Solidarietà
La nozione di solidarietà ha assunto oggi una tale varietà di significati e di usi che si rende necessario operare una distinzione tra un'accezione ristretta e una ampliata del concetto. Alla prima fa riferimento ad esempio la definizione proposta da Luciano Gallino, che nel Dizionario di sociologia (1978), alla voce Solidarietà scrive "Termine [...] per designare la capacità dei membri di una collettività di agire nei confronti di altri come un soggetto unitario". Anche la definizione fornita da Irene von Reitzenstein (v., 1961, p. 11) mette in rilievo l'aspetto dell'azione collettiva nonché quello dell'eguaglianza della posizione sociale e degli scopi dell'azione. Analogamente Alessandro Pizzorno (v., 1966, p. 254) a proposito dei sistemi di solidarietà afferma che essi mirano "a rendere eguale per tutti l'appartenenza ad una determinata collettività". Cella (v., 1993) dal canto suo mette l'accento sull'interesse dell'individuo all'agire solidale.
Già da queste definizioni emergono gli elementi essenziali della definizione 'classica' del concetto di solidarietà: eguaglianza di posizione sociale, comunione dell'agire, anzi comunanza sotto vari aspetti. Su un punto tuttavia, ossia il riferimento negativo a una 'controparte sociale', le opinioni sono discordi. Già nel 1914 Robert Michels osservava che "per la formazione di un gruppo di solidarietà è necessaria a priori l'esistenza di una netta contrapposizione; si è solidali solo contro qualcuno" (v. Michels, 1914, p. 55); una "solidarietà universale della società - la solidarietà nella sua forma più pura", a suo avviso, "esiste solo di fronte a certi eventi naturali elementari", ma anche in questo caso avrebbe il "carattere della difesa". Una solidarietà universale del genere umano, secondo Michels, non è che una irraggiungibile utopia.
Sin dall'inizio peraltro compaiono definizioni del concetto di solidarietà che evitano ogni riferimento a una controparte antagonista. Léon Bourgeois (v., 1896, p. 15), ad esempio, afferma che "tra ogni individuo e tutti gli altri esiste un legame necessario di solidarietà". Charles Gide (v. Gide e Rist, 1829, ed. 1920, p. 697), dal canto suo, osserva che "la solidarietà, ovvero la dipendenza reciproca di tutte le parti di un medesimo corpo, è la caratteristica della vita". Questa definizione della solidarietà si incontra per la prima volta nel Discours sur l'esprit positif del padre della sociologia, Auguste Comte (v., 1844), che usa il concetto nel senso di vincolo sociale senza ulteriori specificazioni, come sinonimo di coesione o integrazione sociale. Nella definizione di Comte abbiamo altresì una delle prime ricorrenze del termine nella sua accezione moderna: "il legame di ciascuno con tutti, sotto una pluralità di aspetti, tale da rendere involontariamente familiare l'intimo sentimento della solidarietà sociale, adeguatamente inteso in tutte le epoche e in tutti i luoghi" (v. Comte, 1844, ed. 1985, p. 80).
Negli ultimi anni vi è stata una vera e propria inflazione del concetto di solidarietà. A esso fanno riferimento non solo i sindacati e altre organizzazioni dei lavoratori, non solo le Chiese cristiane, ma anche una pluralità di associazioni, partiti politici e governi. In questa sede ci limiteremo a considerare il concetto di solidarietà nella sua accezione ristretta, analizzando l'uso che ne viene fatto dal movimento operaio, dalla dottrina sociale cristiana, dalla politica sociale e dalla sociologia - un campo, come si vede, di per sé già assai vasto.
Il concetto di solidarietà è attestato in Francia già nel XVII secolo, ma assume il suo significato moderno solo negli anni trenta e quaranta dell'Ottocento. Il terminus technicus del diritto romano, 'in solidum obligari', diventa in francese 'solidarietà', senza peraltro perdere il suo originario significato giuridico. Nella Encyclopédie di Diderot e d'Alembert si legge la seguente definizione: "[...] la qualità di un'obbligazione per cui diversi debitori si impegnano a pagare una somma presa in prestito o dovuta ad altro titolo". In questa accezione giuridica di responsabilità in solido il concetto è già registrato nel Dictionnaire de l'Académie française del 1694; ancora nel 1835, nella stessa opera si legge la seguente definizione: "Impegno in virtù del quale due o più persone si obbligano le une per le altre, e ognuna per tutte, se si rende necessario. Questo contratto, questa obbligazione comporta solidarietà". Tuttavia proprio negli stessi anni sembra essersi compiuto il passaggio dalla vecchia alla nuova accezione del vocabolo, perché sempre nell'edizione del 1835 del Dictionnaire si legge: "dicesi talvolta, nel linguaggio comune, della responsabilità reciproca che si stabilisce tra due o più persone". Nella sua opera De l'humanité, apparsa nel 1840, il filosofo francese Pierre Leroux parla della "mutua solidarietà degli uomini" come espressione più autentica della carità, dopo aver aspramente criticato la "triplice imperfezione della carità cristiana" - concepita in termini di dovere, nel senso attuale anche di condiscendenza. Leroux (v., 1840, ed. 1985, pp. 57, 160 ss., 171) afferma che la solidarietà deve essere reciproca, e sostiene di essere il primo ad aver usato il termine nel suo nuovo significato. Ciò può essere vero per la forma scritta, e tuttavia già Mirabeau (1789) e Danton (1793) avevano utilizzato concetti come 'solidarité' e 'solidaire' nell'Assemblea Nazionale in un'accezione che costituisce perlomeno una via di mezzo tra il significato giuridico di responsabilità in solido e quello più recente (v. Brunot, 1937, pp. 669 e 745).
La sintesi delle teorie di Fourier pubblicata nel 1842 a Parigi da Hippolyte Renaud era intitolata Solidarité - Vue synthetique de la doctrine de Charles Fourier. Nel 1848 il Partito democratico in occasione delle elezioni politiche fondò un comitato cui diede il nome di 'Solidarité républicaine', il che dimostra come il termine fosse già divenuto talmente popolare da prestarsi a un uso del genere. Un'ulteriore conferma proviene dal fatto che negli stessi anni esso venne importato in Inghilterra, dove fu adottato nell'accezione più recente. Nell'Oxford English dictionary (1989) si legge ad esempio la seguente definizione: "la qualità, propria di comunità, ecc., di essere perfettamente unite o unanimi sotto qualche riguardo, in specie in rapporto agli interessi, alle simpatie o aspirazioni; in particolare con riferimento alle aspirazioni o alle azioni dei membri delle organizzazioni sindacali. Comunione o perfetta coincidenza di (o tra) interessi".
In queste prime occorrenze del concetto emergono chiaramente due accezioni nettamente distinte, che si ritrovano anche nelle definizioni contemporanee: nella prima, più schiettamente sociologica, si fa riferimento ai vincoli sociali e/o alla coesione della società; nella seconda la solidarietà viene intesa come unione di determinati gruppi sociali contro un antagonista.
La scelta di considerare le teorie di Durkheim come punto di partenza e come riferimento centrale per la discussione sul tema della solidarietà è giustificata non solo dall'importanza della scuola fondata da questo autore, ma anche dalla duplice determinazione del concetto di solidarietà da lui introdotta, che da un lato conserva l'antico significato sociologico, dall'altro lo differenzia contenutisticamente in modo tuttora valido, anche se la scelta terminologica durkheimiana ci risulta ormai estranea.
Nell'epocale dissertazione De la division du travail social, pubblicata nel 1893, Émile Durkheim (1858-1917) affronta il problema dell'ordine sociale, del 'lien social'. La solidarietà a suo avviso era aproblematica solo in un passato molto remoto, in quelle società semplici che egli definisce 'inferiori' o segmentarie. Il tipo di solidarietà che qui si sviluppava legava direttamente il singolo alla società, e scaturiva dalle affinità: "questa solidarietà non consiste soltanto nell'attaccamento generale e indeterminato dell'individuo al gruppo [...] Infatti, dato che i corpi collettivi in movimento si ritrovano ovunque i medesimi, essi producono anche dovunque gli stessi effetti" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 124). Durkheim definisce 'meccanica' questa forma di solidarietà, in quanto scaturisce dalla situazione sociale comune, ossia eguale o simile, e dalla coscienza collettiva che ne deriva. La solidarietà meccanica è "un insieme più o meno organizzato di credenze e di sentimenti comuni a tutti i membri del gruppo: si tratta cioè del tipo collettivo [...]" (ibid., p. 144).
Il processo di differenziazione sociale consiste secondo Durkheim in una divisione del lavoro sociale, di cui egli coglie soprattutto gli aspetti relativi all'ambito delle professioni. Con la differenziazione gli individui dipendono in misura crescente dalla produzione degli altri, e questa interdipendenza reciproca porta alla 'solidarietà organica'. Gli individui, come parti del corpo sociale, sono reciprocamente interdipendenti allo stesso modo in cui lo sono le parti di un organismo: "da un lato, quanto più diviso è il lavoro, tanto più strettamente l'individuo dipende dalla società, dall'altro, quanto più specializzata è l'attività dell'individuo, tanto più essa è personale" (ibid., p. 145). Sembra dunque che anche la solidarietà organica nasca più o meno automaticamente dalla divisione del lavoro della società.
Ma Durkheim era perfettamente consapevole che il suo quadro ideale non corrispondeva alla realtà, che la solidarietà non è aumentata al crescere della differenziazione sociale. Ciò va imputato a suo avviso allo sfasamento che si è venuto a creare tra il mutamento delle strutture sociali e lo sviluppo della morale, che non ha tenuto il passo con il mutamento sociale. La morale della società segmentaria è diventata obsoleta, ma non è ancora stata sostituita da un'altra più adeguata. A ciò si aggiunge la comparsa di forme anomale di divisione del lavoro, che determinano il fenomeno dell'anomia sociale. Ma questi scompensi secondo Durkheim sono di natura transitoria; la società, soprattutto attraverso l'educazione, può contribuire a colmare i vuoti che si sono creati. Nella sua visione ottimistica, il "culto dell'individuo", ossia l'individualizzazione, assieme all'"ideale della fratellanza umana", al "lavoro della giustizia" e all'eguaglianza di opportunità, ci avvicineranno alla realizzazione dell'"ideale dell'umanità totale" (v. Müller e Schmid, 1988, p. 506).
La concezione di Durkheim è stata sin dall'inizio oggetto di varie critiche. In Francia, in particolare, le venne mossa l'accusa di positivismo. Già Gustav Schmoller aveva messo in luce, a ragione, le conseguenze negative della divisione del lavoro (ibid., p. 486); altri rilevarono come Durkheim avesse riconosciuto solo in parte il carattere globale della concorrenza nella società capitalistica. Tuttavia le due forme di solidarietà postulate da Durkheim, se interpretate come tipi ideali, come prototipi, si rivelano particolarmente utili per l'analisi della solidarietà e della sua dinamica. A tal fine però si rende necessario svincolare in parte la solidarietà meccanica e quella organica dai due tipi di società cui Durkheim le aveva associate - la società segmentata e la società caratterizzata da un'avanzata divisione del lavoro - per cercarne il fondamento nelle caratteristiche di tali società quali sono state messe in luce da Durkheim stesso. Il fondamento della solidarietà meccanica risulterà essere allora l'eguaglianza o l'affinità della situazione sociale e/o l'eguaglianza (eventualmente nata da questa situazione comune) di interessi e di scopi.
Naturalmente dall'eguaglianza della situazione sociale non scaturisce 'meccanicamente' una coscienza corrispondente, una solidarietà anch'essa meccanica - se così fosse, tutti i lavoratori salariati sarebbero organizzati in sindacati. Il fondamento della solidarietà organica, dal canto suo, andrebbe ricercato in una combinazione di differenziazione e di eguaglianza, dove quest'ultima, nel caso estremo, si riduce alla comune condizione umana. Come ulteriore criterio di discrimine si può introdurre la dimensione comunitaria - in questo caso la solidarietà meccanica riguarda i membri della propria comunità, mentre quella organica trascende i confini del gruppo di appartenenza.
Sulla base di questi presupposti si può distinguere una prima fase della solidarietà che può essere denominata, sulla base del concetto precursore, come periodo della 'fraternità' (v. Salvati, 1993). La seconda fase è quella della solidarietà 'meccanica', o di 'solidarietà ed eguaglianza', che ha inizio in Francia negli anni trenta dell'Ottocento. Nell'ultimo ventennio del nostro secolo ha inizio il periodo della solidarietà 'organica', o di una nuova definizione della solidarietà.
Gli studi di sociologia empirica dedicati espressamente alla solidarietà sono piuttosto rari; il più delle volte questa tematica compare in modo indiretto nelle ricerche sulla xenofobia e sull'esclusione sociale, o in generale sulle nuove identità, sui problemi relativi alle mentalità, o sulle strutture della soggettività. Esiste però una vastissima letteratura storico-sociologica su singole espressioni della solidarietà (v. ad esempio Oestreicher, 1986; v. Hanagan, 1980; soprattutto sullo sciopero, v. Perrot, 1974; v. Pizzorno e altri, 1978; v. Crouch e Pizzorno, 1978; v. Hyman, 1989⁴; v. Tenfelde e Volkmann, 1981; v. Machtan, 1993).
Sul tema della solidarietà per contro vi è una grande tradizione di riflessione sociologica e sociofilosofica, le cui figure più rappresentative sono Fourier, Saint-Simon e Proudhon alla metà dell'Ottocento, e poi Durkheim, Tönnies e Bourgeois alla fine del secolo. A questa tradizione si riallacciano alcune correnti di pensiero europee e statunitensi degli ultimi decenni.
Sebbene il termine 'fraternità' non sia nato con il cristianesimo, è stato il concetto cristiano di fratellanza a esercitare l'influenza culturale più profonda e durevole. I primi cristiani mutuarono dagli Ebrei l'uso di chiamare 'fratelli' i correligionari (v. Schieder, 1972, p. 554), e ancor oggi il termine 'confraternita' viene impiegato per indicare i membri di una particolare comunità. Il concetto cristiano di confraternita influenzò anche la costituzione degli ordini monastici medievali, ma già nel primo Medioevo assunse una connotazione laica, e nella prima età comunale venne ripreso dalle corporazioni artigiane (confraternitates, gilde, Brüderschaften). Un'ulteriore evoluzione del concetto di fraternità è da individuarsi secondo Schieder nella sua spiritualizzazione ad opera di Lutero e del pietismo.
Quasi nella stessa epoca peraltro il termine 'fratello' in senso cristiano fa la sua prima comparsa in un contesto - la guerra dei contadini in Germania - in cui oggi verrebbero usati termini quali 'compagno' e solidarietà: "ci siamo chiamati l'un l'altro fratelli cristiani", dicevano di sé i contadini insorti (v. Franz, 1963, p. 469). Emerge in questo spirito di fratellanza dei seguaci di Münzer un afflato universalistico, lo stesso che li induceva ad accogliere nella confraternita, talvolta persino a costringere all'adesione, anche borghesi e nobili.Nelle corporazioni, per contro, sin dall'inizio viene ribadito il carattere circoscritto dell'unione. Se in molti casi, soprattutto in Inghilterra, nelle associazioni artigiane in via di espansione, precursori delle moderne organizzazioni sindacali, si possono già rintracciare accenni del concetto di solidarietà proprio di queste ultime (v. Leeson, 1980; v. Griessinger, 1981), tuttavia la fraternità nelle gilde spesso restava definita in senso verticale, ossia come legame dell'intera corporazione, dagli apprendisti ai maestri (v. Lay, 1989), oppure era circoscritta a un'unica corporazione, nelle associazioni di garzoni solo a questi ultimi - a esclusione degli apprendisti - e quasi sempre solo agli uomini a esclusione delle donne.
Queste delimitazioni vennero infrante dall'affermarsi della concezione illuministica della fraternità. Le prime logge massoniche erano sì modellate sulle corporazioni artigiane, e quindi presentavano ancora alcune forme di esclusione, soprattutto in quanto logge necessariamente segrete - e tuttavia il loro patrimonio di idee ha una valenza universalistica (v. Koselleck, 1969², pp. 55 ss.). I massoni concepivano se stessi - e si concepiscono tuttora - come eguali anche al di fuori della loro comunità.
La stessa interpretazione del concetto, con una valenza universalistica ulteriormente rafforzata, si ritrova nei testi più celebri dell'illuminismo europeo. Ci limiteremo a citare come esempi figure quali Kant, Schiller e Beethoven, non solo perché nell'unione di filosofia e arte l'esaltazione illuministica del "tutti gli uomini saranno fratelli" trova una delle sue espressioni più alte - ci riferiamo al coro finale della IX sinfonia di Beethoven con il testo di Schiller - ma anche perché qui trova una significativa smentita l'immagine di un illuminismo freddamente razionale.
Con la Rivoluzione francese l'idea di 'fraternité' perde la sua valenza universalistica attraverso una serie di limitazioni interne. Se è vero che nelle sociétés fraternelles dei giacobini erano ammesse anche le donne, tuttavia il concetto e in larga misura anche la prassi rivoluzionaria restavano prerogative esclusivamente maschili. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino proclamava la libertà e l'eguaglianza come diritti, e tuttavia la fratellanza non si può imporre per decreto, e tanto meno la sorellanza. La fraternité venne persino identificata con il concetto di république, con il 'sentimento politico dei democratici', che sarebbe dovuto diventare operante sul piano della prassi. Nella realtà però dominava piuttosto il principio dell'esclusione, come dimostra la definizione della citoyenneté che introduceva una distinzione tra cittadini attivi e cittadini passivi portando all'esclusione di 2.700.000 francesi ("la majorité des salariés et plus du tiers des hommes en âge de vote") dal diritto di voto perché non avevano un imponibile sufficiente (v. Castel, 1995, p. 206). La politica sociale rimase ferma all'assistenza ai poveri, i quali avrebbero dovuto attendere altri cento anni prima che fosse anche solo posta la questione della fraternità come solidarietà sociale, come introduzione della cittadinanza sociale (v. Marshall, 1950). Dopo la Rivoluzione francese, soprattutto gli intellettuali di sinistra vollero 'terminer la révolution'. È questo il caso, ad esempio, di Charles Fourier, il quale chiamava la fraternità da lui auspicata anche "fraternité sociétaire" o "omniphilie". Étienne Cabet nel suo Credo communiste dedicò alla fraternità una sezione apposita, asserendo che "l'intero genere umano forma un'unica famiglia", e che "la fraternità di tutti gli uomini comporta la loro eguaglianza" (v. Diehl e Mombert, 1920, pp. 22 s.).
Wilhelm Weitling nel 1840 propose di promuovere la fraternità reintroducendo il 'tu' (v. Bluntschli, 1843, p. 35). Durante i moti del 1848 in Germania i termini fratellanza e fraternità vennero introdotti soprattutto dal movimento operaio allora emergente. La prima organizzazione sindacale tedesca scelse di chiamarsi Allgemeine Deutsche Arbeiter-Verbrüderung, e il nome del suo periodico fu "Deutsche Arbeiter-Verbrüderung".A proposito degli operai francesi il giovane Marx affermava entusiasta nel 1844, così come avrebbe fatto poco dopo Engels: "La fratellanza degli uomini tra di essi non è una frase, ma una realtà" (v. Marx ed Engels, 1968, p. 554). Alcuni anni più tardi, però, Marx ed Engels cominceranno a sviluppare la loro critica nei confronti dell'indifferenziazione del concetto di fraternità - "questa comoda astrazione dalle contrapposizioni di classe" (v. Marx ed Engels, 1960, vol. VII, p. 21).
Dopo che negli anni trenta e quaranta dell'Ottocento il concetto di solidarietà - con poche eccezioni - era stato introdotto in Francia nel significato di coesione sociale, negli anni sessanta si affermò definitivamente anche nell'accezione di solidarietà operaia. Nella campagna elettorale del 1864 sessanta operai sottoscrissero un manifesto in cui legittimavano e appoggiavano le candidature di rappresentanti della classe operaia. "Il suffragio universale", vi si leggeva, "ci ha resi politicamente maggiorenni, ma dobbiamo ancora emanciparci socialmente". Consapevoli dei fondamenti sociali dell'eguaglianza dei diritti politici, gli operai reclamavano la libertà di associazione e l'assicurazione contro la disoccupazione, lamentando altresì la mancata realizzazione dell'eguaglianza garantita sul piano giuridico. "Coloro che, privi d'istruzione e di mezzi, non sono in grado di opporsi con la libertà e la solidarietà a esigenze egoistiche e oppressive, subiranno fatalmente il dominio del capitale: i loro interessi resteranno subordinati agli interessi degli altri". Qui il concetto di interessi e di contrapposizione di classe viene già chiaramente messo in relazione con la solidarietà, ed è presente altresì un indizio delle forti valenze emotive di cui si carica la parola: "la libertà di lavoro, il credito, la solidarietà, ecco i nostri sogni" (v. Proudhon, 1865, ed. 1924, pp. 410 s.). Il manifesto venne pubblicato da Proudhon in appendice al trattato De la capacité politique des classes ouvrières. Un importante contributo all'affermarsi del concetto nell'accezione di solidarietà operaia venne dato senza dubbio da Louis Blanc con la sua monumentale Histoire de la Révolution française (1847-1862) e con la sua azione di uomo politico e di giornalista.
Nel 1864 - e quindi nello stesso anno in cui apparve il manifesto elettorale degli operai francesi - la Prima Internazionale dei lavoratori si diede un regolamento provvisorio in cui si menzionava la solidarietà "tra gli operai dei diversi settori occupazionali in ciascun paese", e l''unione fraterna tra i lavoratori dei diversi paesi" (v. Freymond e Burgelin, 1962, p. 10).
Il termine solidarietà venne usato piuttosto raramente da Karl Marx, e quasi sempre in connessione con le coalizioni operaie, le associazioni dei lavoratori salariati. Tuttavia, soprattutto in contrapposizione al liberalismo, egli mise costantemente in risalto una particolare valenza semantica del concetto di solidarietà, pur senza utilizzare specificamente il termine, ossia l'aspetto della coesione sociale degli individui. Marx auspicava che la comunità dei proletari rivoluzionari assumesse il controllo delle proprie condizioni di esistenza e di quelle di tutti i membri della società, per trasformare il contesto sociale in modo tale che esso diventasse accessibile e dominabile, e che gli individui partecipassero realmente a questa società come individui (v. Marx ed Engels, 1959, vol. IV, p. 482; v. Adler, 1964).
Di fronte al livello di sofisticazione teorica del pensiero marxiano, le concezioni anarchiche della solidarietà non possono che apparire ingenue. Peter Kropotkin identifica quasi sempre la solidarietà con l'aiuto reciproco, e la rinviene ovunque - tanto nel regno animale che nella storia dell'uomo. Essa sarebbe il fondamento della coesione sociale: "Ma la società umana non si fonda né sull'amore né sulla simpatia, bensì sulla coscienza - anche solo allo stadio embrionale di un istinto - della solidarietà umana" (v. Kropotkin, 1993², p. 17). Tuttavia per Kropotkin, come del resto per altri esponenti dell'anarchismo, si tratta di una solidarietà 'naturale'. Il fatto che nonostante l'esistenza dello spirito solidale la società non appaia pacificata si spiega secondo Kropotkin con l'azione dello Stato, che ostacola o addirittura reprime l'aiuto reciproco degli individui. Anche le guerre possono distruggere lo spirito solidale, ma nella fase postbellica esso è destinato a riemergere.
La fine dell'Ottocento fu un periodo di impetuoso sviluppo del movimento operaio e dell'idea di solidarietà. La nuova associazione internazione dei lavoratori, la Seconda Internazionale, proclamò il Primo maggio come "giorno di dimostrazione dei lavoratori di tutti i paesi", in cui essi avrebbero dovuto avanzare le loro richieste e manifestare la loro solidarietà (v. Braunthal, 1961, p. 256). La solidarietà andò assumendo in misura assai maggiore che in passato una dimensione pratica, concreta, esprimendosi da un lato negli scioperi e in altre forme di lotta, dall'altro in processi organizzativi di impronta solidaristica.
Un'analisi assai penetrante della solidarietà in questo periodo venne sviluppata da Robert Michels, che nei suoi scritti sull'argomento fa riferimento esclusivamente alla solidarietà operaia (v. Ferraris e Michels, 1993), considerandola "l'effetto diretto degli antagonismi di classe". La solidarietà di classe in un dato paese sarà tanto più forte quanto più si acuiscono "le contrapposizioni di natura economica, sociale, intellettuale, confessionale e tradizionale". Nelle organizzazioni sindacali Michels vede uno "dei pochi modi oggi possibili di applicare la solidarietà nella pratica", e mette in evidenza la componente antagonistica della solidarietà, che si rivela essere un miscuglio di altruismo e di egoismo, di spirito di sacrificio e di interesse personale. Una solidarietà universale e disinteressata della società è dunque per Michels una pura utopia. A fondamento della solidarietà vi sarebbe l'eguaglianza della condizione sociale e degli interessi: "in particolare le masse operaie sono state addestrate alla solidarietà dal capitalismo. Esse patiscono oggi gli stessi mali, nutrono le stesse speranze e gli stessi desideri". Uno di tali mali è la scarsa solidarietà tra i lavoratori, e Michels mette in rilievo in più occasioni il carattere parziale e limitato della solidarietà operaia che "scaturisce dall'odio comune nei confronti di un antagonista comune". A essa farebbero difetto inoltre 'spontaneità' e 'immediatezza'; spesso i lavoratori intendono la solidarietà in senso coercitivo, obbligando i colleghi a entrare nelle organizzazioni sindacali o ad assoggettarsi alla disciplina dello sciopero. Nello stesso tempo, però, Michels vede nelle masse operaie della Germania industrializzata "l'avanguardia del più potente esercito di solidarietà di questo paese" (v. Michels, 1914, p. 48).
L'analisi di Michels ci offre lo spunto per trarre un bilancio provvisorio: la solidarietà operaia tematizza l'eguaglianza della condizione sociale e degli interessi che ne derivano, che unisce i lavoratori salariati nella lotta per l'affermazione di tali interessi. La solidarietà viene intesa in termini di comunanza, in alcuni casi addirittura identificata con una comunità fortemente coesa. Nello stesso tempo si debbono rilevare due carenze della solidarietà operaia. In primo luogo, sebbene anch'essa sul piano ideale abbia una valenza universalistica, tuttavia per il fatto stesso di essere concepita come solidarietà 'contro' un antagonista contiene già in sé un limite che lascia aperta la strada a ulteriori restrizioni. In secondo luogo, si tratta in molti casi di una solidarietà 'coercitiva', imposta con la forza ai refrattari.
La legittimità del ricorso alla violenza, ossia dell'imposizione coercitiva della solidarietà (ad esempio in occasione di uno sciopero, quando i picchetti cercano di impedire con ogni mezzo ai crumiri di riprendere il lavoro), costituiva un problema ricorrente. Dopo la legalizzazione dei sindacati e in seguito anche dello sciopero, il comportamento da assumere nei confronti dei crumiri divenne oggetto di pubblico dibattito. Le posizioni peraltro erano nettamente definite: lo Stato era interessato a conservare intatto il monopolio della violenza, e quindi intendeva - e intende tuttora - proibire qualunque forma di violenza fisica nei confronti dei crumiri. Gli scioperanti dal canto loro consideravano i crumiri una minaccia per la riuscita della loro azione, e ritenevano quindi lecito neutralizzarli con ogni mezzo a loro disposizione (v. Zoll, 1992).
La logica della coesione del gruppo dominò sin dal principio la realtà empirica della solidarietà operaia. Mentre sul piano ideale essa abbracciava l'intera classe dei lavoratori, nella realtà prevalse sempre questa logica della coesione del gruppo, e quindi la limitazione della solidarietà a un dato settore della classe lavoratrice. Nelle corporazioni i confini erano chiari: la solidarietà riguardava solo la società 'congiurata'. La solidarietà operaia spesso era circoscritta a un concreto gruppo di lavoratori contro gli altri, dando così luogo a una serie di contrapposizioni: tra gli 'intellettuali' e gli 'incolti'; tra gli uomini da un lato e le donne e i bambini dall'altro; tra i dipendenti di un'azienda o di un'impresa e le altre aziende della stessa impresa o le altre imprese dello stesso settore; tra i lavoratori locali e i lavoratori stranieri; tra gli operai e gli impiegati; tra i lavoratori organizzati e quelli non organizzati; tra la popolazione attiva e i disoccupati, e via dicendo.Un altro problema della solidarietà operaia che già Michels aveva messo in luce è dato dall'ingerenza dei partiti politici nella solidarietà istituzionalizzata nelle organizzazioni sindacali, con le ripercussioni negative che ciò può avere sulla coesione dei lavoratori stessi. L'indebolimento della solidarietà operaia determinato da queste divisioni politiche ha senza dubbio contribuito alla sconfitta delle sinistre e dei democratici contro il fascismo.
Tuttavia le esperienze delle due guerre mondiali, le crisi degli anni venti e trenta e il processo di ricostruzione nel secondo dopoguerra non hanno alterato in modo sostanziale i caratteri della solidarietà operaia. Questa problematica è stata affrontata in Germania da Irene von Reitzenstein (v., 1961) in una ricerca ermeneutica approfondita e di notevole spessore teorico, Solidarität und Gleichheit. Alla base di questo lavoro vi sono diverse fonti testuali - dichiarazioni programmatiche delle organizzazioni sindacali, comunicati ufficiali dei loro leaders, nonché testi di intellettuali vicini ai sindacati, protocolli di vari congressi, statuti e via dicendo. Nonostante le posizioni politiche spesso molto diverse degli autori esaminati, emerge una sostanziale convergenza nelle tesi essenziali. L'eguaglianza viene riaffermata quale elemento costitutivo della solidarietà, in un duplice senso: la situazione sociale e i mali comuni costituiscono la base della solidarietà; lo scopo dell'azione solidale è quello di realizzare una società strutturata secondo il principio di eguaglianza. Il processo di democratizzazione potrà eliminare l'ineguaglianza sociale. Poiché è impossibile riportare la complessità della società contemporanea allo stato di eguaglianza reale e di immediatezza, la richiesta di una eguaglianza effettiva appare del tutto irrealistica, se non assurda.
Per i leaders sindacali e gli autori in questione dunque l'eguale stato di dipendenza dal lavoro salariato favorirebbe la solidarietà, esattamente nel senso della solidarietà meccanica di Durkheim. L'elemento centrale resta qui l'eguaglianza, che oggi può esistere solo in una forma piuttosto astratta, e non la differenza. Tuttavia i processi di differenziazione che caratterizzano la realtà moderna impongono una nuova definizione della solidarietà. Con ciò si compie però il passaggio dal periodo della solidarietà meccanica a quello della solidarietà organica. I difensori del primo tipo di solidarietà nella società contemporanea dovrebbero chiedersi "quale dovrebbe essere il fondamento unificante e portante di un consenso generale in grado di assicurare alla società la possibilità di difendersi dalle divisioni pluralistiche e di essere e restare unita" (v. Reitzenstein, 1961, p. 210).
Il solidarismo costituisce un momento importante, e merita quindi di essere analizzato in questa sede, non solo perché in Francia tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento fu un movimento estremamente influente sul piano sia politico che sociofilosofico, ma anche perché le idee del solidarismo hanno fortemente improntato la politica sociale europea, con l'eccezione relativa della Germania.
Alla fine del XIX secolo il termine solidarietà in Francia era estremamente diffuso e impiegato in una pluralità di accezioni: all'interno del movimento operaio nel senso di solidarietà (naturale) di tutti i lavoratori salariati, nell'ambito della sociologia come sinonimo di coesione sociale, nella teoria sociale e in politica nel senso di solidarietà sociale tra i membri della collettività. Al concetto di solidarietà facevano riferimento sia economisti puri che autori marxisti ed esponenti dell'anarco-sindacalismo (v. Hayward, 1959, pp. 261 ss.). Il solidarismo venne e viene tuttora definito da molti autori (anche vicini a tale corrente, come ad esempio Charles Gide nella sua Histoire des doctrines économiques, scritta nel 1829 in collaborazione con Charles Rist, e in altre opere) come un movimento che si proponeva di trovare una terza via tra l'individualismo (liberale) e il socialismo (o collettivismo). La stessa definizione può applicarsi anche ad altre varianti successive del solidarismo, cui manca peraltro l'originalità delle idee di Léon Bourgeois, la personalità più significativa di questa corrente di pensiero. Nella concezione di Bourgeois la nozione di solidarietà è la risultante di due forze, "il metodo scientifico e l'idea morale" (v. Bourgeois, 1896, p. 17).
Ciò che il solidarismo si propone è un rinnovamento politico e sociale attraverso la solidarietà sociale. Gli uomini hanno bisogno della solidarietà universale per lo sviluppo individuale. Nell'ambito di una "dottrina pratica della solidarietà sociale" si deve realizzare l'unione dei buoni e dei giusti. Riprendendo un'affermazione del filosofo protestante Secrétan, Bourgeois sostiene che l'universalizzazione è una legge morale, e cerca un nuovo fondamento per la società in via di rinnovamento. La gerarchia e la divisione non sono una legge di natura, e nella misura del possibile le ineguaglianze naturali non devono essere accresciute attraverso le ineguaglianze dei diritti. Il contratto sociale di Rousseau implica un'alienazione dell'uomo, mentre per Bourgeois si tratta di istituire la libertà attraverso la solidarietà. Per raggiungere questo obiettivo gli uomini devono riconoscere il proprio debito nei confronti della società, degli altri uomini (v. Bourgeois, 1896, pp. 116 ss.). Da qui Bourgeois deriva la sua nozione del quasi-contratto, che consiste nel debito culturale, materiale, scientifico, ecc. nei confronti dei nostri predecessori, che possiamo ripagare solo accettando l'obbligo di preservare e far progredire la civiltà. Il contratto come fondamento definito del diritto viene elevato nella forma del quasi-contratto a fondamento della società solidale e - come ha messo giustamente in evidenza François Ewald (v., 1986 e 1996) - a fondamento del moderno diritto sociale, cui spetta il compito della perequazione sociale.In questo edificio teorico la libertà viene fondata in modo nuovo e diverso rispetto al liberalismo: la libertà degli altri diventa possibile solo attraverso l'obbligazione sociale. Il 'contratto di solidarietà' di Bourgeois istituisce una specifica dottrina contrattuale sulla quale si basa il diritto sociale, configurandosi nel contempo, come in Durkheim, come una dottrina morale. La fine del XIX secolo segna l'avvento dei riformatori sociali.
L'economista Charles Gide aveva già delineato un primo abbozzo del solidarismo in un breve scritto del 1893, L'idée de solidarité en tant que programme économique, rifacendosi alla vasta letteratura sul tema della solidarietà - da Durkheim a Secrétan - nonché ad alcuni elementi della dottrina sociale cristiana. Il più noto esponente tedesco del solidarismo fu il gesuita Heinrich Pesch (v., 1905 e 1922), cui peraltro manca l'originalità di pensiero di Bourgeois. Il solidarismo come dottrina sociale cattolica trovò un seguito dopo il 1945 in Italia. Sebbene orientamenti solidaristici si possano senza dubbio trovare anche in altri paesi, è soprattutto in Italia che essi hanno esercitato la massima influenza. Amintore Fanfani riuscì a raccogliere intorno a sé e a unificare diverse correnti solidaristiche, acquistando con ciò influenza politica (v. De Giorgi, 1993).
In epoca premoderna, quando le misure assistenziali costituivano l'unica forma di politica sociale, la solidarietà esisteva unicamente nel contesto di comunità e di gruppi fortemente coesi - quelli che in francese vengono chiamati réseaux primaires (reti sociali primarie), ovvero la famiglia, la famiglia estesa, il vicinato, le associazioni religiose, ecc. Mentre oggi il fondamento della politica sociale e della sua prassi è costituito dalla solidarietà sociale, alla base della prassi assistenziale vi è il principio della caritas, che implica una netta distinzione gerarchica tra chi dà e chi riceve - differenza che non viene annullata, ma semmai rafforzata dall'atto del dare.
Nei periodi di transizione o di crisi la coscienza di tale differenza diventa particolarmente acuta. Pur senza adoperare l'espressione 'politica sociale' Georg Simmel ha fornito un'analisi molto precisa di questa problematica: "Il dovere [dell'assistenza ai poveri] può presentarsi come semplice correlato della pretesa dei poveri. In particolare nei paesi in cui l'accattonaggio è un vero e proprio mestiere, i mendicanti credono, più o meno ingenuamente, che l'elemosina sia un loro diritto" (v. Simmel, 1908, p. 455). Tuttavia dall'esistenza di un 'diritto dei bisognosi' non deriva necessariamente un'equiparazione dei diritti tra chi dà e chi riceve, un annullamento delle differenze sociali. In questo senso la carità, che toglie ai ricchi per dare ai bisognosi, "non comporta affatto un'equiparazione tra queste posizioni individuali", né "annulla la tendenza alla differenziazione della società in poveri e ricchi" (ibid., p. 459). È qui che risiede la distinzione tra assistenzialismo e politica sociale. Tutt'altro carattere infatti, osserva Simmel (ibid., p. 455), ha la pretesa all'assistenza fondata sull'appartenenza di gruppo del povero. Questa appartenenza - come status di cittadino - può essere estesa anche all'intera società; in questo caso il rapporto non è più gerarchico, ma si basa sull'eguaglianza e sulla virtuale reciprocità.
La Rivoluzione francese negava ancora ai poveri lo status di cittadini. Una politica basata sull'esclusione di determinati individui o gruppi di individui è inconciliabile con la politica sociale e la solidarietà, e in questo senso si può affermare che nella Rivoluzione francese non vi fu un'autentica politica sociale. Nel suo studio sulla cittadinanza T.H. Marshall (v., 1950) ha definito il Novecento come secolo della cittadinanza sociale, e sebbene si possano avanzare dubbi più che legittimi sul fatto che essa abbia trovato piena realizzazione, tuttavia è senz'altro vero che nel XX secolo alcuni Stati hanno cercato, con l'ausilio della politica sociale, di realizzare l''eguaglianza' del cittadino sociale e di conseguenza la solidarietà della società nel suo complesso. "Le politiche solidaristiche sono state accettate, legittimate e incontestate solo nella misura in cui sono state considerate come un diritto piuttosto che come forme di carità o di altruismo. [...] La cittadinanza sociale riconosce a ogni individuo il diritto di usufruire di benefici che in sistemi di valori diversi sarebbero giustificati in altro modo o sono garantiti solo in termini avvilenti, in quanto coloro che li ricevono non sono considerati membri a pieno titolo della comunità" (v. Baldwin, 1990, p. 29).
Si è trattato di un processo durato parecchi secoli, il cui punto d'avvio è segnato dall'introduzione forzosa del lavoro salariato - nel 1349 Edoardo III, re d'Inghilterra, emanò lo statuto dei lavoratori, in cui peraltro il salario era limitato al livello minimale della sussistenza ed era corrisposto perlopiù in natura. La Rivoluzione francese segnò l'avvio di un diverso modo di impostare la questione, e si cominciò a pensare anche in termini di politica sociale; sul piano pratico, tuttavia, si rimase fermi alle misure puramente assistenziali, e persino il diritto di cittadinanza rimase legato al censo. Sul piano teorico il lavoro per tutti avrebbe abolito il bisogno, principio che tre mesi dopo venne fissato addirittura nella costituzione come 'dette sacrée' - ma a distanza di oltre due secoli ci siamo ormai abituati alla differenza tra norma costituzionale e prassi costituzionale, asserita e lamentata all'epoca da Gracchus Babeuf e da Sylvain Maréchal.
Anche in Inghilterra sino al XIX secolo si rimase fermi al puro assistenzialismo. Nel 1795 con l'Atto di Speenhamland venne riconosciuto per la prima volta a ogni individuo il diritto a un livello minimo di sussistenza. Il Poor law amendment act del 1834 abolì il vincolamento al luogo di residenza. Ma sia in Inghilterra che in altri paesi europei la solidarietà sociale trovò le sue prime forme di espressione concreta nelle associazioni di autotutela e di mutuo soccorso dei lavoratori (friendly societies, Vereine für gegenseitige Hilfe, sociétés de secours mutuels o semplicemente mutuelles), organizzate nella maggioranza dei casi in base al modello dell'assicurazione. Esse risultarono in ultimo più efficaci della garanzia puramente retorica di un diritto al lavoro, quale venne riaffermato nella Costituzione francese del 1848. Le associazioni di mutuo soccorso rappresentarono nei paesi europei la prima forma di previdenza nazionale, e possono essere considerate una ramificazione del movimento operaio nel campo della politica sociale. Nella maggior parte dei casi tali associazioni costituirono anche le prime forme organizzative della solidarietà operaia, in quanto esistevano già quando i sindacati erano ancora vietati - oppure lo divennero, come nel caso della Germania, a seguito delle leggi antisocialiste.
La grande eccezione è rappresentata dai Paesi Scandinavi e dal Belgio, dove il sistema della solidarietà sociale si sviluppò direttamente dalle associazioni di mutuo soccorso. È questo uno dei tre percorsi di sviluppo idealtipici della politica sociale (v. Ferrera, 1993). Dalle associazioni di mutuo soccorso nacquero le grandi assicurazioni, che coprivano rischi di malattia, incidenti sul lavoro, disoccupazione, ecc. Queste assicurazioni sociali rimasero strettamente legate ai sindacati: tra solidarietà sociale e solidarietà operaia non esiste in questo caso soluzione di continuità.
Ciò che contraddistingue il secondo percorso di sviluppo è l'iniziativa dello Stato per la creazione di una previdenza sociale moderna, quale venne attuata in Germania tra il 1883 e il 1889. Vivamente preoccupato per il successo elettorale dei socialdemocratici, Bismarck sperava di batterli sul loro stesso terreno con la sua legislazione sociale. Se in ultimo dunque questa iniziativa si dovette indirettamente alla solidarietà operaia, si trattò nondimeno di una politica sociale intrapresa dallo Stato imperiale, che creò un sistema di solidarietà sociale globale sotto forma di assicurazione obbligatoria. Nonostante le critiche che si possono muovere nel dettaglio, nel suo complesso la legislazione tedesca segnò un passo in avanti nella direzione della modernizzazione che in altri paesi europei, spesso assai più progrediti, si dovette attendere ancora a lungo.
Come esempio del terzo percorso di sviluppo si può far riferimento al caso della Francia. Qui, come negli altri paesi europei - con alcune eccezioni -, né il movimento operaio in generale né le sociétés de secours mutuels erano sufficientemente forti per dar vita a un proprio modello di previdenza sociale. La cosiddetta 'questione sociale' però fu al centro dell'attenzione di un gruppo relativamente forte di riformatori sociali della più varia provenienza (riformisti sociali cattolici, socialisti moderati, socialisti radicali, cittadini comuni impegnati in campo sociale, ecc.), assimilabili spesso, per il loro orientamento politico, ai socialisti della cattedra.
Léon Bourgeois (1851-1925) - che fu Primo ministro in Francia nel 1895 e nel 1919 venne nominato delegato francese alla Società delle Nazioni - mise mano al progetto di una fondazione teorica globale della politica sociale. Il valore dell'opera di Bourgeois, spesso ancor oggi misconosciuto, è attestato dal fatto che le sue idee, in varie forme e senza che venga citato il nome dell'autore, continuano a ripresentarsi sino ai nostri giorni nel dibattito sulla politica sociale. François Ewald in particolare, nel suo studio di filosofia del diritto L'État providence, ha riconosciuto l'importanza di Léon Bourgeois, che fu il primo a individuare nella previdenza nazionale solidaristica il presupposto per uno sviluppo pacifico (v. Bourgeois, 1902, p. 321). Se Rousseau con il modello del patto sociale parte dagli individui, laddove Durkheim privilegia l'aspetto della coesione dei singoli nella società, Bourgeois compie un ulteriore passo, proponendosi di definire su nuove basi le regole del rapporto tra individuo e società - un "tentativo di formulare un principio di giustizia che sia alternativo al principio liberale". Con la sua dottrina della solidarietà egli intende dimostrare che si può "derivare dal sociale una regola di giustizia che apra la possibilità di un diritto esso stesso sociale" (v. Ewald, 1986, p. 367).
Rifacendosi ad Auguste Comte, Bourgeois (v., 1896, p. 138) non solo anticipa l'idea assai più tarda del patto intergenerazionale, ma la pone a fondamento della sua nuova teoria contrattualistica: "Questo scambio di servizi costituisce la materia di un quasi-contratto di associazione che unisce tutti gli uomini, e l'oggetto legittimo della legislazione sociale è l'equa valutazione dei servizi scambiati, ovvero l'equa ripartizione dei profitti e delle perdite, dell'attivo e del passivo sociale" (ibid.). Partendo da questi presupposti Bourgeois afferma il primato della società su ogni scambio individuale. La 'règle de justice' può assumere solo la forma del contratto. Secondo la formulazione ancora più incisiva proposta da A. Fouillée, la giustizia può esistere solo su una base contrattualistica (v. Fouillée, 1880, pp. 41 ss.), e in questo senso la teoria di Bourgeois può essere considerata una dottrina contrattualistica.
Alla questione, in che modo gli uomini pervengano a questo contratto sociale, Bourgeois fornisce una risposta estremamente originale: "la legge che fisserà tra di essi queste condizioni non dovrà essere che un'interpretazione e una rappresentazione dell'accordo che si sarebbe dovuto stabilire in via preliminare se essi avessero potuto essere consultati liberamente ed equamente: l'unico fondamento del diritto sarà dunque la presunzione del consenso che avrebbero dato le loro volontà eguali e libere. Il quasi-contratto non è che il contratto retroattivamente sottoscritto" (v. Bourgeois, 1896, pp. 132 s.). Al pari di quelli postulati in precedenza, anche il contratto sociale di Bourgeois è una finzione, ma di natura profondamente diversa nella misura in cui non si tratta di una finzione relativa alle origini della società: "la società è già presente" (v. Ewald, 1986, p. 369). Gli uomini possono accettare o ricusare questo contratto sociale; il contratto di solidarietà rappresenta dunque una necessità sociale, che può prender forma solo una volta che tale necessità venga riconosciuta. Ma ciò implica anche che il contratto deve venire costantemente riaffermato - si tratta propriamente di un processo, un processo di negoziazione permanente (ibid.).Probabilmente siamo ancora lontani dallo stato di decisione cosciente e permanente del patto di solidarietà descritto da Bourgeois. Tuttavia ciò che ha incontestabilmente avuto luogo è un lento processo di affermazione della cittadinanza sociale. Tale processo è stato studiato in modo approfondito per quanto riguarda la Francia e la Gran Bretagna (v. Thane, 1982; v. Ritter, 1983 e 1986). Sul piano ideale la sicurezza sociale può essere definita, citando Ewald, "l'istituzione attraverso la quale si realizza quel contratto di solidarietà che costituirebbe il vero rapporto reciproco degli individui entro la società" (v. Ewald, 1986, p. 403). Resta aperta tuttavia la questione, in che misura possa essere raggiunto quel livello di riflessività sociale che è altrettanto necessario alla realizzazione del contratto di solidarietà quanto la fondazione su nuove basi della solidarietà sociale auspicata da van Parijs (v., 1996).
L'avvio del nuovo e ultimo periodo della solidarietà è segnato dalla crisi delle sue forme tradizionali. Si può presumere che tutte le vie possibili per uscire da una crisi verranno percorse: una parte delle vecchie forme di solidarietà resterà in vita, mentre altre non saranno in futuro altrettanto diffuse quanto in passato; si assisterà alla nascita di nuove forme, di cui alcuni elementi cominciano già a emergere. Le cause della crisi dello Stato del benessere - oggetto ai giorni nostri di un intenso dibattito (v. ad esempio Rosanvallon, 1984; v. de Foucauld e Piveteau, 1995; v. Prisching, 1996; v. Ascoli, 1993) - vengono ricollegate a fattori assai diversi, e diverse sono anche, di conseguenza, le analisi proposte. Un fattore di indubbia importanza è la crisi fiscale, in quanto quasi tutti i modelli della solidarietà sociale organizzata erano costruiti sul presupposto di una crescita economica, e non contemplavano la possibilità di periodi di stagnazione prolungati. Come conseguenza si è avuta una stasi delle entrate dei sistemi di sicurezza sociale, cui ha fatto riscontro un ulteriore aumento delle spese.
Ad aggravare la crisi sotto questo riguardo ha contribuito la tendenza a estendere la previdenza sociale a tutti i membri della società, il che si traduce di solito in un aggravio per la fascia della popolazione già coperta dall'assicurazione (v. Baldwin, 1990; v. Ewald, 1986). Un'altra questione sulla quale si continua a discutere è se il rapporto solidaristico tra le generazioni, incarnato nel patto intergenerazionale, riuscirà o meno a sopportare gli oneri derivanti da una situazione in cui una quota sempre minore della popolazione attiva (i giovani) deve pagare i trasferimenti (pensioni di vecchiaia) a un numero crescente di anziani (in età pensionabile) con i propri contributi sociali e/o fiscali (su questo tema v. Attias-Doufut e Rozenkier, 1995; v. Rosanvallon, 1995, pp. 41 ss.; v. Saint-Étienne, 1993; v. Hondrich e Koch-Arzberger, 1992, p. 43).
Fenomeni di crisi di tipo diverso, per quanto paralleli, si osservano nell'ambito della solidarietà operaia. In alcuni paesi - sebbene non in tutti - il numero degli iscritti ai sindacati, che possono essere considerati le organizzazioni più rappresentative della solidarietà operaia, è sensibilmente diminuito; in Francia gli esperti parlano ancora di un grado di organizzazione del 6-8%, e sebbene il numero dei tesserati in Gran Bretagna fosse e sia tuttora sostanzialmente superiore, anche qui si registra un calo sensibile, in quanto si è passati dai 13 milioni del 1978 agli 8 circa del 1995 (v. Certification Office..., 1997).
Una delle basi della solidarietà era l'esperienza comune del lavoro salariato e della difesa degli interessi legati a tale condizione, che erano espressi come istanza collettiva cosicché su queste basi poteva svilupparsi non solo una solidarietà operaia, ma anche una solidarietà sociale. Nel passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft - dalla comunità alla società (v. Tönnies, 1887) - non solo diminuiscono le risorse rappresentate dalla dimensione comunitaria, che alimentano entrambe le forme di solidarietà, ma oltre a ciò il lavoro salariato perde per molti, se non la sua centralità (v. Gorz, 1988; v. Rifkin, 1995), perlomeno il suo carattere di fondamento dell'identità e di fonte di solidarietà.
L'inasprirsi della concorrenza tra i lavoratori salariati spesso ha portato alla rottura di rapporti improntati in precedenza alla solidarietà; i gruppi occupazionali sono in aperta competizione, i dipendenti di diverse aziende di un'impresa delle quali una deve essere chiusa si trovano improvvisamente divisi da interessi contrapposti, e si hanno anche numerosi esempi di una rinascita della concorrenza diretta tra lavoratori salariati all'interno delle aziende (v. Hondrich e Koch-Arzberger, 1992, pp. 30 ss.; v. Zoll, 1992). La globalizzazione alimenta forme di concorrenza in cui le parti in competizione non hanno più alcun contatto diretto. Per molte organizzazioni sindacali la mancanza di iscritti della fascia d'età giovanile costituisce un grave pericolo.
Accanto a questi fenomeni di crisi tuttavia si osservano anche esempi di una solidarietà operaia tuttora esistente, nonché di una 'cultura della solidarietà' nel campo sociale. Non in tutte le organizzazioni sindacali europee si è verificato un drammatico calo degli iscritti; alcune di esse restano forti come in passato, mentre in altre le perdite riguardano solo i lavoratori disoccupati, che tendono in genere ad abbandonare l'organizzazione sindacale. È in atto inoltre una significativa trasformazione nella composizione dei membri delle organizzazioni sindacali: ad esempio nella Germania occidentale le perdite di tesserati di sesso maschile subite negli anni ottanta sono state più che compensate da un aumento della presenza femminile. Alcune ricerche empiriche, poi, dimostrano che per i membri dei sindacati la solidarietà operaia resta un punto di riferimento essenziale (v. Lind, 1996, pp. 118 s.).
Anche alla base della solidarietà incarnata nei sistemi di previdenza sociale vi è spesso una 'cultura della solidarietà', come ha dimostrato Karl Hinrichs (v., 1995, pp. 679 ss.) nella sua ricerca qualitativa sull'assicurazione contro le malattie in Germania. È vero che le organizzazioni sindacali fondano ancora il concetto di solidarietà su una eguaglianza che ormai non esiste più - cfr. a questo riguardo le ricerche di Valkenburg (v., 1996) per l'Olanda e di Zoll (v., 1996) per la Germania - e dunque faticano a tenere nel debito conto la differenziazione e l'individualizzazione dei loro membri, tuttavia nonostante questi mutamenti la solidarietà sindacale nei paesi in questione non è (ancora) messa seriamente in pericolo.
Alcune nuove forme di solidarietà si sono sviluppate a partire dal 1968 o hanno avuto una diffusione assai maggiore che in passato (v. Christoph, 1979, pp. 57 ss. e 138 ss.). A questo riguardo vanno menzionati innanzitutto i gruppi di autotutela: come nel caso delle associazioni di mutuo soccorso, anche i membri di questi gruppi partono da un'interpretazione comune di una data situazione - che non deve essere necessariamente di ordine sociale - e decidono di impegnarsi in un'azione collettiva di mutuo sostegno. Nati inizialmente soprattutto nell'ambito psicosociale e sanitario, questi gruppi mirano in generale a sviluppare forme di autotutela solidale per il superamento dei problemi quotidiani - gruppi femminili, associazioni di handicappati, di anziani, di vicinato, ecc. (v. Hondrich e Koch-Arzberger, 1992, pp. 50 ss.).
Esistono però numerosi gruppi fondati sulla differenza anziché sull'eguaglianza: in Germania, ad esempio, sono nate svariate associazioni che forniscono assistenza agli Asylanten, aiutandoli nelle procedure burocratiche necessarie, oppure organizzando centri di accoglienza e di rifugio nelle Chiese. In questi casi dunque il gruppo comprende sia chi fornisce l'assistenza, sia chi ne beneficia; reti di solidarietà di questo tipo sono nate anche nell'ambito sociale. K.-O. Hondrich e C. Koch-Arzberger (v., 1992, pp. 58 ss.) hanno fornito una descrizione dettagliata di un'associazione di questo genere, che come rete di sostegno di natura privata presta assistenza in campo sociale o terapeutico in forma diretta o mediata. Come ulteriore esempio si possono citare a questo riguardo i cosiddetti 'gruppi del Terzo Mondo'.
La solidarietà dunque trascende oggi in misura assai maggiore che in passato le differenze culturali, sociali, etniche, nazionali e di genere, mentre prima la solidarietà superava tutt'al più le barriere sociali, a volte le distinzioni legate alla nazionalità e al genere: il fondamento di legittimità era dato comunque quasi sempre dall'eguaglianza. Nel movimento operaio l'elemento propulsivo era ed è ancora oggi l'eguale status di lavoratori salariati, nel movimento delle donne l'eguale condizione femminile, e via dicendo.
Ma come si è arrivati a questa trasformazione soggettiva, culturale in virtù della quale nella società contemporanea le differenze vengono percepite e tematizzate in misura assai maggiore che in passato? Senza dubbio i processi di differenziazione sociale, culturale ed etnica sono ulteriormente progrediti, e in certa misura hanno acquistato maggiore visibilità. Tuttavia è difficile prender coscienza del mutamento senza movimenti culturali che tematizzino la differenza. È senza dubbio merito del movimento delle donne e del femminismo aver affrontato il tema della differenza in modo approfondito e più articolato. A partire dal XIX secolo l'attenzione si era focalizzata, ovviamente, sulla differenza tra i generi (v. Lange, 1897). Da allora il tema - soprattutto negli ultimi decenni - è diventato in misura crescente oggetto di dibattito (in ambito accademico), è stato usato politicamente (v. tra gli altri Knapp, 1994) e internamente differenziato (v. Gerhard, 1995, pp. 268 ss.). Poiché da un lato le donne al pari degli uomini trovano difficile praticare la solidarietà al di là delle differenze - di classe, di nazionalità ed etniche (v. Caplan, 1978; v. Lenz, 1995, pp. 41 s.; v. Frerichs e Steinrücke, 1995; v. Tax, 1980), mentre dall'altro la tematizzazione di differenza e solidarietà ha caratterizzato sin dall'inizio il movimento femminile, è stato quest'ultimo ad affrontare la problematica di differenza ed eguaglianza per primo e in modo più radicale di quanto non abbia fatto, ad esempio, il movimento operaio.
Sotto un particolare aspetto, e per la precisione quello etnico, il movimento operaio e soprattutto le organizzazioni sindacali avrebbero avuto un motivo sufficiente per affrontare e sviluppare in senso solidaristico il tema della differenza. Il fenomeno dell'immigrazione è vecchio quanto il capitalismo industriale - basti pensare alla condizione degli operai irlandesi in Inghilterra descritta da Engels. Il problema di una solidarietà che trascenda le barriere etniche si è da allora costantemente riproposto. Un esempio particolarmente significativo è dato dal rapporto tra i minatori polacchi immigrati in Francia, in Belgio e in Germania e i minatori locali, rapporto in cui emersero elementi sia di solidarietà che di xenofobia (v. Kulczycki, 1994). Ma si possono citare moltissimi altri esempi. Il problema assumeva naturalmente la massima rilevanza nel melting pot della società statunitense, in cui il pluralismo etnico ha ostacolato lo sviluppo di organizzazioni sindacali su larga scala, soprattutto agli inizi del movimento sindacale (v. Oestreicher, 1986). A seguito dell'enorme incremento dell'immigrazione, il problema dei lavoratori stranieri e degli Asylanten è stato oggetto di particolare attenzione anche da parte degli studiosi; sul pluralismo etnico esiste oggi una letteratura di dimensioni imponenti (in questa sede dovremo limitarci a menzionare solo alcuni autori: v. Bastenier e Dassetto, 1995; v. Martiniello, 1995).
Tuttavia al fine di capire perché la solidarietà organica ha impiegato tanto tempo per affermarsi in modo anche solo di poco più incisivo, perché gli esempi positivi per lungo tempo sono rimasti eccezioni o confinati sul piano della mera retorica, è necessario comprendere meglio il problema della differenza. A questo scopo occorre spostare l'attenzione dal microlivello delle differenze specifiche di tipo culturale, sociale ed etnico, al macrolivello della differenza nella sua forma assoluta, o come tale percepita: l'estraneità. L'estraneo è la vera e propria sfida alla coesione sociale, rappresenta l'autentico, importante problema morale nel rapporto reciproco tra gli uomini, in grado di mettere a dura prova la solidarietà.
Nella definizione classica di Simmel (che si trova nell'Exkurs über den Fremden) l'estraneo è definito come il nomade, "che oggi arriva e domani resta" (v. Simmel , 1908). Per Alfred Schütz si tratta di un adulto "che vorrebbe essere accettato o perlomeno tollerato dal gruppo cui si avvicina" (v. Schütz, 1972, p. 53). In qualità di nuovo arrivato l'estraneo provoca una crisi nel gruppo, in quanto non ne condivide le idee di fondo e ne mette in discussione il modello di cultura e di civiltà. La figura idealtipica dell'estraneo, afferma Zygmunt Bauman, esula dallo schema amico/nemico, e rappresenta una sorta di 'indecidibile', in quanto non si sa se classificarlo come amico o come nemico. Per questo motivo egli la definisce "il veleno mortale della modernità" (v. Bauman, 1992, pp. 82 s.). Esiste una vasta letteratura sulla problematica dell'estraneo (v. Bastenier e Dassetto, 1995; Heitmeyer, 1994; v. Kristeva, 1990; v. Nassehi, 1995; v. Sombart, 1928; v. Waldenfels, 1990; v. Rennison, 1970; v. Kavanagh, 1985).
Rifacendosi a Lévi-Strauss, Bauman (v., 1992, p. 243) opera una distinzione tra strategie antropofagiche (divorare, incorporare, assimilare) e antropoemiche (rigettare, respingere, ghettizzare), che a un altro livello si manifestano come xenofilia e xenofobia. In quest'ultimo caso la differenza dell'estraneo viene assolutizzata, nell'altro, che si verifica più raramente, esso viene assunto come eguale. Siamo così ricondotti all'ambivalenza dell'estraneo postulata da Bauman, che ora può essere riformulata in termini di ambivalenza tra differenza ed eguaglianza: l'estraneo è differente in quanto proviene da un'altra cultura, ma nello stesso tempo è eguale in quanto essere umano al pari di noi. Per molti questa eguaglianza costituisce un fondamento per la solidarietà.
In sintesi, si può affermare che se il periodo della solidarietà 'organica' è senza dubbio ancora agli inizi, tuttavia alcuni suoi elementi cominciano già a rendersi visibili. La differenziazione sociale e culturale ha reso di estrema attualità il problema se sia o meno possibile una solidarietà che trascenda le differenze; la risposta, secondo Hondrich e Koch-Arzberger (v., 1992), deve essere affermativa nella misura in cui sono riscontrabili empiricamente molteplici forme di solidarietà. Se questa sarà in grado di affermarsi saldamente nel tessuto sociale dimostrandosi capace di scongiurare ogni minaccia alla coesione sociale, resta comunque una questione aperta. Ad ogni modo Hans Joas, che si è posto il problema relativamente alla realtà tedesca, può richiamarsi contro i teorici del 'postmoderno' e della 'fine del sociale' sia alle vecchie forme tradizionali e ancora salde di associazionismo, sia a quelle nuove che vanno emergendo sempre più numerose - gruppi di autotutela, associazioni di vicinato, ecc. - contestando con buone ragioni, perlomeno per quanto riguarda la Germania occidentale, l'idea di una perdita permanente di senso comunitario (v. Joas, 1996).
Il processo di differenziazione sociale e culturale spesso può far apparire obsoleta l'illusione egualitaria delle vecchie forme di solidarietà, ma ciò vale solo nella misura in cui si trattava effettivamente di un'illusione, e non di una eguaglianza specifica, e d'altro canto questo stesso processo dà origine a una solidarietà che trascende i confini dell'eguaglianza. Per citare le parole di Hondrich e Koch-Arzberger, "la solidarietà è unione nonostante la differenza, nonostante l'ineguaglianza (e presuppone dunque la differenziazione sociale)" (v. Hondrich e Koch-Arzberger, 1992, p. 13). Ciò implica peraltro che il processo di differenziazione abbia incluso la solidarietà stessa, portando a una pluralizzazione della solidarietà in molteplici forme e contenuti. La pluralizzazione investe anche coloro che mettono in pratica e sperimentano la solidarietà; i gruppi di solidarietà del tipo più diverso mostrano una composizione sorprendentemente eterogenea. La pluralizzazione com'è noto comporta anche l'individualizzazione. Nella misura in cui questo processo porta a un individualismo egoistico, non può che pregiudicare, come del resto molti temono, il potenziale della solidarietà sociale. Ma il processo di individualizzazione ha un carattere ambivalente, che ha come altra faccia l'aumento, seppure sempre relativo, dell'autonomia individuale (v. Zoll, 1992). Van der Loo e Van Reijen (v., 1992, pp. 194 s.) parlano addirittura a questo proposito di un paradosso dell'individualizzazione. Quando tale processo è inteso come "moltiplicarsi delle alternative d'azione che si offrono al singolo a seguito dell'allentarsi dei vincoli sociali tradizionalmente costrittivi, non è più in contrasto con la solidarietà, ma ne costituisce anzi il presupposto" (v. Hondrich e Koch-Arzberger, 1992, p. 25).
Un altro aspetto della trasformazione della solidarietà è stato finora affrontato solo in modo implicito o marginale. Di fronte ai fenomeni di burocratizzazione nelle istituzioni della solidarietà sociale, così come negli apparati delle organizzazioni sindacali, non sorprende che i giovani spesso non possano iniziare con queste forme istituzionali, ma preferiscano vivere la solidarietà nella dimensione quotidiana. Fin quando la solidarietà operaia rimase ancorata al mondo di vita improntato alla cultura operaia e alla cooperazione dei lavoratori, restava sempre anche in un certo senso una solidarietà quotidiana. Ma quanto più manca alla solidarietà operaia questa dimensione del quotidiano, del mondo di vita, tanto più emergono in primo piano i suoi aspetti negativi - la coercizione e l'egoismo del gruppo - che portano alla sua disgregazione. I giovani sviluppano nuove forme di solidarietà quotidiana, che vanno dall'aiuto reciproco per il superamento dei problemi della vita di tutti i giorni - ad esempio la costituzione di comuni - ai gruppi d'asilo, ecc. Quando al posto della solidarietà fondata sull'eguaglianza della condizione di salariati e degli interessi che ne derivano subentrano forme in parte nuove, e nello stesso tempo 'reinventate', di solidarietà quotidiana, questa verrà favorita in modo decisivo da quei processi comunicativi che costituiscono gli elementi della nuova cultura comunicativa dei giovani. In questa nuova cultura (v. Zoll, 1992) tutto viene discusso e analizzato - ogni affermazione, ogni decisione devono legittimarsi nel corso di un processo comunicativo. Possiamo così indicare altri due processi della trasformazione della solidarietà, la 'quotidianizzazione' e l'universalizzazione. L'agire comunicativo da un lato è ancorato alla quotidianità del mondo di vita (v. Habermas, 1981), dall'altro implica nei principî che lo guidano la possibilità di universalizzazione. Questa tendenza fa riscontro alla 'riduzione' dell'eguaglianza alla sua forma più astratta, all'eguaglianza come esseri umani, che implica nello stesso tempo una universalizzazione. La dinamica del mutamento socioculturale della solidarietà può dunque essere definita come un insieme di processi di differenziazione, individualizzazione e pluralizzazione, di quotidianizzazione e universalizzazione. Detto in altri termini, il mutamento socioculturale della solidarietà è un processo della modernizzazione.
A partire da Durkheim si sono sviluppati sino ai giorni nostri vari orientamenti teorici, tra i quali uno dei più significativi è il funzionalismo normativo e la sua filiazione, la teoria sistemica (Parsons, Luhmann, Giovannini, Lockwood). La dottrina sociale cattolica e il solidarismo si richiamano solo marginalmente a Durkheim, e lo stesso vale per Max Scheler, il quale peraltro si rifà al solidarismo. Il dibattito sulla solidarietà nei suoi aspetti morali e filosofici si è allargato a dismisura, con o senza Durkheim. L'aspetto contrattualistico della teoria di Durkheim viene sviluppato piuttosto raramente, sebbene egli definisca esplicitamente la solidarietà organica come solidarietà contrattuale. Nell'attuale dibattito sociofilosofico si possono distinguere due poli: il primo è rappresentato dalla teoria della giustizia, il secondo da un approccio postmodernista, che si contrappone sia alle riflessioni in termini di filosofia morale sia alle teorie di Max Scheler.Richard Rorty, uno dei più illustri esponenti di quest'ultimo approccio, oppone un radicale rifiuto a tutti i fondamenti ultimi e ai principî morali della filosofia, affermando che non esiste alcun contrasto tra la ragione e il suo Altro (le passioni, o la 'volontà di potenza' nietzscheana, o l''essere' di Heidegger), poiché la 'ragione' come "nome di una forza che risana e concilia" diventa per Rorty (v., 1992, pp. 121 s.) la fonte della solidarietà. Se per alcuni autori la solidarietà è "il reciproco riconoscimento della condizione umana che ci accomuna tutti", Rorty rifiuta invece di richiamarsi a "qualcosa che trascenda la storia e le istituzioni" (ibid., p. 306) o all'idea di 'umanità', di una natura umana comune a noi tutti. Il bersaglio polemico della sua critica è "l'universalismo etico di impronta laica" che è stato "mutuato dal cristianesimo" (ibid., pp. 308 s.). L'universalismo è incompatibile con la posizione di Rorty, sebbene egli non abbia nulla in contrario all'estensione della solidarietà a una cerchia via via più ampia. Sono evidenti le contraddizioni insite nella sua concezione.
Rorty formula un'idea della solidarietà che trascende le differenze, senza peraltro rendersi conto che tale idea è perfettamente conciliabile con l'assunto di una natura umana comune, anzi lo implica sul piano sia empirico che teoretico. È questa la posizione sostenuta con forza da Norman Geras (v., 1995) nella sua critica a Rorty. Per quest'ultimo sarebbe decisiva la definizione del 'noi'-gruppo, che è in ogni caso qualcosa di "più limitato della razza umana" (v. Rorty, 1992, p. 308). Geras per contro cita un'infinità di esempi di uomini di tutte le razze che (come Schindler, per citare un nome ormai noto) nel corso della seconda guerra mondiale hanno salvato moltissimi Ebrei, meritando il titolo onorifico di 'Righteous among the nations' da parte dello Stato di Israele. Come emerge dalle dichiarazioni di questi 'uomini giusti', nella quasi totalità dei casi essi si adoprarono per salvare gli Ebrei non per loro qualità di vicini e conoscenti, ma unicamente in quanto esseri umani: "siamo stati educati ad amare il genere umano" (v. Geras, 1995, p. 26). Contro l'arbitrarietà di una morale postmoderna, Geras invoca gli ideali "di una natura umana comune, di diritti universali, e del ragionare insieme per cercare di scoprire la verità, al fine di minimizzare le ingiustizie e le sofferenze evitabili" (ibid., p. 143).
È proprio su questo terreno che si sviluppa l'attuale dibattito sociofilosofico, il cui punto di partenza è la questione della giustizia, e che si può ricollegare ancora una volta a Durkheim. Verso la fine del suo studio sulla divisione del lavoro sociale, egli asseriva che il compito delle società più avanzate è quello di creare la giustizia (v. Durkheim, 1893). Con ciò Durkheim riconosceva che l'affermarsi della solidarietà organica ha come presupposto la realizzazione della giustizia, e in particolare dell'eguaglianza delle condizioni di partenza e delle opportunità.John Rawls nella sua critica all'utilitarismo riprende in forma modificata l'idea contrattualistica e sviluppa una propria teoria della giustizia ispirata a Kant. A tal fine egli stabilisce una serie di principî che dovrebbero creare un contesto di equità. La giustizia per Rawls (v., 1958, p. 164) è una virtù delle istituzioni o delle pratiche sociali. Poiché la società crea costantemente delle differenze, sorge il problema di come sia possibile la giustizia nonostante la differenza, nonostante l'ineguaglianza. Il problema può essere risolto, secondo Rawls, stabilendo due principî, quello della differenza e quello delle eguali opportunità; sulla base di tali principî, la giustizia può essere espressa come un complesso di tre idee: libertà, eguaglianza e 'retribuzione' per i servizi che promuovono il 'bene comune' (ibid., p. 165). Nell'etica della condotta di Rawls il concetto chiave è quello di 'fairness' (equità), che può essere definita come correttezza di rapporti tra persone che competono o cooperano tra di loro. La fairness può nascere quando due individui liberi nel loro rapporto reciproco fissano e rispettano tali regole. In un rapporto improntato alla correttezza gli individui liberi possono agire nel rispetto reciproco e senza violare i principî degli altri. La fairness dunque è anche un presupposto per la solidarietà.
Il senso di fairness, che dovrebbe essere rafforzato dalla procedura, ossia dalle regole, fa nascere un obbligo morale ad agire in modo corretto; di conseguenza il comportamento del free rider (colui che beneficia dei risultati dell'azione collettiva senza impegnarsi in prima persona) contravviene al requisito della fairness. Il riconoscimento di principî morali diviene dunque un criterio per il riconoscimento dell'altro come essere umano, come persona che ha interessi e sentimenti simili, riconoscimento che deve emergere anche nei rapporti reciproci. Il riconoscimento reciproco delle persone e dei principî di giustizia e l'obbligo alla correttezza sono strettamente legati.
Axel Honneth (v., 1994) sviluppa in un certo senso la tesi del riconoscimento di Rawls, senza peraltro richiamarsi a tale autore. La sua fonte di ispirazione è piuttosto Hegel, di cui riprende l'idea della "visione reciproca" associandola alla "trasformazione naturalistica" di G.H. Mead. Honneth perviene così a tre "modelli di riconoscimento intersoggettivo: amore, diritto e solidarietà" (ibid., pp. 148 ss.). I tre livelli dell'autoconsiderazione - fiducia in se stessi, rispetto di sé e coscienza del proprio valore -trovano riscontro in tre forme di riconoscimento reciproco. L'amore implica il riconoscimento dell'altro come individuo - e si esprime nella dedizione e nell'assistenza; il diritto implica l'attribuzione a tutti gli individui della stessa affidabilità morale - questa viene presupposta; le comunità basate sui valori, infine, implicano il riconoscimento reciproco come persone dotate di capacità preziose per gli altri, per la comunità, e tale riconoscimento del valore altrui trova espressione nella solidarietà.
Dall'esperienza del mancato rispetto dei sentimenti associati alle tre forme di riconoscimento sopra menzionate - la violazione dell'integrità personale, il mancato rispetto della persona come soggetto di diritto, l'umiliazione che deriva dal rifiuto del riconoscimento solidale - Honneth deriva una "logica morale dei conflitti sociali". Le forme di riconoscimento dell'amore, del diritto e della solidarietà rappresentano dispositivi di tutela intersoggettivi, che assicurano quelle condizioni di libertà interiore ed esteriore da cui dipende il processo di libera espressione e realizzazione degli scopi di vita individuali (ibid., p. 279).
Il punto di partenza delle riflessioni di Jürgen Habermas (v., 1986, pp. 291 ss.) sul tema della giustizia e della solidarietà è una presa di distanza da una tesi di Lawrence Kohlberg, al quale peraltro si richiama per molti aspetti. Entrambi concordano con G.H. Mead sul fatto che "le persone come soggetti dotati della capacità di linguaggio e di azione possono diventare individui solo attraverso la socializzazione" (ibid., p. 310). Nel processo di socializzazione inteso in senso ampio hanno la loro "origine comune" l'identità sia dell'individuo che della collettività cui questi appartiene. L'identità non può essere affermata unicamente per se stessa, in quanto dipende da un intreccio di relazioni di riconoscimento. I 'dispositivi di tutela' morali che dovrebbero assicurare l'integrità dell'individuo restano inefficaci se non sono in grado di garantire nello stesso tempo "l'intreccio vitale di relazioni di riconoscimento" (ibid.). È qui che risiede la differenza rispetto alla posizione di Kohlberg, in quanto ciò non esclude "la benevolenza per il prossimo", ma implica la solidarietà nella misura in cui si tratta di un 'riconoscimento reciproco'. "Per questa ragione la prospettiva complementare all'eguale trattamento non è la benevolenza, ma la solidarietà". Da ciò nasce anche il collegamento con l'eguaglianza: "la giustizia intesa in senso deontologico esige come sua controparte la solidarietà. Si tratta di due aspetti della stessa cosa" (ibid., p. 311). Poiché giustizia e solidarietà sono strettamente interdipendenti, le norme morali hanno la funzione di tutelare sia "gli eguali diritti e libertà dell'individuo", sia "il bene del prossimo e della comunità cui esso appartiene" (ibid.). La solidarietà diventa qui "parte integrante di una morale universalistica" e perde così il carattere particolaristico che costituiva, come abbiamo visto, uno dei possibili difetti della solidarietà operaia. La tesi forte di Habermas è che "la giustizia concepita in senso post-convenzionale può convergere con il suo altro, la solidarietà, solo quando sia stata trasformata alla luce dell'idea di una formazione discorsiva e universale della volontà" (ibid., p. 312). Habermas ammette che "i principî fondamentali di eguale trattamento, solidarietà e bene comune" erano già presenti nelle società premoderne nelle "condizioni di simmetria e aspettative di reciprocità di ogni prassi comunicativa quotidiana", ma queste aspettative normative non oltrepassavano i confini del mondo di vita concreto della famiglia, della tribù, della città o della nazione. Quanto sia difficile ancora oggi superare questi confini, lo si può riscontrare ad esempio nella prassi quotidiana delle organizzazioni sindacali. "Tali barriere possono essere spezzate solo in processi discorsivi, nella misura in cui questi sono istituzionalizzati nelle società moderne" (ibid.). È attraverso tali processi che si viene a creare una comunità comunicativa ideale, ovvero anche virtualmente universale (v. Apel, 1988).
Ci si può chiedere a questo riguardo se l'etica del discorso, che in certo modo rappresenta uno sviluppo dell'approccio di Kant, sebbene in forma radicalmente modificata, implichi l'imperativo kantiano dell'universalizzazione, con le importanti ripercussioni che ciò avrebbe sulla richiesta di solidarietà. Se la solidarietà concreta con tutti gli uomini è impossibile sul piano pratico, cosa significa 'universalizzazione' in questo contesto? Secondo Kant deve essere il singolo individuo a decidere se la norma in base alla quale vuole orientare il suo agire possa essere applicata come legge morale universale di tutti gli uomini. Karl Otto Apel afferma a questo proposito che se l'etica del discorso conferma il principio di universalizzazione dell'etica kantiana, libera peraltro i singoli individui, "quando si tratta della attuabilità del discorso pratico, dal compito gravoso di anticipare i possibili interessi degli individui coinvolti [...] vale a dire, dalle valutazioni, spesso oltremodo impegnative, in base alle quali decidere se si vuole che una massima diventi una legge universalmente vincolante" (v. Apel, 1988, pp. 120 s.). Il singolo ha il dovere morale di sottoporre la norma che lo interessa, e forse è causa di inquietudine, a una verifica discorsiva, ma il discorso assume in un certo senso su di sé l'universalizzazione sempre soltanto tendenziale. Nel senso di Apel (e di Habermas) il principio di universalizzazione costituisce un "criterio ideale" che viene realizzato nel discorso pratico in cui vengono sottoposte a verifica le norme da giudicare.
Il potenziale di universalizzazione del discorso emerge nell'abbattimento delle barriere, nel superamento dei limiti di un determinato gruppo o mondo di vita. Solo in questo modo "gli interessi di ogni singolo individuo" possono "farsi valere senza disgregare il gruppo sociale" (v. Habermas, 1986, p. 312). Habermas ritiene che "ogni esigenza di universalizzazione resterebbe lettera morta, se dall'appartenenza a una comunità comunicativa ideale non scaturisse anche la coscienza di una solidarietà permanente, la certezza della fratellanza in un contesto di vita comune" (ibid., p. 313). L'entusiasmo di Habermas - "la giustizia è impensabile senza almeno una componente di conciliazione" - richiama quello illuministico, e al pari di questo ha la funzione di esprimere l'insopprimibile componente affettiva della solidarietà (v. Senghaas-Knobloch, 1994). Non solo il discorso, ma anche l'entusiasmo abbatte barriere e porta a solidarizzare "con tutto ciò che ha fattezze umane. Tutti gli uomini saranno fratelli, può dichiarare Schiller", e Habermas ripetere con lui (ibid.). In contrasto con il carattere retorico della proclamazione di solidarietà dell'epoca illuministica, l'etica del discorso propone un metodo pratico che rende possibile una solidarietà in grado di trascendere i limiti tradizionali.
Prendendo spunto da Habermas, Jean Cohen e Andrew Arato (v., 1992) focalizzano l'attenzione sulla sfida che la differenza rappresenta per la solidarietà, e sottolineano come l'etica del discorso si proponga proprio di affrontare tale sfida. Anch'essi mettono in risalto come l'etica del discorso trasformi il concetto di solidarietà conferendogli una dimensione universale, che trascende ogni barriera: "il principio di solidarietà perde il suo carattere etnocentrico quando diviene parte di una teoria universale della giustizia ed è costruito in base all'idea di una formazione della volontà di tipo discorsivo. Le argomentazioni trascendono i mondi di vita particolari" (ibid., p. 382). Il vantaggio di formulare il concetto di solidarietà nei termini della teoria del discorso è quello di tematizzare esplicitamente la differenza, che è diventata uno dei principali problemi delle società pluralistiche: "Il moderno concetto di solidarietà che abbiamo in mente non richiede empatia né identità con l'altro con il quale siamo solidali. La solidarietà complementare all'etica del discorso, tuttavia, comporta la capacità di identificarsi con il non identico. In altre parole, comporta l'accettazione dell'altro come altro" (ibid., p. 383). Per citare le parole di Habermas a proposito della riuscita del discorso morale: "Senza l'empatia solidale di ciascuno con la situazione di tutti gli altri è impossibile pervenire a una soluzione capace di creare consenso" (v. Habermas, 1986, p. 314).
È stata la teoria etica femminista a tematizzare con l'adeguata concretezza e profondità la rilevanza della differenza per la solidarietà. Seyla Benhabib (v., 1989, pp. 454 ss.) critica le teorie morali maschili e la figura dell'"Altro generalizzato" da esse create. Questo costrutto artificioso costituisce probabilmente un'astrazione necessaria per arrivare alle norme dell'eguaglianza e della reciprocità formali. Ma "il punto di vista dell'Altro generalizzato presuppone che ogni singolo individuo venga considerato come un essere razionale, che ha diritto agli stessi diritti e doveri che reclamiamo per noi. Se si assume questo punto di vista, si fa astrazione dall'individualità e dall'identità concreta dell'altro". A ciò Seyla Benhabib contrappone la prospettiva dell'Altro concreto, che ci impone di "considerare ogni singolo essere razionale come un individuo con un volto concreto, con una precisa identità e una specifica costituzione affettiva-emozionale" (ibid., p. 468).
Solo questa prospettiva consente di praticare una solidarietà concreta. "Trattando l'altro secondo le norme dell'amicizia, dell'amore e della cura, si afferma non solo la sua umanità, ma anche la sua individualità come persona. Le categorie morali che accompagnano tali interazioni sono quelle della responsabilità, del legame e della partecipazione. I sentimenti morali corrispondenti sono l'amore, la cura, la simpatia e la solidarietà" (ibid., p. 469). La solidarietà, per citare le parole di Jean Cohen e Andrew Arato, "comporta la disponibilità a condividere il destino dell'altro, non come esemplare di una categoria cui si appartiene, ma come persona unica e diversa" (v. Cohen e Arato, 1992, p. 472).
La diversità dell'altro è un elemento essenziale per la solidarietà concreta, per la solidarietà nella vita quotidiana. Nella concezione di Rawls per contro le differenze diventano "assolutamente irrilevanti". L'Io di Rawls non conosce "il suo posto nella società, la sua classe o il suo status, le proprie doti naturali, la sua intelligenza, la sua forza fisica, ecc. Inoltre nessuno conosce la propria idea del bene, i dettagli del proprio progetto di vita, nemmeno le peculiarità della sua psiche, come ad esempio il suo atteggiamento nei confronti del rischio o la sua inclinazione al pessimismo o all'ottimismo" (v. Rawls, 1971, p. 160).Sembrerebbe impossibile conciliare la solidarietà, che come sappiamo ha un'imprescindibile componente affettiva, con questo livello di astrazione. Naturalmente è auspicabile tener presente la norma astratta della solidarietà con tutti gli esseri umani, ma questa norma non è più una solidarietà concreta. "Le situazioni morali - al pari dei sentimenti e delle idee morali - possono essere individuate solo se vengono valutate alla luce della nostra conoscenza degli attori coinvolti e delle loro storie personali" (v. Benhabib, 1989, p. 476).
Seyla Benhabib si chiede a ragione se sia possibile formulare teorie morali senza il costrutto dell'Altro generalizzato. Non si tratta peraltro di abbandonare del tutto questo costrutto, bensì di riconoscere "che ogni Altro generalizzato è anche un Altro concreto". È necessario, in altri termini, "garantire la dignità umana dell'Altro generalizzato attraverso un riconoscimento dell'identità morale dell'Altro concreto" (ibid.).Nell'Altro generalizzato si realizza l'esigenza di universalizzazione, nell'Altro concreto è garantita la necessaria liberazione del singolo individuo che mette in atto la solidarietà e la concretizzazione dell'universalizzazione. Non si tratta solo di scoprire nell'Altro generalizzato l'Altro concreto, ma di vedere ogni volta in quest'ultimo anche il primo. Grazie al contributo della riflessione femminista, la solidarietà 'organica' può essere ridefinita come solidarietà che in una prospettiva unitaria ha a suo fondamento la differenza concreta e l'eguaglianza astratta; questa solidarietà vede la persona come Altro concreto e come Altro generalizzato, e unisce giustizia e cura, responsabilità, diritti e doveri. (V. anche Comunità; Eguaglianza).
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