Sordello
Trovatore italiano, citato da D. in VE I XV 2; personaggio dei canti VI, VII e VIII del Purgatorio.
Nato negli ultimi anni del sec. XII o nei primi del sec. XIII a Goito, nel territorio di Mantova, da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà (la più ampia delle due vidas lo dice " gentil catanis "), preferì alla vita meschina e monotona del piccolo nobile di contado la vita del giullare e dell'uomo di corte, e fece le sue prime prove tra quella turba di joglaret novel di cui si lagnava verso il 1220 Aimeric de Peguilhan in un suo famoso sirventese, distinguendosi tra di essi per il suo ingegno e per le sue doti di poeta e di musico, benché, a quanto sembra, fosse partecipe dei loro giochi e delle loro risse (Aimeric ce lo presenta come un accanito giocatore di dadi, sempre squattrinato). Soggiornò per qualche tempo alla corte estense, presso Azzo VII, quindi passò a Verona, ove divenne familiare del conte Rizzardo di San Bonifacio e amò Cunizza da Romano, moglie del conte dal 1222, celebrandola nei suoi versi (come attesta il partimen con Guilhem de la Tor). Nel 1226 (meno probabile la data del 1225, proposta dal Bertoni e da altri studiosi) per invito di Ezzelino III da Romano o, secondo la vida più breve, di Ezzelino e di suo fratello Alberico, rapì Cunizza e la ricondusse nella casa dei Da Romano, presso i quali venne anch'egli a trasferirsi; e sembra che in questo periodo l'amore di S. per Cunizza non rimanesse entro i limiti di una servitù d'amore trobadorica. Il ratto di Cunizza, avvenimento clamoroso che suscitò molti commenti e trovò vasta eco anche nella lirica del tempo, dette a S. larga notorietà.
All'avventura con Cunizza fece seguito, secondo la vida più ampia, un nuovo amore tra S. e Otta di Strasso, conclusosi a quanto sembra con un matrimonio clandestino, che procurò al trovatore l'odio degli Strasso. S. dimorò per qualche tempo a Treviso presso Ezzelino, ma sentendosi continuamente minacciato dai fautori degli Strasso e dei San Bonifacio, e forse anche avvertendo che gli stava venendo meno la protezione di Ezzelino, lasciò Treviso nel 1228 o nei primi mesi del 1229 e si recò in Provenza, donde ben presto passò in Spagna, ove dimorò alla corte di Ferdinando III, re di León e Castiglia (secondo altri, meno probabilmente, di Alfonso IX di León) e presso altri principi (fra cui Giacomo I re d'Aragona). Dalla Spagna ritornò nel 1230 in Francia, e soggiornò per qualche tempo nel Poitou, ove fece esperienza della liberalità di Savaric de Mauleon (morto nel 1230 o 1231).
Più tardi (prima del giugno 1233) si recò presso Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, e si fissò stabilmente alla corte provenzale, assumendovi ben presto una posizione di considerevole rilievo tra i personaggi che facevano parte del seguito del conte ed erano da lui utilizzati come consiglieri o come collaboratori nel disbrigo degli affari riguardanti la vita politico-amministrativa della contea, com'è provato da una ricca serie di documenti, nei quali S. è presente come testimone a importanti atti politico-amministrativi, spesso a fianco di Romée de Villeneuve, " grand baile " e connestabile di Provenza (v. ROMEO di VILLANOVA). Particolarmente importante è l'atto relativo all'accordo stipulato il 5 giugno 1241 a Montpellier da Giacomo I d'Aragona, Raimondo Berengario IV di Provenza e Raimondo VII di Tolosa per decidere il divorzio tra Raimondo VII e Sancia d'Aragona: qui S. è ricordato come primo tra i testimoni di Raimondo Berengario IV, subito dopo due grandi vassalli di Giacomo I; evidente prova che faceva parte della cerchia dei più intimi familiari e collaboratori del conte. Da Raimondo Berengario IV S. dovette ottenere anche la dignità cavalleresca e, pare, l'investitura di un feudo.
In questo periodo S. compose le sue liriche più notevoli (le dodici canzoni che ci sono giunte, i due sirventesi politici, i due sirventesi morali, i tre sirventesi contro Peire Bremon Ricas Novas, il planh in morte di Blacatz), affermandosi come uno dei più illustri trovatori del sec. XIII, tanto che il suo planh (probabilmente del 1237) venne subito imitato da due dei più noti trovatori provenzali del tempo. Alla morte di Raimondo Berengario IV (1245) S. rimase alla corte di Provenza presso la contessa Beatrice, figlia ed erede di Raimondo Berengario, poi presso Carlo d'Angiò, divenuto conte di Provenza in seguito al matrimonio con Beatrice, e continuò a far parte della corte provenzale come consigliere e collaboratore del conte (fu presente infatti a molti atti, spesso di notevole importanza, in cui lo vediamo citato coi titoli di miles e di dominus, spesso tra i primi personaggi della corte angioina, accanto al siniscalco e al giudice maggiore della Provenza).
Nel 1265 S. seguì Carlo d'Angiò nella sua spedizione in Italia, tra i baroni che fecero parte del grosso dell'esercito angioino, che giunse in Piemonte nel novembre attraverso le Alpi. Non sappiamo se partecipasse, come ha supposto il De Lollis, alla battaglia di Benevento; certo è che nel settembre 1266 si trovava prigioniero a Novara (forse per debiti; secondo altri in seguito a una scaramuccia), come attesta un breve di Clemente IV del 22 settembre, in cui il papa rimprovera a Carlo di aver trattato con poca generosità coloro che lo avevano seguito e servito, citando come esempio S. (" miles tuus Sordellus, qui emendus esset immeritus nedum pro meritis redimendus ") e il figlio di Giordano de l'Isle prigioniero a Milano. Il fatto che qui il papa citasse espressamente S. è un riconoscimento della fama di cui S. doveva godere e dell'importante posizione che doveva avere tra i baroni angioini venuti in Italia, come sottolinea l'aperto accenno ai suoi meriti; d'altra parte è significativo che S. venga ricordato accanto al figlio di uno dei più nobili e potenti baroni di Carlo, che era uno dei capi dell'esercito angioino in Italia (che S. avesse una parte di rilievo nell'impresa di Carlo d'Angiò in Italia sembra attestato anche da un sirventese di Peire de Castelnau, che celebrando la vittoria di Carlo su Manfredi, e lodando la prodezza dei baroni provenzali venuti con Carlo in Italia, ricorda, accanto a Barral de Baus, " monsegn'en Sordel ", esaltandone il pregio e il valore). Liberato poco dopo, verisimilmente per intervento di Carlo d'Angiò, ebbe da Carlo in feudo il castello di La Morra nel territorio di Cuneo; più tardi, dopo la battaglia di Tagliacozzo e il supplizio di Corradino, Carlo gli concesse (marzo 1269) in considerazione dei " grandia, grata et accepta servitia " che ne aveva ricevuto, vari feudi in Abruzzo, poi accresciuti o scambiati con altri di reddito più cospicuo con successive donazioni: in tali documenti S. è designato coi titoli di " miles " e di " dilectus familiaris et fidelis noster ", tra i quali è particolarmente notevole quello di " familiaris ", che veniva concesso solo ai baroni più legati alla corte e a quelli di più alto lignaggio.
Che la posizione di S. alla corte angioina di Napoli fosse di notevole rilievo sembra del resto provato anche dal fatto che nel 1267 Luchetto Gattilusio, rivolgendo a Carlo d'Angiò vari consigli di carattere politico nel suo sirventese D'un sirventes m'es granz volontatz preza, indirizzava la lirica proprio a S., affinché - come si può desumere dalla tornada - lo presentasse al re.
S. non poté godere a lungo di queste donazioni: nell'agosto 1269 il vecchio trovatore venne a morte (verisimilmente per malattia, o di vecchiaia), non sappiamo in quale località, ma certamente in Italia, e probabilmente nel reame angioino, senza lasciare eredi: infatti i feudi a lui assegnati il 30 agosto 1269 venivano concessi a Bonifacio di Galibert, senza indicazione di permuta, e il suo nome non è più ricordato nei registri angioini.
S. (del quale ci sono giunte 42 liriche e un poemetto didattico, l'Ensenhamen d'onor) è il più famoso e il più grande dei trovatori italiani, e D. certo fermò su di lui la sua attenzione fin dalle sue prime letture di liriche provenzali. Probabilmente già nel primo sonetto della Vita Nuova (A ciascun'alma presa e gentil core) nel motivo del cuore dato in pasto alla donna si trova - come hanno ammesso anche il Barbi (Barbi-Maggini, Rime 9 ss.) e il Bowra - una lontana reminiscenza del compianto in morte di Blacatz. Nel De vulg. Eloq. non è citata alcuna lirica di S., ma il trovatore mantovano è lodato in I XV 2 per la sua eccellenza nell'arte del dire (tantus eloquentiae vir) e per aver abbandonato non solum in poetando sed quomodocumque loquendo il patrio volgare.
Il passo è stato variamente interpretato, e ha dato luogo a lunghe discussioni; ma dal contesto in cui le frasi riguardanti S. sono collocate - la lode, cioè, data ai Bolognesi perché fondono nel loro volgare i caratteri delle parlate vicine, contemperando la mollezza degl'Imolesi con la garrulitas dei Ferraresi e dei Modenesi - risulta chiaro che non può essere accolta l'interpretazione del De Lollis, secondo il quale D. con la frase patrium vulgare deseruit volle semplicemente dire che S. abbandonò il patrio volgare per poetare sempre in provenzale.
È evidente che qui D. loda S. per aver fatto individualmente ciò che i Bolognesi hanno fatto collettivamente, cioè per aver saputo contemperare nell'arte della parola i caratteri della lingua di Mantova con quelli della lingua delle città confinanti (Cremona, Brescia e Verona), e ha voluto quindi accennare indubbiamente a composizioni in volgare italico; ed è perciò nel vero il Marigo, il quale ritiene che " l'insieme del ragionamento di D. porta a pensare in primo luogo ad eloquenza oratoria e poetica in volgare italiano ". Si può formulare con lo Zingarelli (Dante 574) l'ipotesi che col quomodocumque loquendo D. alludesse " a composizioni auliche, a discorsi, arringhe, delle quali egli doveva sapere, composte in un volgare italiano che non lasciava trapelare il dialetto nativo "; e si è anche pensato che con poetando D. si riferisse anche a componimenti poetici di S. in volgare italiano, a lui noti, scritti in un " volgare illustre " settentrionale. Uno di questi componimenti potrebb'essere, secondo il Bertoni (Nuove rime, pp. 208 ss.), il " sirventese lombardo " Poi qe neve ni glaza conservato anonimo dal codice Campori, lirica non certo " rozza ", come un po' sbrigativamente la definisce il Marigo, ma d'ispirazione dotta e aulica, ricca di provenzalismi, e sicuramente dovuta a un rimatore che aveva una buona esperienza della lirica trobadorica. Questa suggestiva ipotesi, considerata dall'Ugolini " un poco arrischiata " ma non da respingersi in modo assoluto, è stata in seguito ritenuta meritevole di " simpatia " anche dal Contini (Poeti I 501), che giudica il sirventese opera di un trovatore italiano e lo ritiene composto " nel Veneto o nella striscia più orientale dell'attuale Lombardia ". V. anche MANTOVA: Lingua.
Ma la più notevole testimonianza dell'ammirazione di D. per S. ci è data dai canti VI-VIII del Purgatorio, nei quali D. ricrea originalmente la figura storica del trovatore, facendone uno dei personaggi più grandiosi e più suggestivi della seconda cantica.
S. ci appare per la prima volta, maestoso nella sua raccolta solitudine, sullo sfondo della dolce luce del sole calante nell'approssimarsi del tramonto, alla chiusa del colloquio tra Virgilio e D. sull'efficacia della preghiera: Ma vedi là un'anima che, posta / sola soletta, inverso noi riguarda: / quella ne 'nsegnerà la via più tosta (Pg VI 58-60). Queste parole di Virgilio ci pongono già dinanzi, disegnata in un atteggiamento quasi statuario, la figura di S., con la sua severa solitudine, sottolineata dalla reduplicazione dell'aggettivo, col suo sguardo pensoso e austero, fisso sui due pellegrini: e quel vedi là, che concentra perentoriamente su di essa lo sguardo di D., ci richiama alla mente la presentazione di Farinata. La figura di S. si precisa in tutta la sua imponenza nelle terzine seguenti: figura maestosa, di un'austera solennità, isolata nel suo sdegnoso raccoglimento, chiusa nel suo silenzio: Venimmo a lei: o anima lombarda, / come ti stavi altera e disdegnosa / e nel mover de li occhi onesta e tarda! / Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa (vv. 61-66).
L'apostrofe crea una pausa contemplativa che fa ancor più grandeggiare l'immagine; e il paragone col leone, di origine biblica, corona in modo stupendo il grandioso ritratto, mentre lo sguardare e il mover de li occhi lento e dignitoso ci fa sentire l'interiore tensione che si cela in quella immobilità e prepara il drammatico gesto che seguirà tra poco. È un personaggio che va senz'altro ascritto alla categoria dei magnanimi, come sottolinea esplicitamente Benvenuto da Imola (a cui appunto il paragone col leone suggerisce l'idea della magnanimità), e che per quel mover de li occhi onesta a tarda ricorda appunto un poco gli " spiriti magni " del Limbo, e per la maestosità e l'altero disdegno ricorda Farinata (a cui il Croce volle, com'è noto, decisamente accostarlo; anche se notevoli sono le differenze, perché, come nota il Momigliano, " nella figura di Farinata sono evidenti, recise le linee esteriori; Sordello è un grande ritratto, ma tutto spirituale "), mentre per la solitudine austera si può accostare a Catone, al quale è più vicino dei magnanimi dell'Inferno, perché, come finemente ha osservato Ezio Raimondi (Lect. Scaligera II 29-30), in lui, come nell'Uticense, " l'umiltà non contraddice più alla magnanimità ", ma va associata a essa, secondo gl'insegnamenti di s. Tommaso, come si vede dalla scena dell'abbraccio, e ancor più dall'atteggiamento di reverenza verso Virgilio che S. assume all'inizio del canto VII.
L'austera maestà di S. è sottolineata anche dalla reverenza e direi quasi dalla soggezione con cui Virgilio si accosta a lui, e si rivela anche nel fiero atteggiamento del trovatore, che, chiuso nel suo isolamento, non si degna di rispondere alla domanda, ma interroga a sua volta i due pellegrini circa il loro nome e il loro paese: altro tratto che ricorda Farinata, anche se nell'intimo la diversità è grande, dato che Farinata mira a conoscere a quale fazione D. appartenga ed è quindi legato agli odi di parte, mentre in S. vive soltanto la ‛ carità del natio loco ', come subito appare dalla scena dell'abbraccio con Virgilio.
Basta che S. senta risuonare il nome di Mantova, con cui Virgilio incomincia la sua risposta - ricalcata sull'inizio del famoso epitaffio " Mantua me genuit " a lui attribuito dalla tradizione - e subito la sua austera immobilità si scioglie in un gesto improvviso, che crea un forte, efficacissimo contrasto: e 'l dolce duca incominciava / " Mantüa... ", e l'ombra, tutta in sé romita, / surse ver' lui del loco ove pria stava, / dicendo: " O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra! "; e l'un l'altro abbracciava (v. 74). Solo l'amore della terra natale induce S. ad abbracciare il suo concittadino, di cui non conosce ancora il nome. S. diviene così, in questa famosa scena, una delle più memorabili del Purgatorio, il simbolo dell'amor di patria, e appare decisamente la figura dominante di tutto il canto: infatti la grande scena dell'abbraccio tra i due Mantovani non solo sta al centro del canto, ma ne è anche il nucleo centrale, per così dire, il centro poetico, poiché a essa si ricollega, per contrasto, la scena iniziale dei morti per forza - quadro drammatico delle conseguenze delle discordie che travagliano tutta la società contemporanea - e a essa tende, attraverso il colloquio tra D. e Virgilio, tutta la prima parte del canto; da essa d'altra parte prende le mosse la seconda parte del canto, l'apostrofe-invettiva che ne costituisce l'appassionato commento, inserita da D. a guisa di ‛ digressione ', interrompendo il racconto.
La scena dell'abbraccio tra S. e Virgilio è forse il momento più alto che raggiunge la raffigurazione di S. nel Purgatorio. Ma grande rilievo ha la figura di S. anche nel canto VII, che, riprendendo il racconto interrotto dalla ‛ digressione ', si apre col seguito del colloquio tra i due Mantovani, che si svolge in un tono più pacato. Dopo che Virgilio ha rivelato a S. il suo nome, il colloquio diviene un " incontro tra poeti " (Bosco), che s'inserisce in quella serie d'incontri tra poeti che punteggia tutto il Purgatorio - che, come osserva acutamente il Bosco (Il Purgatorio, Torino 1958, 62), " è anche la cantica che celebra la poesia " - e introduce nella figura di S. nuove sfumature: il trovatore, che già aveva deposto il suo disdegnoso riserbo, si volge ora a Virgilio con umiltà e ammirazione, abbracciandogli le ginocchia (come poi vorrà fare Stazio), e pronunciando parole di commossa esaltazione, che sono un nuovo omaggio di D. al suo maestro e autore. (Notevoli, nel colloquio, anche le accorate parole con cui Virgilio accenna con malinconia alla sua sorte di anima relegata nel Limbo, priva della salvezza eterna: v. VIRGILIO). Quindi S. diviene la guida dei due pellegrini nella valletta (v. VALLETTA dei PRINCIPI), e, dopo aver chiarito la situazione delle anime e aver avvertito che non è possibile salire di notte, addita a essi i principali personaggi che vi sono raccolti: l'imperatore Rodolfo d'Asburgo, Ottocaro II re di Boemia, Filippo III re di Francia, Enrico III re di Navarra, Pietro III re d'Aragona, Carlo I d'Angiò, Enrico m re d'Inghilterra e Guglielmo VII marchese di Monferrato. E nel passarli in rassegna indica con pacata e raccolta tristezza le colpe di ciascuno di essi e dei loro discendenti: un quadro amaro della " decadenza di quasi tutte le case regnanti " (Mengaldo: cfr. Firenze), che sviluppa più pacatamente (benché vi si trovino a tratti giudizi aspri e sdegnosi) il tema dell'apostrofe-invettiva del canto VI.
Nel canto VIII, anche se non ha più la funzione di protagonista, S. continua il suo ufficio di guida, e rimane, per così dire, uno degli elementi essenziali dell'ampio e vario quadro che D. vi raffigura, come compartecipe della " sacra rappresentazione " della venuta e della fuga del serpente e dei colloqui con le anime della valletta, benché rimanga un poco nell'ombra: informa i due pellegrini che i due angeli vengono a guardia de la valle e preannuncia l'arrivo del serpente (vv. 37-39), invita D. e Virgilio a scendere tra le grandi ombre (vv. 43-45), dando così occasione agl'incontri che D. ha con Nino Visconti e Currado Malaspina, si meraviglia, con Nino, del fatto che D. è ancor vivo (vv. 61-64), e addita a Virgilio il serpente che si avvicina (vv. 94-96). Quando D. è portato da Lucia dinanzi alla porta del Purgatorio, S. rimane nella valletta, assieme alle anime dei principi.
La figura di S. domina quindi tre canti - quei canti che un illustre dantista, I. Del Lungo, volle appunto chiamare, nell'edizione che ne procurò, " i canti di Sordello " - e ha nel quadro dell'Antipurgatorio un singolare rilievo: rilievo che è sottolineato anche dall'ufficio di guida che D. assegna al trovatore, isolandolo dalle altre anime, e non associandolo a nessuna particolare schiera. S. infatti non appartiene alla schiera dei morti per forza, ai quali qualche studioso (Casini-Barbi, Torraca, S. Santangelo, Bowra) ha voluto aggregarlo, fondandosi soprattutto sulla sua vicinanza a tali anime, e sul fatto che egli non sembra appartenere ai principi negligenti, di cui appare il censore e il giudice. Tra S. e i morti per forza c'è una separazione decisa, non solo per quella certa distanza che intercorre tra la schiera degli uccisi violentemente e il luogo in cui il trovatore è posto, ma anche e soprattutto perché il Mantovano è contrapposto nettamente alla schiera dei morti per forza per la sua sdegnosa solitudine e per la totale assenza in lui di quell'ansioso desiderio di suffragi che tali anime rivelano. Ad appoggiare l'ipotesi che S. sia da unire ai morti per forza è stata anche invocata la testimonianza di Benvenuto, il quale afferma che S. venne fatto trucidare da Ezzelino da Romano; ma, diremmo, è impossibile ammettere che D., che ben doveva conoscere le vicende di Ezzelino, accogliesse tale diceria manifestamente errata (Ezzelino morì nel 1259, S. nel 1269), e in aperta contraddizione con la conoscenza che dovette avere dell'attività di consigliere e collaboratore di Carlo d'Angiò in Italia. Bisognerebbe quindi pensare che a D. giungesse solo la notizia della morte violenta di S., non legata all'intervento di Ezzelino: una notizia vaga come quella data dall'Anonimo fiorentino, che la riferisce peraltro come una voce dubbia e non comprovata (" vuol dire alcuno che poi fu morto di subitana morte, e per questo l'autore il mette in questo luogo; ma che questo intervenisse non si truova "; ediz. Fanfani, II 105). Inclino a credere che questa notizia della morte violenta di S. sia una notizia posteriore a D., nata a margine del testo dantesco ad opera d'interpreti che dal luogo in cui S. è collocato nell'Antipurgatorio desumevano che egli appartenesse alla schiera dei morti per forza e supponevano che D. lo avesse collocato lì sapendolo ucciso violentemente.
S. è sembrato invece ad altri (Guarnerio, D'Ancona, Zingarelli, Pietrobono, Momigliano, ecc.) più affine ai principi della valletta, a cui appare assai vicino topograficamente (cfr. VII 64 poco allungati c'eravam di lici), e a cui lo avvicina decisamente anche la sua qualità di alto feudatario di Carlo d'Angiò. Inoltre, non solo S. ha libero accesso alla valletta, alla quale accompagna i due pellegrini, ma vi resta, con le altre anime dei principi negligenti, quando D. è trasportato da Lucia fuori della valletta, fino alla porta del Purgatorio, com'è dichiarato esplicitamente nel racconto che Virgilio fa a D. nel canto IX (Sordel rimase e l'altre genti forme; / ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro, / sen venne suso; e io per le sue orme, v. 58). Però S., se consideriamo attentamente tutti i particolari, appare separato, in un certo senso, anche dai principi della valletta: parla delle anime dei principi negligenti senza accomunarsi a esse, con un certo distacco (cfr. VII 46 Anime sono a destra qua remote; / se mi consenti, io ti merrò ad esse, / e non sanza diletto ti fier note); e di tali anime egli appare nella valletta il censore e il giudice. Diremmo quindi doversi concludere che, per quanto si possa considerare più affine ai principi della valletta che ai morti per forza, S. ha una posizione speciale, fa in certo modo " parte per sé stesso ", come pensavano il Parodi e il D'Ovidio (e, in parte, anche il Crescini e V. Rossi), e come ritengono ancor più decisamente studiosi più recenti quali, in nota a Pg VII 40 Loco certo non c'è posto, il Porena (" non sembra appartenere a nessun gruppo di quelli che Dante ci mostra ") e il Sapegno (" sebbene Dante non lo mostri legato a nessuna delle schiere particolari in cui sembra distinguerli "), appunto per la sua particolare funzione di guida dei due pellegrini in questo tratto dell'Antipurgatorio, in rapporto col suo compito di giudice delle anime dei principi.
Ci si presenta ora il problema di cercare di stabilire come sia sorta nella mente di D. l'idea di affidare tale ufficio di guida a S., e donde abbia D. tratto lo spunto per ideare e disegnare la figura di S., e specialmente i due momenti più alti di questa raffigurazione: l'immagine solenne dell'anima altera e disdegnosa del canto VI e la rassegna dei principi negligenti del canto VII. In primo luogo D. trasse certo ispirazione dalle poesie del trovatore di Goito, che egli ben conosceva e di cui faceva certo grande stima, come sembra mostrare anche il noto passo del De vulg. Eloq. (I XV 2) in cui S. è detto tantus eloquentiae vir. E tra le rime sordelliane che ispirarono D. va collocato in primissimo luogo, com'è ormai opinione comune tra gli studiosi, il celebre compianto in morte di Blacatz, nel quale S. invita i più potenti sovrani del tempo a cibarsi del cuore del prode barone provenzale defunto per risollevarsi dalla loro viltà e riacquistare prodezza e valore.
In questa lirica, in cui rivolge pungenti rimproveri non solo all'imperatore Federico II e ai re di Francia (Luigi IX) e d'Inghilterra (Enrico III), ma anche ai re di Castiglia (Ferdinando III), di Aragona (Giacomo I) e di Navarra (Thibaut I) e ai conti di Tolosa (Raimondo VII) e di Provenza (Raimondo Berengario IV), S. ci appare nella veste di fiero e magnanimo censore dei principi contemporanei; e nelle due tornadas o congedi egli si dimostra veramente ‛ altero e disdegnoso ', ostentando un coraggioso disprezzo per l'ira dei principi offesi e una superba noncuranza per l'odio dei suoi nemici: " Li baro ∙m volran mal de so que ieu dic be, / mas ben sapchan qu'ie∙ls pretz aitan pauc quon ilh me. / Belh Restaur, sol qu'ab vos puesca trobar merce, / a mon dan met quascun que per amic no∙m te ". Questa satira amara e solenne, sdegnosa e magnanima, dovette avere un'eco profonda nell'animo di D.; e soprattutto da essa D. trasse lo spunto per raffigurare S. come un'anima altera e disdegnosa, raccolta in austera solitudine.
Questo planh suggerì certo a D. anche la rassegna dei principi della valletta, che è simile per l'ispirazione al compianto, in quanto di ogni principe si additano le colpe, ed è costruita secondo lo stesso schema, seguendo rigorosamente l'ordine gerarchico: al primo posto infatti, come si è visto, è ricordato l'imperatore, Rodolfo d'Asburgo, quindi vengono citati i re, e come ultimo è nominato un principe di rango inferiore, il marchese di Monferrato. Inoltre i principi che S. passa in rassegna nella valletta additandone le mancanze sono otto, come nel planh sordelliano, se non si computa nel numero il figlio del re d'Aragona, Pietro, che viene ricordato solo incidentalmente; né è da dimenticare, anche se certo è cosa di minor rilievo, che uno dei re presenti nella valletta, Enrico III d'Inghilterra, era già nella rassegna sordelliana, e che altri principi della valletta sono figli o parenti dei principi ricordati nel planh. Dal compianto dipende principalmente anche l'assegnazione a S. dell'ufficio di guida dei due pellegrini in tutta la scena della valletta, anche se si deve riconoscere che per questo particolare all'influenza della lirica sordelliana s'intrecciano reminiscenze del libro VI dell'Eneide, messe in luce dal D'Ovidio (Museo [Aen. VI 672-678] che guida Enea e la Sibilla nella valle appartata in cui sta Anchise - e il ricordo virgiliano è comprovato dalla precisa corrispondenza tra il " nulli certa domus " di Museo [v. 673] e il loco certo non ci è posto di S. [Pg VII 40] -; Anchise che mostra a Enea e alla Sibilla le ombre dei discendenti dall'alto di una collinetta).
Primo punto di partenza del S. dantesco è quindi, sicuramente, il planh in morte di Blacatz. Ma non si può escludere che a formare nella mente di D. un'alta e solenne immagine di S. concorresse anche, in qualche misura, l'Ensenhamen d'onor, trattato di cortesia e di etica cavalleresco-cortese in cui S. si fa austero maestro di vita morale, rivolgendo anche fieri rimproveri ai potenti e ai ricchi, dimentichi delle virtù cortesi. Il Bowra anzi ha voluto assegnare un'importanza decisiva, nell'ideazione della figura di S. e di tutto l'episodio dantesco, a questo poemetto sordelliano, e ha creduto di poter rintracciare tutta una serie di corrispondenze tra le idee espresse da S. in vari punti dell'Ensenhamen e le idee cui è ispirata l'apostrofe-invettiva del canto VI, citando anche vari passi in cui sarebbe più evidente l'eco dei versi del trovatore mantovano.
Ora, le corrispondenze concettuali che il Bowra ha additato sono in complesso piuttosto vaghe e generiche, e credo che lo studioso inglese abbia in fondo sopravvalutato tali corrispondenze: ma D. certo doveva conoscere l'Ensenhamen sordelliano - cosa che del resto sembra provata anche da un'eco precisa di un passo del poemetto che si ritrova nel canto III dell'Inferno (cfr. Ensenhamen 901 ss.; If III 34 ss.; il riscontro, che risale al Torraca, venne giudicato " abbastanza concludente " anche dal Parodi) -; ed è assai verosimile che anche a causa di questo poemetto D. considerasse S. come un poeta austero e severo, censore dei vizi del suo tempo e maestro di vita morale, e che anche l'Ensenhamen d'onor concorresse a suscitare nell'animo di D. una viva ammirazione per S., e gli suggerisse qualche spunto per queste pagine. E accanto all'Ensenhamen contribuirono certo a creare in D. tale giudizio anche i sirventesi morali di S., e soprattutto il sirventese Qui be∙is membra del segle qu'es passatz, in cui il trovatore deplora la decadenza delle più nobili virtù, che si va sempre più accentuando, e l'attribuisce principalmente al fatto che i potenti, che guidano la società, non amano più onore e pregio e sono dimentichi della loro missione, e da essi appunto la corruzione e il vizio discendono di grado in grado fino ai " menors ", sì che tutta la società ne è guastata. In questo sirventese, che gli fu certamente noto, D. trovava, espresse con nobile sdegno, idee che erano vive anche nel suo animo.
Specialmente per queste poesie S. doveva apparire a D. il maggior trovatore italiano, non indegno di essere accostato a Virgilio nel grande abbraccio che, come abbiamo visto, costituisce la scena centrale del canto VI. Non è improbabile tuttavia che all'ideazione del S. dantesco concorressero in qualche modo anche notizie desunte dalla tradizione orale, che probabilmente D. poté raccogliere in Firenze, dove visse Cunizza da Romano nei suoi ultimi anni (v. ROMANO, CUNIZZA da), e nelle corti dell'Italia settentrionale in cui dimorò durante l'esilio. È assai verosimile che D. avesse notizia dell'alta dignità raggiunta da S. alla corte di Provenza, e soprattutto della sua attività di alto consigliere e collaboratore di Carlo d'Angiò e della sua attiva partecipazione alla grande impresa italiana del sovrano angioino, in seguito alla quale il vecchio poeta era stato investito di vari feudi in Abruzzo; e anche questo può aver contribuito a innalzare nella mente di D. la figura del trovatore di Goito (del resto, all'attività di S. come uomo politico è verosimile che D. alludesse col quomodocumque loquendo di VE I XV 2: passo che mostra chiaramente, d'altro canto, che D. aveva di S. notizie più ampie di quelle che sono giunte fino a noi).
La raffigurazione dantesca di S. si fonda quindi da un lato - e in primissimo luogo - sulle poesie del trovatore conosciute da D., e dall'altro - in minor misura - sulla tradizione contemporanea, nonché, per vari particolari, su varie reminiscenze virgiliane (v. sopra; e cfr. ANTIPURGATORIO). Ma D., naturalmente, pur partendo da questi elementi offertigli dalle sue letture e dalla tradizione, ricrea e trasfigura in modo personalissimo, come fa a proposito di tanti altri personaggi del suo poema, la figura di S., elevandola a simbolo dell'amor di patria e infondendo in essa i suoi ideali.
Così al ritratto grandioso e solenne, disegnato con potente rilievo, ispirandosi al planh per Blacatz e in parte all'Ensenhamen d'onor e ai sirventesi morali, D. fa seguire, con un suggestivo contrasto, la scena originalissima dell'abbraccio con Virgilio, in cui S. è fatto simbolo della ‛ carità del natio loco ' e assurge a figura emblematica di quell'amore tra i cittadini che potrebbe portare rimedio ai mali d'Italia: trasfigurazione geniale che è senza dubbio la parte più nuova della rappresentazione dantesca di S., perché non ha alcun riscontro nel S. storico. A questo abbraccio affettuoso e insieme solenne tra i due poeti D. riallaccia la sua celebre apostrofe-invettiva all'Italia, che prorompe dal suo animo nell'atto del raccontare, a commento della scena dell'abbraccio tra i due concittadini: ‛ digressione ' nella quale D. esprime direttamente i suoi sentimenti, riassumendo liricamente in essa le sue più appassionate meditazioni sulla dolorosa sorte dell'Italia, ma che è intimamente legata alla figura di S. - anche se non vogliamo accettare la tesi estrema del Bowra, secondo il quale essa sarebbe tutta intessuta di idee espresse da S. in vari punti dell'Ensenhamen d'onor - poiché il trovatore mantovano aveva nei suoi componimenti più famosi deplorato la decadenza della società del tempo suo e aveva levata alta la sua voce sdegnosa contro coloro che riteneva responsabili di tanta rovina.
Nella rassegna dei principi della valletta, più apertamente sordelliana dell'apostrofe-invettiva, perché costruita sullo schema del planh per Blacatz e perché affidata a S., D. fa di S. il portavoce dei suoi giudizi su gran parte dei principi della cristianità e delle sue meditazioni politico-morali, proseguendo e ampliando il tema dell'apostrofe-invettiva, che viene collocato " sullo sfondo di una decadenza generale, estesa a tutti gli stati, dilagante a corrompere ogni membro dell'ideale monarchia " (Sapegno). Apostrofe-invettiva e rassegna formano così una specie di dittico in cui D. - con una ‛ variazione ' artisticamente assai felice - sviluppa poeticamente il tema etico-politico suggeritogli dalla sua ispirazione e impostogli, per il canto VI, dalla meditatissima costruzione simmetrica del poema, partendo principalmente da spunti sordelliani trasfigurati dalla sua fantasia e incentrando tutta la rappresentazione intorno alla figura del trovatore di Goito.
Dal S. dantesco prende le mosse molto probabilmente la leggenda sordelliana, che fa di S. un cavaliere valentissimo nelle armi, difensore e vindice della libertà di Mantova contro Ezzelino, e, più tardi, lo presenta addirittura come il signore di Mantova (non diremmo sufficientemente provata l'ipotesi del Crescini, che la riteneva anteriore a D.). La leggenda, di cui non si trova traccia presso i commentatori della Commedia, compare per la prima volta, in forma assai ampia, e collegata a copiosi ed evidenti riecheggiamenti danteschi, nella Cronica de Mantua o Aliprandina di Bonamente Aliprandi (terminata intorno al 1415); venne poi ripresa e ampliata dal Platina nella sua Historia urbis Mantuae, da Raffaele da Volterra, da Mario Equicola, da G.B. Fulgosio e da altri scrittori mantovani e non mantovani, ed ebbe larga diffusione anche nei secoli XVII e XVIII. Da essa trasse ispirazione, com'è noto, anche il Folengo nel Baldus (ove S. è presentato come un ricco e potente barone, " princeps Goiti ", famoso per la sua bravura cavalleresca e le sue vittorie nei tornei).
Bibl. - Edizioni: Vita e poesie di S. di Goito, a c. di C. De Lollis, Halle 1896 (incompleta; da integrare con i componimenti dati successivamente alla luce da G. Bertoni, Nuove rime di S. di Goito, in " Giorn. stor. " XXXVIII [1901] 269 ss.; e da A. Jeanroy, Poésies provençales inédites d'après les manuscrits de Paris, in " Annales du Midi " XVII [1905] 476 ss.); S., Le poesie. Nuova edizione critica..., a c. di M. Boni, Bologna 1954; M. Boni, S. (con una scelta di liriche tradotte e commentate), ibid. 1970 (ediz. minore comprendente solo 21 liriche, ma riveduta e aggiornata).
Sulla vita e sull'opera di S., oltre alle introduzioni delle edizioni sopra citate (corredate di una copiosa bibliografia), v. principalmente: C. De Lollis, Pro S. de Godio, milite, in " Giorn. stor. " XXX (1897) 125 ss.; F. Torraca, Sul S. di Cesare De Lollis, in " Giorn. d. " IV (1897) 1 ss.; ID., A proposito di S., ibid., 297 ss., Sul ‛ Pro S. ' di Cesare De Lollis, ibid., VI (1898) 417 ss., 529 ss.; VII (1899) 1 ss.; V. Crescini, S., Verona-Padova 1897 (rist. con aggiunte col titolo A proposito di S., in " Atti R. Ist. Veneto Scienze Lettere Arti " LXV 2 [1905-06] 41 ss.); G. Bertoni, I trovatori d'Italia, Modena 1915, 74 ss., 150 ss.; F.A. Ugolini, La poesia provenzale e l'Italia, ibid. 1939 (1949²), XXX ss.; V. De Bartholomaeis, Primordi della lirica d'arte in Italia, Torino 1943, passim; A. Viscardi, La poesia trobadorica e l'Italia, in Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana, IV, Milano 1948, 26 ss.; L. Cocito, Pro S.: la personalità, in " Lettere Ital. " IV (1952) 105 ss.; E. Hoepffner, Les troubadours, Parigi 1955, 185 ss.
Su D. e S. e sul S. dantesco in particolare v. principalmente (oltre alle introduzioni delle edizioni sopra citate): E.G. Parodi, Il S. di D., in " Bull. " IV (1896-97) 185 ss.; F. D'Ovidio, S., in Studi sulla D.C., Palermo 1901 (rist. Caserta 1931) 3 ss.; A. Mazzoleni, S. e l'apostrofe dantesca, Bergamo 1901; A. D'Ancona, Il canto VII del Purgatorio, Firenze 1901 (rist. in Lett. dant. 807 ss.); F. Novati, Il c. VI del Purgatorio, Firenze 1903 (rist., senza le note, in Freschi e minii del Dugento, Milano 1908, 143 ss.; 1925², 117 ss.); F. D'Ovidio, Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906, 223 ss., 413 ss.; F. Tocco, Il c. VI del Purgatorio, in " Nuova Antol. " CCXV (1907) 376 ss.; A. D'Ancona, Il c. VIII del Purgatorio, in D. e la Lunigiana, Milano 1909, 1 ss.; E. Donadoni, Il c. VIII del Purgatorio, Firenze 1919 (rist. in Lett. dant. 825 ss.); B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 112 ss.; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1921 (1959²), 14 ss., 157 ss.; I. Del Lungo, I tre canti di S., Firenze 1923; H. Hauvette, La France et la Provence dans l'oeuvre de D., Parigi 1929, 125 ss.; A. Parducci, D. e i trovatori, in AA.VV., Provenza e Italia, Firenze 1930, 89 ss.; Zingarelli, Dante 133, 574, 1048 ss.; M. Porena, in La mia lectura Dantis, Napoli 1932; S. Frascino, La personalità poetica di S. da Goito nel Purgatorio dantesco, in Annuario del R. Liceo-Ginnasio Carducci-Ricasoli di Grosseto, 1935; G. Gentile, Il c. VI del Purgatorio, Firenze 1940 (rist. in Lett. dant. 787-805); C.M. Bowra, D. and S., in " Comparative Literature " V (1953) 1 ss. (recens. di M. Boni, in " Studi d. " XXXIII [1954] 170 ss.); A. Roncaglia, II c. VI del Purgatorio, in " Rass. Lett. Ital. " LX (1956) 409 ss.; G. Folena, Vulgares eloquentes. Vite e poesie dei trovatori di D., Padova 1961; ID., D. et les troubadours, in " Revue de Langue et Littérature d'Oc " 12-13 (1962-63) 21 ss.; R.M. Ruggieri, Tradizione e originalità nel lessico ‛ cavalleresco ' di D.: D. e i trovatori provenzali, in L'umanesimo cavalleresco italiano, Roma 1962, 67 ss.; T. Gallarati Scotti, Il canto VI del Purgatorio, Torino 1964; G. Favati, S., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 551 ss.; S. Pasquazi, Canto VI, in Lect. Scaligera II 185 ss.; ID., Canto VII, ibid. 219 ss. (ristampati in All'eterno dal tempo, Firenze 1966, 127 ss.); G. Petronio, Il c. VIII del Purgatorio, ibid., II 261 ss.; F. Gabrieli, Il c. VI del Purgatorio, in Nuove lett. III 333 ss.; F. Forti, Il c. VIII del Purgatorio, in Lett. Classensi III 295 ss.
Sul passo del De vulg. Eloq. e sul " sirventes lombardo " cfr. anche: G. Ghinassi, Il volgare mantovano all'epoca di D., in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 87 ss. Sulla leggenda sordelliana anche E. Faccioli, S. da Goito, in aa.vv., Mantova. Le lettere. I. La tradizione virgiliana. La cultura nel Medioevo, Mantova 1959, 401 ss.