SOLITUDINE
La solitudine ai tempi del web. Nuove forme di socialità? Una società virtuale
La solitudine ai tempi del web. – Il 48° rapporto del CENSIS (CENtro Studi Investimenti Sociali), pubblicato nel 2014, evidenzia come la solitudine sia oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno in media per cinque ore e dieci minuti. In tutto sono 78 giorni di isolamento all’anno, senza la presenza fisica di nessun altro. A questo isolamento, a questa solitudine reale fa riscontro la crescente tendenza a cercare nuovi amici e a creare nuove relazioni nella rete. Il rapporto del CENSIS dice infatti che il 63,5% degli italiani usa Internet (v.) in media 4,7 ore al giorno, delle quali due sono dedicate ai social network (v.). C’è anche una percentuale (11,5%) che fa ricorso alla connessione per più tempo, componendo il popolo di quelli che si chiamano always on.
Nuove forme di socialità? – La tecnologia sembra proporre nuove forme di socialità che stanno trasformando le nostre esistenze, ha annullato le distanze spaziali e temporali, ma non supera quelle psicologiche, umane e affettive. Internet può avvicinare persone lontane, ma allontanare persone vicine. I rapporti interpersonali sono sempre più mediati dalle tecnologie, con evidenti vantaggi, ma anche con riscontri sempre più negativi nella quotidianità familiare e sociale. La comunicazione scritta – soprattutto quella destrutturata del web – non offre infatti le stesse ‘sfumature’ della comunicazione verbale e corporea; sempre più si usano i telefoni cellulari anche durante i pasti, si tende ad avere più televisori nelle case, ma ci si ritrova sempre più soli nelle proprie stanze. Con un cellulare in mano sembra che tutto sia possibile: chiamate, SMS, e-mail, condivisioni di immagini e pensieri, in tempo reale, senza più distanze, in ogni luogo. Dalla solitudine quotidiana si pensa di uscire con il cellulare e si è pronti a interrompere qualsiasi discorso solo perché è arrivato un messaggio; basta guardare le persone sedute a un bar o a un ristorante per notare che mentre qualcuno parla e gli altri sembrano ascoltarlo, il suono del cellulare cattura subito l’attenzione e diventa più importante di chi abbiamo davanti. I mezzi tecnologici sembrano avere la priorità su tutto, possono entrare e frammentare i pensieri o i dialoghi (o il sonno) in qualsiasi momento, qualsiasi cosa si stia facendo, perché il non ‘postare’, il non twittare, il non rispondere a un’e-mail, genera la paura di non esserci, di essere soli. Attraverso il web ci si sente in connessione con gli altri, apprezzati, ammirati, stimati, ci si sente parte del mondo. Se non si sta bene nella realtà, la rete diventa una via di fuga, un rifugio dal dolore, dalla solitudine, dal bisogno dell’altro, un luogo che avvolge, risucchia, porta via, un luogo dove sembra possibile avere qualsiasi cosa senza bisogno di impegnarsi per averla o per chiederla (esclusa l’amicizia su Facebook) perché in rete tutto è lì, tutto e subito.
Nel mondo virtuale sembra quindi più facile ottenerestima, vicinanza, amore, considerazione. È più facile perché non ci si deve guardare negli occhi, perché si racconta di sé quello che si vuole e, quando è troppo, con un clic si stacca, perché attraverso il computer si perde la responsabilità delle proprie azioni, perché si ha davanti non un essere umano con reazioni proprie e imprevedibili, ma uno schermo che di per sé non comunica. Non si deve avere il coraggio di chiedere e fidarsi, non si incorre nel rischio di essere feriti, si può ottenere tutto e da soli. Tutto o quasi tutto è gratis su Internet, il tempo e lo spazio sono abbattuti, i freni inibitori si allentano tanto da creare l’illusione di amori e passioni che nella realtà non si concretizzerebbero mai. Si fanno cose che non si farebbero mai in presenza di un altro, si confidano a qualcuno appena conosciuto cose intime mai dette di persona a nessuno e si rimane affascinati da una realtà relazionale fatta di ‘mi piaci’ e di clic.
Una società virtuale. – Internet sembra essere lo strumento perfetto dell’attuale società liquida, una società sempre più priva di contenitori solidi, scarsa di rapporti reali. La rete è il regno della velocità, diverse ricerche dimostrano che il tempo medio di permanenza su una pagina Internet è di pochi secondi; è il territorio del cambiamento, i siti più utilizzati diventano rapidamente desueti così come le macchine e i software; è la terra delle possibilità, delle enormi quantità di informazioni spesso a scapito dell’approfondimento, delle molteplici occasioni di fruizione culturale prive però di qualsiasi progettualità formativa.
Il boom dei nuovi social tra gli adolescenti, ma anche tra i preadolescenti, ossia i ragazzi alla soglia delle scuole medie, ci dice che sono i mezzi attraverso cui esercitano le loro sperimentazioni sociali, talvolta intrecciate, talvolta no, con la vita reale, con tutti i rischi che questo comporta, e ci dice anche che si rapportano sempre meno con e nel concreto, vivendo nel virtuale la maggior parte dei loro contatti.
Il 75% dei giovani ha un profilo su Facebook; l’81% è sbarcato su WhatsApp – che non è come sembra solo uno strumento per inviare e ricevere messaggi a costo quasi nullo, ma può essere utilizzato a tutti gli effetti come un potente social network –; il 42% su Instagram, vetrina di foto ad alto tasso di esibizionismo; il 30% dei maschi e il 37% delle femmine (percentuali in rapidissima ascesa) su Ask – che la possibilità di comunicare sotto anonimato ha reso teatro di numerosi casi di cyberbullismo con esiti drammatici –; il 23% su Twitter social, quindi il meno amato tra i giovanissimi. Ma Facebook, sempre secondo il rapporto del CENSIS, ha visto aumentare tra il 2009 e il 2014 del 153% gli iscritti con un’età compresa tra i 35 e i 45 anni, del 251% quelli tra i 46 e i 55 anni, mentre gli iscritti sopra i 55 anni sono aumentati addirittura del 405%.
Un altro dato importante è la ‘migrazione’ dal computer allo smartphone per collegarsi a Internet: 7,4 milioni di persone usano il mobile, superando quelli che vi accedono da PC (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). L’utilizzo degli smartphone ha di fatto reso ancora più facile la connessione a Internet: è aumentata l’abitudine a navigare nelle ore serali e notturne, e spesso il collegamento è il primo atto della giornata.
Con i social network ha acquisito importanza la dimensione del gruppo, della platea e del pubblico, sempre virtuale, insieme al rischio di appiattimento, omologazione, frammentazione. Internet infatti non è un semplice mezzo, è un ambiente nel quale bisogna presentarsi con un’identità, che se nel reale è costituita dalla storia, dalle relazioni e dai vissuti della persona che si modificano nel tempo, nel web può essere la rappresentazione idealizzata e poco coerente di quello che realmente siamo, la proiezione personale di come il soggetto vuole o vorrebbe apparire. Anche qualora l’identità digitale (avatar) fosse verosimile e rappresentasse dati reali, riporterebbe comunque un frammento, una proiezione dell’identità concreta della persona e mai la sua integrità. Attraverso la rete si può apprezzare una persona per quello che dichiara di essere, non per quello che è, e impariamo a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto cui ‘accedere’, ma solo per quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti. È importante sottolineare però che l’identità virtuale è comunque un’identità, perché virtuale non è sinonimo di irreale: il mondo virtuale esiste, c’è. Nei social network ci sono le foto, i video, quello che ci pia ce e quello che non ci piace, ci sono gli amici, cosa si fa nel la vita e tutto ciò che può ‘profilare’ e descrivere un’identità.
Attraverso i social network abbiamo la sensazione di poter collezionare amici, preferendo la quantità delle connessioni alla qualità delle conversazioni, e potendo proclamare a tutti la ricchezza della nostra vita sociale: l’amicizia diventa solo questione di numeri e di clic. Si possono avere 300 o più ‘amici’ su Facebook (sarebbe più corretto chiamarli per quello che sono: contatti, followers), ma in realtà si è soli davanti a uno schermo. Si pensa che non sia così perché si parla con qualcuno dall’altra parte del mondo, che magari non si conoscerà mai, invece si è soli perché il web non permette la condivisione di un luogo fisico, la vicinanza di un corpo accanto all’altro, non ha intimità fatta di ricordi, memoria e passato. Il web non ha spazi se non virtuali, non prevede ambienti comuni, non ha condivisioni fisiche e reali. In questo spazio nel quale navighiamo, la solitudine ha a che fare con il silenzio, perché il silenzio nel web è un vuoto, un’assenza, è la mancanza di feedback positivi. Il popolo della rete prova un senso di gratificazione istantanea grazie al multitasking, costruisce il proprio sé sulla base delle risposte fornite, delle chiamate effettuate, delle e-mail spedite, dei contatti raggiunti.
Oggi, anziché fare una telefonata, si manda un SMS, invece di scrivere una lettera si aggiorna il profilo su Facebook, ci si lamenta di non avere tempo per parlare, ma c’è il tempo per mandare un twitter e quando ci si trova insieme ad altre persone, nella realtà, non si riesce a staccare l’attenzione dalla connessione, dai messaggi che arrivano. L’evoluzione tecnologica ha cambiato le dinamiche delle nostre vite, tutto è diventato rapido, continuamente bombardati da nuove informazioni, da squilli di telefono che interrompono il naturale fluire di emozioni, pensieri e relazioni, SMS, e-mail cui si sente l’esigenza di rispondere subito, come se non fosse più concesso avere calma e silenzio. Le nostre relazioni sociali e affettive hanno perso il ritmo lento dello sguardo, i contatti viso a viso, il tempo di scoprirsi e di conoscersi, riducendosi spesso al tempo e allo spazio di un tweet. Si spende il proprio tempo a scegliere le migliori foto per il profilo, sottraendolo però a quello che, solo pochi anni fa, si sarebbe dedicato a un incontro faccia a faccia davanti a un panino o a un bicchiere di vino.
Vari studi hanno dimostrato la comparsa di sintomi di ansia e depressione quando gli internauti si trovano in situazioni in cui non è possibile connettersi (per mancanza di rete o perché la batteria del telefono si è scaricata), chiamando tale situazione nomofobia (dall’inglese no-mobile e dal greco fobia). In altre parole, una paura di nuova generazione: quella di non avere il cellulare a portata di mano, di non poter chiamare e ricevere telefonate, di non essere liberi di ‘wazzappare’ o compulsare nervosamente il video dello smartphone alla ricerca degli ultimi aggiornamenti dagli amici o dal mondo dei social network. Da consumatori si diventa persone consumate dagli strumenti tecnologici.
In questo si inserisce il nuovo fenomeno dei selfies che, nel rapporto del CENSIS prima citato, ha avuto una menzione a parte. Il selfie sembra essere ormai irrinunciabile per chiunque: siamo «un popolo di singoli narcisisti e indistinti» e l’autoritratto in bit è uno dei rimedi a un male sempre più diffuso: la solitudine. Secondo il CENSIS, il selfie non è un semplice autoritratto, infatti, se da un lato serve a rendere visibile agli altri la propria immagine «in pose ‘strategiche’ per metterne in risalto i tratti giudicati migliori», dall’altro testimonia la presenza fisica in un determinato luogo e in un preciso istante. La stessa «diffusione tra i venditori per strada, in tutti i luoghi di interesse turistico, del selfie stick», ovvero l’asta metallica su cui fissare il proprio smartphone, contribuisce a definire il selfie come un fenomeno di massa.
Citando un sondaggio di Skuola.net, il CENSIS rileva: «L’aspetto innovativo del selfie non consiste solo nella produzione autogestita della propria immagine, ma soprattutto nel suo (quasi sempre) immediato inserimento nei circuiti globali dei social network. L’importante è che l’immagine diventi pubblica, nello spazio circoscritto della condivisione con gli amici o in quello praticamente infinito della rete, perché ci sia risposta a quel bisogno di affermazione identitaria del soggetto che i ‘mi piace’ ricevuti (segni tangibili di popolarità) possono virtualmente e temporaneamente colmare». Il boom del selfie, inoltre, è l’evidenza della «tendenza dei singoli alla introflessione» e «della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé».