Spazio
2001: viaggio nello spazio
Vita da astronauta
di Umberto Guidoni
19 aprile
Lo shuttle Endeavour parte da Cape Canaveral alla volta della stazione spaziale internazionale Alpha, in orbita a 300 km dalla Terra. Fra i sette astronauti che compongono l'equipaggio della navetta, c'è l'italiano Umberto Guidoni, rappresentante dell'Agenzia spaziale europea e primo europeo a mettere piede su Alpha. Guidoni, in particolare, ha la responsabilità delle operazioni relative al modulo logistico Raffaello, costruito dall'Agenzia spaziale italiana e progettato per rifornire la stazione spaziale di pezzi di ricambio, nuove apparecchiature e materiali di consumo, ma anche per trasferire a bordo complessi esperimenti scientifici. La stazione spaziale internazionale è il frutto di una collaborazione a livello planetario che vede affiancati Stati Uniti, Canada, Europa, Russia e Giappone. Nel futuro sono previsti altri voli cui parteciperanno astronauti italiani: almeno altri due a bordo dello shuttle e tre a bordo della stazione spaziale, per missioni di circa sei mesi.
La prima missione
Appartengo alla generazione di chi era ragazzo all'epoca dello sbarco sulla Luna. Il 20 luglio 1969 sono rimasto sveglio tutta la notte per vedere Armstrong e Aldrin camminare sul nostro satellite. Avevo 15 anni: è allora che ho pensato di scegliere degli studi che avessero a che fare con lo spazio. Così ho fatto: presa la laurea in fisica, mi sono specializzato in astrofisica, ma certo allora non avrei mai creduto che sarei diventato io stesso un astronauta.
L'opportunità di far parte di una missione nello spazio si è concretizzata all'improvviso. Nel 1988 l'Agenzia spaziale italiana, dopo accordi con la NASA, cercava un payload specialist italiano per farlo partecipare a un volo dello shuttle, il veicolo che viene usato dalla NASA per tutte le missioni con astronauti, conducendo esperimenti con il 'satellite a filo', il Tethered. Il payload specialist è uno scienziato che, dopo un corso di addestramento accelerato, diviene membro dell'equipaggio dello shuttle, senza responsabilità riguardo a questo, ma con incarichi specificamente legati al tipo di esperimento scientifico connesso con la missione. A quei tempi lavoravo come ricercatore presso il CNR in un laboratorio dove si faceva ricerca spaziale con esperimenti che volavano a bordo di satelliti scientifici, e uno di questi satelliti era appunto il Tethered. Ho deciso di partecipare al concorso e, dopo aver superato le selezioni, sono risultato fra i due finalisti inviati a Houston per seguire il corso d'addestramento. L'altro vincitore era Franco Malerba. Nell'agosto 1992, Malerba è andato in orbita e io sono rimasto a terra. La mia occasione è arrivata nel febbraio 1996, con il secondo volo del Tethered: una missione di 16 giorni a bordo dello shuttle Columbia, insieme a un altro italiano, Maurizio Cheli. Al ritorno da quella missione, appena atterrato, mi sembrava di aver vissuto un sogno, e già avevo voglia di riprovare quella magnifica esperienza: il 'mal di spazio' mi aveva contagiato! Così, quando si è concretizzata la possibilità di diventare mission specialist - cioè un astronauta di professione, addestrato per compiere tutte le operazioni di ingegnere di bordo, - ho subito accettato, anche se questo voleva dire rimanere ancora per anni a Houston, affrontare un addestramento molto più duro di quello già fatto e imporre altri sacrifici alla mia famiglia.
L'addestramento
La preparazione per volare a bordo dello shuttle è molto lunga. L'addestramento, o training, comprende diverse fasi. Si comincia con una prima fase, di carattere fondamentale, alla fine della quale si raggiunge la qualifica di astronauta (mission specialist o pilot). All'inizio si tratta di lezioni di tipo universitario in cui vengono illustrati gli aspetti del volo spaziale e soprattutto i dettagli tecnici della flotta di quattro shuttle (Columbia, Discovery, Atlantis ed Endeavour). Dopo la teoria c'è una parte pratica nella quale si approfondiscono gli aspetti operativi dei vari sottosistemi: dai motori principali all'impianto idraulico, dal controllo della navigazione ai computer di bordo.
Lo shuttle è una macchina unica nel suo genere che racchiude le funzioni di tre veicoli diversi. Ha le caratteristiche di un razzo al momento del decollo, si trasforma in una piccola stazione spaziale quando arriva in orbita, e diventa un aereo, anzi un enorme aliante, dopo il rientro nell'atmosfera terrestre, quando comincia la manovra di avvicinamento per l'atterraggio finale sulla pista del Kennedy Space Center, lo stesso da cui è stato lanciato. È importante avere in mente queste differenze per capire perché c'è bisogno di un addestramento così lungo. Il training deve coprire tutte le eventualità, anzi, deve coprire soprattutto le situazione più difficili e pericolose, per garantire la sicurezza dell'equipaggio e il successo della missione.
Per questo motivo, parallelamente alle lezioni sul funzionamento dello shuttle si seguono dei corsi che non sono previsti da nessun curriculum universitario: dai corsi di sopravvivenza (nel caso si debba atterrare in emergenza in qualche area disabitata del pianeta) ai lanci con il paracadute, dalle immersioni subacquee a voli sui T-38, gli aerei che la NASA utilizza per addestrare gli astronauti. Le diverse fasi si intrecciano in vario modo e ci si trova a dovere affrontare da un giorno all'altro esami nelle materie più disparate, che hanno come unico elemento in comune il fatto di servire tutte a diventare astronauti.
Non c'è bisogno di sottolineare i rischi connessi con le missioni spaziali. L'incidente del Challenger, avvenuto poco più di 13 anni fa, ha fatto emergere, senza ombra di dubbio, come il lancio sia una delle fasi più delicate del volo. Questo è ancora vero anche se, da allora, molte cose sono cambiate. La NASA dedica una maggiore attenzione alla sicurezza dell'equipaggio ed è stato sviluppato un addestramento specifico per consentire agli astronauti di abbandonare la navetta in condizioni di grave pericolo. Per questo si usano tute pressurizzate - introdotte dopo la tragedia del Challenger - per proteggere gli astronauti da una perdita di pressione della cabina, ma che sono anche ignifughe e dotate di un paracadute, di un canotto gonfiabile - nel caso si finisca in acqua - e naturalmente di radio e strumenti di segnalazione per i mezzi di soccorso. Un addestramento specifico viene effettuato anche per prepararsi alle conseguenze di un atterraggio di emergenza, che comporti un'evacuazione rapida del velivolo, in seguito a un incendio o alla fuoriuscita di gas tossici. In questa eventualità, si deve abbandonare lo shuttle utilizzando una delle finestre superiori della cabina di pilotaggio, che può essere aperta facendo brillare una piccola carica esplosiva. Per questo tipo di training si usa un simulatore a grandezza naturale dello shuttle, da cui ci si cala, sempre indossando le pesanti tute arancione, utilizzando lunghe funi. Altre simulazioni riguardano le attività extraveicolari. Vengono effettuate nella grande piscina del Johnson Space Center. Sott'acqua il peso del corpo e della tuta viene equilibrato dalla spinta di galleggiamento: per alcuni aspetti è quasi come lavorare nello spazio. Per riprodurre la mancanza di peso, viene utilizzato anche Vomit Comet, un vecchio KC135 (la versione militare del Boeing 707), la cui cabina è stata svuotata e imbottita. L'aereo prende velocità, cabra e poi compie una grande parabola, in caduta libera, durante la quale si 'galleggia' in assenza di peso per qualche decina di secondi.
Oltre alla preparazione propriamente tecnica, bisogna tenere presente l'aspetto psicologico. Non c'è un training specifico, ma quando un equipaggio viene selezionato i profili psicologici di ciascun membro vengono attentamente valutati. In particolare si cerca di affiancare astronauti più esperti ad astronauti al loro primo volo e, soprattutto, i membri del futuro equipaggio sono sistemati nello stesso ufficio in modo che nei mesi che precedono il volo abbiano l'occasione di lavorare a stretto contatto e raggiungano un completo affiatamento.
Dopo il training di base si procede con un addestramento mirato a mantenere i livelli di preparazione raggiunti (un certo numero di ore di volo sui T-38, immersioni subacquee, ore passate nei vari simulatori, fra cui uno a grandezza naturale dello shuttle, dove tutto è riprodotto fedelmente, persino ciò che si vede dai finestrini della cabina di pilotaggio, con decine di computer e di tecnici che contribuiscono a rendere la simulazione la più realistica possibile) e a ogni astronauta viene affidato un determinato settore dell'attività di volo spaziale, per es. nel mio caso i sistemi robotizzati usati sullo shuttle e sulla stazione spaziale.
Infine arriva il momento più atteso, quando si è finalmente assegnati a una particolare missione. A questo punto inizia il training specifico per quel volo assieme al resto dell'equipaggio e si passa la gran parte del tempo con la crew, impegnati in varie simulazioni durante le quali si ripercorrono passo per passo le diverse fasi del volo.
La missione STS-100
La missione cui ho partecipato nell'aprile del 2001, identificata dalla sigla STS-100, è stata uno dei voli di costruzione di Alpha, la stazione spaziale internazionale che rappresenta il primo avamposto di un insediamento stabile, in orbita attorno alla Terra. Quando la stazione sarà completata, nel 2005, fino a sette astronauti potranno vivere e lavorare a bordo per periodi di quattro-sei mesi. Sarà il banco di prova per tecnologie sempre più sofisticate che permetteranno un giorno a tutti di recarsi nello spazio.
In particolare alla missione STS-100 era affidato il compito di agganciare al modulo Destiny (il laboratorio costruito dalla NASA) il Canadarm2, un braccio robotico di costruzione canadese. Per portare a termine questa attività sono state necessarie due uscite extraveicolari, compiute dagli astronauti Chris Hadfield e Scott Parazynski e durate sette ore la prima e otto la seconda. Nel corso di queste 'passeggiate spaziali' sono stati assemblati i quattro segmenti in cui il braccio era stato suddiviso per sopportare meglio le sollecitazioni del lancio e si è attaccato il Canadarm2 allo speciale sistema di aggancio collocato sulla parete esterna del laboratorio americano.
Inoltre, la missione doveva rifornire Alpha ed equipaggiarla con una serie di strumenti. Due Express racks (apparecchiature per esperimenti scientifici) e 4 t di materiale, che l'equipaggio della stazione utilizzerà nei prossimi mesi, sono stati trasferiti ad Alpha dal modulo logistico pressurizzato Raffaello. Questo modulo, che era montato nella stiva dell'Endeavour, è stato agganciato al nodo Unity della stazione orbitale. Dopo il trasferimento del materiale - manovra risultata assai delicata, nonostante le condizioni di assenza di gravità, a causa delle dimensioni dei racks e delle curve a gomito dei tunnel di collegamento fra il modulo e la stazione - Raffaello è stato adibito anche a 'studio televisivo', dal quale, il 25 aprile, è avvenuto il collegamento con il presidente Ciampi e il presidente Prodi. Poco prima della separazione dello shuttle, il modulo logistico, nel quale era stato trasferito il materiale da riportare a terra, è stato ricollocato nella stiva della navetta. Giova ricordare che il modulo logistico rappresenta il contributo specifico dell'Italia alla costruzione della stazione orbitale. Ne sono state prodotte tre unità: Raffaello è la seconda, le altre due si chiamano Leonardo e Donatello. Tutte e tre saranno usate con una certa frequenza per tutta la vita della stazione, almeno fino al 2015. Nel corso della missione si è verificato un guasto a uno dei tre computer di comando e controllo (C&C computers) da cui dipendono le funzioni principali della stazione. Questo ha indotto il centro di controllo di Houston a posticipare la data del rientro dell'Endeavour. Di conseguenza è stato ritardato l'arrivo su Alpha della capsula russa Soyuz, a bordo della quale si trovava il primo 'turista' spaziale, il californiano Dennis Tito. Il C&C avariato è stato rimosso e stivato nello shuttle mentre è stato modificato il software di un computer di livello più basso per fargli svolgere le funzioni di controllo primario in precedenza assolte da quello guasto.
Impressioni di viaggio
Un viaggio verso il cosmo è brevissimo ma molto intenso. Passano poco più di otto minuti dal momento del lancio a quando i motori della navetta tacciono e ci si trova a 300 km al di sopra della superficie terrestre, in orbita nello spazio. Da un lato si è circondati dal nero profondo, trapuntato di stelle, dall'altro lato si vede la curvatura della Terra con un alone azzurrino che sembra diffondersi nello spazio. Stiamo volando sull'Oceano Atlantico e domina il blu del mare interrotto soltanto dal bianco accecante delle nuvole. Ammirare la Terra dal di fuori è uno spettacolo affascinante. E che dire della sensazione completamente nuova di chi si trova improvvisamente a galleggiare senza peso? È un'emozione diversa da tutto quanto si può provare sulla Terra, che lascia un'impronta indelebile nella memoria: un'esperienza che sembra allargare la sfera dei sensi, introducendo una nuova dimensione, una diversa percezione del proprio corpo. Anche quando si torna 'con i piedi per terra' alla fine della missione, nella mente rimane incancellabile il ricordo esatto di quella sensazione e qualche volta, durante il sonno, si sogna di volare senza peso, come quando si era in orbita.
Dopo molte simulazioni è arrivato, finalmente, il giorno della partenza, il giorno in cui si fa sul serio. L'Endeavour è in posizione sulla rampa di lancio, la stessa da cui sono partite le missioni Apollo verso la Luna. L'ingresso dell'equipaggio nella cabina è avvenuto più di due ore prima. Con la navetta in posizione verticale, si è rimasti seduti sulla schiena, una posizione non proprio comoda. Dopo un po' si cominciavano a sentire i muscoli intorpiditi, la tuta impediva i movimenti ma, per fortuna, il momento del lancio era sempre più vicino. A turno ogni componente dell'equipaggio ha verificato il funzionamento delle comunicazioni radio, parlando prima con la sala di controllo del Kennedy space center e poi con quella del centro di controllo di missione a Houston, destinato a prenderci in consegna subito dopo il lancio. All'ultimo minuto, il saluto del direttore di volo: "Endeavour, abbassate il visore del casco. Buon viaggio".
Quando il conto alla rovescia arriva a 6 secondi, si accendono i motori principali. Tutta la struttura geme e si avverte una leggera oscillazione in avanti. Allo scandire dello 'zero' i due razzi a stato solido - i cosiddetti boosters - si accendono ed Endeavour comincia a muoversi lentamente verso l'alto. Si avverte una profonda vibrazione e si comincia a sentire l'accelerazione. Si è proiettati nella stratosfera con un'accelerazione che aumenta fino a 2 g - due volte il peso che si sente a terra - poi il distacco dei boosters, un evento che tutti aspettano con il fiato sospeso dopo il disastro del Challenger. Per un brevissimo lasso di tempo si torna a pesare come sulla Terra, ma subito si riprende a tutta forza: 2 g, 2,5 g, la pressione sul torace comincia a farsi sentire, soprattutto per colpa della pesante tuta arancione, che dovrebbe proteggerci in caso di emergenza. È il momento di massima accelerazione, si toccano i 3 g (appena un terzo di quella a cui erano sottoposti i primi astronauti delle capsule Mercury e Gemini, o di quella che subiscono i piloti degli aerei da caccia) che vengono mantenuti per quasi 5 minuti. Dopo circa 8 minuti, i computer di bordo che calcolano la traiettoria cominciano il conto alla rovescia per lo spegnimento dei motori. La transizione è netta: all'improvviso i motori tacciono, il senso di pesantezza sul petto svanisce e, di colpo, si avverte un'inaspettata sensazione di leggerezza. Siamo ancora seduti perché le cinture del seggiolino ci trattengono, altrimenti staremmo galleggiando nella cabina. Quando finalmente siamo liberi di muoverci, il primo impulso è di andare nella cabina di pilotaggio, al ponte superiore, per vedere fuori. È un'immagine quasi da capogiro! Ecco la costa dell'Africa, domina la scena il color ocra chiaro del deserto del Sahara, e subito dopo appare, con tutta la sua maestosità, il Nilo che sembra tracciare una gigantesca cicatrice, di un verde profondo, nella sabbia che si estende a perdita d'occhio. Il pianeta sembra muoversi in gran fretta, ma è la navetta Endeavour che sta girandogli attorno alla fantastica velocità di quasi 28.000 km/h. Ci vuole un po' per adattarsi alla nuova sensazione di essere liberi dal proprio peso. In orbita non ci sono più riferimenti come l'alto e il basso, il cervello sembra confondersi: dove sono i piedi, quello è per definizione il pavimento e dove si trova la testa è il soffitto. Così, se si sta a testa in giù - secondo lo standard terrestre - il cervello rielabora l'informazione e, in una frazione di secondo, l'intera cabina ruota sottosopra in modo da avere la sensazione di essere a testa in su; vorrà dire che sono gli altri membri dell'equipaggio a essere fuori posto, visto che continuano a lavorare con i piedi sul soffitto!
Lo stesso vale con le sensazioni che provengono dal proprio corpo. Senza la forza peso, il sangue e gli altri liquidi, che normalmente convergono preferibilmente nelle estremità inferiori, si ridistribuiscono in modo uniforme. L'effetto complessivo è simile a quello che si prova quando si è raffreddati, con una pressione alla testa e poca voglia di mangiare. Questa condizione permane finché l'organismo non ritrova un nuovo equilibrio, dopo aver eliminato i liquidi in eccesso. In altre parole, essere decisamente disidratati è la condizione ideale nello spazio.
Quando l'accensione dei motori orbitali stabilizza la navetta sull'orbita di 311 km al di sopra della superficie terrestre ci togliamo le tute arancione. Per un po' a bordo regna il caos, con sacchi pieni di tute, paracadute, indumenti che fluttuano nello shuttle, poi tutto torna in ordine con il materiale che non si utilizza in orbita stivato dietro a una rete che occupa l'intera parete della cabina inferiore, o middeck.
Comincia la 'caccia' alla stazione Alpha e, dopo un giorno di inseguimento, riusciamo ad agganciarci, ma non possiamo ancora aprire il portellone per la differenza di pressione che c'è fra l'Endeavour e Alpha. Dobbiamo aspettare un altro giorno prima di poter entrare nella stazione Alpha e trasferire la strumentazione necessaria: c'è da attendere che sia completata la prima uscita extraveicolare per poter equalizzare la pressione dello shuttle con quella della stazione. Poi l'ingresso: uno dei momenti più emozionanti è quando, spalancato lo sportellone del boccaporto che collega Endeavour con Alpha, possiamo finalmente 'planare' all'interno della stazione. È come passare da un monolocale a una villa! Finalmente noi sette membri dell'equipaggio dello shuttle (oltre a me il comandante Kent Rominger, il pilota Jeffrey Ashby, i mission specialists Chris Hadfield, Scott Parazynski, John Phillips e Yuri Lonchakov) ci incontriamo con i tre astronauti che da metà marzo abitano nella stazione (Yuri Usachev, Jim Voss e Susan Helms). Altrettanto emozionante è, il 29 aprile, la cerimonia di addio: il nostro equipaggio firma il libro di bordo di Alpha e riceve in dono una spilla con l'immagine della stazione. E non è poco il sentimento di orgoglio che proviamo all'idea di lasciare una stazione più complessa e dotata di quella trovata al nostro arrivo. Il tempo è passato velocemente anche perché, alla velocità dello shuttle, si impiegano circa 90 minuti per fare un giro intorno alla Terra e, durante un'orbita, si assiste a un'alba e a un tramonto. È come vivere in un film accelerato. Per questo, e soprattutto per il lavoro continuo che si fa in orbita, i tredici giorni di durata della missione sembrano letteralmente 'volare'. Arriva il momento di rientrare. Le condizioni meteorologiche al Kennedy Space Center non sono buone e non si sa se riuscirà il primo tentativo o se si dovrà effettuare la manovra all'orbita successiva, con destinazione la base militare Edwards, in California. In preparazione per il ritorno alla gravità della Terra, l'equipaggio deve bere molto per reintegrare parte dei liquidi e dei sali minerali persi in orbita. Nell'incertezza, il medico, da terra, consiglia di aspettare a bere. Finalmente, al terzo tentativo, il centro di controllo di Houston decide per l'atterraggio alla base Edwards e dà il via libera per l'accensione dei razzi di frenata. Il rallentamento dà una sensazione strana, l'accelerazione prodotta è appena un sesto della gravità terrestre ma, dopo tanti giorni in assenza di peso, sembra già molta. È tempo di sedersi e di allacciare le cinture. Tutto avviene molto rapidamente, si sente il rumore prodotto dall'attrito del veicolo contro l'atmosfera e la navetta comincia a rallentare, anche se la velocità è sempre altissima, circa 20.000 km/h. In poco più di un'ora si arriva in vista della California, dove tocchiamo terra con un magnifico atterraggio.
Si è conclusa una meravigliosa avventura. In questi tredici giorni abbiamo girato intorno alla Terra per 187 volte, percorrendo milioni di chilometri. Rientrare sul nostro pianeta non è facile, all'inizio si cammina ancora con passo malfermo, tutto sembra troppo pesante. Nella mente c'è ancora la vista del nostro pianeta illuminato da una luce azzurra, immerso nel buio cosmico. È un'immagine molto bella che rivela anche l'estrema fragilità di questa piccola oasi abitata, circondata dallo spazio freddo e inospitale. In ultima analisi, vista dal di fuori, la Terra appare veramente un'enorme 'nave spaziale' su cui è imbarcata tutta l'umanità, un'umanità che dovrebbe cercare di fare il possibile per conservare questa astronave in piena efficienza visto che, per il momento, è l'unica che abbiamo!
Missioni spaziali con equipaggio umano
Nel corso del 20° secolo, lo sviluppo della scienza della navigazione spaziale ha permesso all'uomo di ampliare enormemente le sue conoscenze sulla natura e sulle origini del sistema solare e dell'Universo. I satelliti orbitanti sono ormai indispensabili per le telecomunicazioni, le previsioni meteorologiche e la navigazione, ma vengono utilizzati anche per il riconoscimento delle risorse minerali sulla superficie terrestre e per scopi militari. Inoltre, le sonde spaziali, con o senza uomini a bordo, costituiscono una fonte quasi inesauribile di dati sullo spazio che circonda la Terra.
Naturalmente le navicelle con equipaggio umano devono soddisfare richieste molto più restrittive rispetto alle sonde senza uomini a bordo: sono progettate per fornire agli astronauti aria, cibo e acqua e sono dotate di strumenti per la navigazione e la guida, di spazi per il riposo e di apparecchi di comunicazione per trasmettere e ricevere informazioni dalla base a Terra. Infine una caratteristica distintiva dei veicoli con equipaggio è lo schermo contro il calore, che li protegge nella fase di rientro nell'atmosfera.
A soli quattro anni dal lancio del primo satellite artificiale orbitante, lo Sputnik 1 (4 ottobre 1957), da parte dell'Unione Sovietica e dopo alcuni esperimenti che impiegavano navicelle con a bordo animali per studiare l'effetto dell'assenza di peso sugli esseri viventi, il 12 aprile 1961 la stessa Unione Sovietica raggiunse l'obiettivo del primo volo orbitale umano, con la missione della navicella Vostok 1, pilotata da Yuri A. Gagarin. Il volo durò 1 ora e 48 minuti, raggiungendo un apogeo di 327 km e un perigeo di 180 km; l'atterraggio avvenne in Siberia. Nei successivi due anni l'Unione Sovietica lanciò altre cinque navicelle, l'ultima delle quali pilotata dalla prima cosmonauta donna, Valentina Tereskova. Il 12 ottobre 1964 andò in orbita la navicella Voskhod 1, progettata per ospitare più cosmonauti: aveva a bordo Vladimir Komarov, Boris Egorov e Konstantin Feoktistov e compì 15 orbite intorno alla Terra. Il 18 marzo 1965 veniva lanciata la Voskhod 2, con equipaggio formato da Pavel Belayev e Aleksei Leonov: in questa missione Leonov effettuò la prima passeggiata nello spazio, uscendo dalla navicella e rimanendovi attaccato tramite un cavo. Negli anni seguenti, l'URSS progettò le navicelle Soyuz, che compirono numerose missioni nello spazio. Ricordiamo la Soyuz 3 (ottobre 1968), che effettuò 60 orbite terrestri; le Soyuz 4 e 5 (gennaio 1969), che si incontrarono in orbita: mentre le due navicelle erano attaccate, i cosmonauti Aleksei Yeliseyev e Yevgeny Khrunov si trasferirono dalla Soyuz 5 alla Soyuz 4; le Soyuz 6, 7 e 8 (ottobre 1969) che si incontrarono in orbita senza agganciarsi; infine la Soyuz 9 (giugno 1970), che effettuò un volo di quasi 18 giorni con un equipaggio di due cosmonauti, Andrian Nikolaev e Vitali Sevastyanov.
Alla fine degli anni Cinquanta gli Stati Uniti svilupparono il programma Mercury per sperimentare le condizioni di volo in orbita. Il 5 maggio 1961 l'astronauta Alan Shepard, il primo americano a viaggiare nello spazio, compì un volo suborbitale di 15 minuti a bordo della navicella Freedom 7; una missione simile fu compiuta il 21 luglio dello stesso anno da Virgil Grissom. Il 20 febbraio 1962 John Glenn compì tre orbite intorno alla Terra; nello stesso periodo si svolsero altri tre voli del programma Mercury, pilotati da Scott Carpenter, Walter Schirra e Leroy Gordon Cooper. Veniva intanto avviato il progetto Gemini, per studiare la tecnologia richiesta per raggiungere la Luna e verificare le possibilità di manovra nello spazio di veicoli con equipaggio composto da più di un astronauta; nell'ambito di questo progetto negli anni successivi furono effettuati dieci voli, dei quali ricordiamo Gemini 4 (giugno 1965), con a bordo gli astronauti James McDivitt ed Edward White, il primo americano a intraprendere una passeggiata nello spazio, e Gemini 6 e 7 (dicembre 1965), che si avvicinarono in volo l'una all'altra fino a meno di un metro. Nel maggio 1961 veniva istituito il programma Apollo, con l'obiettivo di portare l'uomo sulla Luna e farlo ritornare sulla Terra entro la fine degli anni Sessanta. Dopo un ritardo di oltre un anno, dovuto a un tragico incendio verificatosi il 27 gennaio 1967 a bordo di una navicella Apollo a Cape Kennedy e costato la vita ai tre astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee, nell'ottobre 1968 fu lanciato Apollo 7, il primo con equipaggio: gli astronauti Walter Schirra, Walter Cunningham e Donn Eisele effettuarono 163 orbite, durante le quali controllarono le prestazioni della navicella, scattarono numerose fotografie della Terra e trasmisero immagini televisive. Nel dicembre 1968 l'Apollo 8, con a bordo Frank Borman, James Lovell e William Anders, i primi uomini a vedere il lato nascosto della Luna, compì dieci giri intorno al satellite; l'Apollo 9 (marzo 1969) tentò per la prima volta, nel corso di 151 orbite terrestri, lo sganciamento, l'avvicinamento e il riaggancio del modulo lunare LEM; l'Apollo 10 (maggio 1969) effettuò una prova generale di allunaggio, durante la quale gli astronauti Thomas Stafford e Eugene Cernan scesero, sul modulo LEM, fino a 16 km dalla superficie lunare. Con quest'ultima missione il progetto Apollo era pronto per portare l'uomo sulla Luna. Il 16 luglio 1969 l'Apollo 11, con a bordo gli astronauti Edwin Aldrin, Neil Armstrong e Michael Collins, iniziò il suo volo. Dopo l'entrata nell'orbita lunare, Aldrin e Armstrong si trasferirono nel LEM, mentre Collins rimase a bordo della navicella come pilota; il 20 luglio il LEM toccò la superficie lunare, nei pressi del Mare della Tranquillità: i due astronauti rimasero sulla Luna per due ore, raccogliendo campioni, scattando fotografie e installando apparecchiature di rilevamento, quindi, utilizzando nuovamente il LEM, rientrarono nella navicella. La diretta televisiva dell'allunaggio venne seguita da milioni di persone in tutto il mondo. Il 24 luglio l'Apollo 11 ammarò senza alcun problema nell'Oceano Pacifico, vicino alle isole Hawaii, dove fu facilmente recuperato. La successiva missione di allunaggio iniziò il 14 novembre 1969, quando fu lanciato l'Apollo 12 con a bordo gli astronauti Charles Conrad, Richard Gordon e Alan Bean. Dopo l'entrata in orbita lunare, Conrad e Bean si trasferirono nel LEM e sbarcarono poi sulla superficie lunare, nell'Oceano delle Tempeste. La zona fu esplorata in due fasi di circa quattro ore ciascuna, durante le quali gli astronauti effettuarono esperimenti scientifici e prelevarono campioni del suolo; dopo il decollo dalla Luna e l'incontro con il modulo di comando, l'Apollo 12 ammarò il 24 novembre. L'Apollo 13, partito l'11 aprile 1970 con a bordo gli astronauti James Lovell, Fred Haise e John Swigert, fallì la sua missione per una grave avaria durante il volo, che costrinse gli astronauti a cancellare il piano di allunaggio; utilizzando l'energia e i sistemi di sopravvivenza del LEM, l'equipaggio riuscì ad ammarare senza ulteriori problemi il 17 aprile. La missione fallita di Apollo 13 fu portata a termine, dopo alcune modifiche, da Apollo 14, lanciato il 31 gennaio 1971 con a bordo Alan Shepard, Edgar Mitchell e Stuart Roosa. Shepard e Mitchell allunarono nell'irregolare regione di Fra Mauro, esplorandola per oltre nove ore e raccogliendo circa 43 kg di campioni. Il rientro sulla Terra avvenne il 9 febbraio. L'Apollo 15 fu lanciato il 26 luglio 1971, con equipaggio formato da David Scott, James Irwin e Alfred Worden. Scott e Irwin rimasero sulla Luna per 2 giorni e 18 ore, percorrendo più di 28 km nella zona del Monte Hadley con l'aiuto di un rover elettrico a quattro ruote. Prima di lasciare l'orbita lunare, l'equipaggio lanciò un subsatellite progettato per trasmettere dati sui campi gravitazionale, magnetico e di alta energia dell'ambiente lunare; la navicella ammarò senza incidenti il 7 agosto. Il 16 aprile 1972 gli astronauti John Young, Charles Duke e Thomas Mattingly furono lanciati verso la Luna a bordo dell'Apollo 16 per esplorare la pianura di Cartesio. Il 20 aprile Young e Duke effettuarono l'allunaggio nell'area prevista, dove rimasero 20 ore e 17 minuti eseguendo numerosi esperimenti, percorrendo circa 26 km con il rover e prelevando oltre 97 kg di campioni di rocce. Le missioni verso la Luna programmate dagli Stati Uniti si conclusero con il volo dell'Apollo 17, compiuto tra il 6 e il 19 dicembre 1972; nel corso della missione l'astronauta Eugene Cernan e il geologo Harrison Schmitt rimasero 22 ore sul suolo lunare, nella regione della valle di Taurus-Littrow, mentre il modulo di comando era affidato a Ronald Evans. Le esplorazioni e i rilevamenti effettuati nel corso delle missioni sulla Luna hanno consentito di pervenire a un'approfondita conoscenza del satellite e della sua evoluzione geologica.
Nel 1975 fu portata a termine la missione Apollo/Soyuz (luglio 1975), il primo programma spaziale internazionale a cui hanno partecipato gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. I due veicoli spaziali, partiti a distanza di sette ore l'uno dall'altro, si incontrarono e unirono nell'orbita terrestre e per due giorni gli equipaggi condussero esperimenti in comune.
Un nuovo tipo di ricerche riguardò le stazioni spaziali, progettate per orbitare intorno alla Terra per lunghi periodi con alternanza di equipaggi. A bordo di queste stazioni possono essere condotti esperimenti nuovi e osservazioni astronomiche estremamente precise. Tali progetti furono avviati sia dall'Unione Sovietica, con le stazioni Salyut, sia dagli Stati Uniti, con le stazioni Skylab.
La stazione spaziale sovietica Salyut 1, del peso di 18.600 kg, fu lanciata il 19 aprile 1971; tre giorni dopo fu agganciata dalla navicella Soyuz 10, ma i cosmonauti non riuscirono a entrare nella stazione. Nel giugno dello stesso anno la Salyut 1 fu agganciata dalla navicella Soyuz 11, e i tre uomini dell'equipaggio, Georgi Dobrovolsky, Vladislav Volkov e Viktor Patsaev, vi rimasero per 24 giorni, conducendo moltissimi esperimenti; dopo l'atterraggio, i tre cosmonauti furono ritrovati senza vita, vittime di una fuga di aria che si era verificata durante il viaggio di ritorno. Il programma spaziale sovietico, a causa di questo grave incidente, subì un lungo ritardo. I lanci ripresero solo dopo qualche anno, con la Salyut 3, rimasta in orbita dal giugno 1974 al gennaio 1975, per proseguire con la Salyut 4 (dicembre 1974-febbraio 1977), la Salyut 5 (giugno 1976-agosto 1977), la Salyut 6 (settembre 1977-luglio 1982) e la Salyut 7 (aprile 1982-febbraio 1991). Le ultime due stazioni sono state visitate da numerosi equipaggi internazionali. La stazione spaziale Mir, destinata a succedere alla serie Salyut e descritta dai sovietici come il nucleo centrale della prima stazione spaziale abitata permanentemente, fu lanciata in orbita il 19 febbraio 1986. Negli anni 1987-88 i cosmonauti Vladimir Titov e Musa Manarov vi stabilirono il record di permanenza nello spazio: 366 giorni. Dopo 15 anni di attività, durante i quali ha ospitato 100 astronauti di varie nazionalità e ha effettuato più di 20.000 esperimenti, la Mir si è disintegrata nell'atmosfera nel marzo 2001.
Il programma statunitense ebbe inizio il 14 maggio 1973 con il lancio della stazione Skylab dal vettore Saturno 5; la stazione, del peso di circa 88.900 kg, servì come laboratorio orbitante e fu utilizzata per studi astronomici sul Sole, per studi medici sull'effetto dell'ambiente spaziale sugli uomini dell'equipaggio, per osservazioni intensive e multispettrali della Terra e per vari esperimenti scientifici e tecnologici, come la crescita di cristalli metallici in assenza di gravità. Il 25 maggio la stazione fu raggiunta dalla navicella Skylab 2, con a bordo gli astronauti Charles Conrad, Joseph Kerwin e Paul Weitz che rimasero complessivamente nello spazio per 28 giorni. Con le seguenti due missioni Skylab 3 e Skylab 4, svoltesi tra il 1973 e il 1974, il programma raggiunse il completo successo, raccogliendo 175.000 immagini del Sole e 64.000 immagini della superficie terrestre. Secondo il progetto iniziale, la stazione sarebbe dovuta rimanere nello spazio da otto a dieci anni, ma nell'autunno del 1977 fu stabilito che lo Skylab non era più in un'orbita stabile, a causa dell'attività solare che era stata maggiore del previsto; l'operazione terminò quindi l'11 luglio 1979 quando lo Skylab precipitò sulla Terra, frammentandosi su un'area scarsamente popolata dell'Australia e sull'Oceano Indiano.
Un altro importante programma spaziale messo a punto dagli Stati Uniti è stato quello riguardante la realizzazione di un veicolo spaziale riutilizzabile più volte, lo space shuttle, un'astronave multiuso pilotata, progettata per trasportare un equipaggio costituito da sette persone e un carico massimo di circa 30 t. La parte superiore della navetta ospita l'equipaggio e può essere reimpiegata fino a 100 volte prima di essere guidata nel rientro attraverso l'atmosfera terrestre. Per le sue caratteristiche di flessibilità e per la possibilità di trasportare, posizionare in orbita ed eventualmente riparare in loco i satelliti, lo shuttle ha rappresentato un passo decisivo nell'esplorazione dello spazio. Il volo di prova dello shuttle avvenne il 12 aprile 1981; i piloti erano John Young e Robert Crippen, a bordo della navetta Columbia; la prima missione operativa ebbe luogo tra l'11 e il 16 novembre 1982 e portò in orbita due satelliti commerciali per le telecomunicazioni. Un tragico incidente, verificatosi il 28 gennaio 1986, causò un forte rallentamento del programma: l'avaria di una guarnizione di uno dei razzi a carburante solido provocò l'esplosione del serbatoio principale e la totale distruzione della navetta Challenger; nel disastro morirono sette astronauti. Dopo le necessarie modifiche, i lanci ripresero il 29 settembre 1988 con il volo della navetta Discovery, con cinque astronauti a bordo, che mise in orbita un satellite per comunicazioni della NASA; nell'aprile 1990 lo shuttle portò in orbita il telescopio spaziale Hubble; nel febbraio 1995 compì la prima delle sue sette 'visite' alla stazione Mir. Lo shuttle più recente della flotta della NASA è l'Endeavour.
Gli Stati Uniti, la Russia, il Canada, il Giappone e i 13 Stati europei, tra cui l'Italia, membri dell'Agenzia spaziale europea sono attualmente impegnati nel progetto Alpha, una stazione spaziale permanente, che per 10 o più anni funzionerà come laboratorio multidisciplinare dedicato agli studi in ambiente di microgravità e all'osservazione della Terra e dell'Universo. L'assemblaggio in orbita della stazione spaziale internazionale è iniziato nel novembre 1998 e si prevede che sarà completato nel 2005, dopo 45 missioni dello shuttle e di due diversi tipi di razzi russi. Il lancio del primo nucleo abitabile è avvenuto il 31 ottobre 2000.
Criteri per la selezione degli astronauti
L'astronauta è un soggetto dalle caratteristiche funzionali sostanzialmente 'normali'. Tuttavia, mentre la cosiddetta 'normalità' per un individuo comune, anche fisicamente attivo, è definita in base alla conformità di alcuni suoi fondamentali parametri fisiologici con i valori medi rilevati sulla popolazione di appartenenza, la 'normalità' dell'astronauta deve essere stabilita su un ventaglio molto più ampio di criteri funzionali. Ciò rende il giudizio più restrittivo, in quanto basato su un grande numero di variabili, facendo sì che la selezione sia particolarmente severa. Le tecniche di selezione adottate inizialmente (per es. quelle sulla cui base vennero scelti negli Stati Uniti gli astronauti delle missioni Mercury) erano quelle in uso nei laboratori di medicina aeronautica per la scelta dei piloti collaudatori di aerei militari, nei centri per lo studio della prestazione fisica dell'uomo in ambienti usuali o particolari e nelle istituzioni di medicina preventiva. Successivamente, con il progresso della tecnologia, i criteri di valutazione sono diventati più specifici e approfonditi, comportando anche prove di decompressione e ricompressione rapida in camere ipo- o iperbariche, di accelerazione-decelerazione, di esposizione a campi gravitazionali molto elevati o prossimi a zero-gravità simulati mediante sistemi accelerati non inerziali ed esami basati su tecniche specialistiche, quali la spettroscopia a risonanza magnetica, la densitometria ossea, l'ecografia o il prelievo bioptico di campioni di tessuti. La maggiore severità della selezione, che viene integrata altresì da un'approfondita analisi del profilo psicologico, specialmente in condizioni di stress psicofisico, è stata giustificata, oltre che dalla necessaria affidabilità degli equipaggi dei veicoli spaziali, dal rispetto dei programmi di lancio e dall'ingente costo di formazione dell'astronauta, tutti requisiti incompatibili con contrattempi dovuti al manifestarsi di condizioni di inidoneità in corso di addestramento. Con l'evoluzione delle attività spaziali, i compiti dell'astronauta sono diventati molto più specifici di quanto non fossero ai primordi. Al momento attuale si possono infatti identificare quattro diverse categorie di partecipanti a missioni spaziali: i piloti, i cosiddetti specialisti di missione (mission specialists), gli specialisti a pagamento (payload specialists, ricercatori di enti che collaborano con i responsabili del volo), i partecipanti ad altro titolo (passeggeri). È evidente che gli standard fisiologici che vengono richiesti per ciascuna di queste categorie sono diversi e progressivamente meno severi, arrivando a essere per i cosiddetti passeggeri del tutto simili a quelli che sono ritenuti necessari a svolgere una prolungata attività sportiva a livello amatoriale.
Cenni di medicinab spaziale
Studio comparativo di alcune variabili fisiologiche e strutturali
Gli astronauti in attività ripetono ogni anno un esame di controllo completo. Negli USA anche gran parte di coloro che lasciano il servizio accettano controlli medici regolari, con cadenza annuale. Ciò ha consentito ai sanitari della NASA di effettuare, tra l'altro, uno studio comparativo retrospettivo tra un gruppo di 154 astronauti ed ex astronauti - suddivisi in due sottogruppi: quelli selezionati tra il 1959 e il 1969, con età dai 25 ai 60 anni, e quelli dell'era degli shuttle (1978-89), con età tra i 25 e i 45 anni - e un gruppo di 653 soggetti di controllo (5 per ogni astronauta), allo scopo di esaminare l'evoluzione, con la pratica spaziale e con l'età, di talune variabili fisiologiche e strutturali. I risultati di tale indagine hanno reso possibile un interessante confronto tra astronauti, controllati dall'inizio dell'attività spaziale fino al periodo successivo al termine, e soggetti di controllo. Le variabili esaminate sono state la funzione cardiovascolare, la funzione respiratoria, la capacità di lavoro muscolare, la funzionalità di vista e udito. Dagli esami effettuati emerge, in generale, che le caratteristiche fisiologiche dell'astronauta durante l'attività professionale sono significativamente migliori di quelle dei soggetti di controllo, pur collocandosi nell'ambito della 'normalità'. Con il termine dell'attività professionale, il gruppo degli astronauti tende sempre più a omologarsi con quello di controllo, a parità di età. Ciò dimostra che gli astronauti non costituiscono un gruppo speciale, con caratteristiche fortemente differenziate, nell'ambito della normale popolazione. In questo senso, l'astronauta si differenzia da taluni gruppi di atleti che possiedono caratteristiche fisiologiche genetiche che li pongono, anche in assenza di allenamento, in categorie funzionali di eccellenza.
Adattamenti funzionali alla microgravità
Se si fa eccezione per il notevole aumento della frequenza cardiaca (tachicardia) e della frequenza respiratoria (tachipnea) registrato al momento del lancio, la maggior parte dei dati fisiologici e fisiopatologici raccolti sugli astronauti nelle prime esperienze spaziali di breve durata riguardava la suscettibilità dell'organismo a una particolare sindrome, la cosiddetta chinetosi spaziale, caratterizzata da pallore, sudorazione, scialorrea, nausea, eventualmente vomito, causata da stimolazioni vestibolari anomale e manifestantesi particolarmente nella transizione dal campo gravitazionale terrestre alla condizione di microgravità. Oltre alla classica sintomatologia della chinetosi, segnalata per la prima volta dal cosmonauta sovietico G. Titov nel 1961, vari membri di equipaggi spaziali, sia sovietici sia statunitensi, descrissero, in coincidenza con l'inizio della fase orbitale del volo, il manifestarsi di illusioni posturali, capogiri e senso di disorientamento, particolarmente in seguito alla rotazione del capo o del capo e del tronco, e perdita della rappresentazione normale del proprio corpo. Fenomeni di origine vestibolare diretti (risposte motorie riflesse immediate quali illusioni posturali, sensazione di rotazione, nistagmo, vertigine) e indiretti (fenomeni ritardati tipici della chinetosi, quali pallore, sudorazione, vomito) furono riscontrati nella maggior parte degli astronauti partecipanti al programma Skylab (1973-79). Un persistente deficit dell'equilibrio posturale, perdurante anche parecchi giorni dopo il rientro, fu segnalato anche per gli equipaggi delle missioni Apollo (1968-72) e Soyuz 9 (1970). Gli esperimenti effettuati subito dopo il rientro degli equipaggi confermarono che l'esposizione protratta all'assenza di gravità modifica la stabilità posturale dei soggetti. Tale alterazione è certamente dovuta al fatto che l'input dell'apparato vestibolare (i segnali partenti dai recettori) e le sensazioni cenestesiche e tattili sono modificati dall'assenza di gravità, il che impone una 'riorganizzazione' neurale a livello del sistema nervoso centrale, non rapidamente reversibile con il rientro nel campo gravitazionale terrestre. Ciò spiega la lentezza osservata nel recupero delle condizioni funzionali precedenti il volo da parte di numerosi membri degli equipaggi dei veicoli spaziali.
La microgravità influisce anche sulla traslocazione di liquido interstiziale e sull'eritrocinetica. Al momento dell'entrata in orbita, un volume cospicuo di sangue e di liquidi interstiziali si trasferisce dalla parte distale del corpo verso le regioni cefaliche, con tendenza a distendere i vasi e gli organi intratoracici, incluso il cuore. Ciò è causa di fenomeni riflessi compensatori, quale un aumento della diuresi, che conduce a una diminuzione della massa sanguigna. È stata inoltre messa in evidenza una riduzione della massa eritrocitaria (globuli rossi) circolante, attribuita a una riduzione della produzione di eritropoietina e ad altre variabili tuttora non identificate. La traslocazione di una notevole aliquota di sangue e di liquidi interstiziali alla parte craniale del corpo si manifesta prevalentemente nelle prime ore di esposizione a microgravità, provocando vampe di calore al viso, congestione della mucosa nasale, cefalea, edema facciale e aumento della gettata cardiaca e pulsatoria.
Nel corso e a seguito del volo spaziale la funzione polmonare è ridotta, in quanto la capacità vitale, in assenza di gravità, subisce una riduzione di circa il 10% rispetto ai valori precedenti al volo, riduzione rapidamente corretta con il rientro nel campo gravitazionale terrestre. Le cause sono uno spostamento caudocraniale del diaframma e la ridistribuzione dei liquidi provenienti dalla parte inferiore del corpo nella cavità toracica.
In condizioni di microgravità risulta alterato in misura significativa il metabolismo del calcio. Nelle missioni spaziali di lunga durata si è riscontrata una perdita continua di calcio dalle ossa degli arti inferiori. Il tasso di eliminazione di Ca++ è di entità tale che, a gravità zero, è possibile prevedere in 18 mesi il tempo limite perché s'instauri una condizione critica di demineralizzazione e di fragilità ossea. Un altro aspetto del bilancio negativo di calcio è la facilitata formazione di calcoli renali. La perdita di calcio associata a condizioni di microgravità è stata messa in relazione con la forzata riduzione dell'attività fisica. Tuttavia anche programmi di intenso esercizio fisico nel corso del volo, come quelli che sono stati sistematicamente effettuati durante il progetto Skylab, non sono stati in grado di ritardare la perdita di calcio e conseguentemente i danni allo scheletro, né finora i tentativi d'intervento mediante arricchimento della dieta in calcio e fosforo hanno consentito di limitare il fenomeno in maniera significativa. Si è dunque ipotizzato che la perdita di sali minerali dalle ossa sia legata alla riduzione di un'attività nervosa, detta 'trofica', che, come l'attività motoria, verrebbe meno durante lunghi periodi d'immobilità o microgravità.
Morbilità dell'astronauta
Un aspetto interessante ai fini dell'attività spaziale, particolarmente in vista di future prolungate permanenze di astronauti nello spazio, è il tipo di patologia generica o specifica rilevata negli astronauti durante il periodo di attività dalla clinica specializzata operante presso il Johnson Space Center. Analoghi dati sono stati certamente ottenuti anche da studi sugli astronauti dell'ex Unione Sovietica, ma non sono stati resi disponibili in maniera sistematica. Anzitutto, è interessante rilevare che interventi urgenti seguiti da ricovero ospedaliero sono stati in tutto questo periodo molto inferiori per gli astronauti che per altri gruppi elitari di soggetti, quali piloti di aerei, sommergibilisti, ricercatori isolati in basi antartiche ecc. Essi ammontano a 0,02 casi per astronauta e per anno, un numero estremamente limitato, che riflette la validità dei sistemi di selezione adottati, nonché l'elevata motivazione dei soggetti. In tutto il periodo di osservazione (circa 30 anni) sono state richieste 2282 consultazioni mediche in favore di 188 astronauti, che sono state ripartite in codici differenti per il tipo di patologia, nonché per la classe di età. Premesso che circa il 10% delle manifestazioni patologiche è stato di origine traumatica, conseguente a pratiche sportive, la maggior parte dei fenomeni patologici registrati consiste in affezioni delle vie respiratorie (circa il 20% del totale). Nessun'altra manifestazione patologica ha superato l'incidenza del 2% (gastroenteriti, sindromi virali, influenza ecc.). Il numero di casi diagnosticati risulta relativamente inferiore nell'ambito di età compresa tra i 25 e i 43 anni, per aumentare drasticamente in seguito, particolarmente in soggetti più anziani, che hanno lasciato il servizio attivo.
Da tutto quanto si è detto emerge che l'astronauta è una persona che gode di invidiabile salute, anzitutto perché appartiene a un gruppo di soggetti selezionati, e in secondo luogo perché ha fruito di un'educazione sanitaria volta a eliminare abitudini di vita non idonee, potenzialmente lesive dell'integrità fisica e funzionale. Tuttavia è bene ribadire che l'astronauta è un individuo sostanzialmente normale, nel senso che tutti i suoi dati funzionali suscettibili di analisi specifica ricadono nella media statistica per una popolazione sana e moderatamente attiva sul piano fisico.
Vita quotidiana nello spazio
I progressi raggiunti in decenni di missioni spaziali abitate e di estesi studi a terra hanno consentito di riprodurre all'interno delle navicelle e delle stazioni spaziali condizioni di vita relativamente confortevoli, non troppo dissimili da quelle che si hanno sulla Terra. La pressione dell'aria è uguale a quella del livello del mare: 1,033 gf/cm2; l'aria, formata per l'80% di azoto e per il 20% di altri gas, come ossigeno, argon e neon, circola grazie al sistema di controllo ambientale e passando attraverso filtri viene depurata da anidride carbonica e altre impurità; viene rimosso anche l'eccesso di umidità; la temperatura può essere regolata fra i 16 e i 32 °C.
Ben diversa è naturalmente la situazione quando l'astronauta esce nello spazio, dove non vi sono né pressione atmosferica né ossigeno. È dunque necessario che indossi una tuta spaziale, in grado di assicurare il rifornimento di ossigeno e di mantenere intorno al corpo una pressione tale da lasciare i fluidi corporei allo stato liquido. Prima di uscire dalla navicella, gli astronauti devono respirare per alcune ore ossigeno puro in modo da rimuovere l'azoto sciolto nel sangue e quindi impedire la formazione di bolle gassose quando la pressione si riduce.
L'abbigliamento
L'abbigliamento degli astronauti varia a seconda della fase di volo e del compito che essi stanno svolgendo.
Durante il lancio e il rientro, gli astronauti dispongono di un particolare equipaggiamento, che consiste in una tuta a pressione parziale, completa di casco, guanti e stivali e di un'apparecchiatura di comunicazione, e in un paracadute, con relativa imbracatura. La tuta è fornita di sacche che si riempiono automaticamente di ossigeno in caso di diminuzione della pressione in cabina e che possono anche essere gonfiate a mano durante il rientro, quando il veicolo passa dalla microgravità alla gravità atmosferica: la pressione esercitata dalla tuta sull'addome e le gambe impedisce al sangue di ristagnare nella parte inferiore del corpo e protegge così dal rischio di perdere conoscenza.
All'interno della navicella o a bordo della stazione spaziale, dove l'atmosfera è controllata, non è necessario un abbigliamento particolare. Gli astronauti indossano pantaloni, maglie, biancheria, pantofole, tutto realizzato in materiale antifiamma. I vestiti sono dotati di tasche esterne chiudibili, dove vengono riposti penne e matite, occhiali da sole, un coltellino multiuso, forbici.
Per uscire nello spazio l'astronauta ha invece una particolare attrezzatura. Quella in uso agli astronauti dello shuttle, del peso globale di più di 50 kg, è denominata EMU (Extravehicular mobility unit) e si compone essenzialmente di una tuta spaziale in due parti, del PLSS (Primary life support system), di un modulo di controllo e display. Accessori della tuta sono un congegno per la raccolta dell'urina, una sottotuta di spandex munita di un dispositivo di raffreddamento a liquido e di ventilazione, costituito da una rete di tubi in cui circola acqua, una sacca piena di acqua potabile, un'apparecchiatura di comunicazione (con cuffie e microfoni per dare e ricevere messaggi) e un insieme di strumentazioni biomediche. La tuta spaziale esterna, che serve anche a proteggere l'astronauta dal bombardamento di micrometeoriti e dalle temperature estreme dello spazio (il fianco della tuta esposto al Sole può riscaldarsi fino a +120 °C, quello in ombra può scendere a -160 °C), è formata da diversi strati, realizzati in vari materiali (nylon, poliuretano, poliestere, kevlar, teflon, dacron); a livello delle articolazioni di spalla, gomito, polso e al punto vita, presenta dei cuscinetti che consentono ampia libertà di movimento. L'astronauta inoltre indossa i guanti e il casco dotato di visore extraveicolare e sul quale sono montate delle luci.
La parte superiore della tuta consiste in una struttura in fibra di vetro rigida che contiene il PLSS e il modulo di controllo e display. Il PLSS fornisce l'ossigeno necessario alla respirazione, regola la pressurizzazione e la ventilazione, raffredda e fa circolare il liquido inserito nei tubi della sottotuta, controlla la temperatura dei gas di ventilazione, assorbe l'anidride carbonica, rimuove gli odori. Il modulo di controllo e display consente all'astronauta di monitorare il funzionamento del PLSS e dell'MMU (Manned maneuvering unit), un propulsore che, attaccato alla parte posteriore della tuta, permette all'astronauta di muoversi con sicurezza e precisione nello spazio, usando controlli manuali rotazionali e traslazionali, e che usa come propellente azoto allo stato gassoso conservato ad alta pressione in due diverse riserve. L'MMU include anche una macchina fotografica che l'astronauta può adoperare nel corso della sua operazione esterna.
Il cibo
Gli astronauti dello shuttle hanno a disposizione una settantina di alimenti e una ventina di bevande, selezionati in base a criteri di appetibilità, valore nutritivo, comodità di preparazione, conservazione, sicurezza microbiologica. Il menu standard si ripete ogni sette giorni ed è scelto da ogni membro dell'equipaggio alcuni mesi prima della partenza, con l'unica condizione che siano rispettati i parametri indicati dal National Research Council relativamente a introito di vitamine e di minerali e a fabbisogno calorico (2100-2700 calorie al giorno). I cibi, preparati e imballati in porzioni singole sulla Terra, sono precotti o processati in modo da non richiedere refrigerazione (vi sono varie categorie: cibi disidratati, termostabilizzati, a umidità ridotta, irradiati); alcuni sono pronti all'uso, altri devono essere riscaldati o reidratati (ambedue queste operazioni vengono svolte utilizzando la cucina della navicella, composta da un forno e una dispensa dell'acqua). L'acqua destinata alla reidratazione dei cibi è abbondante perché è un sottoprodotto degli impianti di generazione dell'energia. Un menu tipico di un astronauta è composto da: succo di frutta, uova, frutta secca, salsiccia, cioccolato e brioche per la prima colazione; zuppa, sandwich, verdura, frutta e biscotti per il pranzo; antipasto, bistecca, verdura, frutta, budino e cioccolato per la cena.
I pasti vengono serviti su vassoi muniti di nastri adesivi che gli astronauti si fissano alle gambe oppure poggiano su una superficie della navicella. Gli utensili sono quelli convenzionali: cucchiai, forchette, coltelli, più un paio di forbici per aprire i vari contenitori. Dopo il pasto, vassoi e utensili vengono puliti con salviette preinumidite disinfettanti, i contenitori dei cibi posti nel compattatore dei rifiuti.
Nelle stazioni spaziali, dove l'energia è prodotta da pannelli solari, non è possibile disporre, per la reidratazione dei cibi, dell'acqua derivata dai generatori. In compenso vi sono impianti di refrigerazione. I cibi sono quindi diversi da quelli in uso nello shuttle: sono surgelati (entrées, verdura, dessert), refrigerati (frutta, verdura, prodotti caseari) o a temperatura ambiente (termostabilizzati). Al riscaldamento dei cibi è adibito un forno a microonde.
L'igiene
L'igiene è fondamentale a bordo dei veicoli spaziali: in uno spazio confinato e in assenza di gravità, la capacità di moltiplicazione di alcuni microbi cresce moltissimo. Per questo l'area dove gli astronauti consumano i pasti, quella in cui dormono e la toletta devono essere regolarmente pulite e disinfettate. I capi di vestiario usati (i pantaloni vengono cambiati ogni settimana, camicie, biancheria e calze ogni due giorni) vengono sigillati in sacche di plastica sottovuoto. Altre plastiche sigillate sono usate per i rifiuti.
La toletta è simile a quelle in uso sulla Terra. Il sistema di scarico si basa su un getto d'aria. I rifiuti solidi passano in un contenitore sigillato dove vengono processati e conservati (dopo il rientro in parte vengono analizzati in laboratorio). L'aria è filtrata per rimuovere odori e batteri e poi reimmessa nella cabina.
Per lavarsi, in mancanza di docce, vengono usate spugne bagnate con l'acqua erogata da un sistema dispensatore, a una temperatura tra i 18 e i 35 °C. Per impedire che le gocce d'acqua galleggino nella cabina, un getto d'aria le dirige verso un sistema di raccolta delle acque di scarico, che finiscono sigillate in sacche impermeabili. Per radersi gli astronauti dispongono di rasoi di sicurezza o di rasoi a carica, che funzionano come quelli elettrici e contengono un dispositivo di aspirazione per impedire la fuoriuscita dei peli. Per lavarsi i denti, vi sono spazzolini e tubetti di dentifricio convenzionali.
L'attività fisica e il sonno
Gli astronauti devono eseguire un dettagliato programma di esercizi fisici, destinato a controbilanciare i rischi di decondizionamento cardiovascolare, di atrofia muscolare e di demineralizzazione ossea comportati dalla microgravità. Nelle missioni della durata di meno di 14 giorni, sono previste sessioni di esercizi di 15 minuti al giorno, in quelle più lunghe di 30 minuti. A bordo vi sono diversi attrezzi, come cyclette o vogatori; il più usato è una sorta di cilindro in alluminio che viene fissato in un buco nel pavimento ed è munito di cinghie da passare intorno alla vita: l'astronauta deve spingerlo verso l'alto mentre cammina. Il suo corpo è esposto a un getto d'aria, destinato ad asciugare il sudore, che altrimenti rimarrebbe a contatto con la pelle, formando strati sempre più spessi.
Non essendovi gravità, e quindi un alto e un basso, gli astronauti possono dormire comodamente in qualunque posizione rispetto alle pareti. Nello shuttle la zona riservata al sonno si compone di un sistema di cuccette sovrapposte a quattro posti: due astronauti dormono sulla faccia superiore, un altro su quella inferiore della cuccetta in basso (guardando verso il pavimento), il quarto in una cuccetta sistemata trasversalmente a un'estremità delle prime due. Ciascun letto consiste di una tavola imbottita cui è attaccato un sacco a pelo ignifugo. Ogni compartimento è fornito di luci e di tende per la privacy. Se più di quattro membri dell'equipaggio vogliono dormire allo stesso tempo, sacchi a pelo supplementari vengono disposti in verticale, agganciati alle cuccette.