Vedi Somalia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica Federale di Somalia si è spezzata in diversi tronconi nazionali a seguito della guerra civile, culminata nella caduta del regime di Mohammed Siad Barre nel 1991 e continuata fra il crollo delle istituzioni statuali e la crescente competizione tra partiti clanici militarizzati. Nata il 1° luglio 1960 dall’unione tra la Somalia, ex colonia italiana sotto tutela per conto delle Nazioni Unite, e il protettorato inglese del Somaliland, la Repubblica di Somalia, che si distingue come uno dei pochissimi stati africani linguisticamente e culturalmente omogenei al momento dell’indipendenza, è divenuta il caso esemplare di quello che i politologi chiamano ‘stato collassato’ o ‘fallito’. Dopo un primo intervento militare internazionale dal 1992 al 1995 (prima sotto il comando statunitense e poi delle Nazioni Unite), più di una dozzina di conferenze di pace e una seconda missione internazionale (dal 2007) dell’Unione Africana (African Union Mission in Somalia, Amisom), il conflitto, concentrato soprattutto nel sud del paese, nonostante le evoluzioni non ha ancora trovato una composizione definitiva.
Hanno raggiunto invece un diverso grado di stabilizzazione politica e ricomposizione sociale il Somaliland nel nord e il Puntland nel nord-ovest.
La guerra civile ha contrapposto le fazioni in lotta lungo le linee tracciate dall’appartenenza clanica. Attraverso le genealogie familiari su base agnatizia, il clan rappresenta l’elemento di base della società somala. I legami clanici hanno costituito un importante canale di mobilitazione a partire dal primo nazionalismo della Somali Youth League negli anni Sessanta, fino alla degenerazione dell’ultima fase familiaristico-clientelare del governo di Barre, per alimentare poi le dinamiche del conflitto tra i ‘signori della guerra’. Nonostante il nazionalismo somalo abbia sempre lottato per l’unione di tutti i somali al di là di ogni particolarismo etnico e per la creazione di una Grande Somalia che comprendesse tutte le terre somalofone del Corno d’Africa, l’attuale moltiplicazione delle Somalie dopo venti anni di guerra civile sembra aver segnato la definitiva sconfitta del pansomalismo.
Dopo il fallimento del Transitional national goverment (Tng), costituito a seguito degli accordi presi alla Conferenza di pace di Arta (Gibuti) nel 2000, nel gennaio 2004 è stata varata a Nairobi (Kenya) una nuova Transitional Federal Charter, che ha portato all’elezione del Federal Transitional Parliament (Ftp) e del Transitional Federal Government (Tfg) con Abdullahi Yusuf Ahmed alla presidenza della Repubblica (dal 2004 al 2008). La cosiddetta regola del ‘4,5’ è stata utilizzata per ridistribuire su base clanica i pesi elettorali all’interno delle nuove istituzioni, dove il 4 rappresenta i quattro clan più importanti della Somalia (Hawiiye, Rahanweyn, Daarood e Dir), mentre lo 0,5 dovrebbe considerare i clan minori.
Gli sforzi delle nuove istituzioni per riprendere il controllo di Mogadiscio e della Somalia si sono fermati nel 2006 al sud-ovest del paese e in particolare alla città di Baidoa, che divenne la base operativa del Tfg. La capitale e il resto della Somalia meridionale erano intanto passati dal controllo dei signori della guerra a quello della Islamic Courts Union (Icu), che sperimentò un tentativo di governance fondata sull’islam e la sharia, ma pur sempre autoritaria.
Il tentativo di pacificare la Somalia sotto la bandiera dell’islam durò pochi mesi e cadde sotto l’avanzata delle truppe etiopiche, che entrarono in Somalia nel dicembre 2006, a tutela della sicurezza del proprio paese e a sostegno del Tfg. Negli stessi giorni gli Stati Uniti, che avallarono l’iniziativa etiopica, bombardavano dalle proprie navi al largo della Somalia la regione più meridionale del paese, dove si riteneva fossero trincerate le fazioni più estreme della Icu.
A seguito dell’insediamento del Tfg a Mogadiscio, la maggior parte della leadershipdella Icu riparò in Yemen e poi ad Asmara (Eritrea), dove nacque l’Alliance for the re-liberation of Somalia (Ars). Senza che le forze dell’Amisom fossero in grado di intervenire efficacemente, le truppe etiopiche finirono per rimanere coinvolte in una guerra dove si trovarono a combattere un articolato fronte di forze anche diverse, accomunato dalla resistenza al nemico storico della Somalia. Le forze superstiti della Icu in Somalia lottarono in collegamento all’Ars di Asmara, grazie anche all’appoggio finanziario e logistico del governo eritreo e di altri paesi arabi, subendo un processo di radicalizzazione. Gli Accordi di Gibuti nel giugno 2008 raggiunsero un compromesso, coinvolgendo la fazione moderata dell’Ars nella riedizione allargata delle istituzioni federali (i membri di Tfg e Tfp quasi raddoppiarono). L’ex leader della Icu, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, assunse la presidenza del Tfg, mentre la fazione più estremista dell’Ars continuò da Asmara la lotta contro le istituzioni federali, alleandosi con il fronte islamista radicale salafita di al-Shabaab.
Le istituzioni federali di transizione hanno terminato il loro mandato il 1° agosto 2012. L’approvazione di una nuova Costituzione, a cui è seguita la nomina di un nuovo Parlamento di 275 membri e l’elezione di Hassan Sheikh Mohammed a presidente, segnano una nuova fase nella vita della Somalia.
Infatti, l’insediamento del presidente e del nuovo parlamento è stato possibile anche grazie a un notevole sforzo internazionale dal punto di vista militare per riconquistare il controllo del territorio. La missione Amisom, che nel gennaio 2013 contava più di 17.000 effettivi, insieme alle truppe etiopiche (ritiratesi inizialmente nel gennaio 2010 e poi ritornate in Somalia nel novembre 2011) e a quelle keniane (che hanno invaso la Somalia da est nell’ottobre 2011), è infatti riuscita a sottrarre grandi parti di territorio al controllo delle truppe di al-Shaabab, già fiaccate dagli effetti della carestia che nel luglio del 2011 ha colpito il Corno d’Africa e indebolite dagli attacchi dei droni americani contro i loro capi militari. Seppure le milizie di al-Shaabab abbiano perso il controllo del porto strategico di Chisimaio, non si sono ancora arrese e restano un pericolo per la transizione del paese.
La Somalia rimane formalmente un paese membro dell’Igad (Intergovernmental Authority on Development), della Lega Araba (dal 1974) e dell’Unione Africana. La guerra civile e il collasso statuale hanno prodotto effetti destabilizzanti in tutti i paesi della regione (Yemen, Gibuti, Etiopia, Kenya), che sono a vario titolo intervenuti nella crisi somala, singolarmente o di concerto con l’Igad, per tentare di facilitarne la stabilizzazione, anche se l’effetto prodotto non ha corrisposto le intenzioni. Un ruolo importante di mediazione è stato inoltre svolto nelle diverse tornate dei negoziati internazionali da Sudan, Libia (attraverso la sua presidenza dell’Unione Africana) ed Egitto, che vanta una storia di stretti rapporti con la Somalia dai tempi dell’indipendenza. Recentemente nella gestione della crisi somala hanno avuto ruoli importanti anche i paesi del Golfo, a partire dal Qatar, e la Turchia.
Nelle logiche della cosiddetta guerra globale al terrorismo la crisi somala ha percorso una parabola di progressiva ‘mediorientalizzazione’, che ha portato gli Stati Uniti a contrastare direttamente o indirettamente i movimenti radicali islamici nel sud del paese, dopo il fallimento della missione internazionale iniziata nel 1992 sotto diretto impulso americano e terminata nel 1995 sotto mandato delle Nazioni Unite.
L’Italia, ex potenza coloniale e principale donatore bilaterale per tutti gli anni Sessanta e Settanta, sostenne fino all’ultimo il regime di Siad Barre per poi prendere parte, non senza contraddizioni, all’operazione ‘Restore Hope’. Gli sforzi diplomatici italiani sono stati in seguito affidati al Rappresentante speciale per la Somalia che ha sede a Nairobi, in Kenya. L’Italia ha avuto un ruolo di primo piano anche nelle recenti negoziazioni sullo status delle istituzioni di transizione.
La società somala si divide in gruppi sulla base di un principio di affiliazione clanica agnatizia, che disegna un quadro formato da complesse genealogie legate tra loro in modo esogamico attraverso il legame matrimoniale. Storicamente i clan si distinguono tra quelli dediti alla pastorizia nomade (Daarood, Hawiiye, Dir) e quelli di agricoltori nella regione tra i fiumi Giuba e Scebelle (Rahanwayn), che vengono considerati dai primi di status sociale inferiore. Oltre ad alcune comunità di origine bantu del Benadir, vivono nella capitale e nelle altre principali città costiere del sud minoranze di origine indiana e arabo-yemenita, a testimonianza dei traffici a lunga distanza della penisola somala.
Si stima che ancora oggi buona parte della popolazione sia nomade o viva in una condizione di grande mobilità a causa del conflitto, che ha portato più di un milione di somali a cercare la salvezza all’estero.
La diaspora somala è una delle più grandi al mondo, tanto da far parlare di una ‘Somalia internazionale’. Le più importanti comunità di rifugiati si sono stabilite in Canada, Stati Uniti, Regno Unito, paesi scandinavi, ma anche nei paesi del Golfo Persico, Yemen, Sud Africa ed Egitto. La carestia che ha colpito il Corno d’Africa e in particolare la Somalia nella seconda metà del 2011 ha spinto 800.000 persone a cercare rifugio e cibo nei campi profughi dei paesi vicini (in particolare in Etiopia e Kenya). Sono invece nel complesso pochi i somali ad aver cercato rifugio in Italia, una delle ex potenze colonizzatrici, per la scarsissima assistenza socio-economica che il nostro paese offre a confronto di tanti altri.
Le lingue delle ex potenze coloniali, l’inglese e l’italiano, sono entrambe parlate in Somalia. L’inglese ha finito per predominare sull’italiano, nonostante il suo ampio utilizzo all’Università nazionale somala, fiore all’occhiello della cooperazione italiana. La lingua somala venne scritta in caratteri latini nel 1972, dopo un dibattito durato più di vent’anni sull’opportunità di utilizzare in alternativa l’alfabeto arabo o quello inventato ad hoc negli anni Venti del 20° secolo, l’osmanya.
Negli anni Settanta la Somalia ricevette il riconoscimento internazionale dell’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (Unesco) per i considerevoli risultati ottenuti nella campagna di alfabetizzazione di massa. Oggi non esiste un sistema scolastico nel paese: l’istruzione di base è spesso affidata alle scuole coraniche. Nonostante gli sforzi che hanno portato all’apertura di alcune istituzioni universitarie nel Somaliland, nel Puntland e anche a Mogadiscio, l’istruzione superiore rimane fortemente carente e la vera alternativa per i pochi fortunati rimane quella di studiare all’estero. La lingua somala ha subito un processo di parziale regressione per il ritorno ad alcune parlate dialettali, in contrasto con le regole del somalo standard: il richiamo a un dialetto locale (e di un particolare clan) è diventato a tutti gli effetti un elemento della competizione politica.
Salvo una piccolissima percentuale di cristiani (1-2%), i somali sono musulmani di rito sunnita. La sprovincializzazione dell’islam locale, in gran parte legato al sufismo, iniziò durante gli anni Cinquanta sotto l’influenza dell’Egitto, per arrivare oggi a una forte internazionalizzazione e radicalizzazione sull’onda di un pensiero dichiaratamente antisufi o a-sufi, che costituisce il retroterra dei gruppi islamisti salafiti (al-Shabaab e Hizbul Islam).
La guerra civile ha reso l’appartenenza clanica il principale ambito di riferimento per i somali a scapito della cittadinanza e dei diritti soggettivi, alimentando persecuzioni e uccisioni su base etnica. I diritti umani sono costantemente minacciati dai combattimenti, dalla cronica scarsità di cibo, dalle malattie aggravate dalla mancanza di un sistema sanitario e dall’impunità nella quale rimangono la stragrande maggioranza dei crimini, in assenza di un sistema giudiziario. Nel vuoto istituzionale somalo, le organizzazioni non governative (Ong), locali e internazionali, hanno acquisito un ruolo di grande rilievo, anche politico.
Nelle zone controllate dai gruppi islamisti radicali i diritti umani sono negati da un’applicazione estremamente ferrea della sharia, a danno soprattutto della condizione femminile. In città come Chisimaio e Merca nel periodo in cui vi hanno governato le Corti islamiche sono state vietate le trasmissioni televisive e radiofoniche, al pari delle partite di calcio e della musica tradizionale somala.
La Somalia era uno dei paesi più poveri al mondo ben prima dell’inizio della guerra civile e del tracollo delle istituzioni economico-finanziare. L’economia era e rimane fortemente dipendente dagli aiuti internazionali, mentre le rimesse della diaspora sono aumentate proporzionalmente all’aggravarsi del conflitto, fino a diventare la prima voce in ordine di grandezza del pil.
La guerra è diventata parte integrante del ciclo produttivo. In mancanza di un contesto istituzionale di riferimento, le relazioni economiche si sono riorganizzate attraverso logiche informali, in alcuni casi anche molto sofisticate, e in cui spesso prosperano sistemi corruttivi.
In particolare, il settore dei servizi ha visto un’espansione crescente in rami come quello bancario, ospedaliero, della telefonia e dei trasporti. La Somalia è uno dei paesi con le più basse tariffe telefoniche al mondo, anche per effetto della competizione tra diversi operatori.
Il processo di ricostruzione istituzionale nel Somaliland e nel Puntland ha permesso la ricostituzione di nuove banche centrali, anche se il sistema informale di trasferimento monetario (hawala) rimane ampiamente utilizzato. L’introduzione di nuove valute nazionali, lo scellino del Somaliland e quello del Puntland, non ha portato alla completa sostituzione di altre valute estere circolanti, dollaro americano in particolare.
La Somalia non ha importanti risorse naturali. Buona parte dell’economia continua a essere legata alla pastorizia nomade nel nord e all’agricoltura nel sud, per lo più di sussistenza con l’importante eccezione della bananicoltura. La produttività agricola è crollata a causa della guerra e, paradossalmente, degli aiuti alimentari internazionali, che hanno finito per distorcere il mercato e disincentivare la produzione locale.
Il bestiame, in particolare cammelli e pecore, rappresenta una delle maggiori fonti di esportazione e contribuisce per l’85% delle tasse raccolte nel Somaliland. Altri beni per l’esportazione sono l’incenso e la mirra, per i quali il nord del paese è famoso fin dai tempi degli antichi faraoni. Negli ultimi anni la produzione di khat è cresciuta vertiginosamente grazie anche alla diffusa situazione di illegalità, costituendo una importantissima fonte di remunerazione attraverso il commercio regionale e internazionale. Il settore della pesca, nel quale si era investito prima della guerra civile, ha lasciato spazio alla più redditizia pirateria, che viene giustificata anche nei termini di una reazione all’invadenza dei superpescherecci delle grandi potenze.
Piccole attività manifatturiere hanno continuato a operare a singhiozzo durante la guerra, come nel caso di aziende legate alla trasformazione di prodotti alimentari e a beni di consumo di base (sapone e detergenti, borse di plastica e bevande). Nel 2004 ha aperto un’azienda di imbottigliamento depositaria del marchio ufficiale della Coca-Cola, sancendo il ritorno della nota bevanda in Somalia dopo molti anni di assenza.
Emirati Arabi Uniti, Yemen e Arabia Saudita costituiscono i maggiori partner commerciali della Somalia, grazie ai canali consolidati della diaspora e alla ricostruzione dei porti di Berbera e Bosaso. Il porto di Gibuti e quello di Mombasa in Kenya hanno costituito, e in parte ancora costituiscono, degli snodi commerciali alternativi per il nord e il sud del paese in relazione al conflitto e alle conseguenti reali capacità operative dei porti somali.
Fin dagli anni della cooperazione italiana si registrano traffici sospetti verso la Somalia, che hanno avuto per oggetto rifiuti pericolosi o tossici. Con lo scoppio della guerra civile, tonnellate di rifiuti sono stati smaltiti fuori da ogni controllo nel paese o più semplicemente gettandoli in mare a breve distanza dalle coste. Oltre ai gravi danni per l’ambiente, è minacciata anche la salute della popolazione.
Solo nel Somaliland esiste un vero e proprio esercito anche se dalle dimensioni imprecisate, ma capace di assicurare un grado accettabile di sicurezza. L’embargo alla vendita di armi imposto dalle Nazioni Unite nel 1992 è stato più volte eluso, fino a una sua parziale revoca nel dicembre 2006, in coincidenza con l’intervento etiopico. L’Italia ha fornito risorse ed esperti per l’addestramento delle forze di polizia del Tfg.
Dopo aver subito una sanguinosa repressione da parte del regime di Siad Barre, nel maggio 1991 il maggiore partito di opposizione nel nord, il Somali National Movement (Snm), autoproclamò entro i confini dell’ex Somaliland inglese l’indipendenza della Repubblica del Somaliland, secedendo dalla Repubblica di Somalia. Il nuovo Somaliland si è rifiutato di partecipare alle iniziative internazionali di pace per la Somalia, con l’intento di affermare la propria autonomia e sottolineare il processo di ricomposizione sociale e istituzionale in corso nel nord del paese. Sotto la guida dell’allora presidente Mohamed Ibrahim Egal, la transizione ha fatto perno sui maggiori clan della regione e ha combinato con successo elementi della statualità occidentale e istituti consuetudinari della società pastorale somala. Nel 1997 è stata varata la nuova Costituzione, approvata poi nel 2001 da un referendum popolare: il parlamento bicamerale è formato da una Camera bassa di deputati eletti e da una Camera alta o Guurti (‘Consiglio degli anziani’), formata appunto da ‘elders’.
Il sistema giudiziario è stato ripristinato nella sua autonomia operativa e decisionale, ricorrendo a un corpus giuridico che compendia le consuetudini e le regole di diritto islamico con quelle di derivazione occidentale (common law britannico). Dopo la morte di Mohamed Ibrahim Egal nel maggio del 2002, la presidenza venne assunta dall’allora vice presidente Dahir Rayale Kahin, che, alla guida dello United peoples’ democratic party, vinse le prime elezioni nel 2005. Le consultazioni (ritardate) del 2010 hanno segnato la sconfitta del presidente uscente in favore di Ahmed Mohamed Mahamoud ‘Silanyo’, il candidato del Peace, unity, and development party. Le elezioni hanno registrato un grado accettabile di trasparenza e concorrenza tra i tre maggiori partiti che, attraverso una base composita, includono più clan nella stessa rappresentanza politica. L’indipendenza del paese attende ancora il riconoscimento della comunità internazionale.
Regione del nord-ovest a maggioranza daarood, l’ex Migiurtinia italiana ha proclamato la propria autonomia nella Conferenza di Garowe (24 luglio 1998) con il nome di Puntland. Non si è però arrivati a una vera e propria secessione sull’esempio di quella attuata dal Somaliland, con il quale permane una controversia a bassa intensità di violenza per alcune zone contese lungo il confine. Il governo del Puntland riconosce formalmente l’appartenenza alla Repubblica Federale di Somalia, anche se le relazioni con Mogadiscio e il resto della Somalia sono andate sempre più allentandosi.
Nel 2004 il presidente e padre fondatore del Puntland, Abdullahi Yusuf Ahmed, passò alla guida delle istituzioni federali, divenendo presidente della Somalia. Gli successe Mohamed Abdi Hashi, che rimase in carica fino al gennaio 2005, quando fu sconfitto dal generale Mohamud Muse Hersi ‘Adde’. Nelle elezioni del 2009, che si sono distinte per una scarsa competitività e per una limitata credibilità, è stato eletto alla presidenza Abdirahman Mohamud Farole.
Il governo del Puntland si regge su un regime fortemente autoritario e corrotto, colluso con i traffici legati alla pirateria. Gli attacchi contro i navigli internazionali sono andati crescendo esponenzialmente, al punto da costringere i principali paesi occidentali a mettere in capo una forza navale multinazionale a difesa dei mercantili, che ha avuto effetti positivi. Nel 2010 si è raggiunto il picco massimo degli attacchi (217 in totale) per una stima di 60 – forse 80 – milioni di dollari pagati in riscatti dalle compagnie o per l’equivalente di beni predati.
I dirigenti del Puntland hanno perseguito una strategia di stabilizzazione istituzionale e sociale che, come nel vicino Somaliland, si è giovata dell’importante contributo fornito dagli elders che costituiscono la Camera alta (Isimada) del Parlamento. A differenza del Somaliland, in Puntland non esistono di fatto partiti politici e le logiche di governo rinviano direttamente alla spartizione tra i diversi sotto-clan del gruppo dominante Maxamuud Salebaan (Daarood).