Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Søren Kierkegaard è, insieme a Schopenhauer e a Nietzsche, uno dei più significativi avversari del razionalismo hegeliano. In polemica con Hegel, Kierkegaard pone la singolarità dell’esistenza umana al centro della propria riflessione filosofica e teologica. La sua opera, rimasta pressoché ignorata fino alla fine dell’Ottocento, acquisterà un ruolo di enorme rilievo per la filosofia del Novecento, in particolare per l’esistenzialismo.
Una vita tormentata
Sebbene la sua biografia sia povera di avvenimenti esterni, Søren Kierkegaard vive la propria esistenza con straordinaria intensità, come testimoniano le pagine del suo Diario, dove quotidianamente egli chiosa tormentosamente la propria esperienza, in un eccezionale documento di riflessione filosofica.
Nato a Copenhagen nel 1813 e orfano di madre dalla più tenera età, Kierkegaard viene educato dall’anziano padre in un clima di austera religiosità pietista. Fin dagli anni giovanili soffre di crisi malinconiche, che lo accompagneranno fino alla fine dei suoi giorni. Nei Diari Kierkegaard parla spesso di un “pungolo nelle carni” che è condannato a portare, senza che l’origine di questa afflizione venga mai resa esplicita. È parimenti oscuro il riferimento al “terribile terremoto” che lo colpisce a un certo punto della sua vita, inducendolo a cambiare il proprio atteggiamento nei confronti del mondo a seguito di una sconvolgente rivelazione circa la propria famiglia. Infine Kierkegaard non sa fornire una vera spiegazione circa i motivi che, nel 1841, lo portano a troncare il fidanzamento (durato un anno) con la giovanissima Regine Olsen. Tutti questi episodi, oltre ad avere un effetto paralizzante sulla sua vita privata, hanno una profonda risonanza negli scritti, dove è sempre avvertibile una dolente nota autobiografica. Negli Stadi nel cammino della vita egli si definisce come “una cavia d’esperimento per l’esistenza” in quanto per tutta la vita è riuscito a mantenersi al “punto zero” dell’indecisione permanente.
La storia professionale è altrettanto tormentata di quella personale: studente di teologia a Copenhagen per volontà del padre, inizialmente abbandona gli studi universitari optando per una vita dissoluta. Ripresi gli studi alla morte del padre, si avvicina alla filosofia di Schleiermacher, Hegel e Marheineke un teologo hegeliano, per poi prendere le distanze dall’ortodossia teologica dell’epoca. Nel 1840 si laurea con una tesi Sul concetto di ironia con particolare riguardo a Socrate, pubblicata l’anno successivo. Tra il 1841 e il 1842 si reca a Berlino per seguire le lezioni del tardo Schelling, ma all’iniziale entusiasmo seguono delusione e scherno. Di ritorno a Copenhagen, potendosi mantenere grazie al piccolo capitale ereditato dal padre, decide di non intraprendere la carriera di pastore alla quale pure sarebbe abilitato; in questi anni Kierkegaard comincia a pubblicare i suoi scritti principali, per lo più sotto pseudonimo: Victor Eremita in Aut-Aut, Johannes de Silentio in Timore e Tremore, Constantin Constantius ne La ripetizione, Hilarius il legatore negli Stadi nel cammino della vita, Johannes Climacus nelle Briciole di filosofia e nella Postilla conclusiva non scientifica , infine Anticlimacus ne La malattia mortale e nella Scuola di cristianesimo. L’uso degli pseudonimi serve a segnalare l’irriducibile distanza che lo separa dai contenuti dei propri scritti e, nel delineare le diverse possibilità di vita che sono offerte all’uomo, non dover abbracciare personalmente alcuno dei modelli proposti. Non è un caso che le uniche opere firmate da Kierkegaard con il suo vero nome siano quelle di argomento strettamente teologico, come i Discorsi edificanti: la religione, nel segno di un cristianesimo radicale, è infatti l’unica scelta di vita che secondo Kierkegaard possa sedare l’inquietudine umana.
Gli ultimi anni dell’esistenza di Kierkegaard sono segnati da due polemiche: nel 1846 egli è fatto oggetto di una serie di attacchi denigratori da parte del giornale umoristico “Il corsaro”, che lo dileggia grossolanamente, mentre gli anni Cinquanta lo vedono impegnato in una battaglia personale contro la Chiesa luterana danese (in particolare contro il vescovo Martensen).
Proprio per combattere la Chiesa luterana, le cui teoria e pratica ritene un’autentica negazione pratica dell’insegnamento del cristianesimo, Kierkegaard fonda nel 1855 il periodico “Øjeblikket” (Istante), di cui è editore nonché unico redattore. Nel novembre dello stesso anno viene colto da un malore per strada e, pochi giorni dopo, muore al Frederiks Hospital rifiutando l’estrema unzione.
Søren Aabye Kierkegaard
Non ho voglia di scrivere, ciò che ho scritto, e non ho voglia neanche di cancellarlo
Diario
Io non ho voglia di niente, non amo di camminare - ciò mi stanca; non ho voglia di sdraiarmi: giacché, o dovrei restare sdraiato a lungo, e non amo ciò, o dovrei alzarmi subito di nuovo, e neanche di ciò ho voglia; io non amo di cavalcare - questa è una fatica troppo forte in rapporto alla mia apatia; io amo soltanto di viaggiare: scosso mollemente e uniformemente, di lasciarmi scivolare dinanzi una moltitudine di cose, di soffermarmi a ogni angolo grazioso, semplicemente per sentire la mia fiacchezza; le mie idee e i miei disegni sono altrettanto sterili come gli ardori di un castrato; invano cerco qualche cosa che mi possa ravvivare; neanche la lingua midollosa del Medioevo è in grado di annullare il vuoto che domina in me; io sento ora in verità il significato dell’espressione sulle parole di Cristo, che esse sono spirito e vita, - in breve: io non ho voglia neanche di scrivere, ciò che ho scritto, e non ho voglia neanche di cancellarlo.
in F. Lombardi, Søren Kierkegaard, Firenze, Sansoni, 1967
Søren Aabye Kierkegaard
Sulla scelta
Aut-aut
Se un uomo potesse mantenersi sempre sul culmine dell’attimo della scelta, se potesse cessare di essere un uomo, se nel suo essere più profondo fosse solo un aereo pensiero, se la personalità non avesse altra importanza che quella di essere un nanetto che prende sì parte ai movimenti, ma rimane sempre lo stesso, se fosse così, sarebbe una stoltezza dire che per un uomo può essere troppo tardi per scegliere, perché, nel senso più profondo, non si potrebbe parlare di una scelta. La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; colla scelta essa sprofonda nella cosa scelta, e quando non sceglie, appassisce in consunzione. Per un attimo è o può parere, che si scelga tra possibilità estranee a chi sceglie, colle quali egli non sta in nessun rapporto e verso le quali si può mantenere in istato di indifferenza. Questo è il momento della riflessione. Ma, esso non è affatto come l’attimo platonico; e men che mai nel senso astratto nel quale tu lo vuoi fissare; e quanto più tu lo fissi tanto meno è. Ciò che deve essere scelto sta nel più profondo rapporto con chi sceglie, e quando si parla di scelta che riguardi una questione di vita, l’individuo in quel medesimo tempo deve vivere, e ne segue che è facile, quanto più rimandi la scelta, di alterarla, nonostante che continui a riflettere e riflettere, e con ciò creda di tenere i contrasti della scelta ben distinti gli uni dagli altri. Quando si considera l’aut-aut della vita in questo modo, non è facile che si sia indotti a scherzare con esso. Si vede allora che l’impulso interiore della personalità non ha tempo per gli esperimenti spirituali. Esso corre costantemente in avanti e pone ora in un modo ora nell’altro i termini della scelta, sì che la scelta nell’attimo seguente diventa più difficile; poiché quello che è stato supposto deve essere richiamato. Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire, bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza colla solita velocità, e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non l’ha fatto, il che si può anche esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso.
S.A. Kierkegaard, Aut-aut, a cura di R. Cantoni, Milano, Mondadori, 1956
La critica dell’idealismo
La formazione che Kierkegaard riceve dall’istruzione universitaria è di stampo nettamente hegeliano, ma pur riconoscendone la grandezza, egli dedica la propria opera al tentativo di smantellare l’edificio speculativo dell’idealismo. Hegel, e l’idealismo in genere, pretendono di ridurre l’uomo a un genere animale, per poi andare alla ricerca delle leggi universali che ne regolino il pensiero e la condotta. Rifiutando la riflessione “oggettiva” rivendicata dalla filosofia hegeliana, Kierkegaard propone una riflessione “soggettiva”, non egologica, che riconosca la centralità del singolo, dell’individuo concretamente esistente. Siccome ogni pensiero non può che essere prodotto da un uomo particolare, l’esistenza (concreta) occupa un dominio che non si può ridurre a quello della logica (astratta). In altre parole, “la verità è una verità solo quando è una verità per me” (Diari), e dunque non è possibile raggiungere una conoscenza oggettiva e assoluta della realtà che comunque non avrebbe alcun significato autentico e univoco, restando il singolo abbandonato a se stesso nella scelta se abbracciarla o meno.
L’esistenza possiede, secondo Kierkegaard, alcune proprietà fondamentali: in primo luogo, la sua natura dinamica. Nella Postilla Kierkegaard afferma a tale proposito che l’esistenza “non può essere pensata senza movimento”: è assurdo volere imbrigliare la realtà in schemi logici fissi poiché essa si trasforma continuamente, senza che il suo divenire possa essere ridotto ad alcuna legge prevedibile a priori. Una seconda caratteristica dell’esistenza è perciò il suo carattere contingente, giacché “il divenire non è mai necessario” (Briciole di filosofia), ma rientra nella sfera della possibilità. Infine Kierkegaard insiste sulla natura ateoretica dell’esistenza: anche quando si limita a pensare, l’individuo non procede per astratte deduzioni e dimostrazioni, ma è sempre mosso dal perseguire un obiettivo, un “interesse”. Ne deriva che, se vuole rimanere fedele all’esistenza, la filosofia deve abbandonare il terreno ideale della gnoseologia, in favore di quello più pratico dell’etica, che vede l’esistenza come un “impegno all’azione” (Postilla).
Søren Aabye Kierkegaard
Su Hegel
Diario
Quante volte non ho chiarito che Hegel fa in fondo dell’uomo (...) un genere animale fornito di ragione. Giacché in un genere animale “il singolo” non è mai superiore al genere. Ma il genere umano ha la proprietà, precisamente perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che “il singolo” è più alto del “genere” (...). Questo è pure il Cristianesimo. Ed è precisamente qui che si deve dare battaglia.
Non mi è possibile di trattenere il riso se penso al concetto che Hegel credeva di presentare del Cristianesimo, che è in verità qualche cosa di molto poso concepibile. E la verità è e rimane quella che ho sempre detta: che Hegel era un professore di filosofia, non un pensatore; e che egli doveva essere a un tempo una personalità abbastanza insignificante, povera di impressioni personali - ma anche uno straordinario professore, questo non lo metto in dubbio.
in F. Lombardi, Søren Kierkegaard, Firenze, Sansoni, 1967
Aut-Aut, la vita estetica e quella etica
La prima opera di grande rilievo pubblicata da Kierkegaard è Aut-Aut, una raccolta di saggi (tra cui un commento al Don Giovanni di Mozart e il Diario del seduttore) in cui vengono definiti i due stadi fondamentali dell’esistenza: la vita estetica e la vita etica. Tra i due “stadi” non vige alcuna continuità o sviluppo dialettico, in quanto essi si stagliano di fronte all’individuo nella loro lacerante incompatibilità. L’uomo – che secondo Kierkegaard è destinato in partenza a convivere con un’inafferrabile “coscienza del peccato” e con l’angoscia che ne deriva – è chiamato puramente a scegliere.
Nella scelta estetica l’uomo si rifugia nel godimento dell’istante, ovvero nella bellezza dell’effimero, per inseguire uno stato di perenne ebbrezza intellettuale capace di stordirne l’essenziale stato di disperazione. L’uomo estetico descritto da Kierkegaard (di cui Giovanni, il protagonista del Diario del seduttore, è l’esempio paradigmatico) non è un libertino qualunque, ma un raffinato edonista che alla facile avventura preferisce la conquista lenta e minuziosamente calcolata. Tuttavia, nell’istante in cui la sua strategia erotica dà i suoi frutti, il seduttore perde ogni interesse per l’oggetto della sua conquista, abbandonando la vittima al proprio smarrimento. Alla lunga tale spasmodica ricerca del piacere genera nell’uomo estetico un senso di noia, di oppressione e di estenuazione. Sicché inevitabilmente lo sbocco della scelta estetica sarà proprio quella disperazione che l’esteta disperatamente fugge: privo di un centro interiore, egli ha disperso il proprio io in mille esperienze e si sente “prigioniero di cose che non controlla”.
Tale disperazione può tuttavia scuoterlo dalla propria connaturata indifferenza mettendolo di fronte alla scelta e costituendo la premessa per saltare in un diverso stadio esistenziale: quello etico. La vita etica si fonda, secondo Kierkegaard, nella riaffermazione di sé mediante l’accettazione di un nuovo impegno esistenziale. Prototipo della vita etica è il marito che, grazie al matrimonio e al lavoro, si adegua responsabilmente a un modello esistenziale socialmente accettato e lo riconosce come proprio: un’adesione alla morale comune che non è esteriore e meccanica, ma determinata da un intimo convincimento personale che, prima che al coniuge, impone una nuova fedeltà a se stesso. Mentre l’esteta vive solo per il e nel presente, l’uomo etico, che agisce in vista di traguardi sociali, recupera la dimensione del passato e si proietta nel futuro, sicché su di lui grava tutto il peso della storia. La conseguenza è che l’uomo etico di Kierkegaard non può sottrarsi alla consapevolezza dei propri errori e al ricordo dei momenti dolorosi della sua passata esistenza. Presto egli avvertirà pertanto che la vita scelta non lo allevia dal senso di colpa che opprime l’umanità intera. L’esito naturale della scelta etica è perciò il pentimento che, nuovamente, sfocia nell’angoscia e nella disperazione.
Il Concetto dell’angoscia e la disperazione come malattia mortale
Diversamente dalla paura che, essendo rapportabile a una particolare realtà esterna, viene allontanata quando ne siano rimosse le cause, l’angoscia (che per Kierkegaard è strettamente collegata col senso del peccato) non ha un oggetto preciso o, se si vuole, il suo oggetto è il nulla. Nel Concetto dell’angoscia Kierkegaard afferma che essa ha origine nel momento in cui, messo dinnanzi a una serie indefinita di possibilità future, l’uomo si rende conto di avere la facoltà di scegliere liberamente che cosa fare della propria esistenza. La scoperta di questa libertà è resa sconvolgente dall’indeterminatezza delle vie che gli si offrono, in totale assenza di direttrici circa le scelte da compiere: per ogni possibilità favorevole all’individuo, infinite sono quelle a lui sfavorevoli. Così il “sentimento del possibile” si è originariamente affacciato alla mente di Adamo allorché, posto di fronte al divieto divino, egli avvertì in sé “l’angosciante possibilità di potere”, pur privo di ogni idea riguardo a ciò che effettivamente poteva. Il vuoto che gli si aprì davanti è per Kierkegaard l’autentica fonte dell’angoscia.
Mentre nel Concetto dell’angoscia Kierkegaard analizza la sofferenza dell’uomo nei confronti del mondo esterno, ne La malattia mortale egli si sofferma sull’affanno generato dal rapporto dell’uomo con se stesso. La malattia mortale a cui Kierkegaard fa riferimento (definita così non perché provochi la morte, ma perché consiste nel “vivere la morte” del proprio io) è la disperazione, esito dell’incapacità dell’individuo di convivere pacificamente con il proprio io. Le due modalità in cui essa si esprime sono quella di “disperatamente volere essere se stessi” e “disperatamente voler essere altro da se stessi”. Kierkegaard ritiene infatti che nell’uomo agisca un insanabile conflitto tra la consapevolezza della propria limitatezza e l’anelito verso l’illimitato. A seconda di come ciascun individuo affronta questo conflitto vengono elaborate risposte diverse, tutte ugualmente destinate allo scacco. Infatti, se l’uomo vuole essere diverso da ciò che è, scopre di non essere in grado di abbandonare se stesso (disperazione della debolezza); ma anche qualora egli voglia essere se stesso, scopre i propri limiti e se ne dispera (disperazione dell’orgoglio). Che ne siano o meno consapevoli, tutti gli uomini sono afflitti da questo morbo: l’unica differenza è che chi non sa di essere disperato è più lontano dalla guarigione di chi abbia preso coscienza della propria malattia.
Timore e tremore. Lo scandalo della fede e la polemica contro la teologia hegeliana
Esiste allora un’unica via di salvezza dalla “malattia mortale”, la fede. Riconoscendo la propria dipendenza da Dio, il credente risolve l’angoscioso conflitto tra la consapevolezza dei propri limiti e la sua aspirazione per l’illimitato. La scelta religiosa si configura perciò come una terza possibilità di vita offerta all’uomo, accanto a quella estetica e a quella etica.
Tuttavia, come nel passaggio dallo stadio estetico a quello etico non può esservi alcuna continuità, anche nel passare dallo stadio a quello religioso c’è un “salto” abissale. La natura di questo salto è chiarita nelle pagine di Timore e tremore in cui Kierkegaard riflette sulla figura di Abramo che, per eseguire l’ordine divino, è disposto a uccidere il figlio Isacco nonostante ciò contravvenga, oltre che al suo naturale affetto di padre, a tutte le regole della morale comune. Ciò dimostra che il principio etico e quello religioso sono inconciliabili e che la fede in Dio è scandalosamente d’ostacolo a ogni forma di pacificazione esistenziale e sociale. Il religioso è colui che rompe con la società degli uomini isolandosi nel suo rapporto con Dio e la fede è un’esperienza solitaria che nulla ha a che vedere con i rituali utili alla conferma della pubblica morale, cui la storia del cristianesimo l’ha invece drammaticamente ridotta.
Alla stessa stregua, la fede è estranea alla filosofia e alla ragione. Avere fede significa infatti accettare lo “scandalo logico” dell’infinito che si incarna nel finito, “l’assoluto paradosso” di Dio che si fa uomo. Una questione che Kierkegaard trova già posta in tutta la sua drammaticità dalla domanda di Lessing se sia possibile che un atto storicamente determinato, e quindi situato in tempo finito, possa avere un effetto eterno, ossia un significato infinito. La risposta che Lessing cercava non poteva essergli offerta dalla ragione, giacché l’enigma è risolto solo dall’azione, da quel salto nella fede che Lessing, inaugurando così un’infausta tradizione nella filosofia tedesca, non seppe e non volle compiere.
Da qui anche la principale colpa della filosofia hegeliana, di avere sacrificato l’unico significato proprio alla fede, la sua irriducibilità alla ragione e all’utile, impostando la teologia su basi filosofiche, con grande successo nel dibattito teologico, ma a tutto detrimento del significato del cristianesimo. Cristo soffre e muore scandalosamente come uomo, ma chi crede lo riconosce irrazionalmente come Dio. Analogamente l’insorgere della fede rappresenta una contraddizione inesplicabile, poiché da un lato è l’individuo stesso che deve scegliere di credere, ma dall’altro la fede deriva da Dio e dunque non può essere il frutto di un’iniziativa personale. Solo riappropriandosi del significato della propria esistenza individuale col vivere in proprio il dramma della fede in Dio l’uomo può sottrarsi a un’esistenza massificata cui anonimamente lo consegnano le forme di vita socialmente virtuose della contemporaneità.
Stanno in ciò le ragioni dell’insanabile polemica che, con crescente radicalità – fino a rifiutare i sacramenti in punto di morte – contrappongono Kierkegaard alla Chiesa danese: nel fatto che il luteranesimo di Stato abbia necessariamente finito per coprire e ammansire lo scandalo del cristianesimo, e quindi scristianizzare irrimediabilmente l’esperienza religiosa e di fatto operare contro ogni possibilità di autentica redenzione esistenziale.