Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La riflessione teorica intorno alla nozione di spazio è una peculiarità del Novecento. Alcuni grandi protagonisti dell’architettura del Novecento hanno mutato radicalmente alcuni assunti tradizionali del fare architettonico. Qui, in particolare, si propongono alcuni esempi da Frank Lloyd Wright, Gerrit Rietveld, Mies van der Rohe, Adolf Loos, Le Corbusier.
Sigfrid Giedion e Bruno Zevi: l’interpretazione filospaziale dell’architettura
Bruno Zevi
Lo spazio interno
Chi si vuole iniziare allo studio dell’architettura deve anzitutto comprendere che una pianta può essere astrattamente bella sulla carta, quattro facciate possono apparire ben studiate per equilibrio dei pieni e dei vuoti, di aggetti e di rientranze, il volume complessivo può anche essere proporzionato, eppure l’edificio può risultare povera architettura. Lo spazio interno, quello spazio che, come vedremo nel prossimo capitolo, non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta, è il protagonista del fatto architettonico. Impossessarsi dello spazio, saperlo “vedere”, costituisce la chiave d’ingresso alla comprensione degli edifici.
B. Zevi, Saper vedere l’architettura, Torino, Einaudi, 1964
L’interpretazione filospaziale, nella storia dell’architettura, ha avuto il suo pioniere in Sigfrid Giedion, autore del noto Space, Time and Architecture (1941), che sulla scorta delle avanguardie artistiche di primo Novecento (cubismo, futurismo, costruttivismo), individua nella quarta dimensione, quella temporale, la peculiarità dell’architettura moderna.
Giedion tenta un possibile approdo teorico alla questione, nella teoria della relatività di Albert Einstein (1905), la quale tuttavia, come ha mostrato Peter Collins, nel suo Changing ideals in modern architecture 1750-1950 (1965), non prevede alcun rapporto con lo spazio artistico o architettonico: essa infatti ragiona in termini di moto, di dinamica, dimostrando come sia impossibile misurare la nostra velocità assoluta attraverso lo spazio: come a dire che la vera natura dello spazio non appare agli osservatori che si muovono in esso.
La teoria della quarta dimensione entra anche in contraddizione con se stessa relativamente al concetto di “multilarità dello spazio architettonico” – del tutto assente in Einstein – per cui un edificio avrebbe dovuto essere in grado di mostrare tutto se stesso in un solo colpo d’occhio (magari se fosse stato trasparente, quando realizzato interamente in vetro). Tutto ciò non avrebbe implicato movimento ma staticità dell’osservatore. Il superamento della tridimensionalità rinascimentale, che prevede l’uomo al centro dello spazio occupato, genererebbe infatti una nuova staticità.
Sulla via tracciata da Giedion e parafrasando Matteo Marangoni, Bruno Zevi (1918-2000) pubblicava nel 1948 il suo Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale dell’architettura, nel quale dichiara che “tutto ciò che non ha spazio interno non è architettura”. Se molte osservazioni sono acute e condivisibili, la sua impostazione non è priva di personalismi e di pregiudizi fondati su un partitismo ebraico che condanna tutto il classico, in quanto espressione artistica di totalitarismi, a partire dai suoi fondamenti (l’architettura romana, ad esempio, sebbene trovi nello spazio il suo carattere fondamentale, viene giudicata negativamente “statica”) per celebrare l’aspetto irrazionale e anticlassico dei movimenti artistici, dall’espressionismo al recente decostruttivismo.
La nozione di spazio
È evidente che la rivendicazione dello spazio come qualità primaria dell’architettura appare un tentativo di elevare l’architettura al rango delle scienze. Un complesso d’inferiorità, quello vissuto dalle arti nei confronti delle scienze – di cui, sia detto per inciso, continuiamo a fare le spese anche nella recente conquista dell’università italiana di comprendere le discipline artistiche nel novero delle scienze, come attestano le titolazioni di alcune facoltà umanistiche: scienze dell’architettura, scienze dei beni culturali. [...] Ma è altresì innegabile che l’idea di spazio, nota ancora il Collins, come qualità primaria della composizione architettonica, si sviluppa solo a partire dal Novecento. Il termine “spazio”, fino al Settecento, non compare in nessun trattato di architettura. L’interesse dei trattatisti antichi si rivolge alla struttura, agli ordini architettonici, ma difficilmente – a parte qualche cenno sulla distribuzione e sull’orientamento dei vani – troviamo osservazioni sulla composizione degli spazi, sul modo di relazionarli e collegarli tra loro. Della scala, ad esempio, nella trattistica rinascimentale non si fa quasi menzione: “Un edificio guadagnerà sia in funzionalità sia soprattutto in leggiadria se in esso non vi sarà bisogno di salire e scendere più del necessario. Giustamente a questo proposito si avverte da alcuni che le scale sono l’elemento perturbatore degli edifici”, affermava Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria (IX, 2). La difficoltà da parte degli architetti rinascimentali ad affrontare il problema (che presuppone una visione unitaria dei vari strati che costituiscono l’organismo spaziale), si evince nei palazzi da loro progettati, nei quali la scala è spesso un elemento secondario, che mette in crisi l’equilibrio statico delle facciate rendendo necessari mascherature e compromessi. La scala acquista una certa importanza nel momento in cui si prevedono cortili interni e quando diviene l’elemento di accesso alle ville di campagna. Ma proprio l’elegantissimo scalone del Palazzo Ducale di Urbino rappresenta l’emblema di questo impasse, dove la dissimetria della “facciata ad ali” è determinata dalla retrostante presenza della scala. La visione organica del problema sarà una conquista del barocco. Negli antichi trattati i rapporti spaziali fra i vari ambienti vengono discussi in termini proporzionali, ma anche qui si tratta di rapporti lineari (a una dimensione), mentre l’architettura si esprime volumetricamente, cioè a tre dimensioni, e i rapporti dimensionali passando a due e poi a tre dimensioni non rimangono costanti, ma saltano completamente.
Lo spazio continuo: Wright, Mies, Le Corbusier
Tra fine Ottocento e primo Novecento è Frank Lloyd Wright a porre l’accento sulla qualità dello spazio architettonico, sulla sua “continuità”, realizzando opere nelle quali lo spazio fluisce liberamente. Forse è l’immagine spiraliforme del Guggenheim (1946-1959) quella che riassume meglio tale concetto, ma già nelle sue Praire House, composte per mezzo di semplici piani, lo spazio si muove senza interruzioni, fondendosi con il paesaggio circostante. La sua concezione spaziale si riflette all’esterno, ponendo il problema della definizione formale e plastica della scatola architettonica. I piani fortemente aggettanti delle sue prime case negano (o meglio nascondono) la continuità angolare dell’involucro esterno e per la stessa ragione gli spigoli dei suoi edifici più tardi, come la sala principale degli uffici amministrativi della Johnson Wax (1936-1939), vengono arrotondati e vetrati.
A quest’ultimo aspetto prestano la loro attenzione gli artisti afferenti al movimento neoplastico olandese De Stijl, come Bart van der Leck, Theo van Doesburg, Gerrit Rietveld, inizialmente gravitanti attorno alla figura di Piet Mondrian. Anch’essi promuovono un’architettura plasticamente concepita per piani, in modo da rompere l’unitarietà della scatola edilizia e suggerire al contempo l’impressione di una composizione dinamica. A ogni piano viene assegnato un colore primario (blu, rosso, giallo) o un non-colore (bianco, nero), come si osserva nell’unica realizzazione-manifesto dell’architettura neoplastica, la Casa Schröder-Schräder di Rietveld a Utrecht (1924). Ma è bene rammentare che se la composizione per piani, adottata da Rietvled, appare per certi versi simile a quella wrightiana, il fine è del tutto antitetico: dove in Wright l’orizzontalità fornita dai piani dell’edificio indica il legame con la terra, in Rietveld l’aspetto fluttuante e mobile della sua architettura deve contrastare “la forza di gravità della natura”.
Alle esperienze neoplastiche si riallacciano le speculazioni fornite sul tema da Mies van der Rohe, nel quale il debito con la pittura di Mondrian, nel progetto non realizzato per una villa in mattoni (1923), è quanto mai evidente; ma è nel Padiglione di Barcelona (1929) che la sua ricerca raggiunge il punto più alto e che la lezione neoplastica è definitivamente assorbita e semplificata secondo il suo sentire. Ai colori neoplastici Mies sostitusce materiali sofisticatissimi, le grandi lastre che coprono lo spazio del padiglione sono sorrette da un reticolo di otto pilastri cruciformi, in modo che l’atmosfera risulti aperta e rarefatta.
Mies non è evidentemente interessato alla continuità spaziale verticale che affascina Wright e che aveva avuto il suo capostipite europeo in Adolf Loos. Questi aveva indicato nel raumplan, un sistema spaziale che consente di fondere, mettendoli in successione, una serie di ambienti di altezza differente. Faticosissimo da gestire dal punto di vista progettuale, il raumplan elimina, in parte, le scale, realizzando il movimento verticale interno per successivi, quasi impercettibili, salti di quota.
La lezione loosiana viene recepita e semplificata da Le Corbusier che, nella sua carriera professionale, dalla Villa Schwob (1916-1917) all’Unité d’Habitation di Marsiglia (1952), perfeziona e sperimenta in numerose varianti lo studio di ambienti a doppia e tripla altezza (Villa La Roche-Jeanneret). A lui dobbiamo inoltre la definizione di “pianta libera”, da intendersi come un tentativo di opporsi allo schematismo distributivo degli interni. Analogamente a Loos, Le Corbusier non concepisce gli esterni dei suoi edifici per piani ma li articola come uno scultore, “per via del levare” (Vasari, 1550), scavando il volume architettonico da sotto e da sopra, e accettando la sfida posta dalla scatola architettonica senza metterne in crisi le giunture angolari; su questa via anche Mies, nella casa Tugendhat a Brno (1930), pare seguirlo. Le sue architetture non si legano al paesaggio ma vi s’impongono, come i templi dell’Acropoli ateniese o le ville palladiane nella campagna vicentina. Visitando e disegnando le rovine antiche, Le Corbusier matura l’idea di percorribilità dell’architettura (la promenade architecturale) ed è probabilmente nella Villa Savoye di Poissy (1928-1930), fuori Parigi, che tale concetto viene compiutamente formulato: l’architetto aveva previsto che si debba raggiungere la casa in macchina lungo un percorso che ne modella la parte inferiore, mentre all’interno l’esperienza spaziale viene definita da una rampa, collocata al centro, che consente l’attraversamento orizzontale e verticale di quasi tutto l’edificio. Forse è questo il motivo per cui Giedion definisce la Villa Savoye, uno dei monumenti del moderno, “una costruzione spazio-tempo”.