Abstract
Vengono svolte riflessioni introduttive all’esame delle molteplici e variegate ipotesi di legittima sospensione della prestazione di lavoro (espressione che viene preferita, per la sua maggiore pertinenza giuridica, a quello di sospensione del rapporto di lavoro), a partire dalle più note quali la malattia e l’infortunio, e la maternità e la paternità. Viene proposta una griglia di lettura comune delle diverse ipotesi, reputata capace di coglierne le identità o similarità strutturali, ma anche di metterne in risalto le differenze di disciplina, di solito connesse al diverso grado di protezione degli interessi sostanziali sottesi.
Il destino della locuzione “sospensione del rapporto di lavoro” è sempre stato, in certo senso, paradossale: tanto utilizzata, come categoria riassuntiva di istituti che trovavano il proprio emblema nella malattia (Malattia del lavoratore) e nella maternità (Lavoratrici madri; Congedi di maternità e di paternità) (in generale, v. Dell’Olio, M., Sospensione del rapporto di lavoro, in Dig. comm., Torino, 1988, XV, Roma, 1993; Santucci, R., La sospensione del rapporto di lavoro: spunti ricostruttivi, in Lav. dir., 1989, 389 ss.; Vaccaro, M.J., La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1983; Del Punta, R., La sospensione del rapporto di lavoro, sub artt. 2110 e 2111, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1992; Zilio Grandi, G., La sospensione del rapporto, in Il lavoro subordinato, Carinci, F., a cura di, in Tratt. Bessone, Torino, 2007, 485 ss.; Vianello, R., La sospensione del rapporto di lavoro, in Tratt. dir. lav. Persiani-Carinci, IV, Contratto di lavoro e organizzazione. Tomo I. Contratto e rapporto di lavoro, a cura di Martone, 1059 ss. Per trattazioni più risalenti, v. Branca, G., La sospensione nelle vicende del rapporto di lavoro, Padova, 1971), quanto intrisa di criticità, nella misura in cui mediante l’impiego di tale categoria si pretendeva di trarre, dall’asserita alienità funzionale degli interessi sottesi ai predetti istituti, rispetto all’impianto causale del rapporto di lavoro, la conseguenza, strutturale, che fosse il rapporto stesso a vivere, in corrispondenza, uno stato di quiescenza: ad essere, insomma, davvero “sospeso”.
Questa posizione, peraltro, ha finito col tempo per apparire insostenibile (il che valga anche come autocritica, in riferimento al titolo della monografia dello scrivente su La sospensione del rapporto di lavoro, in Comm. c.c. Schlesinger, sub artt. 2110 e 2111, Milano, 1992, ove pure, a p. 20, si precisava che l’espressione doveva essere riferita, ellitticamente, non al rapporto come tale, bensì alla prestazione del lavoro), allorché ci si è resi conto (ma ciò ha richiesto un non irrilevante lavorio interpretativo, in specie sulla nozione di retribuzione) che, al di là della non attuazione della prestazione facente carico al lavoratore (ergo, al di là del fatto della sospensione del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato continuava a produrre effetti giuridici di rilievo, i quali includono, nelle ipotesi maggiormente protette dall’ordinamento, la spettanza di un trattamento retributivo e/o previdenziale.
Una tappa fondamentale di questa presa di coscienza è stata la riflessione attorno alla nozione di retribuzione, che è stata svincolata dal requisito della coincidenza, tradizionalmente ritenuta necessaria e assoluta, con il corrispettivo della prestazione del lavoro. Ciò tramite la concettualizzazione delle deroghe al principio della corrispettività tra lavoro e retribuzione, un tema sul quale è stata seminale la riflessione di Tiziano Treu (su Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968). In una prospettiva parzialmente diversa, di tendenziale superamento della corrispettività in nome dei contenuti personali intrisi nel rapporto di lavoro, si v. peraltro Lorenzo Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991 (per una ricostruzione critica del dibattito in materia, rimando a Del Punta, R., op. cit., 397 ss., e più di recente a Calafà, L., Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, 123 ss.).
Il denominatore comune degli istituti in considerazione, da tempo non più circoscritti alle fattispecie legali primigenie degli artt. 2110 e 2111 c.c., è stato quindi ravvisato nell’effetto modificativo del normale andamento del rapporto di lavoro, in virtù della tutela di interessi legati a scelte o a condizioni personali del lavoratore (restano pertanto escluse dalla disamina, come da tradizione, le cd. sospensioni “nell’interesse dell’impresa”, a cominciare da quelle autorizzate dall’intervento della cassa integrazione guadagni, di massima connotati, in qualche misura, dal crisma costituzionale, e capaci, come tali, di imporsi alle esigenze dell’imprenditore, sino al punto di addossargli una responsabilità sociale (o, secondo l’approccio suggerito da Pietro Ichino, un onere assicurativo) in ordine al finanziamento di quelle situazioni.
Ciò ha condotto taluni autori, per l’appunto, a varcare il guado, sino al punto di ritenere inutile il ricorso alla nozione di “sospensione” e di configurare gli eventi in questione come momenti di attuazione del programma contrattuale, quale scolpito dal sinallagma genetico legalmente prefigurato (v., ad es., Cinelli, M., I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro, Milano, 1984, 203 ss. Ma v. già, pur con implicazioni in parte diverse, ad es. nel senso del superamento della tradizionale distinzione tra “sospensioni” e “pause” del lavoro, in vista di una personale classificazione, Ichino, P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, I, Milano, 1984, 73 ss.; Id., con una sostanziale conferma delle posizioni già espresse, ma con un ricorso molto netto ed onnicomprensivo – tanto da includervi anche lo sciopero – alla categoria della “sospensione della prestazione di lavoro”, v. Il contratto di lavoro, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, III, Milano, 2003, 1 ss.).
In tale visione v’è, al fondo, un’evidenza quasi tautologica, ma forse anche un’opzione, non del tutto accettabile, di equiparazione fra gli interessi che insistono nel cuore della struttura causale del rapporto di lavoro subordinato, e quelli che sono alla base degli istituti sospensivi. Si è suggerito, invece, che è più realistico e lineare, dal punto di vista ricostruttivo, continuare a concepire le varie sospensioni per quello che esteriormente appaiono e sono percepite da entrambe le parti, ossia come vicende irriducibilmente e radicalmente personali, che non allargano l’ambito del contratto, ma che piuttosto (e pur dall’interno) si impongono ad esso (v. Del Punta, R., op. cit., 397 ss.; in tale ordine di idee, alla luce di un riesame critico del dibattito sul tema, v. anche Calafà, L., op. cit., 123-174).
Ciò non significa certo espungere gli istituti in discorso dal sinallagma genetico, bensì coltivare un’immagine della causa del contratto di lavoro, che pur a partire dall’integrazione ormai acquisita delle fattispecie sospensive, eviti di porre sullo stesso piano quello che permane essenziale per l’attuazione del rapporto e quello che invece, ma significativamente nel rispetto di precise condizioni di accesso e rigidi limiti temporali, è semplicemente tollerato da esso, in misura direttamente proporzionale alla meritevolezza dell’interesse sotteso.
Tra l’altro, questa visione, che postula una permanente permeabilità del rapporto di lavoro subordinato (Lavoro subordinato) al riconoscimento di interessi “altri”, fatta salva la modulazione dei presupposti e dei limiti di tale apertura, sembra maggiormente in sintonia con l’evoluzione nel tempo della tematica in esame, che, soprattutto a partire dalla l. 8.3.2000, n. 53, sui congedi parentali (Congedi di maternità e di paternità), familiari e formativi, ha messo l’ordinamento, per la prima volta, in una pur non ancora compiuta posizione di dialogo con la prospettiva della conciliazione fra tempi di lavoro, di formazione e di vita (v., in generale, Calafà, L., op. cit., 9 ss. e 235 ss.).
E, al di là dei frutti ancora incerti (per ragioni che non possono essere affrontate qui) di tale riorganizzazione culturale, resta il fatto che negli istituti sospensivi di più recente generazione sembra essersi verificato un tendenziale scivolamento dalla necessità alla libertà.
Infatti, se nei “vecchi” istituti, come malattia e servizio militare, dominava la categoria della necessità, come dimostrato dal ricorso (per quanto criticato da taluni) alla categoria dell’impossibilità della prestazione, e se nella stessa disciplina di tutela delle lavoratrici madri (Lavoratrici madri), pur volta ad assecondare la libera decisione della maternità, il sostegno normativo restava limitato allo stretto essenziale e soggettivamente circoscritto alla posizione della madre (riportandola di fatto, in molti casi, alla “necessità” di una scelta tra maternità e lavoro), la cifra dominante dei “nuovi” istituti (a cominciare dalla rivisitazione della disciplina del genitore lavoratore, sì da ricomprendervi anche il padre) sembra (o aspira ad) essere quella della valorizzazione della libertà di scelta del lavoratore (ad es., circa l’articolazione dell’alternanza fra istruzione-formazione e lavoro, quale si evince anche da istituti pur apparentemente lontani dal tema in trattazione, come l’apprendistato (Apprendistato) per la qualifica e il diploma professionale), tanto da configurare sospensioni meramente potestative (v. Calafà, L., op. cit., 187 ss.).
Persino nella malattia l’accento non cade più sull’impossibilità di prestare, bensì, in positivo, sulla tutela della salute del lavoratore; e giacché a propria volta, per salute, come si vedrà fra poco, non si intende semplicemente l’assenza di malattie (un indizio significativo essendo rappresentato, ad es., dall’apertura della nozione di malattia alla rilevanza di esigenze terapeutiche), sono da prevedere ulteriori evoluzioni, che arricchiranno la fotografia di un rapporto men che mai chiuso in un recinto, bensì contemplante (anche sull’onda di una flessibilità (Flessibilità [dir. lav.]) (oramai a tutto tondo) crescenti livelli di interazione con altri valori costituzionalmente protetti.
Se, pertanto, è di “sospensione della prestazione di lavoro”, o più sinteticamente di “sospensione del lavoro”, che conviene più propriamente parlare – sebbene con la consapevolezza di adottare, degli eventi in esame, un’accezione solamente in negativo, piuttosto che una in positivo agganciata alla natura degli interessi cui la sospensione presiede –, a partire da tale accezione si apre il ventaglio, invero significativo, della disciplina delle varie fattispecie sospensive.
Ed è a questo secondo livello, piuttosto che a quello del comune denominatore strutturale della sospensione, che entrano decisivamente in gioco gli interessi alla cui protezione le sospensioni sono finalizzate, ed è dal diverso grado di meritevolezza di quegli interessi secondo l’ordinamento che dipende il diverso trattamento riservato alle varie fattispecie, ad es. in punto di spettanza o no della retribuzione durante la sospensione e di rapporto col regime del licenziamento.
Si deve precisare, peraltro, che, quand’anche un istituto sia previsto risolutamente dalla legge, non è detto che la sua disciplina si ritrovi tutta, o anche in maggior parte, nella legge stessa: è il tipico caso della malattia e dell’infortunio, le cui ricadute sul rapporto di lavoro sono ampiamente demandate, attraverso i rinvii di cui all’art. 2110 c.c., alla contrattazione collettiva. Quasi interamente di fonte legale sono, invece, la disciplina della maternità e della paternità, e fondamentalmente anche quelle degli istituti sospensivi minori.
In ogni caso, a prescindere da quale sia la fonte maggiormente rilevante, tanto le similarità strutturali quanto le differenze esistenti tra i vari istituti si fanno apprezzare mediante l’adozione di una griglia concettuale trasversale, che è poi, in ultima analisi, proprio quella che giustifica il ricorso alla categoria unificante della “sospensione della prestazione di lavoro”.
Sembra, così, che le sospensioni si prestino ad essere lette ed analizzate tramite le seguenti categorie, ciascuna delle quali idonea, a propria volta, ad ospitare diverse varianti:
a) definizione dell’evento sospensivo;
b) modalità di produzione dell’effetto sospensivo;
c) intensità della protezione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto;
d) estensione temporale di tale protezione;
e) riconoscimento o no della retribuzione e/o di un’indennità, pur in mancanza della prestazione lavorativa corrispettiva, e/o di una prestazione previdenziale integrativa o sostitutiva, nonché, ai vari fini per cui essa può rilevare, dell’anzianità di servizio.
Per quanto riguarda la definizione dell’evento sospensivo, si va da situazioni ove essa è pressoché scontata (come nel caso della maternità o della paternità naturali: ma ove si estenda il raggio alla maternità e paternità non naturali l’identificazione dell’evento rilevante è già meno automatica, e richiede precise scelte definitorie da parte dell’ordinamento), ad altre in cui tale definizione è altamente problematica, come principalmente nel caso della malattia, in quanto ancorata all’elusivo concetto di “incapacità al lavoro”, o per meglio dire alla sussistenza di uno stato di salute che rende sconsigliabile, prima che assolutamente impossibile, prestare la normale attività lavorativa.
In altri casi ancora, la definizione adottata è talmente aperta da affidare al soggetto titolare del diritto di sospensione, di fatto, la specificazione del contenuto della causale sospensiva: è tipicamente il caso del permesso per espletamento del mandato di rappresentante sindacale, ex art. 23, l. 20.5.1970, n. 300.
Circa le modalità di produzione dell’effetto sospensivo, la principale alternativa è tra i casi nei quali l’effetto in discorso è ricondotto dall’ordinamento ad una mera attestazione dell’evento tutelato nella sua oggettività (con i connessi problemi di accertamento e in particolare di controllo, in particolare nella malattia ma non solo, che si portano altresì dietro l’ulteriore problema di quando si possa parlare di abuso della sospensione: ad es., non si può ragionevolmente chiedere al titolare di un permesso per assistenza a un congiunto disabile di non uscire dalla casa dell’assistito, durante il periodo di assistenza, neppure per sbrigare delle necessarie incombenze o al limite per andare a prendere un caffè, di guisa che il sorprenderlo altrove non implica necessariamente che vi sia stato abuso), e quelli nei quali si richiede, al fine, l’esercizio di un diritto potestativo condizionato alla sussistenza (ed eventualmente alla documentazione) del presupposto, e talvolta, sebbene raramente, anche all’insussistenza di esigenze aziendali ostative.
Un passaggio qualificante, nonché direttamente rivelatore del diverso grado di protezione degli interessi sottesi a ciascuna situazione, è quello del rapporto tra l’evento sospensivo e il regime del licenziamento.
V’è, invero, un primo livello di protezione che è comune, per definizione, a tutte le ipotesi sospensive, in quanto inerente alla (scontata) giustificazione dell’assenza dal lavoro: non v’è dubbio, infatti, che nella misura in cui la sospensione in discorso è caratterizzata dalla non prestazione del lavoro, e quindi dall’assenza del lavoratore dal servizio, sarebbe clamorosamente contraddittorio con la scelta dell’ordinamento di consentire tale assenza (altrimenti non si darebbe sospensione) il fatto di considerare inadempiente, e dunque sanzionabile per assenza ingiustificata, il lavoratore in sospensione.
Ne discende pianamente che il diritto alla conservazione del posto, pur essendo il lavoratore assente dal lavoro per una ragione che l’ordinamento contempla tra le cause di sospensione, rappresenta un connotato imprescindibile della fattispecie sospensiva.
Dopo di che, la questione cruciale resta quella di modulare temporalmente il diritto alla conservazione del posto. Se nella maternità ed eventualmente nella paternità tale questione è agevolmente risolta dalla legge, che fissa in modo preciso la durata del congedo o dei congedi, nella malattia/infortunio essa è rimandata alla contrattazione collettiva, che vi ha atteso, non senza difficoltà, mediante la previsione dei cd. termini di comporto (che una nota giurisprudenza ha richiesto che siano congegnati in modo da “catturare” tanto la malattia continuativa quanto il succedersi di più malattie discontinue).
Di contro, non è affatto scontato che la protezione del lavoratore in sospensione venga estesa sino a istituire una posizione di franchigia del lavoratore medesimo dall’esercizio del diritto di recesso della parte datoriale.
Non è affatto scontato, insomma, che il lavoratore in sospensione, non soltanto non possa essere licenziato a causa dell’assenza dal lavoro, ma non possa essere licenziato neppure per altri motivi durante l’assenza dal lavoro. Allorquando ciò accade, è perché l’ordinamento ritiene opportuno o necessario che il lavoratore non sia soggetto, in presenza della condizione particolare di bisogno che ha dato luogo alla sospensione, all’incerto rappresentato dalla perdita del posto di lavoro.
Un divieto del genere è previsto sia nel caso di malattia/infortunio che in quello della maternità. Si coglie agevolmente, tuttavia, un’ulteriore differenza concernente il valore attribuito, nei due istituti, alla permanenza del posto di lavoro.
Mentre, se il lavoratore malato o infortunato è licenziato in pendenza di comporto, la conseguenza, secondo un risalente indirizzo giurisprudenziale, è quella della mera inefficacia temporanea del licenziamento sino al momento della cessazione della malattia o dello spirare del periodo di comporto (Cass., 10.10.2013, n. 23063), il licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo protetto (tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino) è colpito più duramente, con la sanzione della nullità (art. 54, co. 5, d.lgs. n. 151/2001; ma tale soluzione era stata anticipata da una pronuncia della Corte costituzionale, che aveva enfatizzato la necessità che la lavoratrice non dovesse patire alcun timore di perdere il posto durante la delicata fase della maternità, fatte salve eccezioni tra cui principalmente quella della giusta causa per colpa grave).
Viene in risalto, altresì, un’ulteriore differenza tra malattia e maternità: nella prima il divieto di licenziamento coincide con il periodo di assenza, durante il quale opera la garanzia della conservazione del posto; nella seconda, invece, in ragione del naturale decorso dell’evento, e preoccupandosi la normativa di esercitare il massimo effetto dissuasivo nei confronti dell’eventuale tentazione datoriale di licenziare la lavoratrice, l’arco temporale del divieto di licenziamento è più esteso rispetto al periodo di congedo, anzitutto obbligatorio e in seconda battuta facoltativo, dal lavoro. Fermo che, inoltre, la tentazione di cui sopra può essere perseguita anche al di là del periodo protetto, mediante l’utilizzo della normativa antidiscriminatoria.
In altri casi, visibilmente caratterizzati da un minore livello di protezione, nessun divieto di licenziamento è invece previsto: ad es., un lavoratore che fruisce di un congedo formativo ex artt. 5 e 6, l. n. 53/2000, potrà essere licenziato per giustificato motivo oggettivo, e così anche un lavoratore in aspettativa per lo svolgimento di funzioni pubbliche elettive.
Infine, come già accennato, la cartina di tornasole più evidente del livello di protezione garantito dall’ordinamento ad una situazione sospensiva è rappresentato dal fatto che sia o no riconosciuto, durante il corso di essa, il diritto del lavoratore in sospensione a percepire la retribuzione e/o un’indennità, oppure invece che sia lasciato operare, secondo la sua normale logica, il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione.
La parte del leone la fanno chiaramente, al riguardo, gli istituti della malattia/infortunio e della maternità/paternità, nei quali è prevista anche l’erogazione di un trattamento economico di natura previdenziale, che riduce, in corrispondenza, la misura dell’onere retributivo a carico del datore di lavoro.
Ma non è da meno, ad es., l’istituto del permesso sindacale ex art. 23 citato, nel quale la retribuzione è dovuta, in ragione della scelta “scandalosa” operata dal legislatore statutario, per lo svolgimento di un’attività diretta, almeno in potenza, contro lo stesso soggetto che è tenuto a finanziarla.
In altri casi, invece, come in quelli dei congedi formativi o di alcune aspettative legate a scelte spiccatamente personali, la fruizione dell’istituto non viene posta a carico del datore di lavoro.
Nell’insieme, pare di poter dire che lo schema regola/eccezione, classicamente utilizzato per discernere le situazioni nelle quali la retribuzione non è dovuta in mancanza della prestazione di lavoro (anche se resa legittima dalla sussistenza di un diritto di sospensione) da quelle in cui la retribuzione spetta nonostante la predetta mancanza, conserva ancora validità.
Ne consegue che il riconoscimento della retribuzione richiede pur sempre la presenza di una norma che espressamente lo contempli, continuando altrimenti ad operare il tradizionale principio di corrispettività.
Una cernita delle ipotesi normative di sospensione della prestazione di lavoro è ragionevolmente possibile soltanto con riferimento alle sospensioni di fonte legale. Senza dimenticare, peraltro, che sono numerose, e significative, anche gli istituti sospensivi di fonte contrattuale collettiva, i quali si aggiungono a quelli legali, talvolta sviluppando ulteriormente la disciplina di questi ultimi.
Un classico istituto sospensivo di fonte legale è, ad es., il congedo matrimoniale retribuito, di massima previsto da tutti i CCNL. Per quanto riguarda, invece, istituti contrattuali che si innestano su quelli legali, basti pensare all’aspettativa (Aspettativa del lavoratore) non retribuita, che può essere richiesta dal lavoratore malato, per un periodo, al fine di evitare il licenziamento dopo la scadenza del periodo di comporto.
Ciò premesso, gli istituti sospensivi di fonte legale possono essere classificati secondo vari possibili criteri. Segnatamente, sotto il profilo degli interessi protetti, possono essere distinti istituti finalizzati:
a) alla tutela della salute ampiamente intesa, quali: malattia e infortunio (art. 2110 c.c.; art. 5, l. 11.11.1983, n. 638); congedi per cure per invalidi (d.lgs. 18.7.2011, n. 119, già l. 30.3.1971, n. 118); congedo per donne vittime di violenza di genere (art. 24, d.lgs. 15.6.2015, n. 80);
b) alla realizzazione della maternità e della paternità, naturali e non (d.lgs. n. 151/2001);
c) a esigenze di assistenza a congiunti bisognosi: permessi e congedi per congiunti con grave handicap; congedi per eventi e cause particolari (art. 4, l. n. 53/2000);
d) allo svolgimento del diritto di libertà sindacale, cioè aspettative e permessi per attività sindacale (artt. 23, 24, 30-32, l. n. 300/1970);
e) al perseguimento di finalità personali, collegate a motivi di studio (art. 10, l. n. 300/1970), formativi (artt. 5 e 6, l. n. 53/2000), di ricerca (aspettativa del lavoratore pubblico per partecipazione ad un dottorato di ricerca (l. 13.8.1984, n. 476, modif. con art. 5, d.lgs. n. 119/2011);
f) allo svolgimento di funzioni pubbliche elettive (art. 31, l. n. 300/1970; artt. 79 e 80, d.lgs. 18.8.2000, n. 267);
g) alla partecipazione alle operazioni elettorali (permessi per motivi elettorali, una volta detti “ferie elettorali”);
h) alla solidarietà sociale: riposi giornalieri per i donatori di sangue e permessi per i donatori di midollo osseo; aspettativa per svolgere attività di volontariato nei paesi in via di sviluppo;
i) all’espletamento del dovere militare in caso di richiamo alle armi.
Come si vede, si tratta di un variegato coacervo di istituti, ovviamente caratterizzati da profonde differenze interne, proprio perché essi debbono assolvere a funzioni strettamente inerenti allo specifico interesse tutelato.
Ciò nonostante, in essi sono pure riconoscibili tratti strutturali comuni, o comunque omogenei, che l’adozione delle suggerite chiavi di lettura permette di cogliere in modo sufficientemente nitido.
In ogni caso, dal punto di vista funzionale gli istituti in discorso denotano una crescente apertura del rapporto di lavoro subordinato alla tutela di qualificati interessi del lavoratore, taluni dei quali tra l’altro capaci di riverberarsi in modo positivo sullo stesso funzionamento del rapporto di lavoro (si pensi ad es. alla scelta, pur poco praticata a motivo della perdita economica che ne discende, di fruire di un congedo formativo).
Così come utile in definitiva allo stesso rapporto, oltre che primariamente ai soggetti interessati, è il fatto che il lavoratore sia messo in grado di conciliare i propri doveri lavorativi con il perseguimento di scelte personali che il lavoratore stesso reputi essenziali per il soddisfacimento delle proprie aspirazioni di vita e quindi per la realizzazione – o, potrebbe dirsi evocando l’art. 3, co. 2, Cost., il libero sviluppo – della propria personalità.
A questo, e a nulla di meno, sono finalizzati gli istituti sospensivi, che dunque rappresentano un settore del diritto del lavoro del quale sarebbe sbagliato sottovalutare l’importanza, e la modernità.
Artt. 2110-2111 c.c.; artt. 23-24 e 30-32, l. 20.5.1970, n. 300; art. 4-6, l. 8.3.2000, n. 53; d.lgs. 26.3.2001, n. 151; art. 24, d.lgs. 15.6.2015, n. 80.
Calafà, L., Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004; Dell’Olio, M., Sospensione del rapporto di lavoro, in Dig. comm., Torino, 1988, XV, 2 ss.; Del Punta, R., La sospensione del rapporto di lavoro, sub artt. 2110 e 2111, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1992; Pandolfo, A., La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991; Rusciano, M., Sospensione del rapporto di lavoro, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993; Zilio Grandi, G., La sospensione del rapporto, in Il lavoro subordinato, Carinci, F., a cura di, in Tratt. Bessone, Torino, 2007, 485 ss.; Vaccaro, M.J., La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1983.