SPARSIONE (lat. sparsio)
Con tale voce i Romani denominavano quella fine pioggia o meglio nebbia vaporosa di acqua profumata che si produceva nei teatri, negli anfiteatfi, negli odei e negli altri luoghi ove si davano pubblici spettacoli, a mezzo di tubazioni e di macchinarî adatti a quell'uso (Seneca ret., Controv., praef.; Seneca fil., Epist., 90). Marziale (V, 25) chiama il diffondersi dell'acqua odorosa nimbus. Un tale raffinamento di lusso non faceva parte indispensabile dei giuochi; esso era dovuto in qualche caso alla munificenza di uno degli editori dello spettacolo. Era consuetudine di annunciarlo con un avviso scritto (album) affisso nei luoghi più frequentati della città. Un esempio se ne è avuto a Pompei nella scritta ivi trovata che dice: venatio, athletae, sparsiones, vela erunt, cioè: lo spettacolo si comporrà di una caccia alle fiere, e di un'esibizione di lotta fra atleti; vi sarà un'irrorazione di acqua odorosa e una tela sarà tesa al di sopra degli spettatori per ripararli dal sole. Con la stessa denominazione di sparsio s'indicava il getto di piccoli doni (missilia) che si faceva nelle feste alla folla che vivacemente se li disputava (Stat., Silv., I, 6, 65; Suet., Calig., 18; Domit., 4).