, e in che forma e misura si effettui tale sintesi. Sullo stesso piano soggettivo, d'altra parte, la considerazione psicologica della nozione dello spazio si approfondisce in quella che più propriamente si dice gnoseologica, in quanto considera quella nozione non dal punto di vista temporale del divenire psichico ma da quello funzionale della stessa attività conoscitiva. In questo trapasso dallo psicologico allo gnoseologico la concezione genetica si traduce in quella empiristica, che considera la nozione di spazio come contingente rispetto al processo conoscitivo e derivata o da un'astrazione o addirittura da un'ipostatizzazione verbalistica; mentre la concezione nativistica si traduce in quella trascendentale, per cui la nozione dello spazio diventa una delle condizioni o dei momenti della stessa attività conoscitiva: donde, infine, le varie concezioni idealistiche della spazialità come eterna funzione o grado dialettico dello spirito.
Naturalmente tale fenomenologia teorico-storica del problema speculativo dello spazio, che qui si è tratteggiata nelle sue linee principalissime, appare attraverso lo sviluppo del pensiero specificata nelle forme più varie. Nell'impossibilità di delineare, anche nella forma più sommaria, una storia cronologicamente compiuta ed organica del problema, ci limiteremo a segnalare le forme speculativamente più rilevanti in cui esso si è venuto presentando.
La concezione oggettivistica dello spazio ha il suo proprio luogo storico nell'antichità classica. Del κενόν, del "vuoto", come entità circondante tutte le realtà singole, sembra gia parlassero i Pitagorici: ma il problema della sua legittimità fu posto essenzialmente da Parmenide, che riportando il vuoto, come negazione del pieno, nella categoria ideale di "quel che non è" lo escludeva perciò senz'altro dall'ambito del reale. La negazione passava nell'eleatismo melissiano: e s'intende quindi come Platone (che seguiva sostanzialmente il criterio melissiano della verità-realtà nel considerare come veraci solo le realtà eternamente immutabili, e sentiva d'altronde come questi eterni enti ideali derogassero, nella loro determinatezza, dal principio parmenideo esigente la rigorosa esclusione di ogni "non è" dall'"è") finisse, nell'ultima fase geometrizzante della sua speculazione, per tornare all'identità eleatica spazio-non-essere, concependo la determinata realtà di ogni esistente come derivante dalla sintesi dell'essere ideale con la χώρα, o "spazio vuoto". Viceversa Democrito, che rifiutava il metodo eleatico della pura contrapposizione del "non è" all'"è", non aveva per ciò stesso bisogno di escludere l'esistenza dello spazio vuoto, e lo considerava reale alla pari degli atomi. Ma il vero e proprio problema dello spazio oggettivisticamente concepito si presentò quando Zenone, non parlando più (almeno secondo le parole di Simplicio) del κενόν = μὴ ὄν ("vuoto = non ente") ma senz'altro del τόπος ("luogo, spazio"), mostrò come anche quell'universale ambiente delle molteplici realtà empiriche andasse soggetto alle stesse contraddizioni che egli, per sostenere e converso la verità dell'unico ente parmenideo, denunciava come proprie di ogni molteplice. Egli infatti osservò che, se lo spazio esisteva, doveva esistere "in qualche posto" e con ciò in uno spazio ulteriore: ma la stessa situazione si ripeteva a proposito di questo secondo spazio, e si produceva quindi quel processo all'infinito, che giusta il metodo zenoniano dimostrava la contraddittorietà intrinseca e con ciò l'inesistenza oggettiva di quel che la provocava. In questo continuo superamento di ogni spazio per opera di uno spazio ulteriore, Zenone coglieva, di fatto, la legge dialettica di ogni realtà obiettivamente pensata: legge che gli si presentava d'altronde come mero assurdo di quella realtà, appunto in quanto quest'ultima era pensata come semplicemente oggettiva, cioè senza che il pensiero che la pensava (e che appunto perciò poteva varcare, volta a volta, i limiti di ogni suo precedente contenuto) si accorgesse della sua stessa presenza pensante. Ma né Aristotele, che cercava di risolvere la difficoltà concependo lo spazio come semplice limite dell'estrema estensione del cosmo, né lo stoicismo, che analogamente spostava il "vuoto" al limite dell'universo concependolo da un lato come infinito ma dall'altro come incorporeo, e quindi in certo senso come irreale (dato che nel suo mondo realtà s'identificava a corporeità), riuscivano di fatto a superare la posizione zenoniana. E quando, oltre venti secoli più tardi, il Kant, studiando le antinomie in cui l'intelletto si avvolge qualora superi i limiti dell'esperienza possibile, annovera tra esse quella per cui la totalità dell'universo può esser giudicata tanto finita quanto infinita, egli non fa in realtà che rinnovare, sul nuovo piano teorico, l'argomentazione con cui Zenone dimostrava la contraddittoria finità-infinità di ogni molteplice e di ogni spazio.
Da questa necessaria crisi di ogni concezione realistica o metafisica dello spazio come realtà in sé esistente nasce quindi l'esigenza di considerare lo spazio soggettivisticamente, cioè di studiare come esso si presenti nell'esperienza conoscitiva. Il risultato speculativamente più rigoroso a cui, procedendo in questo senso, perviene, tanto sul piano psicologico quanto su quello gnoseologico, la considerazione empiristica, è d'altronde quello che la nozione di spazio non solo non corrisponde a una realtà che obiettivamente esista, ma non è, addirittura, neppure una nozione: cioè non si risolve concretamente in nessuno dei contenuti mentali di cui risulta costituita la coscienza. Quel che si ha presente, infatti, è sempre uno spazio dato, anzi riempito di contenuto: più esattamente, quindi, non uno spazio, ma una singola realtà spazialmente estesa. Lo spazio dovrebbe invece essere universale, cioè illimitato: ma a un simile spazio non si giunge mai, appunto perché ogni spazio effettivamente rappresentato è sempre determinato nei suoi limiti, e quindi sempre oltrepassabile, in conformità dell'argomentazione zenoniana. E dovrebbe esser vuoto, cioè indipendente da ogni suo contenuto specifico: ma neppure un simile spazio vuoto rientra nell'esperienza effettiva, perché togliere a una data cosa estesa tutto ciò che la fa essere quella data cosa estesa, nell'intento di lasciare la sola estensione, è in realtà toglier tutto e non lasciar nulla. Il puro spazio è perciò una semplice parola, con cui si allude a una creduta, ma in realtà incontrollata e insussistente possibilità di effettivo pensiero: e se un realismo rigoroso deve implicitamente dichiarare lo spazio impossibile in re, un soggettivismo empiristico non meno rigoroso deve esplicitamente riconoscerlo impossibile anche in mente. È questa, per non citare che l'esempio più classico, la conclusione a cui perviene uno dei maestri dell'empirismo, il Berkeley, e che rimane sostanzialmente presupposta dal suo grande continuatore, lo Hume.
Ma proprio per la reazione critica suscitata da questa dissoluzione soggettivo-empiristica del concetto di spazio nasce, nel Kant, la considerazione trascendentale dello spazio stesso, cioè quella per cui esso si manifesta condizione trascendentale della conoscenza. Vero è, osserva il Kant, che lo spazio in sé non si percepisce mai; ma ciò non toglie che, qualsiasi cosa si percepisca, la si percepisce come data nello spazio. Questo è dunque la forma generale in cui s'inquadra ogni determinata rappresentazione; e il fatto che esso sia a sua volta irrappresentabile non prova, allora, la sua impensabilità, ma anzi dimostra il suo carattere di purezza e necessità formale, che nelle rappresentazioni effettive è sempre legato (per quanto possa, appunto per tale sua onnipresenza e necessità, idealmente distinguersene) al contingente contenuto empirico. D'altra parte, questa universalità formale dello spazio non è l'universalità che il concetto possiede a paragone dell'individuo: il concetto è infatti parte del contenuto logico dell'individuo, mentre la singola rappresentazione spaziale è, all'inverso, parte dello spazio. Il Kant riconosce con ciò, nel suo ambito, anche l'altra verità dell'empirismo, partito da una considerazione psicologica dello spazio come mera nozione empirica e giunta, nella sua fase più rigorosa, a negargli anche tale natura di nozione; e conclude quindi asserendo che l'universalità dello spazio è non concettuale, ma intuitiva: lo spazio è un'"intuizione pura", cioè una "forma pura dell'intuizione", e precisamente la forma del senso esterno, così come il tempo è la forma del senso interno. È, insomma, una forma dell'attività conoscitiva dello spirito, la quale ordina intuitivamente i bruti dati sensibili provenienti dalla "cosa in sé", e rende quindi possibile che su di essi si eserciti la sintesi giudicatrice dell'intelletto.
Naturalmente, l'evoluzione del concetto di spazio si conforma, nell'idealismo postkantiano, secondo quella di tutta la concezione del problema conoscitivo formulata dal Kant: e come, a quest'ultimo proposito, si tende in generale a far vedere che l'attività conoscitiva dello spirito non presuppone alcun dato esterno e produce da sé medesima anche il suo contenuto, così anche la funzione spazializzante (o, che è lo stesso, il momento dello spazio in seno alla gerarchia dialettica dei momenti dell'idea) vien sempre più considerata in funzione esclusiva di sé stessa, senza che le si contrapponga un materiale da spazializzare. Per non citare, anche qui, che un esempio, nell'attualismo gentiliano la categoria dello spazio è senz'altro l'attività spazializzatrice dello spirito, che non tanto unifica il molteplice quanto, piuttosto, moltiplica l'uno, superando eternamente, col suo atto, il suo dato e il suo limite. Anche di qui si scorge, d'altronde, come questa funzione spazializzatrice, conforme alla necessaria evoluzione che si viene attuando in seno al soggettivismo assoluto nel senso di una eliminazione di tutti i problemi gnoseologici, venga pur essa perdendo ogni aspetto propriamente conoscitivo.
Se infatti una funzione spazializzatrice fosse da intendere sul piano gnoseologico, il pensiero gnoseologizzante dovrebbe, per conoscere tale funzione, conoscere il suo punto di partenza, cioè il momento della spazializzazione non ancora avvenuta: quindi dovrebbe conoscere non spazializzando, e con ciò infirmar la legge col suo stesso legiferare. In realtà, come sul piano trascendentale il tempo, nella sua effettiva presenza e cioè nell'eterna dialettica onde il futuro diventa passato, non è che lo stesso io nella sua piena concretezza pratica, così, sullo stesso piano trascendentale, lo spazio è anch'esso l'io, nel suo aspetto di astratta consapevolezza: cioè, appunto, nell'aspetto per cui l'io è assoluto "contenente", "luogo" invalicabile di tutti i suoi contenuti possibili.
Bibl.: Manca una storia complessiva del concetto di spazio: gli studî storici particolari sono d'altronde (al pari di quelli teorici) così numerosi, che non possono essere qui segnalati. Per i singoli autori si vedano del resto anche le bibliografie date alle voci che li concernono. Per il pensiero antico, lavoro d'insieme è quello di A. Covotti, Le teorie dello spazio e del tempo nella filosofia greca, in Annali della R. Scuola Normale di Pisa, VII (1899). Una larga silloge di dati e d'indicazioni bibliografiche si può trovare in R. Eisler, Wörterbuch d. philosoph. Begriffe, II, 4ª ed., Berlino 1929, pp. 585-619. Cfr. poi anche tempo.
Le teorie dello spazio e la geometria. - Nella filosofia greca si vedono già segnate le posizioni fondamentali del pensiero moderno in ordine alla questione dello spazio. Descartes riprende la posizione eleatica: spazio pieno d'una materia compatta senza vuoti, moto puramente relativo, che è avvicendamento di parti nel pieno. Invece Galileo e, dopo di lui, Newton e Boyle, concepiscono lo spazio vuoto e il moto dei corpi rispetto a questo, cioè il moto assoluto (v. moto).
Questa assunzione sta a fondamento della dinamica moderna: pareva infatti che non potesse darsi una scienza del moto, se non fosse possibile agl'inizî di essa definire il "moto in sé", ritrovando così un senso nel principio della costanza della velocità, che costituisce l'inerzia (v.).
Le critiche filosofiche degli antinewtoniani relativisti, Leibniz e Huygens, si spuntano di fronte al successo della costruzione scientifica criticata. Nondimeno esse dànno occasione ad approfondire il concetto dello spazio. Lo spazio - dice Leibniz (terza lettera a S. Clarke, 1715) - è desso altra cosa fuori dell'ordine delle cose esistenti?
Questa definizione viene a coincidere con il concetto dei pensatori matematici contemporanei, quando al posto delle cose "esistenti" si pongano le cose "sensibili". Leibniz (come Newton, sebbene in altra maniera) attribuiva ancora allo spazio un significato che trascende l'esperienza; per lui come per tutti i filosofi razionalisti, iniziatori della scienza moderna, la geometria rispecchiava le proprietà vere degli oggetti in sé (qualità primarie di Locke) di là delle loro apparenze sensibili (qualità secondarie). La critica di Berkeley è riuscita a superare codesta distinzione, scoprendo nei rapporti spaziali il contenuto di esperienze indirette.
Frattanto però Kant introduceva una nuova veduta, cioè la subiettività dello spazio (e del tempo): lo spazio diventa per lui, non più l'ordine delle cose esistenti, bensì l'ordine della sensibilità esterna, un ordine dato a priori dalla mente che accoglie e inquadra i dati sensibili.
La via segnata da Kant voleva salvare il carattere necessario degli assiomi della geometria, la geometria d'Euclide essendo pensata la sola possibile. Donde essa potrebbe attingere il suo carattere di verità perfetta se, al pari di ogni altra scienza, fosse soltanto il risultato di osservazioni ed esperienze sensibili?
La geometria non euclidea e il problema dello spazio fisico. - Qui conviene ricordare che la necessità o verità assoluta della geometria risponde a una concezione antica. Platone vagheggiava già di costruire tale scienza su pure definizioni o assiomi logicamente evidenti, ad esclusione di quei postulati in cui scorgeva soltanto i principî dell'applicazione pratica. Questo ideale di perfezione logica viene ripreso dai moderni: Hobbes interpreta in tal guisa il criterio dell'evidenza cartesiana; le matematiche sono per lui sviluppi puramente analitici a partire da definizioni arbitrarie.
Leibniz approfondisce criticamente questo concetto; anche per lui la scienza matematica è razionale nel senso che i suoi principî si riducono a giudizî identici (o, come dirà Kant, analitici), benché le definizioni degli enti complessi non sieno proprio arbitrarie, dovendo soddisfare a condizioni di compatibilità, o d'esistenza logica degli enti definiti.
Avverso questo razionalismo logico, e per tale aspetto accanto agli empiristi, si schiera Kant, dichiarando il carattere sintetico della geometria, che però egli riattacca, non già ai dati sensibili, ma (come si è detto) a un'intuizione primitiva della mente ordinatrice. Non pertanto i principî della scienza, sebbene non logicamente provabili, restano per Kant verità rigorose e necessarie, condizioni presupposte di ogni esperienza possibile.
Ma, mentre la filosofia kantiana tendeva così a giustificare in nuovo modo l'a priori spaziale, i matematici discutevano intorno alla possibilità di dimostrare (deducendolo dagli assiomi dell'eguaglianza, ecc.) il postulato V d'Euclide, sulle parallele, di cui gli Elementi fanno uso soltanto a partire dalla 28ª proposizione (v. geometria, n. 9; parallele). E, agl'inizî del sec. XIX, Gauss, Lobačevskij e Bólyai (per tacere di alcuni precursori) giungevano a riconoscere che esso è indimostrabile, cioè costituisce un'ipotesi indipendente da quelle che stanno a fondamento dei rapporti elementari d'appartenenza fra punti, rette e piani, e della teoria dell'eguaglianza. Questo risultato reca anzitutto il colpo di grazia all'ideale logico platonico-leibniziano della scienza geometrica. Ma esso viene anche a contrastare la veduta kantiana, perché la negazione del postulato d'Euclide porta a costruire un sistema geometrico dipendente da un parametro k, che per k = ∞ si riduce al sistema euclideo, e così costituisce un'ipotesi secondo la quale si possono bene interpretare le esperienze sensibili in un ordine d'approssimazione che si può suppore tanto grande quanto si vuole (v. geometria, n. 10).
Perciò i fondatori della geometria non euclidea affacciarono arditamente l'idea che i principî della geometria sieno verità d'osservazione o sperimentali, cercando di realizzare nel campo dell'astronomia qualche differenza caratteristica per cui lo spazio si debba dire non esattamente euclideo.
Ma la questione dello spazio fisico, posta in tali termini, andò incontro dapprima a un resultato negativo: lo spazio fisico è euclideo in un ordine d'approssimazione superiore agli errori d'osservazione. Perciò - accanto a B. Riemann, H. v. Helmholtz, W. K. Clifford, F. Klein, che hanno adottato la tesi empirica, e dopo di loro - H. Poincaré viene a rinnovare, in qualche modo, la tesi kantiana con una critica nominalistica: i principî della geometria sono considerati da lui come convenzioni arbitrarie, richieste da motivi di comodità o semplicità, in ordine all'interpretazione dei veri principî sperimentali che ad esse riescono subordinati. Questa teoria, che stabilisce una differenza di grado fra esperienze geometriche e fisiche, ammettendo una gerarchia necessaria dei concetti scientifici, è stata confutata da F. Enriques, che arriva alla conclusione doversi ritenere la geometria come parte indivisibile, e solo astrattamente separabile, della fisica, in cui naturalmente si prolunga.
Appunto in questo senso procede la teoria della relatività di Einstein, fondendo la geometria con la cinematica e poi con la dinamica, e lavorando così sopra uno spazio-tempo, definito dalla materia, a curvatura variabile (v. relatività, teoria della).
Il problema psicologico dello spazio. - Accanto alle speculazioni in ordine allo spazio fisico, si svolgono ricerche tendenti a spiegare la genesi delle nozioni spaziali; le quali si riattaccano alla critica di Berkeley nella New Theory of Vision.
H. v. Helmholtz e W. Wundt, con la psicologia fisiologica, conducono queste ricerche nel campo dell'esperienza, specialmente per quanto concerne l'ottica. Più tardi (1902-1906) H. Poincaré e, più sistematicamente, F. Enriques ragionano, in rapporto a codesti dati, sulla genesi degli assiomi geometrici; in tal guisa si riesce infine a spiegare (come presupposto di certe associazioni che definiscono gli enti fondamentali) il senso di necessità subiettiva che accompagna i detti principî. In particolare, prendendo in considerazione la sensibilità generale tattilo-muscolare e gli organi della vista e del tatto speciale, si può riattaccare ad essi l'origine delle nozioni da cui rispettivamente dipendono: 1. la teoria generale del continuo - o analysis situs (v.) - supporto comune dei varî rami della geometria; 2. la geometria proiettiva; 3. la metrica; che nell'evoluzione della scienza moderna vengono a separarsi, come rami distinti, su quel tronco comune. Il postulato delle parallele figura come postulato d'associazione dello spazio visivo e dello spazio tattile (v. geometria; moto; relatività, teoria della).
Bibl.: F. E. Enriques, Problemi della scienza, 1ª ed., Bologna 1906; id., Spazio e tempo, in Questioni riguardanti le matematiche elementari, ivi 1925, parte 1ª, II.