sovrastare (soprastare)
Delle occorrenze dantesche, tutte in posizione intransitiva, due appartengono alla Commedia, due al Convivio, una alle Rime e una alla Vita Nuova. Il senso proprio (" star sopra ", in diretto rapporto con la base etimologica) è quello di Pd XXX 112: la folla delle anime si specchia in Dio, soprastando al lume intorno intorno, " stans supra primum mobile " (Benvenuto); per il Tommaseo il gerundio starebbe per " soprastanti ", avrebbe cioè valore di participio presente.
In If XVIII 111 il soggetto è inanimato: il punto in cui lo scoglio più sovrasta è naturalmente il dosso dell'arco, la sommità del ponte che unisce le due bolge, in cui la roccia " s'innalza ", " va più in alto ". L'uso del verbo è qui assoluto, come in Rime XCIII 3, in cui però il valore non è proprio, ma traslato (" indugiare ", " differire "): io Dante a te... / rispondo brieve... / però che più non posso soprastare [non posso " lasciar passare altro tempo "], / tanto m'ha 'l tuo pensier forte affannato.
Di nuovo " indugiare " in Vn II 10, in cui l'uso non più assoluto fa assumere al verbo il senso di " soffermarsi " su qualcosa; in questo caso soprastare a le passioni vale " soffermarsi a descrivere le passioni ".
Così in Cv III VIII 14 di tanta eccellenza di biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella, D. " indugia " nel descrivere la bellezza di Beatrice. Infine in Cv III XI 10 il valore è forse più pregnante: i falsi filosofi, se qualcuno desse loro quello che acquistare intendono per mezzo della loro dottrina, non sovrastarebbero a lo studio, ossia " non indugerebbero nello studio ", " non persevererebbero ", " non vi si dedicherebbero più ".