Sonatine
(Giappone 1993, colore, 94m); regia: Kitano Takeshi; produzione: Masayuki Mori, Nabeshima Hisao, Yoshida Takio per Bandai Visual/Shōchiku Daiichi Kōgyō; sceneggiatura: Kitano Takeshi; fotografia: Yanagishima Katsumi; montaggio: Kimura Akiyuki, Kitano Takeshi; scenografia: Sasaki Osamu; costumi: Allen M. Kudō; musica: Hisaishi Jō.
Murakawa, uno yakuza (affiliato alla mafia giapponese) noto per la sua violenza spietata, vorrebbe ritirarsi e iniziare una nuova vita. Il boss Kitajima lo convince però a intraprendere un'ultima missione a Okinawa, per aiutare un gruppo di mafiosi in lotta con un'altra fazione. Ben presto, Murakawa si accorge di essere stato attirato in una trappola. Al suo arrivo, la gang rivale fa strage dei suoi uomini. Con i pochi compagni superstiti, Murakawa si rifugia allora in una baracca sulla spiaggia. Passano i giorni e gli uomini, nell'attesa del loro destino, ingannano il tempo giocando sulla sabbia, mentre Murakawa è oggetto dell'affetto di Miyuki, una ragazza che ha salvato da un violentatore. Gli omicidi ai danni della sua gang tuttavia continuano. Giunto alla resa dei conti, Murakawa fa strage della fazione rivale in un albergo. Ormai solo, ritornato alla spiaggia dove Miyuki lo aspetta, si suicida con un colpo di pistola alla testa.
Quarto lungometraggio diretto da Kitano Takeshi, nonché il terzo nel quale figura anche come interprete sotto lo pseudonimo di Bīto (Beat in Occidente) Takeshi, Sonatine è probabilmente il film più rappresentativo del regista giapponese, la pellicola che lo ha consegnato alla notorietà internazionale, fino a fungere da modello quasi archetipico di tutto il suo cinema. Come nei precedenti Sono otoko, kyōbō ni tsuki (Violent Cop, 1989) e San tai yon ekkusu jūgatsu (Boiling Point, 1990), e nel successivo Hana-bi (Hana-bi ‒ Fiori di fuoco, 1997), Kitano elabora la sua visione del mondo attraverso una rilettura personalissima degli stilemi dello yakuza eiga (il cinema di gangster nipponico), riuscendo al tempo stesso a rispettare e a sospendere le regole del genere in funzione di una più ampia riflessione, che è insieme cifra del disincanto e dell'odio del regista nei confronti della società giapponese e indagine sullo statuto della realtà e del soggetto nel cinema contemporaneo. All'interno di Sonatine, gli elementi figurativi e narrativi dello yakuza eiga vengono infatti definitivamente svuotati del loro significato e riconsegnati quasi come pura apparenza e funzione linguistica. Il risultato, però, non si pone affatto come una vuota esercitazione cinematografica, producendo invece l'affresco di una realtà prossima alla fine, imprigionata nei suoi stessi riti, e soprattutto il ritratto impietoso di un'umanità non più responsabile del proprio agire, reificata in individui spogliati di qualsiasi psicologia e affettività, ormai ridotti a fantasmi o a puri oggetti di un arredamento per più di un verso funereo. Dentro un simile quadro, il personaggio del protagonista, interpretato dallo stesso regista, assume quindi, come in altri film di Kitano, una posizione centrale; non solo per la caratteristica recitazione contrassegnata dalla fissità del volto, inconfondibile al punto da essere assurto a icona nell'immaginario cinematografico, ma proprio per la capacità di fare da contrappunto a un orizzonte raggelato nella sua stessa rappresentazione. Attraverso la maschera di Bīto/Beat Takeshi, cioè, la violenza, esasperata a tratti fino al parossismo, cessa di essere semplicemente regola del genere, e diventa splendido elemento figurativo funzionale a un impeto di rivolta che accomuna il cinema di Kitano a quello di Ōshima Nagisa, se non, in linea più generale, alla sensibilità di Mishima Yukio.
La messa in scena di Kitano vive in effetti di questo spirito conflittuale, e non a caso l'emblematicità di Sonatine si misura nella possibilità di fare conflagrare tutti i temi caratterizzanti il cinema del regista in seno a una precisa delimitazione spazio-temporale: la spiaggia di Okinawa, l'estremo limite del mondo in cui i protagonisti 'giocano' nell'attesa del proprio destino. Così, nel corso di un tempo che pare essersi fermato, Kitano ritaglia uno spazio di 'confine', nel quale la stasi e la violenza, la realtà e la rappresentazione, la regressione in una sorta di Eden infantile e l'impossibilità della fuga coesistono simultaneamente, attraverso una 'messa in gioco della morte' che ripropone, in versione aggiornata, il carattere più enigmatico di certa ritualità suicida della tradizione culturale nipponica. Da tutto questo, come ha scritto Alberto Pezzotta, deriva la tipica opacità di una rappresentazione sempre impegnata a sospendere o a dilazionare il proprio senso, attraverso l'uso di ellissi e di sineddoche, e indissolubilmente legata a una correttezza formale ‒ evidente per esempio nella cura dedicata alla composizione di ogni singola inquadratura, memore della lezione di Ozu Yasujirō ‒ tale da fare di Sonatine uno dei capolavori del cinema giapponese contemporaneo e un oggetto di culto, specialmente nella cerchia della cinefilia occidentale.
Interpreti e personaggi: Bīto Takeshi (Murakawa), Watanabe Tetsu (Ueji), Kokumai Aya (Miyuki), Katsumura Masanobu (Ryōji), Terajima Susumu (Ken), Ōsugi Ren (Katagiri), Zushi Tonbo (Kitajima), Yajima Kenichi (Takahashi), Minakara Eiji (killer), Kitamura Kōichi (Hirose).
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Sceneggiatura: in Il cinema nero di Takeshi Kitano, a cura di L. Barcaroli, C. Hintermann, D. Villa, Milano 2001.