SOLIMENA, Francesco, detto l'Abate Ciccio
Pittore, nato a Canale borgata del comune di Serino nel 1657, morto nella sua villa di Barra presso Napoli nel 1747. Allievo dapprima di suo padre Angelo (seguace del Giordano), fu poi da questi inviato, nel 1774, all'accademia di pittura che Francesco de Maria, convinto e tardivo seguace della scuola bolognese, aveva fondato a Napoli. E fu certo dall'insegnamento di lui che il S. fu portato ad una particolare predilezione per il Maratti. Ma il De Maria era stato attratto dal vigore dei saggi lasciati da Mattia Preti a Napoli. Per il suo temperamento il De Maria rimaneva lontano da Mattia Preti, come Angelo S. dal Giordano; ma è certo che i suoi primi maestri valsero ad additare al giovane Francesco i suoi veri maestri d'elezione: il Giordano, con tutto ciò che s'era in lui tradotto del barocco di Pietro da Cortona, e con la sua decisa orientazione verso il colorismo di Paolo Veronese; il Preti, con la ricchezza degli elementi emiliani e veneti elaborati nella sua pittura, e immersi nella drammatica intensità d'un luminismo di origine caravaggesca. Il S. s'appigliò soprattutto a quelle ripetute coincidenze di piani prospettici e piani luminosi, che diedero fondamento alle composizioni del pittore calabrese; ma le astrasse da precisabili condizioni luministiche ambientali, e le inserì, campate in aria, nei vasti macchinarî scenografici suggeriti da Pietro da Cortona e dal Giordano. Su tali dati fondamentali egli andò sviluppando con magnificenza di retorica la sua vivace estrosità decorativa e la sua inesauribile bravura. Al principio del penultimo decennio del Seicento, lo stile decorativo settecentesco s'era di già determinato coi suoi caratteri specifici napoletani negli affreschi del S. in S. Maria Donnaregina. Nel 1689 si palesò compiutamente, in piena letizia di colore, negli affreschi della sagrestia di S. Paolo Maggiore a Napoli, che costituirono la prima grande opera del nostro artista e la ragione iniziale della sua fortuna. Il decennale soggiorno spagnolo del Giordano (1692-1702), e la sua morte, favorirono l'assolutezza di dominio che il S. andò acquistando nel campo artistico napoletano, mentre il soffitto della sagrestia di S. Domenico e il grandioso affresco della cacciata di Eliodoro al Gesù Nuovo, esattamente rivelarono la qualità del suo stile e della sua potenza.
Egli ebbe vivissimo il gusto dell'insegnamento; e intorno alla sua attività lasciò prosperare una scuola numerosissima, nella quale preferiva accogliere giovinetti da educare ai suoi principî fin dall'inizio del loro tirocinio. È da notare inoltre, ehe il dominio del S. (del quale era strumento sicurissimo la scuola) non fu limitato alla pittura. Negli altri campi dell'arte Napoli non ebbe, nel suo tempo, artisti di eguale levatura; e la stretta unità di stile, l'uniformità di gusto che tutte le arti manifestarono nel Settecento, favorì l'affermazione della sua personalità come maestro di tutte le arti, benché praticamente esercitasse soltanto la pittura. La decisa subordinazione dell'arte pittorica alle forme e ai fini dell'architettura contemporanea, indusse il S. a farsi inventore o rielaboratore di forme e decorazioni architettoniche barocche. Non fu costruttore; si limitò al disegno. Ma Napoli, prima dell'avvento di Luigi Vanvitelli, ebbe un'architettura solimenesca, rappresentata dal Nauclerio, dal Sanfelice e da Domenico Vaccaro. D'altra parte, il carattere delle invenzioni figurative del S. si ritrova nella scultura settecentesca napoletana, precisandosi nelle opere di Nicola e Domenico Vaccaro, di Francesco Celebrano, di Giuseppe Sanmartino. Allo stesso influsso solimenesco si potrà connettere il carattere assunto dalle composizioni presepiali a Napoli, per le quali lavorarono appunto gli scultori su citati (ad eccezione di Domenico Vaccaro) prima che sorgessero plasticatori specializzati per figurette da presepe.
Bibl.: B. De Dominici, Vite de' pittori, ecc., III, Napoli 1745, pp. 579-726; e per gli studî varî: G. Ceci, BIbl. per la storia delle arti figurative nell'Italia meridionale, nuova edizione, ivi 1934.