Sorelle d’Italia: presenze e immagini femminili
Sommario: Angeli del focolare o suffragette fra Otto e Novecento. Il primo femminismo - Le cattoliche ▭ L’emergere delle donne nella società di massa. Il dopoguerra - Le cattoliche - La modernizzazione ▭ Finalmente cittadine. La ricostruzione - Le cattoliche - Il Sessantotto ▭ Femminismo e riflusso dagli anni Settanta a oggi. La secolarizzazione - Il neofemminismo - L’attualità
Durante i primi cent’anni dell’Unità le donne cattoliche hanno fatto l’Italia. Dal Sessanta al Sessanta tra l’Ottocento e il Novecento, l’identità tra donne cattoliche e italiane è stata quasi completa. Nel senso che quasi tutte le donne italiane erano cattoliche e che senza troppi dissidi hanno poi aderito al nuovo Stato. Hanno affiancato gli uomini nelle guerre risorgimentali e nella costruzione dell’Italia di fine Ottocento, le ‘buzzurre’ che passeggiavano per Roma all’indomani del Settanta erano sicuramente personalmente cattoliche ma questo non gli impediva di essere anche italiane. Hanno sostituito gli uomini nella Grande guerra e poi sono diventate maestre e professoresse di scuola, anche più numerose, tirando su i ‘nuovi italiani’ e diventando emblemi della battaglia demografica. Hanno infine combattuto nella Resistenza e hanno votato per la Repubblica diventando finalmente cittadine dopo quasi un secolo di anticamera, hanno ricostruito e consumato, negli anni Cinquanta dando il via alla rinascita economica del paese. Sempre al centro dei tornanti essenziali della vita sociale ed economica del paese, forse meno della vita politica anche perché senza voto e senza rappresentanza. Soprattutto hanno creato ai movimenti femminili che hanno cambiato la società italiana molto più di quello che la storiografia abbia mai riconosciuto.
Fra le donne l’identità tra cattolicesimo e italianità ha trovato una sua conciliazione molto prima di quella ufficiale tra gli uomini. Già dagli anni Ottanta dell’Ottocento le donne avevano risolto il loro dissidio interno e educavano giovani e figli nel solco della ‘nuova Italia’ nata nel 1861. I volontari e gli stessi sacerdoti combattenti furono così numerosi perché erano stati educati all’italianità. Forse solo per un decennio, le due identità si confrontarono con astio salvo poi trovare una decisa conciliazione. Certo non era quella ufficiale tra la Chiesa e lo Stato italiano, ma era quella concreta tra le donne cattoliche e italiane. La grande associazione di donne cattoliche che nacque nel 1908 prese il nome di Unione fra le donne cattoliche d’Italia, mentre quelle degli uomini si chiamavano Unione popolare, Unione economico sociale, Unione elettorale. Anche quella dei giovani, nonostante fosse la più originale insieme a quella femminile, si chiamò semplicemente Società della gioventù cattolica. Mentre la teologa Santa Caterina da Siena, futura patrona d’Italia – fu nominata nel 1939 dieci anni dopo la Conciliazione ufficiale –, diventò la patrona dell’Unione donne nel 1909. È chiaro che si trattò di una conciliazione prepolitica e apolitica, ma è innegabile che conciliazione fu. La regina Margherita è stata l’emblema di questo modello: cattolica, esempio di ogni virtù, moglie e madre esemplare, angelo del focolare, anzi dell’intera corte e dell’inserimento nell’italianità di un’intera élite cattolica.
Poi, nella seconda metà del Novecento, questa apparentemente perfetta identità si è incrinata. Sono noti i fattori del processo di secolarizzazione che, dagli anni Settanta, il decennio dell’esplosione del privato, ha cominciato a separare le strade delle donne e della Chiesa. Poi c’è stata la de-ideologizzazione che dagli anni Ottanta ha messo in crisi le grandi ideologie del Novecento. Infine, quella che si potrebbe definire la ‘deitalianizzazione’, con un processo centrifugo di allontanamento dal centro politico e culturale del paese verso altre identità, talune interne al paese come quella padana, talune esterne come quella delle immigrate.
Rimane, tuttavia, una presenza forte lungo i primi cento anni, dove i movimenti femminili hanno modificato la politica e la società. E un altrettanto forte mutamento dovuto alle donne negli ultimi cinquant’anni.
La costruzione dell’Italia unita si era fondata su Silvia e su Lucia creature angelicate e pure, ideali femminili che non avevano trovato sbocco nella maturità. La Silvia di Giacomo Leopardi, era morta a ventuno anni senza conoscere le disillusioni e i disinganni dell’essere adulti, Lucia di Alessandro Manzoni era sì riuscita a sposarsi ma nulla si sa della sua vita matrimoniale. Entrambe elaborate intorno agli anni Trenta dell’Ottocento avevano costituito, per tutto il secolo lungo, un modello della donna italiana: cattolica, pura, dedita alla vita domestica, fedele1.
Poi si era fatta l’Italia, e sembrò quasi che anche le donne fossero passate dalla poesia alla prosa. Da Silvia e Lucia, si era approdati a Giacinta e Irene, ben più carnali e concrete tratteggiate dalla penna di Luigi Capuana e Gaetano Carlo Chelli. Neanche da paragonare a Leopardi e Manzoni – quasi nessuno conosce i loro nomi – ma erano molto più concrete e carnali. Giacinta e Irene sono virago, che distruggono e si fanno annientare dalla loro passione. E poi c’è Teresa, finalmente opera di una donna, Neera, al secolo Anna Zuccari, che forse è la più reale e che – caso rarissimo tra le scrittrici – ha trovato cittadinanza anche nelle storie della letteratura. Giacinta, tratteggiata da Luigi Capuana alla fine dell’Ottocento, sembra una donna moderna. Oltraggiata dalla violenza fisica da bambina, porta dentro di sé le nevrosi e le lacerazioni di questa ferita al punto di finire suicida. Il romanzo, pubblicato nel 1879, e dedicato a Émile Zola, fu definito immorale tanto era duro nella descrizione della realtà2. Irene Carelli è invece la lucida arrampicatrice che affronta l’ascesa sociale in L’eredità Ferramonti, senza fermarsi di fronte a nulla3. Teresa invece, del 1886, della scrittrice Neera, al secolo Anna Zuccari, descrive una donna normale che non riesce a realizzarsi schiacciata dalla famiglia nell’assistenza e nell’oblio di se stessa4. Del resto oltre la metà della letteratura femminile, tutto il genere cosiddetto rosa, non è mai stato citato dalla critica letteraria ufficiale.
Invece, l’Angelo del focolare era con certezza quello di Leone XIII. Il Pontefice, elaborò tra il 1878 e il 1891 un vero e proprio ideale di famiglia cristiana, nel quale la donna era il cardine fondamentale, che fu poi la base del magistero successivo5.
Concretamente il processo d’inserimento, nella società e poi anche nella politica, avvenne attraverso i movimenti femminili che sorsero numerosi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. I primi vent’anni del Novecento furono un ‘momento d’oro’ caratterizzato da un’esplosione di associazioni e d’iniziative. Il periodo potrebbe idealmente iniziare con l’ingresso delle donne nel processo produttivo e forse ancor più con l’accesso alle carriere impiegatizie, in particolare all’insegnamento: con l’uscita delle donne dalla sfera solo privata per affacciarsi anche in quella pubblica, che coincise con un periodo favorevole della vita economica italiana.
La storia del movimento femminile italiano parte dall’Ottocento: una delle figure più vivaci di carattere precipuamente antistatuale e libertario fu Anna Maria Mozzoni, prima agitatrice della questione femminile in Italia. Autrice di vari scritti sulla condizione della donna, invitava le italiane al loro ‘risorgimento’, alla conquista dei propri diritti attraverso la lotta. Tra le prime in Italia a comprendere il significato del socialismo, muovendosi da sentiti motivi risorgimentali ma al di fuori di ogni partito, individuava nell’operaia e nella lotta di classe la forza risolutrice della questione femminile, nell’istruzione e nel diritto al lavoro i mezzi del rinnovamento sociale6.
Negli ultimi dieci anni dell’Ottocento, il movimento femminile trovò uno dei suoi sbocchi naturali nei movimenti politici, socialista e democratico-cristiano, sposando la strada delle riforme istituzionali. Anche se l’anima radicale restò poi una costante del femminismo italiano, si accentuò la tendenza a vedere nelle riforme sociali un mezzo idoneo a migliorare la condizione femminile. Anche il movimento cattolico definì una sua linea d’intervento a proposito della questione femminile alla fine dell’Ottocento, componendosi in maniera variegata, sia come sezioni femminili dell’Opera dei congressi a livello diocesano, sia come organizzazioni femminili del movimento democratico-cristiano. Fu in quest’ambito che si cominciò a parlare di ‘femminismo cristiano’.
Il movimento femminile cattolico si caratterizzò nei confronti del femminismo laico e socialista, per un differente modo di intendere la cultura e l’immagine muliebre. Quest’ultimo, infatti, rifiutava l’ideologia dominante di una donna per natura poco ragionatrice, legata al sentimento e quindi alla religione, che la manteneva in una condizione di sottomissione psicologica, convinto che solo liberandosi dalle pastoie del sentimento la donna si sarebbe liberata dell’oppressione maschile. Il movimento cattolico, invece, accettava che la donna rappresentasse in tutti i paesi occidentali, il simbolo di quei valori che la civiltà industriale stava ormai abbandonando e per il quale il sesso debole diveniva l’angelo del focolare, simbolo di tutte le virtù. La posizione della Chiesa, ritenuta il luogo del perpetuarsi dell’inferiorità femminile, si caratterizzava per una logica conservatrice, nella quale la teologia e la pastorale avevano assegnato alla donna la posizione di ‘nume tutelare’ della casa e che in tal modo si risolvesse un problema per la società intera. Se la Chiesa accettò poi la nascita dell’Unione fra le donne cattoliche d’Italia, fu con l’intento di difendere la tradizione, cioè il mantenimento della donna all’interno delle pareti domestiche e per contrapporsi al processo di laicizzazione, per combattere tutto ciò che era antireligioso e anticristiano o anche solo neutrale.
Le cattoliche non si posero obiettivi molto audaci, più che rivendicare diritti richiesero una prima aggregazione femminile, per far crescere le donne da un punto di vista culturale affinché arrivassero a possedere gli strumenti necessari per una partecipazione costruttiva alla trasformazione sociale. Tuttavia, proprio perché non rifiutava il più diffuso modo di essere donna, comprendendo a fondo l’essenza dell’affettività e della religiosità femminile, il movimento cattolico poté avere una diffusione più ampia rispetto ai movimenti socialista e liberale che ottennero successo solo in ambito ristretto, restando sopra il mondo concreto delle donne e andando a pesare maggiormente sul mondo maschile.
Con l’entrata delle forze femminili nel mondo del lavoro e con la crescente laicizzazione della vita civile emerse un nuovo interesse della Chiesa per la funzione della donna. Infatti, contro lo sfaldamento dei costumi e della morale tradizionale la famiglia divenne l’argine di protezione dell’ordine sociale e dei principi della fede; l’allontanamento della società da Dio e dalla Chiesa doveva trovare nella famiglia cristiana una ferma opposizione. La famiglia non poteva più limitarsi a svolgere un ruolo passivo in difesa dei valori religiosi, doveva cooperare all’opera della Chiesa per la ricostruzione di quell’ordine morale che si andava sgretolando. In tale disegno la donna, operando dall’interno della famiglia, aveva da svolgere un ruolo primario, di conservazione e di trasmissione, attraverso l’educazione dei figli, di quei valori che si stavano perdendo. Le caratteristiche fisiologiche facevano della donna il soggetto più adatto ad assolvere tale compito incentrato nel nucleo familiare.
Alla donna andava riconosciuta piena dignità di persona, ma esclusivamente all’interno della famiglia. Se, infatti, all’uomo era consentito di scegliere la strada che preferiva, alla donna restava la sola scelta tra matrimonio e consacrazione al Signore: alla donna non era dato di contribuire all’attività produttiva né di partecipare alla vita politica e sociale. Solo con una consapevolezza ideale poteva uscire dal privato della vita familiare, assumendo la coscienza di svolgere una funzione che si collocava all’interno di un ampio disegno di evoluzione sociale: diventava ossia il tramite, il punto di mediazione tra l’uomo e la tradizione religiosa, l’anello di raccordo con la vita ecclesiale.
Nel 1880 Leone XIII, primo nell’età moderna a occuparsi diffusamente della famiglia e della donna, elaborò una pastorale della coppia che poneva l’accento sul fatto che la donna, proprio per merito della dottrina cristiana, fosse stata sollevata dalla condizione di secolare inferiorità e avesse assunto piena dignità di persona in tutto uguale all’uomo, con stessi diritti e stessi doveri. Il suo compito, non meno efficace di quello dell’uomo, era incentrato nella famiglia in cui lei realizzava pienamente la sua partecipazione al mondo. Solo nella famiglia cristiana la donna viveva una reale posizione di uguaglianza per la quale ciò che non era lecito non era consentito neanche all’uomo. Se la donna, nel suo ruolo di moglie e di madre, trovava piena realizzazione esclusivamente nell’ambito familiare, il lavoro esterno poteva essere per lei occasione di perdizione, una deviazione dal suo compito principale, che non le avrebbe assicurato alcuna gratificazione7. Leone XIII non intravedeva la possibilità che la donna partecipasse alla vita civile e culturale del paese, ripetendo che le donne sono «fatte da natura per i lavori domestici»8.
Invece Pio X pur non lasciando espliciti documenti sulla questione femminile, diede un più efficace contributo all’emancipazione della donna e favorì in maniera attiva la fondazione della prima associazione femminile cattolica. Sensibile alle esigenze di apertura che si manifestavano nel mondo femminile nel primo decennio del secolo, intuì che, per sottrarlo all’influenza socialista e massonica, bisognava offrire la possibilità di partecipare in maniera più diretta alla vita sociale e religiosa. Se si voleva vincere la battaglia contro il socialismo, la donna doveva poter usare gli stessi strumenti che adottavano le donne socialiste o liberali, doveva sentirsi sostenuta da strutture adeguate ai cambiamenti della realtà, tenere riunioni, discutere di temi economici e legislativi alla stregua delle associazioni laiche.
In quest’ambiente nacque l’Unione fra le donne cattoliche d’Italia, accanto alle già esistenti Unioni cattoliche. Ognuno di questi movimenti, completamente autonomo, dipendeva dalla gerarchia ecclesiastica.
Un certo fermento del femminismo cattolico già si era verificato soprattutto nel capoluogo lombardo. Esso assunse, fin dai suoi primi anni di vita, una duplice tendenza: una moderata, intorno alla rivista «L’Azione muliebre», con molte energie milanesi9; l’altra, più aperta, che si riconosceva sia nel Fascio femminile democratico-cristiano – fondato da Adelaide Coari, Angiolina Dotti e Pierina Corbetta – che nella Lega cattolica femminile, avviata nel 1901 da Adele Colombo a sostegno delle operaie10.
Il crisma dell’ufficialità raggiunse il movimento femminile cattolico al congresso di Bologna del 1903, organizzato dalle socie del Fascio democratico-cristiano milanese con l’intento di far notare la necessità di un’organizzazione femminile autonoma, distinta da quella maschile, sia nelle organizzazioni di base, sia nell’Opera dei congressi. In quell’occasione fu proposta l’organizzazione di un’unione professionale femminile per tutelare le donne lavoratrici e fu istituita una commissione per l’attuazione di una sezione femminile dell’Opera dei congressi, che sintetizzasse l’esperienza de «L’Azione muliebre» e del Fascio femminile. Tale impegno non fu però realizzato a causa dello scioglimento dell’Opera e il movimento femminile restò diviso in due diverse tendenze, rappresentate ora da «L’Azione muliebre» e da un nuovo periodico, «Pensiero e azione», organo del Fascio femminile e diretto da Adelaide Coari, da cui partì l’iniziativa della fondazione di una Federazione femminile milanese per organizzare le varie associazioni femminili d’indirizzo cattolico11. Vicino alla Federazione femminile sorse la rivista «Cultura sociale», fondata da Romolo Murri, che promosse un ampio dibattito sulla questione femminile su un piano puramente civile e sociale, nel rispetto della concezione cristiana, ma al di fuori delle linee guida delle organizzazioni cattoliche propriamente dette12.
Nel 1907 la Federazione femminile, che si era andata caratterizzando negli anni per posizioni notevolmente più femministe, organizzò a Milano un congresso, aperto anche alle correnti laiche e socialiste con l’intento di elaborare una strategia unitaria proprio sui temi sociali e civili. Il tentativo di avere rapporti con le altre correnti non fu ben visto dal mondo cattolico e dallo stesso Pio X, ostili a qualsiasi tipo di relazione con le componenti laiche. Al contrario l’Unione fra le donne cattoliche d’Italia, che nacque sulle ceneri delle esperienze precedenti, si pose il forte intento di contrapporsi al processo di laicizzazione in atto nella società e di combattere tutto ciò che era antireligioso e anticristiano, ma anche tutto ciò che era neutrale rispetto al problema religioso, in difesa della chiesa in pericolo.
L’azione decisiva alla nascita dell’Unione donne venne da Roma, dove si era costituito un piccolo gruppo di signore molto legato agli ambienti ecclesiastici, in cui spiccava la figura di Maria Cristina Giustiniani Bandini che, uscita nel 1895 per motivi di salute dal convento di Trinità dei Monti, desiderava intraprendere un apostolato più attivo in difesa della religione13. La sua vita successiva non fu un momento di rottura con i voti presi, ma la continuazione degli ideali di vita religiosa formulati in gioventù, con una scelta d’impegno più diretto nella società civile. Dotata di forte temperamento, grande forza di volontà e un carattere alieno da indecisioni e compromessi – ma anche con eccessivi schematismi e incapacità talora a cogliere i tratti a volte complessi e contraddittori della realtà – portò l’associazione femminile a perseguire senza tentennamenti e insicurezze l’unica ‘verità’. Con queste doti conquistò la fiducia di Pio X, rispetto al quale evidenziò affinità d’ideali e molti elementi in comune nella visione del problema religioso. Anche nei confronti del movimento femminile le due visioni collimavano perfettamente, ritenendo entrambi che l’impegno sociale della donna dovesse essere limitato a un ampliamento delle funzioni familiari. In tali condizioni il papa, sicuro della fedeltà e della sottomissione della Bandini, diede pieno appoggio al suo operato, consentendo all’Unione piena autonomia dalle associazioni maschili.
Costituita ufficialmente il 1° gennaio 1909, l’Unione ebbe, il 21 aprile dello stesso anno, la sua solenne seduta inaugurale: le rappresentanti dei vari comitati che nel frattempo si erano costituiti, furono ricevute dal papa. Dal discorso inaugurale della Bandini in un linguaggio a volte enfatico e retorico e in un’assoluta professione di obbedienza al pontefice, emerge l’impegno del movimento in difesa della religione, senza alcun accenno ai temi tipici del femminismo: l’Unione non nasceva per difendere e migliorare la condizione femminile, ma per la tutela della cristianità. Si prefiggeva di collegare le donne cattoliche per un più efficace «adempimento dei loro doveri individuali famigliari e sociali», di prepararle a questo impegno con il «conseguimento di una sana cultura», di modernizzare l’attivismo femminile legato per tradizione alle confraternite e alle pie associazioni non più adeguate ai problemi della società moderna: «di rendere più pratiche, efficaci e rispondenti alle necessità dei tempi le opere alle quali la donna si dedica». Dal punto di vista metodologico l’Unione compì una fondamentale azione di ‘svecchiamento’ delle forme d’intervento e delle metodologie d’impegno delle donne italiane14.
Sotteso a tutto il programma dell’Unione, elemento indissolubile e scontato che permeava la vita dell’associazione, era il tema della religiosità. Ogni comitato locale aveva una sezione dedicata alla propaganda religiosa e una per l’approfondimento della cultura religiosa. Di là dal carattere e dalle manifestazioni di tale religiosità – per altro di tipo molto tradizionale – lo specifico dell’Unione si caratterizzava per il suo proposito di riportare Cristo nella società, il che significava superare le lotte e i contrasti sociali, frutto dell’ideologia socialista, per riportare la pace che, sola, avrebbe potuto garantire il progresso di tutte le parti contrapposte.
Riguardo all’impegno solo religioso, il movimento sconfinò anche in altri campi, primo tra tutti quello della tutela delle lavoratrici. La posizione di alcuni comitati locali più avanzati ebbe la meglio sul parere della stessa presidente, tanto che direttamente o indirettamente l’associazione fu all’origine delle prime organizzazioni professionali femminili cattoliche: le prime Unioni per la difesa delle telefoniste, delle infermiere, delle lavoratrici dell’ago e delle tranviere.
Certamente la presidente, con la sua fede e i suoi principi, fu garanzia di ortodossia agli occhi del papa, ma al tempo stesso il suo grande senso dell’organizzazione, l’instancabile attivismo, il profondo convincimento della necessaria autonomia e indipendenza delle donne, fece crescere il movimento di là dalle stesse speranze della Chiesa. Le iniziali condizioni poste al momento della fondazione furono così progressivamente eluse: l’apoliticità fu superata nelle numerose battaglie civili in cui l’Unione s’impegnò, la lotta contro il divorzio, quella sul matrimonio civile e religioso, l’insegnamento della religione nelle scuole. Il verticismo dell’associazione lasciò ampio spazio alla crescita dei comitati locali che dimostrarono, specie a Genova e Torino, notevole autonomia rispetto alla direzione centrale e anche l’assenso della gerarchia in occasione delle più significative iniziative fu sempre ottenuta.
Occorre dire che, ben di là dalle rigide condizioni inizialmente accettate, l’associazione raggiunse efficaci conquiste. Contribuì a modernizzare e coordinare le varie opere pie, dando una dignità propria al modo di vivere delle cattoliche più vicine alla Chiesa: non più beghine, bigotte o bizzoche, alle donne che non erano soggette a una famiglia o a un ordine religioso fu offerta la possibilità di un impegno laico, moderno e attivo. A tutte fu proposta la possibilità di esistere ed essere rispettate indipendentemente dall’essere mogli o monache. Naturalmente si trattò di un’evoluzione sociale complessiva, il cui merito non va ascritto alla sola associazione femminile – anche se proprio nel mondo religioso tale mutamento era più difficile – ma certamente notevole fu il contributo dato dall’Unione e dalla sua presidente. Fu inoltre la prima vera associazione femminile nazionale con una consistenza numerica a dir poco rilevante e con una capillarità anche nei piccoli centri di provincia. Essa preparava le sue aderenti attraverso letture, convegni, vere e proprie scuole di formazione: tutto ciò ne faceva in ultima analisi un’associazione femminista; nonostante non perseguisse scopi di esplicita rivendicazione femminile, si può certo accostare alle associazioni emancipatrici.
Il panorama socio-politico non era più quello precedente la guerra, il carattere stesso del movimento – di scardinamento del sistema politico – si era andato perdendo. Adesso non erano più solo le femministe intemperanti a volere il riconoscimento del diritto di voto, lo volevano tutti, anche alcuni partiti politici come il Partito socialista e il Partito popolare, verso i quali molte donne si andavano orientando15. Nel marzo 1919 l’annoso problema del suffragio femminile ritornò alla Camera. E quando la Camera dei deputati approvò la relazione della commissione incaricata di elaborare un disegno di legge per l’ammissione delle donne al godimento dei diritti politici, esse si videro rinviare l’effettivo riconoscimento di tale diritto alla successiva legislatura. La fine anticipata della stessa vanificò anche quel voto positivo. La questione del voto, sia pure solo amministrativo, si ripresentò nel 1923, col progetto di legge Acerbo col quale Mussolini tentava di dare anche all’estero l’immagine di un’Italia protesa al progresso. Tuttavia, appena approvata, la legge fu bloccata dall’introduzione del regime podestarile nei Comuni. In proposito si è giustamente parlato di «ultima farsa» o di «Mussolini e la beffa del voto alle donne»16.
Le donne della borghesia accettavano ormai una soluzione dei problemi femminili in una visione nazionale: non a caso fu dal Consiglio nazionale delle donne italiane che fuoriuscì nel 1919 il Fascio nazionale femminile. Esso si staccava dal Consiglio per svolgere un’azione «politica patriottica», «per la scelta di uomini ligi alla causa nazionale e al bene della patria», per il sostegno in occasione della campagna elettorale, a candidati nazionalisti17. Perché con l’eventuale elezione ai consigli comunali e provinciali di uomini socialisti «in un solo colpo sarà travolta la famiglia, la libertà, l’abitazione, il lavoro»18.
Quanto al glorioso Consiglio delle donne italiane – e alla Spalletti che ancora lo dirigeva –, «come movimento che univa donne militanti nei diversi partiti, elaborava i fini di volta in volta necessari e possibili per l’eguaglianza sociale tra i sessi»19, esso non poteva che essere contrario alla proposta di un partito femminile sottomesso al fascismo. Profondamente orientata alla pace, la Spalletti era, in effetti, succube della presenza nel Consiglio di nuove associazioni, molto intenzionate a sostenere la posizione della guerra e disposte a rinviare al domani l’avvento di un femminismo vero.
Le donne si andavano ormai orientando verso i partiti politici. Era il momento del femminismo politico che secondo Teresa Labriola si sovrapponeva al femminismo puro e che richiedeva scelte di campo, alleanze, strategie complessive20.
Intanto il fascismo avanzava. Con il 1925 si chiuse, grazie alle leggi speciali, l’esperienza del movimento femminile e della stampa politica autonoma delle donne italiane. L’Associazione per la donna venne sciolta di autorità, mentre le altre associazioni femministe ammutolivano e le socie si disperdevano. Le donne italiane furono inquadrate nelle Donne e nelle Giovani fasciste, nelle Massaie rurali: la donna diventò la riproduttrice della razza italiana. La morte di Anna Kuliscioff fu in quello stesso anno l’occasione per l’ultima grande manifestazione antifascista.
Nel 1917, al momento del passaggio di consegne tra Maria Cristina Giustiniani Bandini e Maddalena Patrizi, l’Unione fra le donne cattoliche d’Italia contava 350 comitati e ben 46.000 socie, dato questo di notevole significatività, se si considera che in un periodo sufficientemente vicino, le donne socialiste iscritte alle sezioni del partito erano circa la metà21. Certamente molto più consistenti erano le leghe ma si trattava di associazioni sindacali di carattere diverso dall’Unione e senza una struttura nazionale. Anche le altre associazioni laiche, come il Consiglio nazionale delle donne italiane e l’Unione femminile nazionale, rappresentavano piuttosto movimenti di opinione che non vere e proprie associazioni di massa. L’Unione donne cattoliche, dunque, era la più consistente e la più organizzata delle associazioni femminili del tempo22.
Nonostante una gestione eccessivamente accentrata, un’élite dirigente che contava principalmente nomi dell’alta aristocrazia, un attivismo sempre in precario equilibrio tra beneficenza e azione sociale più consapevole, va riconosciuta l’importante presenza dell’Unione: la specifica identità storico-culturale del movimento femminile cattolico era tale da differenziarlo sia dall’associazionismo cattolico maschile sia dal più articolato panorama femminile e femminista. Rispetto al movimento cattolico, infatti, le donne avevano un modo diverso di partecipare alla società, derivante dalla loro differente cultura e educazione. Agivano prevalentemente nella sfera privata, nella quale potevano offrire un contributo originale e insostituibile, mentre erano assenti dalla scena pubblica, mancando alla maggioranza di loro i mezzi culturali atti a traslare la loro peculiare intelligenza dall’ambito privato a quello pubblico. L’alterità di questo tipo di esistenza era stata sempre interpretata come un segno d’inferiorità anche all’interno del mondo cattolico rispetto a quello maschile; ma non è possibile confrontare realtà così evidentemente eterogenee, se non liberandosi da un certo pregiudizio che ha sempre accompagnato un movimento considerato comunque «di minorità». Nei confronti poi del più variegato movimento emancipazionista l’assenza delle più elementari rivendicazioni femministe aveva autorizzato a non considerare le donne cattoliche come facenti parte di un movimento che tendeva a rinnovare la società. Eppure il femminismo cattolico si rivolgeva a tutte le donne che non avevano aderito al femminismo, che per emanciparsi non intendevano abdicare alla loro femminilità, ma che piuttosto, per uniformarsi alla società degli uomini, volevano conservare il diritto a essere ineguali, seguendo quindi una scelta meno dissociante per la donna.
Le dimissioni della Bandini nel 1917, la sua sostituzione con Maddalena Patrizi e, l’anno dopo, la nomina di Armida Barelli a vicepresidente dell’Unione con l’incarico di interessarsi della Gioventù femminile, costituirono un momento di svolta nella vita dell’associazionismo femminile cattolico, anche se non di una decisiva inversione di tendenza delle linee guida del movimento. I mutamenti furono soprattutto conseguenza della differente situazione sociale in cui si vennero a trovare le donne nell’immediato dopoguerra: avevano sperimentato la solitudine, avevano sostituito gli uomini in molti lavori, avevano contribuito alla vittoria con il loro impegno; e così avevano ottenuto una maggiore possibilità d’incidenza. Questi mutamenti di carattere sociale determinarono la trasformazione dell’Unione fra le donne cattoliche d’Italia d’anteguerra nell’Unione femminile cattolica italiana. In effetti, non vi fu alcuna frattura tra i due movimenti che rappresentavano due fasi molto diverse tra loro, ma all’interno di una sostanziale continuità.
Nata nel 1919, all’interno della riorganizzazione dell’Azione cattolica operata da Benedetto XV, l’Unione femminile cattolica italiana era divisa in due rami: l’Unione donne di azione cattolica (Udaci), presieduta da Maddalena Patrizi, e la Gioventù femminile cattolica (Gf). Una delle principali artefici di questo nuovo assetto e fondatrice della Gioventù femminile fu Armida Barelli; avviata verso l’azione cattolica femminile dalla precedente presidente Cristina Giustiniani Bandini. La principessa Bandini, intuendo le grandi qualità della Barelli, l’aveva ben presto nominata vicepresidente dell’Unione fra le donne cattoliche di Milano.
Del resto, anche la linea della Chiesa aveva subito significative modifiche nel modo di vedere la realtà muliebre: se infatti Pio X, pur approvando la nascita dell’Unione e l’impegno delle cattoliche nella vita attiva, non aveva mai giustificato teologicamente l’attivismo femminile; Benedetto XV, prendendo coscienza del mutare dei tempi, accettava e appoggiava l’uscita dal chiuso delle mura domestiche, pur mettendo in guardia dall’eccessivo disordine che questi mutamenti potevano causare:
«A ragione pertanto può dirsi che le mutate condizioni dei tempi hanno allargato il campo dell’attività muliebre: un apostolato in mezzo al mondo è succeduto per la donna a quell’azione più intima e più ristretta, che essa prima svolgeva fra le pareti domestiche; ma quest’apostolato deve essere compiuto in modo da far palese che la donna, così fuori come dentro la casa, non oblia di dovere anche oggi consacrare le principali sue cure alla famiglia»23.
Non ci fu comunque nessun approfondimento teologico e la pastorale dei vescovi continuò a oscillare tra il rimpianto per l’angelo del focolare e le invettive contro le tentazioni demoniache offerte dalle donne.
Pio XI riprese quanto tracciato dalla Chiesa fin dai tempi di Leone XIII e si rivolse alle donne per rilevare come solo il cristianesimo le avesse elevate alla dignità di persona che prima non gli era riconosciuta; gli aveva poi assegnato un compito sublime, quello di essere mogli e madri e, attraverso questa vocazione, le donne avevano avuto la possibilità di accedere alla santità. Il rifiuto del compito muliebre le avrebbe riallontanate dalla famiglia unico luogo di santificazione. Quindi, l’emancipazione e l’uguaglianza con l’uomo non erano necessarie perché la donna aveva già raggiunto, con il cristianesimo, la maggiore libertà possibile24.
Nel giro di pochi anni la nuova associazione, guidata da Armida Barelli, si diede un’organizzazione ferrea, nella quale il punto centrale era quello della formazione religiosa e della preparazione sociale delle future madri d’Italia. In sostanza le donne della Gfci si stavano preparando a fare della ‘grande politica’ – come aveva detto il pontefice – non si limitavano a creare un’associazione benefica o educativa com’erano state le tante unioni femminili degli anni passati. La Gfci puntava a lasciare un segno duraturo nella società. Formava un’intera generazione di donne, nella convinzione che queste avrebbero poi trasmesso le loro idee alle giovani e ai giovani del futuro.
Il fascismo si trovò a dover contrastare un’organizzazione già abbastanza efficiente. Dopo vari tentativi anche il regime, all’inizio degli anni Trenta, pervenne a una strutturazione che fu considerata più soddisfacente, ma a questo punto l’associazionismo fascista ricalcava in pieno il modello cattolico. Le stesse divisioni per sesso e per età che il pontefice aveva voluto per i cattolici furono ripetute per i fascisti. L’unica differenza stava nel fatto che gli uomini fascisti, potendo occuparsi di politica, militavano nel Partito, mentre quelli cattolici, che non potevano farlo, rientravano nella sezione maschile dell’Aci. Per il resto lo spirito generale delle due organizzazioni rispondeva allo stesso principio totalitario che voleva controllare tutto per ottenere un coinvolgimento di massa della popolazione.
Nel 1936 la Gfci era diventata un’organizzazione di massa. Infatti, si contavano 310 centri diocesani organizzati nel 57% delle parrocchie. La media nazionale, però, non dava conto di forti diversità sul piano regionale: si andava da un massimo dell’86% in Puglia e 80% in Lombardia a un minimo del 33% in Liguria. Il numero assoluto delle tesserate, nel 1939, era di 863.000 giovani, di poco superiore a quello dei Fasci femminili. Sostanzialmente, le organizzazioni del fascismo e quelle della Chiesa si equivalevano per numero e consistenza. Quando, poi, con la segreteria di Starace ogni sezione del Pnf dovette fondare un gruppo dei Fasci femminili, le due organizzazioni si contesero il controllo del territorio senza esclusione di colpi. Con la differenza che, mentre l’organizzazione dei Fasci era sostenuta e appoggiata dallo Stato, l’Azione cattolica poteva contare solo sulle sue forze e sulla secolare struttura organizzativa delle parrocchie25.
L’immagine femminile imposta dal regime subì notevoli modificazioni per distaccarsi dal modello americano e imporre una figura italiana di donna, moglie e madre; esteticamente più morbida nella linea, con la gonna leggermente più lunga e i capelli ondulati, si affermava l’ideale della donna ‘madre feconda’, centro della vita familiare; non emarginata nella sua funzione procreativa ma, al contrario, esaltata fino quasi a diventare il simbolo e l’emblema del regime. Mai fino allora c’era stata una tale rappresentazione pubblica della donna: il 1934 fu dichiarato l’anno della madre e del fanciullo26. Negli anni della conquista totalitaria del paese il fascismo si ‘femminilizzò’, si affidò cioè all’immagine della donna, più serena e rassicurante di quella maschile, per propagandare la diffusione della sua realtà e del suo messaggio.
Tale messaggio, però, lungi dal promuovere l’auspicata rinascita familiare, produsse una diminuzione delle nascite, soprattutto al Nord e nelle città: lì dove l’adesione alle organizzazioni del partito era stata più massiccia, i comportamenti privati in realtà si dissociarono dagli auspici del regime e le donne si avviarono a modificare i propri interessi, dedicandosi di più allo studio e, per quanto possibile, al lavoro27.
In conclusione l’universo femminile del ventennio fascista era uno scenario complesso, dai forti chiaroscuri: accanto alle madri ostentate dalle fotografie ufficiali, una signora Balducci descritta da Carlo Emilio Gadda, con la sua maternità sofferta, ferita e mutilata, fonte di morte più che di vita; e poi la solare allegria, la libertà dei comportamenti, la fiducia nell’avvenire delle ragazze che per la prima volta si accostavano allo sport, alle vacanze e ai balli28.
Non ci si aspetti dunque di trovare direttrici inequivocabilmente segnate, ma piuttosto un intrico di tendenze, talora orientate alla modernizzazione, talaltra alla conservazione; talvolta aperte alle libertà della società dei consumi, allora agli albori, altre volte legate alle imposizioni di un regime totalitario, repressivo delle idee e dei comportamenti.
Il cambiamento investiva sia gli uomini sia le donne, ma per queste ultime era più radicale: un nuovo modo di vivere legato soprattutto all’uso di nuovi oggetti, dove i prodotti dell’industria diventavano simboli della libertà e del piacere. L’automobile sogno di una vita, la radio contatto con il mondo fascista anche nel chiuso della propria casa, il cinema esaltazione dell’italiano medio che condivideva i sogni e i ritmi della vita europea, le vacanze ai monti o al mare, le gite in bicicletta, i grandi magazzini, la Rinascente e poi l’Upim dove soddisfare i propri desideri con prodotti a prezzo unico sia nell’ambito dell’abbigliamento che dell’alimentazione. E inoltre prodotti di bellezza e d’igiene personale, che diventavano nell’immaginario collettivo i simboli della nascente società dei consumi. Anche se il grosso degli acquisti si svolgeva ancora nei negozi al dettaglio dove si faceva credito e dove la merce era venduta sciolta.
Il protagonismo soggettivo delle donne era cresciuto in vent’anni come mai prima e tale accelerazione aveva creato una notevole impermeabilità del microcosmo femminile ai messaggi della Chiesa e ai miti e modelli ideologici che il fascismo avrebbe voluto imporre. Anzi il paradosso è tale che, nel medesimo tempo, altri miti, altri modelli, altri mondi immaginari si affermavano e pervadevano i comportamenti e i sentimenti della popolazione femminile e quindi dell’intero tessuto familiare29.
Il protagonismo femminile che nel ventennio si era potuto manifestare solo nel privato, esplose, finalmente compiuto, nella Repubblica. La conquista della cittadinanza politica dette alle donne un’equiparazione formale. Fu un riconoscimento dovuto, per le tante battaglie combattute nella vita quotidiana e nella guerra della Resistenza30. La conquista dei diritti politici fu solo una piccola soddisfazione rispetto al perdurare d’ingiustizie e disuguaglianze che continuarono a gravare sul lavoro delle donne e sul loro ruolo nella famiglia.
Di là dalle differenti fedi religiose e dalle ideologie politiche, rimaneva sotteso un profondo desiderio a ricostruire la propria esistenza individuale e la propria famiglia, che accomunava operai e contadini, comunisti e cattolici, uomini e donne. Solo così si può comprendere «quello slancio istintivo e spontaneo» che si sublimò nell’etica di un sacrificio spinto ai confini della razionalità e teso a ricreare un minimo di benessere materiale e spirituale per la propria famiglia. L’idea della ricostruzione divenne uno dei cardini dell’identità collettiva nazionale al quale donne e uomini aderirono senza esitazione e che si manifestò nell’impegno a migliorare le proprie condizioni economiche al di là dell’adesione all’uno o all’altro partito politico.
Le donne, più di tutti, furono le protagoniste di questa rinascita domestica e privata perché non si attardarono più di tanto nello scontro ideologico che divideva il paese, ma lavorarono intensamente alla sua ricostruzione. Quelle stesse ragazze che erano arrivate alla vigilia della guerra pronte a conquistare il paese perché avevano studiato come i ragazzi, quelle stesse donne che avevano preso parte alla Resistenza imbracciando il fucile come gli uomini, ora si accingevano a ricostruirlo partendo dalla famiglia e dall’assistenza all’infanzia, perché queste apparivano le realtà più duramente provate.
Nel quadro di questa fortissima tensione degli uomini e delle donne alla rinascita sociale ed economica, si realizza l’ingresso nella vita democratica con la conquista del diritto di voto. Per le donne era la prima volta, ma anche per gli uomini rappresentava una riconquista dopo quasi vent’anni di un esercizio poco più che fittizio. La concessione del voto femminile rappresentò, in realtà, quasi un atto dovuto dopo una lunga rivendicazione e la crescente femminilizzazione della società italiana31. La metà della popolazione, che era vissuta sacrificandosi all’ombra delle mura domestiche, si trovò all’improvviso proiettata sul palcoscenico pubblico. Quelle stesse donne che avevano combattuto nella Resistenza e che avevano conquistato il diritto di voto per la loro lotta, s’impegnarono con dedizione nella ricostruzione, soprattutto per garantire un futuro ai propri figli. Se è vero che il miracolo economico fu soprattutto una crescita socio-economica di tutta la società italiana, le donne ne furono protagoniste incontrastate: soggetto e oggetto, come mai in passato era accaduto alle donne italiane. Artefici dello sviluppo con il loro lavoro sottopagato nelle industrie del miracolo, protagoniste della più grande riforma legislativa per conquistare la parità, beneficiate dal crescente benessere delle famiglie, consumatrici di beni destinati soprattutto al mercato privato, le donne furono uno dei gruppi vincenti dell’Italia repubblicana. Le casalinghe, finalmente elevate al rango di cittadine, diventarono centrali nello sviluppo economico.
Oltre che votare le donne furono anche elette. In ventuno entrarono alla Costituente, su un totale di 556 deputati: nove nella Democrazia cristiana e nel Partito comunista, due nel Partito socialista e una nell’Uomo qualunque32.
Con l’inizio del nuovo sistema democratico, il panorama dell’associazionismo femminile cattolico si allargò sensibilmente con la nascita di due nuove organizzazioni che andavano ad aggiungersi all’Unione donne di Azione cattolica non incrinata fino a tutti gli anni Cinquanta: il Centro italiano femminile (Cif), fondato nel 1945 per contribuire alla formazione culturale e politica delle donne cattoliche e il Movimento femminile della Democrazia cristiana, che rappresentava la novità della partecipazione politica. Lavorando congiuntamente queste tre organizzazioni conquistarono le masse femminili alla democrazia con un’imponente opera di formazione culturale, sociale e politica.
L’Azione cattolica rappresentava l’alveo di valori dove si realizzavano una formazione e un’identità comune di tutte le donne cattoliche. Dall’esperienza dell’appartenenza religiosa scaturivano diverse forme d’impegno. Sul piano della carità e del volontariato era ancora prevalente, fino a tutti gli anni Cinquanta, l’azione nel proprio ambito, nella propria famiglia allargata, nel proprio sistema relazionale. L’azione di carità, infatti, non aveva ancora a livello di massa quelle forme di militanza civile che si affermarono dopo il concilio Vaticano II. Tuttavia essa rappresentava la naturale forma d’impegno correlata alla propria identità religiosa. L’etica del sacrificio e la dedizione alla vita domestica e familiare costituivano ancora per milioni di donne la forma più concreta della loro presenza civile.
L’altra forma d’impegno era quello politico che si evidenziò nella nascita del Movimento femminile democratico cristiano. Per la prima volta nella storia d’Italia, le donne partecipavano alla vita democratica in un grande partito popolare di massa. Anche in questo caso vi era una stretta continuità tra l’appartenenza, l’identità religiosa e i valori in quell’ambiente rappresentati, pur nei contenuti e nei simboli, dell’azione politica.
Il Cif si affermò come un soggetto ‘laico’ con l’obiettivo di aggregare tutte le maggiori associazioni d’impegno religioso e sociale per rappresentarle sul piano pubblico. Tale esperienza, condotta in stretta integrazione con il Movimento femminile della Dc, rappresentò una forte accelerazione verso l’impegno civile e politico delle donne italiane.
Su un terreno prepolitico il Cif impegnò le donne nel sociale, modernizzando quelle attività assistenziali che da sempre erano appannaggio delle cattoliche. Le casalinghe vi si riconobbero completamente, appagandosi dei corsi di economia domestica ma anche di quelli sulla società industriale e sulla vita politica: impegnate all’inizio solo nelle faccende di casa, ne uscirono poi, alla ricerca di una realizzazione personale più soddisfacente. Le militanti cristiane dell’Azione cattolica, impegnate in continue ‘crociate’, scoprirono, frequentando i congressi sulle trasformazioni della società italiana, che il mondo non era così terribile e che si poteva anche organizzare qualche timido ‘incontro’. Infine, le militanti della politica costituirono l’avanguardia più consapevole di questa grande massa popolare.
Le dirigenti delle tre associazioni furono spesso le stesse. Maria Rimoldi e Alda Miceli che venivano dall’Aci, diedero un contributo insostituibile al Cif; Carmela Rossi, a lungo presidente delle Donne cattoliche, era sorella di Stefania Rossi delegata del Movimento femminile Dc; Maria Eletta Martini e Maria Cocco, esponenti della Dc, venivano dall’esperienza del Cif; per non fare che gli esempi più noti. Così il Cif, che teneva congressi nei quali si alternavano anche esponenti della Dc e dell’Aci, era in grado di organizzare e motivare in chiave realmente democratica una grande area che attorniava il nuovo partito. Di tale realtà il partito stesso si sarebbe giovato per alcuni decenni per alimentare un forte e radicato consenso.
Nelle riunioni tenute nell’inverno 1944-1945 era stato precisato lo scopo del nascente organismo che sorgeva svincolato dall’Azione cattolica per rivitalizzare l’associazionismo femminile e dargli una nuova impostazione politica necessaria all’impegno nella vita democratica. D’altra parte, pur essendo autonomo rispetto al partito – il primo vero statuto, redatto solo nel 1951, sottolineò l’«indipendenza dai partiti», pur individuando come compito precipuo del Cif preparare le donne «all’esercizio dei diritti civili e politici»33 – il Centro assolse anche la funzione di cerniera di trasmissione tra le posizioni politiche della Dc e quelle più spirituali delle donne di Aci34.
La posizione del Cif era per una partecipazione attiva, aperta anche all’attività sindacale, ma solo nel senso di favorire l’educazione politica della donna, al di fuori dalle influenze dei partiti e senza prevedere una partecipazione diretta alle competizioni politiche35.
Proprio nei confronti del variegato mondo femminile cattolico, il ruolo del Cif fu decisivo nel processo d’iniziazione alla politica, in special modo nell’aiuto alle donne a esercitare il diritto di voto36. Esisteva, la fondata preoccupazione che molte si sarebbero astenute, sia per ignoranza dei meccanismi di voto, sia per la paura di eventuali ritorsioni da parte degli uomini di famiglia, come sosteneva la stessa presidente Maria Federici che, in un appello pubblicato sul «Bollettino» nel 1946, esortava le donne a denunciare all’autorità giudiziaria quei casi in cui «la disapprovazione, il divieto, l’intollerabilità dell’uomo, specie in alcune zone del Mezzogiorno, sia di ostacolo al libero esercizio del voto». Evidenziando senza esitazione come,
«nel momento in cui il suffragio femminile sana una delle più ridicole ingiustizie, alla quale gli uomini sono rimasti tanto tempo e ostinatamente attaccati, si vedono riaffermare vieti principi di autorità, meglio di assolutismo familiare, che non hanno nulla a che vedere con la santità dei doveri familiari»37.
Il voto – affermava la Federici – è un diritto che deve essere esercitato senza subire pretestuose limitazioni che evocano una presunta inferiorità femminile.
La partecipazione di De Gasperi fu per le donne cattoliche una lezione di democrazia. I suoi discorsi spingevano sempre a dibattere e confrontarsi, mentre esse venivano da un’esperienza nella quale erano state considerate più come dei soldati agli ordini di un esercito che come dei soggetti liberamente pensanti. Né il pontefice era ancora esente dalla tentazione di continuare a considerarle come un fedele gruppo di combattenti, forse il più obbediente che gli fosse rimasto. Alla Gf aveva detto di andare avanti senza indugiare, perché «l’ardore della conquista spirituale è essenziale nell’apostolato», alle giovanissime era richiesto di essere ‘militanti’ di una battaglia senza sangue. «Militanti infatti significa combattenti. Ma è un combattimento di amore e la vittoria non uccide il vinto, né lo incatena. La vittoria vivifica e libera»38. Del resto, sull’altro fronte l’organizzazione non era meno ferrea, con un esercito di lavoratori pronto a scendere in campo in nome della rivoluzione.
Con il pontificato di Giovanni XXIII cambiò anche il rapporto con la Chiesa: il pontefice, infatti, pur così sensibile nelle sue encicliche ai temi dell’emancipazione femminile, non ebbe con il Cif e in genere con l’associazionismo femminile, la frequenza di rapporti che aveva avuto Pio XII.
Se le casalinghe erano state le protagoniste della ricostruzione, le lavoratrici lo furono del miracolo economico; se il primo decennio era stato interamente speso nella realizzazione di conquiste domestiche, il secondo fu caratterizzato dalla conquista del mondo del lavoro. Quelle stesse donne che avevano sanato laceranti fratture familiari, ora si rivolgevano al lavoro extra domestico per allargare i propri orizzonti economici, sociali e culturali. Anche se erano principalmente mosse da preoccupazioni di carattere economico, sapevano perfettamente, sia pure inconsciamente, che la motivazione al lavoro nasceva dall’esigenza di ampliare la propria presenza oltre i confini delle mura domestiche. Alda Miceli, allora ancora presidente della Gf, ma già in stretto contatto con il Cif, espresse lucidamente quest’aspirazione:
«di fronte al problema professionale c’è in genere un’esigenza di maturazione e d’indipendenza, non sentito soltanto come sciocca mania di voler gareggiare con l’uomo, ma bisogno, da un lato di un completamento di risorse economiche che oggi si fa più vivo, dall’altro come volontà di integrazione e di apertura che la donna di oggi avverte in maniera sempre più vasta»39.
Del resto, se il primo decennio del Cif era stato speso nello sforzo della ricostruzione privata che aveva unificato gli animi al di sotto delle suddivisioni ideologiche, il secondo fu quello del grande balzo economico. Gli elettrodomestici e l’automobile cambiarono la vita delle singole famiglie investendone direttamente i comportamenti, che furono amplificati, in una sorta di fruizione collettiva, dalla televisione. Un’inchiesta del 1957 testimonia della nuova disponibilità delle donne a lavorare fuori casa. Infatti, pur se il lavoro di casalinga era ancora valutato con grande rispetto, una metà delle intervistate dichiarava di preferire il lavoro extra domestico. Furono fatte anche altre inchieste dal Cif e da tutte emerse che «le giovani preferiscono il lavoro professionale mentre le donne sposate che hanno superato i 40 anni sono stanche della fabbrica e preferirebbero restarsene a casa»40.
Nondimeno qualche problema doveva pur esserci se è vero che di lì a qualche anno la protesta contro il modello di moglie e di madre scoppiò irrefrenabile e dirompente. Se le madri degli anni Cinquanta avevano sopportato di essere considerate prima delle madri e poi delle lavoratrici, le loro figlie alla fine degli anni Sessanta rifiutarono la vocazione esclusiva al matrimonio e alla maternità. Probabilmente la questione era molto più profonda di quanto non potesse sembrare. Le donne sentivano comunque, e avrebbero avvertito sempre, a dispetto di ideologie contrarie, una naturale vocazione alla maternità, né mai avrebbero abbandonato questo loro insostituibile ruolo. Il fatto di ricordarglielo sempre in maniera ripetitiva e ossessiva, come faceva la Chiesa, generò in primo luogo cocenti sensi di colpa nelle donne che non intendevano essere colpevolizzate e volevano anche realizzarsi in altre direzioni e poi il rifiuto in blocco del modello femminile cattolico. Inoltre c’era una stridente contraddizione tra la nascente società industriale che si avvaleva sempre più massicciamente del lavoro femminile e questa esitante accettazione del lavoro fuori casa, sempre e comunque subordinato alla vita familiare.
La prima metà degli anni Sessanta fu costellata dall’emergere delle nuove identità, alcune molto materiali, come quelle evidenziate dal consumismo, altre meno concrete, come l’esigenza di una maggior cultura e di una presenza sociale più efficace.
Il principale impegno di questo secondo decennio andò in due direzioni: da una parte l’adeguamento legislativo alle nuove necessità della donna lavoratrice e, dall’altra, la qualificazione professionale. La donna lavoratrice, motore e anima del boom economico, era ormai divenuta una realtà ed era quanto mai necessario elaborare una nuova normativa per consentirle di lavorare senza trascurare la famiglia. Senza tuttavia dimenticare il costante sforzo per l’educazione democratica di tutte le donne italiane e un doveroso ripensamento degli obiettivi dell’attività assistenziale.
Nuove identità, miti, valori e comportamenti si affacciarono, all’inizio degli anni Sessanta, prima più timidamente, poi sempre più dirompenti. Il Cif li seguì con delle inchieste che testimoniano della continua aderenza alla realtà sociale italiana. La crisi dell’autorità, della morale, dell’idea di patria, e poi la purezza, la politica, la nuova femminilità, la crisi della religiosità erano temi che investivano il privato e il pubblico delle donne italiane – e non solo il loro – e ai quali non era facile dare delle risposte41. Comunque, ci si rendeva conto che in seguito alla diffusa industrializzazione la società italiana era cambiata e che le conseguenze scavalcavano i confini dell’economia per investire tutti i campi della vita quotidiana.
La grande trasformazione causata dal processo d’industrializzazione verificatosi nel decennio precedente era insieme la causa e l’effetto di un cammino di secolarizzazione che, proprio in quegli anni, cominciava a diventare evidente. La riflessione attraversò anche il Cif che nella sua analisi rese evidente la correlazione tra consumismo e crisi dei valori. Le tante donne che avevano finalmente conquistato la lavatrice, il frigorifero e la televisione – nel 1961 erano ancora il 30% del totale – non avevano nessuna intenzione di considerarli solo oggetti accessori, bensì il segno tangibile della loro avvenuta integrazione sociale. Chi le accusava con superiorità stava in realtà creando le basi della futura incomprensione.
Gli ultimi anni Sessanta furono anche quelli della contestazione studentesca che coinvolse insieme ragazzi e ragazze nel rifiuto dei modelli tradizionali. Un certo ordine del mondo, stabilito alla fine della Seconda guerra mondiale, fu messo in discussione nella primavera di Praga e nelle barricate dei giovani in gran parte del mondo occidentale. Anche le donne attraversarono una profonda crisi d’identità: le industriose operaie e madri di famiglia che avevano realizzato la ricostruzione economica e sociale del paese, lasciarono il posto alle figlie che non sognavano più di conquistare un marito, un mestiere e un’automobile. Era, quella del 1968, la manifestazione di un disagio profondo, l’espressione di una crisi di valori di notevole portata, dinanzi alla quale tutte le istituzioni tradizionali erano in difficoltà: la famiglia, la Chiesa, la scuola, le associazioni tradizionali non sapevano come affrontare le aspettative di questi giovani cresciuti nella ricchezza. L’ondata della contestazione giovanile e poi quella del neofemminismo travolsero tutto e tutti, perché nessuno era preparato a un movimento che non faceva richieste materiali ma ideali: i giovani e le donne non chiedevano la soddisfazione di bisogni materiali, che avevano in gran parte già conquistato, ma piuttosto di partecipare di più, di avere maggiori diritti, di essere protagonisti, di cambiare il mondo. «I motivi ricorrenti, quelli su cui insistono sono sostanzialmente quelli della libertà della coscienza, la messa in causa dell’esercizio dell’autorità, il rifiuto di scelte compiute senza un previo dialogo, l’allergia a ogni forma d’istituzione»42.
D’altronde molte rivendicazioni erano effettivamente inconcepibili per il mondo politico tradizionale, perché erano di carattere privato, legate alla sfera personale, familiare e sessuale, pur se tendevano ad avere una motivazione politica. Una della istituzioni più criticate fu proprio la famiglia, qui si erano manifestati i comportamenti più secolarizzati e su questo tema si spaccò il popolo italiano a metà degli anni Settanta.
In un tardivo documento della Cei, uscito nel 1969, si ribadivano i compiti tradizionali della famiglia cristiana, che solo di sfuggita era stata toccata dal concilio Vaticano II, ma ci sarebbe voluto ben altro per frenare comportamenti che apparivano ormai largamente diffusi43. La famiglia era in crisi anche per il crescente disagio della donna, insofferente del ruolo e del modello tradizionale. Sulle già provate spalle della donna gravava talora anche il problema della divisione del nucleo familiare per l’emigrazione interna. L’assenza del capofamiglia e i conseguenti conflitti di autorità per l’accresciuto potere femminile portavano la donna a una maggiore indipendenza e autonomia dall’uomo anche nelle zone tradizionalmente più arretrate.
Femminismo e riflusso dagli anni Settanta a oggi
Nel clima del rivendicazionismo degli anni Sessanta si consumò l’allontanamento tra le donne e la Chiesa, rea di difendere sempre e comunque la tradizione. Proprio le donne che erano state le più fedeli e costanti animatrici della vita religiosa, divennero ora le più lontane. I due referendum del 1974 e del 1981, giocati sui temi ‘privati’ del divorzio e dell’aborto, furono il segno evidente di quanto fosse ormai profondo il distacco.
Paolo VI nel tentativo di arginare la secolarizzazione: divorzio, aborto, libertà nei costumi, pubblicò varie encicliche dal 1968 al 1976, dalla Humanae vitae alla Matrimonia mixta. Ma i risultati non furono soddisfacenti.
Gli anni Settanta rappresentarono un completo stravolgimento anche nel campo della canzone melodica. Le donne diventarono protagoniste, per la prima volta, come cantautrici, come cantanti e come oggetto di testi, dove si proclamava la libertà: fisica, culturale e sessuale. Dalle due sorelle Bertè, Domenica – in arte Mia Martini – e Loredana, un’autentica ‘guerriera metropolitana’, a Donatella Rettore e Gianna Nannini le donne travolsero il panorama della canzone melodica. Si cominciò a cantare di amori fugaci, come in Minuetto: «Tanto sai/ che quassù/ male che ti vada/ avrai/ tutta me/ se ti andrà/ per una notte», e di donne che non erano più angeli né signore, «Non sono una signora/ una con tante stelle nella vita/ non sono una signora/ una per cui la guerra non è mai finita». Per finire con la Nannini che celebrava la fine dell’amore romantico nell’anonimato della città contemporanea. «Questo amore è una camera a gas/ è un palazzo che brucia in città/... è una fiamma che esplode nel cielo/ questo amore è un gelato al veleno»44.
Negli anni Settanta ebbe inizio la crisi dei partiti politici sui temi privati e prettamente femminili del divorzio, dell’aborto, del diritto di famiglia. Le donne cattoliche lucidamente rappresentate da un’indagine del Cif rifiutavano le tre M: macchina, marito e matrimonio. La fine dei partiti cominciò con l’abbandono delle donne che emigrarono verso nuove forme della politica quale era il movimento delle donne. Erano quasi tutte cattoliche, diventarono femministe. Da Lidia Menapace a Tina Lonzi tutte avevano avuto una più o meno lunga militanza nell’associazionismo cattolico.
Il periodo dal 1974 al 1981, vide l’approfondirsi di quel processo di secolarizzazione che aveva radici antiche. Profondo era diventato il solco tra il mondo cattolico e la società italiana. E se la vice presidente del Cif Maria Eletta Martini, esponente della sinistra democristiana, evidenziava le ragioni dell’opposizione al divorzio, sottolineando il contrasto della legge con la volontà della maggioranza della popolazione e il pericolo di un ulteriore scadimento dei costumi morali del paese, in realtà le ricerche hanno evidenziato come, passato il breve periodo necessario a sanare situazioni di crisi precedenti, la tendenza al divorzio risultò nel nostro paese abbastanza contenuta45.
D’altro canto si trattava di preoccupazioni tardive, perché, a dispetto del dettato costituzionale largamente disatteso, la Dc non aveva mai avviato una seria politica di sostegno dell’istituto familiare. La stessa Martini parlava di tentativi dello Stato che «si sono tradotti spesso in una disorganica serie di interventi legislativi, senza una chiara e globale politica della famiglia, che acquisita una esatta coscienza di valori in gioco ne promuova con gradualità e senza contraddizioni il rispetto e le realizzazioni»46. Sarebbe stato necessario un organico corpus di leggi, soprattutto in materia fiscale e assistenziale, di indirizzo decisamente opposto rispetto a quello individualistico che fu di fatto perseguito negli anni della Repubblica.
Altro momento di verifica dell’avanzare del processo di secolarizzazione fu – tra il 1971 e l’1981 fino al prevalere dei no nel referendum abrogativo – la discussione e approvazione della legge sull’aborto. L’impegno massiccio del Cif fu in ‘difesa della vita’. Già in occasione della prima proposta di legge socialista del 1971 il Cif si era pronunciato in maniera inequivocabile e senza incertezze. Né poteva essere altrimenti, se si considera la ferma valutazione da parte del mondo cattolico della vita umana come dono di Dio e della persona umana come essere intangibile fin dal concepimento. Il Cif svolse un’azione a tutto campo a livello culturale e civile, sollecitando nei suoi dibattiti il concorso di studiosi e scienziati che portassero il sostegno della scienza alle posizioni ufficiali della Chiesa: l’aborto non poteva essere considerato che un omicidio qualificato perché il nascituro era del tutto incapace di una difesa personale47.
Il femminismo degli anni Settanta si presentò con la peculiarità di movimento diffuso, non organizzato, all’interno del quale le forme di agglomerazione di tipo associazionistico, pur esistenti, risultavano marginali e solo parzialmente rappresentative dell’intero fenomeno. Di certo, un movimento composito e frammentato, per la sua carica di riflessione, di ribellione e d’innovazione del quale solo oggi si comincia a fare la storia. Tuttavia, se il ricordo di questo periodo e della rivoluzione mentale di cui il femminismo si è fatto portatore si è in parte perduto nella falsa estrapolazione dei suoi eccessi, è facile riconoscere nella società «un dilagare della coscienza femminile», i profondi cambiamenti di mentalità e di costume e «l’adozione di stili di vita» che si possono a rigor di logica definire femministi. Visibilmente, infatti, mentalità, atteggiamenti, scelte, opportunità sono eredità più o meno direttamente intrecciate col femminismo, assunte ‘inconsapevolmente’, ancora una volta quindi fuori da una tradizione che pure esiste e da un debito culturale non esplicitato48.
Fu con il 1975 che i collettivi femministi – non sempre ben visti dal movimento studentesco e dalle organizzazioni della nuova sinistra – si diffusero nelle facoltà e nelle scuole e, staccandosi gradatamente dalle elaborazioni e dalle pratiche del movimento studentesco, dimostrarono che il femminismo «è un fatto nuovo con cui si ammette di voler fare i conti, anche sul piano culturale, tanto che se ne accetta finalmente il confronto»49.
Lo slogan che percorse il movimento femminista di quegli anni fu «il personale è politico», nella sua essenzialità, volle evidenziare la lotta delle donne per il riconoscimento della propria specificità di soggetto politico, facendo riferimento a un fenomeno complesso, i cui contenuti – inizialmente ‘mutuati’ dal movimento del 1968 – furono in seguito rielaborati con un’ottica più propriamente femminile50. Procedendo, infatti, nella critica all’autoritarismo del mondo dei padri e della società in genere, l’analisi femminista si soffermò inizialmente sulla «repressività del sistema», ossia «del complesso delle istituzioni e dei modi di vita borghesi», che, soprattutto durante il periodo di formazione dei giovani, aveva avviato un processo di «frantumazione delle istanze collettive», una parcellizzazione dell’individuo che permetteva la manipolazione dei singoli, per garantire «consenso alla classe dominante» e «formazione di intellettuali asserviti al sistema». Per passare poi alla «denuncia della cesura tra sociale e politico» e «della conflittualità tra privato e politico sociale», con la presa di coscienza che il vero problema della donna stava ne «la negazione di qualsiasi ruolo sociale che, in quanto tale, la determini, non la fissazione in lei di un ruolo sociale coatto. O meglio, [nel]la falsa naturalità di un ruolo che è in effetti sociale, ma in assenza della società nelle retrovie familiari»51. Era la denuncia del mancato riconoscimento della dimensione privata da parte della politica; le donne al contrario tentavano di «individuare l’elemento politico nei frammenti della vita sociale che l’apparenza del sistema [ci] spaccia per politicamente irrilevanti»52.
La forma più spontanea di aggregazione fu il collettivo, punto di riferimento politico delle donne che lo componevano, di elaborazione e promozione di iniziative per comunicare con altre donne, la cui ragion d’essere era la trasformazione in linee politiche di quanto elaborato nei piccoli gruppi. In quest’ottica assunsero una particolare significatività nel confronto con i partiti e le istituzioni in occasione della promulgazione di leggi – come quella dell’aborto – che si esigeva rispettassero il patrimonio di pensiero del movimento. Nei collettivi ci si confrontava sui problemi generali del movimento, con un sottofondo d’azione comune, ma con differenze di metodo e di contenuti legate alla specificità dei gruppi. I collettivi nacquero un po’ ovunque nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nei ministeri, nelle redazioni dei giornali, nelle università e nelle scuole medie superiori.
Fu nel piccolo gruppo – la struttura più diffusa del movimento, se ne contarono migliaia – che le donne fecero, nell’analisi dell’oppressione e della necessità del separatismo, il massimo tentativo di analizzare la sessualità e l’inconscio femminile.
Sta di fatto che, se tra il 1974 e il 1977 grandi manifestazioni, convegni e numerosi incontri espressero la capacità organizzativa e la forza di coesione del movimento, e migliaia di gruppi, pur non comunicando sistematicamente tra loro, seppero sintonizzarsi; proprio nel momento di maggiore espansione iniziò lo sgretolamento dei piccoli gruppi – alla fine degli anni Settanta si erano ridotti a un numero molto limitato – con una scelta di forme di aggregazione diverse, più ampie e con scopi e pratiche lontani dall’autocoscienza.
Comunque, il neofemminismo, che si colloca nel decennio dell’esplosione del privato, rappresentò una cesura nella storia mondiale e italiana in qualche modo epocale. Con l’esasperazione del privato inteso come centro della politica, con lo slogan «il personale è politico», marcava il superamento delle logiche della politica tradizionale non più in grado di soddisfare le nuove esigenze dei soggetti emersi con il boom economico: soprattutto le donne.
Dunque, un ampio movimento di opinione capace di anticipare il disagio verso la politica. Un movimento capace di porre le questioni del privato, del personale, del corpo e della salute al centro della politica, dopo che per esigenze di visioni del mondo tutto era stato guidato dal primato del pubblico, del collettivo, delle ideologie e dei valori. Se poi molto della sua carica innovativa si perse, fu perché le donne non avevano ancora risolto il problema del rapporto con la politica.
Negli ultimi anni tutto si è molto complicato anche perché le ‘Sorelle d’Italia’ sono diventate multietniche. Le prime donne immigrate erano arrivate negli anni Sessanta impiegate in gran parte come domestiche. Poi gli arrivi sono aumentati negli anni Settanta e Ottanta, dall’America Latina, dall’Africa settentrionale e poi dall’Est europeo. Si trattava di un fenomeno principalmente femminile, sia perché arrivavano soprattutto donne sia perché andavano a fare principalmente lavori femminili. Attualmente le donne costituiscono circa il 45% degli immigrati, ma a differenza degli altri paesi europei, molte di esse sono sole. Cioè non arrivano in Italia per ricongiungersi con il marito ma arrivano per prime e, a volte, sono loro a organizzare l’arrivo dei mariti. Questo perché il mercato del lavoro in Italia ha richiesto in prevalenza donne impiegate nel lavoro domestico e perché i permessi concessi sono stati prevalentemente riservati a questo settore. In grande maggioranza queste donne immigrate erano di religione cattolica.
Per molte di queste donne la scelta di partire non era stata solo dettata dalle difficoltà economiche ma, da motivi di vario genere, come la fuga da valori tradizionali opprimenti, il desiderio di migliorare la condizione dei figli pagandogli l’istruzione e l’avviamento al lavoro, l’acquisto della terra o di una nuova casa. L’immigrazione femminile ha, così, acquisito percorsi differenti rispetto a quella maschile. Un primo percorso è quello più tradizionale avvenuto per compiere il ricongiungimento familiare cioè per raggiungere il marito o i familiari, il secondo, ancora prevalente in Italia, è quello di quante arrivano da sole. Infine quelle ingannate con il miraggio di un lavoro remunerativo, condotte con la forza e ridotte in schiavitù obbligate a fare le prostitute. Per molte di queste donne l’immigrazione è stata occasione di crescita culturale, di presa di coscienza, di miglioramento economico53.
Per le italiane, invece, c’è stato un sostanziale arretramento, non tanto nel lavoro e nelle professioni che hanno visto una crescente presenza femminile soprattutto nei livelli più alti, ma nella politica dove le donne sono sensibilmente diminuite e non hanno trovato gli sbocchi che ci si sarebbe aspettati. Perciò a fronte di una partecipazione politica abbastanza paritaria, i risultati in termini di elette sono stati disastrosi54. Certamente, l’arretratezza da colmare era talmente profonda che non sono bastati sessant’anni di voto per raggiungere la parità. Tuttavia la crescita nel lavoro e nelle professioni è stata talmente indicativa, che sarà raggiunta anche l’uguaglianza in politica ultimo baluardo del potere maschile, anche perché sarà la stessa crisi della politica a richiedere un allargamento dei soggetti attivi nell’arena.
Le donne cattoliche hanno avuto in questi centocinquanta anni un ruolo dominante. Sia perché sono state le uniche a essere sempre presenti, con le loro organizzazioni nella storia dell’Italia unita, sia perché hanno coinvolto quelle meno acculturate, meno avvertite, quelle più marginali, portandole dentro le trasformazioni sociali, economiche e anche politiche.
Note
1 G. Leopardi, A Silvia, 1828, in Canti, Milano 2004, pp. 84-86; A. Manzoni, I promessi sposi, Milano 1980, (1° ed. 1825-1827).
2 L. Capuana, Giacinta, Torino 2006.
3 G.C. Chelli, L’eredità Ferramonti, Roma 2000.
4 Neera, Teresa, Padova 2009.
5 C. Dau Novelli, Sorelle d’Italia. Casalinghe impiegate e militanti, nel Novecento, Roma 1996, pp. 23-36.
6 A.M. Mozzoni, La liberazione della donna, Milano 1975; cfr. anche A. Buttafuoco, La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano nel Novecento, in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di L. Ferranti, M. Palazzi, G. Pomata, Torino 1988, pp. 166-187.
7 Leone XIII, Lettera enciclica Arcanum divinae sapientiae, 10 febbraio 1880, AAS, 12, 1894, p. 387.
8 Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum, 25 maggio 1891, AAS, 23, 1891, p. 661.
9 E. Butturini, Elena da Persico (1896-1948) e “Azione Muliebre”, «Annali di Storia dell’educazione e delle educazioni», 16, 2009, pp. 281 segg.
10 P. Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia 1966, pp. 34-36.
11 F. M. Cecchini, Il femminismo cristiano, Roma 1979, pp. 22 segg.
12 I. De Curtis, La questione femminile agli inizi del secolo: L’approccio di Romolo Murri, «Civitas», 5, 1977, p. 29.
13 A. Gotelli, C. Dau Novelli, Giustiniani Bandini Maria Cristina, in DSMC, II, pp. 257-259.
14 C. Dau Novelli, Società, chiesa e associazionismo femminile, Roma 1988, pp. 120-123.
15 Culture politiche e dimensioni del femminile nell’Italia del ’900, a cura di G. Bonacchi, C. Dau Novelli, Soveria Mannelli 2010 (in partic. C. Giorgi, Il femminismo e le socialiste, pp. 85-97; G. Dalla Torre, Il partito popolare, Sturzo e il voto alle donne, pp. 99-104).
16 M. De Leo, F. Taricone, Le donne in Italia. Diritti civili e politici, Napoli 1992, pp. 149 segg.
17 F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia, (1892-1922), Milano 1976, pp. 141 segg.
18 «Attività femminile sociale», agosto 1920, in F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926, Roma 1978, p. 79.
19 F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit., p. 174.
20 F. Taricone, Teresa Labriola. Biografia politica di un’intellettuale tra Ottocento e Novecento, Milano 1994, pp. 136 segg.
21 F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici, cit., p. 124 riporta i seguenti dati sulle iscrizioni delle donne socialiste: 4.814 nel 1918, 26.333 nel 1920.
22 C. Dau Novelli, L’Associazionismo femminile cattolico (1908-1960), in Una memoria mancata, donne cattoliche nel ‘900 italiano, Milano 1998, pp. 118 segg.
23 Benedetto XV, Allocuzione alle donne italiane, 21 ottobre 1919, «La Civiltà cattolica», 1919, IV, p. 263.
24 C. Dau Novelli, L’educazione femminile, in L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici da Pio XI a Giovanni Paolo II, a cura di N. Galli, Milano 1992, pp. 225-231.
25 E. Preziosi, Obbedienti in piedi. La vicenda dell’Azione cattolica in Italia, Torino 1996, pp. 153-186.
26 Può essere sufficiente sfogliare le pagine de «La Domenica del corriere», 1935, n. 38 e n. 41; e de «L’Illustrazione italiana», 1934, n. 6, n. 26, n. 30, n. 51 e n. 52, e del numero speciale di Natale e Capodanno 1934-1935.
27 Svimez, Un secolo di statistiche italiane, Nord e Sud 1861-1961, Roma 1961, p. 99.
28 C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano 1973, (1° ed. 1957), era già apparso su «Letteratura» nel 1946-1947.
29 C. Dau Novelli, Italiane anni Trenta: l’economico e l’immaginario, in L’economia domestica, a cura di G. Aliberti, Pisa-Roma 1995, pp. 237-253.
30 A. Rossi Doria, Diventare cittadine, Firenze 1996, pp. 97-98.
31 Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, a cura di G. Bonacchi, A. Groppi, Roma-Bari 1993.
32 Le donne della Costituente, a cura di M.T.A. Morelli, Roma-Bari 2007, pp. V-XXVIII.
33 CIF, Statuto, Roma 1951, pp. 1-2.
34 C. Dau Novelli, Il CIF e la società italiana, (1944-1981), in Donne del nostro tempo. Il Centro Italiano Femminile (1945-1995), Roma 1995, pp. 3-35.
35 F. Taricone, Il Centro italiano femminile dalle origini agli anni Settanta, Milano 2001, p. 61.
36 P. Gaiotti de Biase, Il CIF e la conquista della cittadinanza, in Donne del nostro tempo, cit., pp. 95 segg.
37 M. Federici, Combattiamo l’astensionismo femminile, «Bollettino del CIF», 7, 1946, p. 3.
38 Pio XII, Nel trentesimo della Gioventù Femminile Italiana di Azione Cattolica, 5 settembre 1948, in Discorsi e radiomessaggi, X, Roma 1948-1949, p. 190; Id., Alle «Giovanissime» di Azione Cattolica, 2 ottobre 1955, «L’Osservatore romano», 3 ottobre 1955.
39 A. Miceli, Prospettive future e aspirazioni delle ragazze di oggi, «Cronache», febbraio 1957, p. 1.
40 F.F., La partecipazione delle donne alla costituzione della civiltà industriale, «Cronache», ottobre 1959, p. 8; La donna nella famiglia e nel lavoro attraverso le interviste di Cronache, «Cronache», aprile 1960, pp. 6-7; Dalla viva voce delle lavoratrici le opinioni sul lavoro extracasalingo, «Cronache», maggio 1960, pp. 6-7.
41 Cfr. in «Cronache»: La crisi dell’autorità, febbraio 1961, pp. 6-7; La crisi morale del nostro tempo, luglio-agosto 1961, pp. 2-3; L’amor di Patria, febbraio 1962, pp. 6-7; La purezza oggi, aprile 1962, pp. 6-7; Le donne e la politica, settembre 1962, pp. 6-7; La femminilità, maggio 1962, pp. 4-5; La religione e i suoi riflessi nella vita personale e sociale, settembre 1963, pp. 6-7.
42 F. Franceschi, Un no alle tre «M», «Cronache», ottobre 1968, p. 20. Le tre M erano quelle di macchina, mestiere, moglie o marito.
43 Conferenza episcopale italiana, Matrimonio e famiglia oggi in Italia, 15 novembre 1969.
44 M. Martini, Minuetto, 1973; L. Bertè, Non sono una signora, 1982; G. Nannini, Fotoromanza, 1984. G. Borgna, Storia della canzone italiana, Milano 1992, pp. 339-352.
45 I. Cinus, Il Movimento femminile Dc e il referendum sul divorzio, in Culture politiche, cit., pp. 249-266.
46 M.E. Martini, Una politica per la famiglia, «Cronache», marzo 1974, p. 11.
47 F. Taricone, Il Centro italiano femminile, cit., p. 311, da L’accoglienza della vita umana e la comunità cristiana. Istruzione pastorale del consiglio permanente della conferenza episcopale, Collana Documenti CEI, Torino s.d., pp. 9 segg.
48 F. Taricone, I movimenti femministi, in Donne del nostro tempo, cit., p. 111; C. Dau Novelli, Il neofemminismo: riflessioni critiche, in Culture politiche, cit., pp. 39-62.
49 G. Lionetti, Doppia militanza, in Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, a cura di M. Fraire, Milano 2002, (1° ed. 1978) p. 130.
50 L. Menapace, Le cause strutturali del nuovo femminismo, in La questione femminile in Italia dal ’900 a oggi, Milano 1976, pp. 164-65.
51 M. Gramaglia, 1968: il venir dopo e l’andar oltre del movimento femminista, in La questione femminile in Italia, cit., p. 180.
52 C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, «Quaderni piacentini», 1968, 35, pp. 50 segg.
53 M. Tognetti Bordogna, Lavoro e immigrazione femminile in Italia: una realtà in mutamento, in Immigrazione in Europa, a cura di U. Melotti, M. Delle Donne, Roma 2004, pp. 160 segg.
54 Nel segno dell’empowerment femminile. Donne e democrazia politica in Italia e nel mondo, a cura di C. Dau Novelli, Cagliari 2007 (in partic. F. Venturino, Le differenze di genere nelle elezioni politiche del 2006 in Italia, pp. 135-148; S. Niccolai, La partecipazione politica delle donne in sessant’anni di trasformazione della politica e delle donne, pp. 171-185).