Sofisti
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’età dei sofisti è caratterizzata dall’emergenza del soggettivismo in campo gnoseologico; dall’autonomia che il linguaggio acquisisce rispetto alla sfera ontologica, con conseguente nascita dell’analisi del linguaggio; da una riflessione politica organica avente come oggetto privilegiato le strutture del potere; dalla rivisitazione critica, in chiave decisamente dissacrata, della teologia tradizionale; e infine dal pieno fiorire della retorica, che si accompagna alla costituzione di una riflessione estetica svincolata da valutazioni morali.
La sofistica è quel movimento di pensiero che segna la filosofia greca nella seconda metà del V secolo a.C. e che storicamente corre parallelo all’affermarsi della democrazia ad Atene, dapprima con il regime illuminato di Pericle, poi con la democrazia radicale post-periclea e le alterne vicende delle lotte tra democratici e oligarchici.
Atene è anche il centro d’espressione dell’attività dei sofisti, i quali vi convengono nel periodo della sua massima fioritura, quando la città può ben dirsi, secondo l’espressione tucididea, “scuola dell’Ellade”. Diversi per provenienza geografica, interessi teorici e orientamenti politici, i sofisti sono accomunati da alcuni caratteri e funzioni. Essi si presentano al tempo stesso come maestri di virtù politica, come intellettuali depositari di un concetto fortemente laicizzato di sapere, come eredi e continuatori della più illustre tradizione culturale greca. Impartiscono un insegnamento retribuito, specificamente rivolto alle classi dirigenti, e sono spesso implicati in incarichi di governo, o in ambascerie; si occupano di etica, politica, retorica, ma anche di teologia, di teoria del conoscere, di analisi del linguaggio. Di fronte al giudizio platonico-aristotelico, diversamente calibrato ma egualmente critico, è Hegel che per primo ne ha operato una decisa rivalutazione, mettendo in luce come i sofisti siano stati i veri educatori dell’Ellade, nonché i primi a farsi portatori, contro l’orientamento della precedente filosofia presocratica, di un vivo interesse rivolto alla realtà umana nelle sfere dell’etica, dell’antropologia, della politica. I sofisti sono in realtà continuatori anche dei presocratici, perché non abbandonano, come si suole ritenere, né l’ontologia né la filosofia della natura, ma riorientano la seconda in un contesto relativistico, debitore verso l’insorgere di prospettive etnografiche, mentre assicurano alla prima nuove curvature e nuovi esiti teorici. Dal canto loro, i sofisti sono perfettamente consapevoli dell’elemento di rottura e di discontinuità che introducono rispetto alla precedente età dei sophoi. Protagora lo ripone nella pubblicità e politicità della parola del sofista, e forgia parallelamente il concetto di “arte sofistica” per designare sia l’uso della parola e del sapere che gli è proprio, sia per definire tale scelta di campo, che differenzia il sofista moderno dai sapienti arcaici e dai pre-sofisti del circolo di Pericle (Platone, Protagora 316d-317c). Ippia, a sua volta, dedica ricerche storiche ai sapienti da Talete ad Anassagora e rinviene la nota caratteristica del sofista nella sua capacità di coniugare interessi teorici e interessi politico-pratici di proiezione pubblica (Platone, Ippia maggiore 281a-282a).
La sofistica non è, peraltro, solo la sommatoria delle diverse personalità che la costituiscono, ma possiede un’unità teorica di fondo, che può ravvisarsi su almeno tre piani. Essa testimonia innanzitutto la compiuta dissoluzione di quella stretta embricatura tra sfere dell’essere, del pensiero e del linguaggio, un tempo unificate dall’eleatismo, che è la causa prima della decisiva emergenza del logos, considerato nella sua autonomia, nella molteplice varietà delle sue funzioni e in tutta la sua potenza: dialettica, psicagogica, estetica. La sofistica tematizza inoltre la questione fondamentale del rapporto dell’uomo con la realtà ch’egli ha di fronte, realtà che deve essere compresa e posta sotto il controllo della ragione, e in ogni caso piegata all’uso, all’interpretazione e alla conoscenza che ne offre il singolo soggetto. Essa è infine l’epoca nella quale per la prima volta sorgono i concetti politici astratti, inscritti nella fondamentale antitesi tra natura e legge, i quali consentono il costituirsi di una riflessione politica affrancata da mere questioni di natura fattuale, legate a contrapposizioni di parte, ma dotata di un’effettiva e larga portata teorica.
Protagora nasce ad Abdera all’incirca nel 492 a.C. Si reca ad Atene tre volte: intorno al 444 a.C. (quando riceve da Pericle l’incarico di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi), intorno al 423-422 a.C. (periodo in cui si colloca la vicenda del Protagora platonico) e, infine, nel 421 a.C. Muore probabilmente subito dopo questa data. Possediamo una lista, mutila, dei suoi scritti, tra i quali figurano le Antilogie, la Verità o Discorsi atterranti, un libro Sugli dèi.
Il primo atto della filosofia di Protagora è antieleatico: sappiamo che egli redasse uno scritto Sull’ente, diretto contro i sostenitori dell’unicità dell’essere, che confutava con numerose argomentazioni (80 B 2 DK). Conformemente a ciò, Protagora stabilisce la proposizione fondamentale delle Antilogie, ovvero che su ogni cosa esistono due discorsi reciprocamente contrapposti (A 1 DK), proposizione che riprende il motivo fondamentale del pensiero di Eraclito, cioè la contraddizione intesa come legge strutturale della realtà. Mentre nell’eleatismo la contraddizione figura come dato inficiante la realtà-verità della sfera in cui si ravvisa (la doxa e conseguentemente il linguaggio), per Protagora la contraddizione è il dato ineliminabile della realtà, che proprio per questo giustifica tutte le opinioni e tutti i discorsi, i quali si riducono all’opposizione fondamentale tra affermazione e negazione, strutturante l’antilogia. Di qui la celebre tesi dell’homo mensura, esposta nella Verità, che tuttavia va già oltre questo scenario, indicando anche una norma di giudizio in base a cui valutare tale contrasto: “Di tutte le cose l’uomo è misura: di quelle che sono, che sono; di quelle che non sono, che non sono” (B 1 DK).
Con questa tesi Protagora rovescia la krisis parmenidea “è-non è”, stabilendo che non sono essere e non-essere misura della realtà-verità di ogni cosa, ma che al contrario è l’uomo che è misura dell’essere come del non-essere. E per uomo s’intende ciascun uomo (non l’uomo in generale) considerato come soggetto conoscente. Nello stesso tempo, l’uso del termine chremata (“cose”) ci fa comprendere che Protagora si contrappone anche ad Anassagora, ponendo come elemento discriminatore della molteplicità delle cose non un principio superiore operante nel cosmo, quale il Nous (“Intelletto”), ma il singolo uomo, che di volta in volta le percepisce e le giudica. Coerente applicazione di questo principio è il prudente agnosticismo che Protagora esprime in sede teologica, quando afferma: “Riguardo agli dèi non posso dire né che sono né che non sono. Molte infatti sono le cose che impediscono di sapere: l’oscurità della questione, e la brevità della vita dell’uomo” (B 4 DK). Il soggettivismo e relativismo gnoseologico di B 1 DK è completato, sul piano ontologico, dalla cosiddetta dottrina riservata di Protagora, che sviluppa una tesi tipica del tardo eraclitismo: nessuna cosa è in sé e per sé una, ma tutte le cose che noi diciamo che sono (impiegando un termine scorretto) in realtà sempre divengono.
Il soggettivismo protagoreo è compensato dalla fiducia che l’uomo possa, attraverso un uso avvertito del linguaggio, costruire discorsi che, senza essere più veri di quelli corrispondenti alle empiriche percezioni e determinazioni di ogni altro uomo, sono, logicamente e linguisticamente, più corretti, quindi “più forti”, migliori. Questo era il dominio dell’orthoepeia (“correttezza del linguaggio”) e questo il senso della contrapposizione che Protagora istituiva tra “discorso più debole”, quindi facilmente confutabile, e “discorso più forte” (B 6b DK), più rigoroso e più capace di resistere alla confutazione. L’attenzione per i meccanismi del linguaggio, che Protagora studia nella sua morfologia, nella sua struttura grammaticale e nella sua dimensione retorica, conduce poi il sofista di Abdera a formulare una distinzione tra uso agonistico e uso dialettico dello strumento linguistico. La dialettica nasce come necessità di costruire un discorso esemplare per il punto di vista, pragmaticamente più adeguato alla comprensione della realtà, cui esso dà voce: un discorso più solidamente strutturato dal punto di vista logico, linguistico e argomentativo e quindi capace d’imporsi non solo perché più persuasivo, ma perché razionalmente ineccepibile. Un esempio mirabile di orthotatos logos (“il discorso più corretto”) è la cosiddetta teoria della pena di Protagora, per la quale la punizione di un crimine non deve essere comminata avendo riguardo al fatto compiuto, che è immodificabile, ma “in vista del futuro”, essendo investita di una funzione preventiva, riparatrice e intimidativa.
Il mito esposto da Protagora nel dialogo platonico che porta il suo nome sembra attinto allo scritto Sulla condizione originaria dell’uomo, ed è un tipico documento di Kulturgeschichte sofistica: Protagora vi delinea la storia dell’umanità, mostrandosi capace di distinguere tra livello del sociale e livello del politico. Quest’ultimo si realizza solo con la costituzione della città, le cui condizioni di possibilità sono date dalle virtù del “rispetto” e della “giustizia”, le quali costituiscono un possesso comune a tutti gli uomini (e dal mito si intravede come esse siano la risultante di un difficile e lungo percorso dell’umanità primitiva), nonché dall’impero della legge (nomos), alla quale tutti devono piegarsi. La città democratica, Atene, in cui ognuno può essere symboulos, “consigliere” politico su questioni d’ordine generale, esemplifica questi ideali. Essa, per funzionare, richiede anche una classe di esperti su questioni d’ordine tecnico e, soprattutto, l’azione del sofista, il quale assolve a una funzione paideutica più generale, descritta da Protagora stesso nel Teeteto.
Qui egli ribadisce come non esistano opinioni e discorsi più o meno veri, ma più o meno utili e dannosi: esiste cioè una graduazione valutativa dell’ambito delle conoscenze che non investe il piano veritativo ma quello pragmatico. E il criterio di discriminazione tra le opinioni sta nel loro deviare o meno da una norma di retta sanità, che si palesa solo sul piano pratico: la sensazione del malato, per il quale il miele ha gusto amaro, non è meno vera di quella del sano, ma ciò non toglie che sia meno preferibile e peggiore. Così, la legge è certamente “decisione della città”: ma, poiché il sofista ha il compito di far apparire giuste alla città le opinioni buone e rette in luogo di quelle meno preferibili e peggiori, la legge sarà, in ultima analisi, la decisione che scaturisce dalla convinzione ingenerata nel popolo (demos) dal discorso sofistico. La concezione democratica di Protagora si accompagna così a una teoria delle élite.
Platone
Protagora
Teeteto, 166d-167a
“Io sostengo che la verità è come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e di quelle che non sono, ma siamo immensamente differenti l’uno dall’altro proprio per questo, che per uno appaiono e sono certe cose, e per un altro invece altre. E sono ben lontano dal negare che esistano sapienza e uomo sapiente, anzi chiamo sapiente colui che, operando un mutamento, a uno di noi per il quale certe cose appaiono e sono cattive le fa apparire ed essere buone. […] Ricordati quanto si diceva prima, che per il malato appaiono e sono amare le cose che mangia, mentre per il sano sono e appaiono il contrario. Non bisogna peraltro stimare più sapiente l’uno o l’altro di costoro – in effetti non sarebbe nemmeno possibile – né bisogna dichiarare ignorante il malato per il fatto che ha tale opinione e sapiente invece il sano perché ha un’opinione diversa. Occorre invece operare un mutamento nell’altra direzione, perché una delle due disposizioni è migliore. Così anche nell’educazione bisogna operare un mutamento da una disposizione a quella migliore. Solo che il medico opera mutamenti con farmaci, mentre il sofista lo fa con discorsi”.
Gorgia nasce a Leontini intorno al 480 a.C. È discepolo di Empedocle, e nel 427 a.C. giunge ad Atene come capo di un’ambasceria con la quale la sua città chiede aiuto ad Atene contro Siracusa. L’enorme successo che riscuotono le sue conferenze si rinnova quando, dopo aver girovagato in varie città greche, ritorna ad Atene per pronunciare il celebre Epitafio. Trascorre gli ultimi anni della sua vita presso Giasone, tiranno di Fere, dove muore, pare, all’età di oltre cent’anni. È autore del Trattato sul non ente, della Difesa di Palamede e dell’Encomio di Elena, opere che ci sono tutte pervenute.
Le tre tesi dimostrate da Gorgia nel Trattato sul non ente (pervenutoci in due redazioni, una, più antica, dell’anonimo De Melisso Xenophane Gorgia; una, posteriore, resa da Sesto Empirico nel settimo libro degli Adversus mathematicos) hanno tutte mira antiparmenidea e più in generale anti-eleatica: nulla è; se anche qualcosa è, non è conoscibile; se anche esiste ed è conoscibile, non è manifestabile ad altri.
Visibilmente Gorgia addossa all’essere quelle determinazioni di impensabilità e impronunciabilità che Parmenide aveva addossato al “non è”; vanifica, attraverso la prima argomentazione, ogni possibilità di distinguere tra essere e non-essere; rovescia, con la seconda argomentazione, la tesi parmenidea per la quale il non essere è impensabile e quindi inconoscibile; confuta la concezione oggettivistica del linguaggio, per la quale l’ostensione linguistica equivarrebbe a un “manifestare realtà obiettive” (deloun ta pragmata). Complessivamente, egli offre una dissoluzione ironica, ma rigorosa, dell’ontologia eleatica, e approda, con l’ultima tesi, a due esiti importanti: da un lato libera il logos dall’ufficio di dire l’essere, dall’altro pone il problema di come avvenga, di fatto, la comunicazione.
L’Encomio di Elena risponde rivendicando per il linguaggio un’assoluta autonomia, e inoltre una funzione psicagogica, di natura emotiva e irrazionale, per la quale esso riesce “a calmare il terrore, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia, e ad accrescere la pietà” (82 B 11 DK). Di qui procede la definizione gorgiana della poesia, di cui terrà conto Aristotele nella Poetica quando, definendo la tragedia in termini di imitazione, preciserà che essa “porta a compimento, mediante pietà e terrore”, la catarsi delle passioni. La funzione del logos è dunque quella di persuadere la mente di chi ascolta, costringendolo ad avere determinate opinioni e ad abbracciare conseguenti comportamenti: e questa funzione è comune alla poesia e alla retorica. Quest’ultima è un’arte “fattrice di persuasione” (A 28 DK), che non ha altro fine che questo, e da tutte le altre arti si distingue perché tutto le si assoggetta spontaneamente, non per violenza (A 26 DK). In questo quadro assume un’importanza particolare la nozione di “inganno” (apate), che è categoria comune alla poetica e alla retorica: tale inganno è il veicolo attraverso il quale il logos agisce, e, in sede poetica, esso assolve a una funzione altamente positiva, in quanto permette l’accesso alla sfera dell’illusione artistica. Per questo, dice Gorgia, la tragedia è “un inganno, per il quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si fa ingannare” (B 23 DK).
La Difesa di Palamede tematizza lo stesso problema, ma vedendolo nei suoi risvolti problematici: se in sede artistica e retorica la connotazione formalistica e la funzione psicagogica del logos trovano la loro esaltazione, ben diversamente accade in sede giudiziaria, ove è essenziale la comunicazione della verità, di ciò che è realmente accaduto: ufficio al quale non può sottrarsi Palamede, ingiustamente accusato di tradimento da Odisseo. La condanna di Palamede, che non può far vedere ad altri, per mezzo del logos, quel che è realmente successo, rappresenta un esito tragico, e tuttavia conferma ancora una volta come, nell’umana comunicazione, tutto si giochi sul terreno della simpateticità tra locutore e ascoltatore, nella capacità di persuadere e muovere affectus.
Il concetto di creatività del logos è confermato, sul piano politico, dall’Epitafio, ove ad esso è assegnata la funzione di articolare norme generali di convivenza, più valide e universali delle leggi positive: in questa duttile capacità consiste la “rettitudine dei discorsi”, che sta all’“esattezza delle leggi” come la “mite equità” sta alla “dura giustizia”. E in questa contrapposizione è già adombrata quella che, generalizzata, sarà l’antitesi sofistica tra natura e legge.
Gorgia
Fr. 82 B 3a DK
Se anche, poi, le cose fossero conoscibili, in che modo – dice – qualcuno potrebbe manifestarle ad altri? In effetti, quel che uno ha visto, in che modo – dice – potrebbe esprimerlo con un discorso? Ovvero, come potrebbe esso riuscire manifesto a chi ascolta, senza aver veduto? Allo stesso modo, infatti, che la vista non conosce i suoni della voce, così neanche l’udito ode i colori: e certo dice chi dice, ma non un colore o una cosa. D’altra parte, ciò che uno non ha presente al pensiero, in che modo lo domanda a un altro per mezzo di un discorso, oppure, in che modo potrebbe rappresentarsi per mezzo di un qualunque segno la cosa, che è altra – e non, invece, se si tratti di un colore, per averlo visto, e, se si tratti di un suono, per averlo ascoltato? Giacché, tanto per cominciare, egli non dice un colore, ma un discorso. Onde non è possibile rappresentarsi un colore, ma solo vederlo, né un suono, ma solo ascoltarlo.
Gorgia
Encomio di Elena, 8-9 = 82 B 11 DK
“La parola è un gran dominatore, che con corpo piccolissimo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere: riesce infatti a calmare il terrore, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia, e ad accrescere la pietà. […] La poesia in tutte le sue forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di savento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore: e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentire fortune e sfortune di vicende e di persone estranee”.
Se Antifonte sofista sia da identificarsi o no con Antifonte di Ramnunte, vexata quaestio della storiografia filosofica antica, che non può dirsi ancora risolta, comunque la nascita sarà da porre attorno al 470 a.C., laddove la morte, nel caso del Ramnusio, membro del governo oligarchico dei Quattrocento, cadrà nel 411 a.C., in un periodo di non molto posteriore nel caso del sofista, che fu considerato contemporaneo di Socrate e di Protagora. Antifonte nasce ad Atene ed è autore di un trattato intitolato Verità, di cui ci sono pervenuti vari frammenti restituiti dai papiri di Ossirinco, e di uno Sulla concordia.
Probabilmente esposta nella Verità (il cui titolo manifesta un intento polemico verso l’omonima opera di Protagora), la teoria della realtà è ricostruibile in base a una celebre testimonianza di Aristotele (87 B 15 DK), dalla quale emerge che Antifonte indica con arrhythmiston, “senza forma”, quel che di fondamentale vi è in un ente, la sua natura profonda, il fondo elementare da cui tutto il resto prende forma per via di interventi successivi che vanno sovrapponendosi ad esso. Concetto che Aristotele stesso glossa con termini spettanti alla sua propria determinazione del concetto di materia. Per Antifonte la natura (physis) è questo fondo materiale indeterminato, che è la condizione di ogni atto formante proveniente dall’esterno, e che, nello stesso tempo, resiste, nella sua essenza elementare, a ogni tentativo di riceverlo, proprio perché ha una proprietà ontologica su di esso. Così, secondo Antifonte, se si seppellisse un letto e la putrefazione acquisisse la capacità di produrre un germoglio, non nascerebbe un letto, che è solo la disposizione secondo convenzione e secondo arte, ma legno, che esiste per natura. Da altri frammenti si ricava che Antifonte costruisce sui concetti di arrhythmiston e di physis una visione dinamica e antifinalistica della realtà, il cui esito sembra essere quell’ateismo che gli rimprovera Platone in un passo delle Leggi (889e) in cui Antifonte, pur se non nominato espressamente, è oggetto di un’allusione abbastanza trasparente.
Nella transizione all’antropologia e al dominio etico-politico, Antifonte affronta la descrizione della physis umana, mettendo innanzitutto in luce l’uguaglianza naturalistico-biologica degli uomini (B 44 DK). Ciò che corrisponde all’arrhythmiston ontologico-cosmologico è la natura intesa come necessità interna, come autentica verità dell’uomo, cui si contrappone il nomos, la legge, intesa come norma esteriore, di portata limitata e convenzionale. Antifonte definisce la giustizia come il non trasgredire le norme decretate dalla città. Ma la legge non è in grado di prevenire la sua propria violazione: essa consente che l’offeso sia offeso e che l’offensore offenda, ma non impedisce né all’offeso di essere offeso né all’offensore di offendere. Anche la sanzione è incerta e inefficace, posto che per comminare una pena si dovrà ricorrere allo strumento della persuasione, del quale dispongono a pari titolo l’offeso e l’offensore: l’accertamento della verità, in tribunale, rischia di collassare, e reale è il rischio che l’offeso subisca un ulteriore danno. Analoga contraddittorietà è da rilevare nell’istituto della testimonianza: la convinzione di Antifonte che non possa dirsi un atto giusto quello per cui un testimone, che non ha ricevuto alcun danno da un imputato, lo faccia condannare in base alla sua pur veritiera testimonianza, ha senso solo se questa situazione è trasposta e giudicata sul piano di physis; mentre spregiudicatamente realistica è l’altra sua osservazione, secondo la quale il testimone che dice la verità procurerà a se stesso un danno, esponendosi alla vendetta dell’imputato condannato in base alla sua testimonianza. Per questo un uomo praticherà la giustizia col massimo vantaggio per se stesso solo quando agisca in presenza di testimoni, laddove, da solo, seguirà le disposizioni di natura: solo queste ultime, infatti, sono necessarie, in quanto contengono in sé la punizione per la loro trasgressione.
Antifonte
Fr. 87 B 44 B DK
“… (I) giustizia dunque consiste nel non trasgredire le norme della città di cui uno sia cittadino. Perciò un uomo utilizzerà la giustizia nel modo per lui massimamente vantaggioso qualora in presenza di testimoni tenga in gran conto le leggi, ma da solo, in assenza di testimoni, le disposizioni della natura. Le disposizioni delle leggi sono infatti accessorie, quelle della natura necessarie; e quelle delle leggi risultato di accordo, non naturali, quelle della natura naturali, non risultato di accordo. (II) Di conseguenza, violando le norme, qualora sfugga a coloro che le hanno concordate, va esente da biasimo e da pena, qualora non sfugga, no. Ma se a qualcosa di ciò che è connaturato alla natura faccia violenza oltre un certo limite, se anche nessuno se ne accorga, in nulla è minore il male e, se anche tutti vedano, in nulla maggiore: non viene infatti danneggiato secondo opinione, ma secondo verità”.
Pap. Oxyrh. XI n. 1364 = 87 B 44 B DK
Prodico nasce a Ceo, forse intorno al 460 a.C., e si reca più volte ad Atene come ambasciatore. Si occupa di filosofia della natura e di antropologia, redigendo uno scritto Sulla natura e uno Sulla natura dell’uomo; si occupa inoltre di teologia e soprattutto di analisi del linguaggio. Ha come discepoli personaggi del calibro di Teramene, Euripide, Tucidide, Isocrate.
Il metodo d’analisi linguistica praticato da Prodico, per il quale egli è particolarmente celebre, si struttura in due momenti. Il primo è rappresentato da un’analisi del contenuto semantico dei termini volta a stabilire la cosiddetta “correttezza dei nomi” (orthotes ton onomaton). La domanda cui tale esercizio risponde è: “che cosa significa x?”, ove x rappresenta il termine di volta in volta oggetto d’analisi, e tale procedura è bene illustrata da un passo dell’Eutidemo platonico (84 A 16 DK). Il retto significato è quello in cui l’atto della denominazione realizza una perfetta corrispondenza tra il “nome” e la “cosa” considerata ad esso corrispondente. La necessità di determinare il significato retto di un nome è legata al rilevamento della polisemia dei termini e alla necessità di ridurla, onde sia salvaguardato il rapporto, che per Prodico è necessariamente biunivoco, tra nome e cosa. È questo il principio specificamente operante nella “divisione dei nomi” (diairesis ton onomaton), volta a distinguere tra loro i termini sinonimi, ordinandoli in due classi reciprocamente contrapposte. La domanda cui tale divisione risponde è: “in che cosa x si distingue, quanto al significato, da y?”, ed esempi di questa procedura sono agevolmente reperibili nelle testimonianze platoniche (A 15, A 16, A 18 DK). Si tratta, dunque, di descrizioni semantiche svolte in forma di dizionario, volte a rilevare le proprietà caratterizzanti di determinati sememi, e presupponenti l’idea di un significato obiettivo, non convenzionale, dei nomi. Messa in luce un’eventuale polisemia dell’onoma (“nome”), Prodico la interpreta come mera oscillazione dell’onomazein, bisognosa, perciò, di correzione; registrato tale fenomeno, egli fa intervenire un’esigenza spiccatamente normativa, atta a fissare per ogni cosa un solo nome ad essa corrispondente. All’uso linguistico comune viene a sovrapporsi così una revisione della nomenclatura, volta a escludere un’effettiva molteplicità di significato dei termini.
Delle ricerche naturalistiche di Prodico sappiamo pochissimo; la sua etica volontaristica e razionalistica, avversa all’edonismo, e orientata invece alla conquista della virtù, intesa anche come frutto di “sforzo”, è consegnata al celebre apologo di Eracle al bivio, appartenente all’opera Le Ore (Horai), che Senofonte ci ha trasmesso. Siamo anche informati di sue dottrine sull’origine della credenza negli dèi, spiegata in chiave storico-genetica e, soprattutto, utilitaristica, onde Prodico afferma che le forze della natura furono elevate dai primi uomini a rango di divinità (B 5 DK).
Questa dottrina, interpretata da Sesto Empirico come equivalente a una vera e propria professione di ateismo, va integrata con l’ammissione, da parte di Prodico, dell’esistenza di un elemento vitale (to zotikon, cfr. Epifanio in B 5 DK), di cui i quattro elementi, il Sole e la Luna, successivamente divinizzati, sono espressione. Siamo sul terreno di un razionalismo euristico, congiunto a un’originale reinterpretazione di elementi della filosofia della natura, e a una riduzione della religione a religione naturalistica, prospettata secondo il punto di vista delle reazioni psicologiche umane, in uno schema di Kulturgeschichte tipicamente sofistico.
Ippia, nato a Elide, incaricato di numerose ambascerie in varie città dell’Ellade, dichiara nell’Ippia maggiore platonico (= 86 A 7 DK) di aver conosciuto Protagora quando questi era già anziano e di essere “molto più giovane” di lui. Poiché Protagora nasce attorno al 490 a.C., la data di nascita di Ippia può essere collocata intorno al 450 a.C. È celebre nel 399 a.C., data la menzione che Platone ne fa nell’Apologia di Socrate.
Il pensiero di Ippia è dominato dal concetto di “natura” (physis), e dall’antitesi, caratteristica del pensiero politico-morale della sofistica, tra natura e legge. Alla base di esso è un’ontologia che riprende concetti propri della tradizione eleatica, riformulata, attraverso la mediazione melissiana, in direzione pluralista, e in particolare vicina ad Anassagora. Ricordiamo che Melisso non esclude, come Parmenide, la realtà del molteplice in quanto in sé intrinsecamente contraddittorio, ma solo in quanto esso non mostra quei caratteri di eternità e inalterabilità che sono propri dell’Essere. Indicazione, questa, che sarà ampiamente sviluppata da Empedocle, Anassagora e Democrito. Per Ippia, la realtà è costituita da una pluralità di “grandi corpi continui della sostanza esistenti per natura” (8 C 2 Untersteiner); essi si presentano come degli hola (interi), totalità rigide non scomponibili, i quali sono “continui” e presentano quindi una connessione intrinseca tra loro: una connessione che si tratta di portare alla luce, come non fa il dialegesthai socratico, che, spezzando il reale arbitrariamente, e su giunture (la distinzione tra affezione e sostanza) non fondate in natura, manca il suo oggetto. La natura, invece, procede per assimilazione di generi, unendo e congiungendo lungo la linea continua, e senza salti, di insiemi organici. Al metodo analitico socratico Ippia contrappone così, sul piano formale, il logos, inteso come discorso continuo e strutturato, e, sul piano del metodo del sapere, l’enciclopedismo: quest’ultimo ha la funzione di ricostruire unità organiche di conoscenze, procedendo per aggregazioni di vere e proprie regioni di sapere, che, nel loro complesso, coprono tutto lo scibile.
Ippia è in effetti studioso rigoroso di una molteplicità di discipline, la cui unità la sua ontologia permette di cogliere. Da un lato è il primo pensatore a stringere in uno le quattro discipline che molti secoli dopo saranno dette del quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e teoria della musica), e che Platone accoglierà in questo nesso, come propedeutiche alla dialettica, nella Repubblica. Dall’altro è il primo e forse unico sofista a coltivare studi storici, sia d’ordine storico-cronologico, sia d’ordine storico-filosofico. Come ci fa comprendere l’esordio dell’Ippia maggiore, consacra i suoi interessi ai primi sapienti, da Talete, e ancor prima, Biante e i Sette Sapienti, fino ad Anassagora; è autore di uno scritto intitolato Raccolta (Synagoge), di cui ci è pervenuto un frammento, in cui tali ricerche dovevano essere esposte: ed è da Ippia, probabilmente proprio da questo scritto, che Aristotele deriva informazioni su Talete nel libro Alpha della Metafisica. Ancora, Ippia è il primo a definire come campo di studio l’archaiologia, che doveva riguardare sia lo studio delle origini di un popolo, sia la “storia antica” intesa in senso lato, il che mette in luce il suo legame con la coeva storiografia (si ricordi Tucidide VII 69).
Il sofista di Elide è anche autore di uno scritto intitolato Nomi dei popoli, che ne fa un continuatore dell’opera dei logografi, e di un’importante opera di gusto storico e antiquario, il famoso Registro dei vincitori a Olimpia, con il quale Ippia, successore di Ellanico di Mitilene e precursore di Aristotele in questo campo, reca un contributo fondamentale alla costituzione di una cronologia unitaria per tutti i popoli della Grecia, ponendo con ciò le basi per una storia comune. A questa vasta operosità si aggiungono da un lato i suoi studi omerici, volti a rintracciare nei principali eroi omerici dei tipi esemplari, dall’altro i suoi specifici studi di musica (che ne fanno il continuatore, tra i sofisti, dell’opera di Damone e di geometria (per cui sembra che Ippia abbia per primo condotto ricerche sulla quadratura del cerchio, inventando la cosiddetta quadratrice).
Si è visto che per Ippia ogni realtà, è genericamente qualificata e naturalmente apparentata e appropriata alle altre realtà dello stesso genere. Il fondamento di questa posizione è dato dal concetto di syngeneia (familiarità), che Ippia introduce nel suo discorso di autopresentazione nel Protagora platonico, ove questo concetto regge il terzo più importante asse del pensiero del sofista: la politica. Affermando che tutti gli uomini che sono presenti sono fra loro “legati da affinità, familiari tra loro, e concittadini”, per natura, sì, ma non per legge, Ippia non intende esprimere un ideale di unità del genere umano, o cosmopolitismo, ma sottolineare, in base a un concetto ormai totalmente dissacrato di natura, il fatto che esiste una naturale parentela che ispira alla concordia i presenti in quanto sapienti; per essi sono legati da una loro fondamentale similitudine, la quale travalica le artificiose divisioni create dalle mura, dai regimi, e dalla legge (che Ippia definisce “tiranna degli uomini”) delle città. Nasce con ciò quell’ideale, dotato di una forte carica intellettualistica, di amicizia tra i simili, ben distinto sia dagli ideali dalla coeva democrazia, sia dalle posizioni di un oligarchico come l’autore della pseudosenofontea Costituzione degli Ateniesi. Essa rappresenta, nei sophoi ippiani, una sorta di aristocrazia dell’intelligenza, la quale assumerà nel pensiero politico greco un’importanza sempre maggiore.
Platone
Ippia maggiore
“Tu, Socrate, non consideri le cose nella loro realtà di interi, né lo fanno quelli con i quali sei solito discutere. Voi saggiate il bello e ogni altro ente, prendendone una parte e dividendola nei discorsi. Per questo vi sfuggono i grandi corpi continui della sostanza che sono per natura. In questo stesso momento ciò ti è talmente sfuggito da credere che ci sia qualcosa, affezione o sostanza, la quale possa concernere due cose insieme, ma non ciascuna singolarmente, oppure ciascuna singolarmente, ma non due cose insieme”.
L’attività di Trasimaco, nato a Calcedone in Bitinia, e famoso soprattutto come retore, cade negli ultimi tre decenni del V secolo a.C. Esercita la sua attività anche in Atene, come prova la citazione che gli riserva Aristofane nei Banchettanti, del 427 a.C. Si occupa di filosofia della natura, come tutti i sofisti (85 A 9 DK), e scrive numerose opere, sia di carattere deliberativo-politico, sia di contenuto retorico.
La ricostruzione del suo pensiero politico è resa estremamente incerta dal dubbio se le note tesi che Platone gli attribuisce nel primo libro della Repubblica gli spettino davvero. Senza entrare qui in tale complessa questione, ci si può limitare a osservare che ciò che sappiamo per altre vie del Trasimaco storico non è sufficiente a confermare, ma neppure a smentire, la presentazione platonica, che, sia pure entro i limiti di un’ipotesi, può essere presa in considerazione, limitatamente alla prima tesi, di contenuto più propriamente politico.
Il Trasimaco platonico sostiene innanzitutto che ogni città (sia essa retta a democrazia, a oligarchia o a tirannide) impone a se stessa come nomos quello che è solo l’utile (sympheron) della parte dominante; analogamente, le virtù etiche e politiche hanno origine convenzionale: l’uomo giusto è in realtà il debole che reclama una sanzione a difesa di quella che, per natura, è la sua debolezza, e la giustizia non è altro che inferiorità nella forza. L’ingiustizia, dal punto di vista della schietta natura, è “più forte, più degna di liberi, più degna di dominatori” (Rep. 344c); va però compiuta solo in azioni grandi, e tutta d’un colpo, perché essa è punita, di fatto, solo se si applica a minime azioni: l’ingiustizia portata al suo culmine è invece di regola impunita e segna il trionfo del principio secondo cui al kreitton, al più forte, spetta di diritto la superiorità.
Questo significa che per il Trasimaco platonico l’antico ideale dell’uomo kalos kai agathos si è risolto nella teorizzazione della supremazia del migliore politicamente, il quale assume il potere con un atto di radicale parzialità, la quale sarà conforme a natura nel caso che colui che domini sia l’uomo più forte nell’autentica realtà effettuale, onde la sfera de jure e de facto coincideranno, contro natura nel caso opposto. Con ciò, è possibile giustificare, a norma di ragione, la tirannide, come, per converso, svelare il fondo sopraffattorio, ingiustificato dal punto di vista della physis, di ogni forma di governo. Il nomos, in quest’ottica, non è fondato su alcuna norma di ragione, è anzi infondato in sé, e vale solo come atto d’imposizione alla città del potere di chi riesce a prevalere: dove si vede come il dissacratorio razionalismo del Trasimaco platonico assuma volentieri la constatazione empirica, e la stessa irrazionalità del reale, come appropriata e valida norma di valutazione.
Sia che queste idee appartengano al Trasimaco storico, sia, e ancor più, che Platone abbia inteso con il personaggio Trasimaco unire in uno una serie di espressioni teoriche agitate dalla seconda generazione sofistica, è certo che, al lume di esse, si comprende meglio sia la più complessa analisi del potere politico procurata da Crizia, sia la reazione, di parte democratica, attestata dall’Anonimo di Giamblico.
È un trattato d’argomento politico-etico, redatto molto probabilmente alla fine del V secolo a.C., o nei primi anni del secolo successivo, da un sofista o un allievo di un sofista, oppure da un oratore o un uomo politico, di parte democratica. L’Anonimo riafferma alcuni principi fondamentali della linea protagorea, primo fra tutti il valore positivo del nomos, che si precisa nel ruolo fondante dell’eunomia, carattere della città in cui le leggi sono buone, sono osservate, e in cui vige il principio della retta distribuzione delle ricchezze.
Nomos e dikaion (“giusto”) sono per l’Anonimo concetti quasi equivalenti, proprio perché egli non è disposto a riconoscere il giusto se non nell’ambito delle leggi della città; è possibile peraltro che egli polemizzi con posizioni estreme quali quelle di un Trasimaco o di un Callicle quando condanna il potere conseguito per desiderio di ottenere di più (pleonexia), o quando biasima colui che crede viltà l’obbedire alle leggi. Inserendosi nel dibattito tra i sostenitori del diritto positivo e quelli del diritto naturale, l’Anonimo si schiera decisamente a favore dei primi, rifacendosi ancora una volta a Protagora. Per lui tra i due concetti non vi può essere alcun contrasto, ma continuità, perché la legge umana è creata allo scopo di regolare un bisogno naturale e istintivo dell’uomo: la vita associata. La legge è, dunque, per natura legata agli esseri umani.
Il pensiero dell’Anonimo sul ruolo dell’economia nella società, e sui modi atti a risolvere il problema delle tensioni tra ricchi e poveri all’interno della città, presenta a sua volta notevoli punti di consonanza con la concezione della ricchezza come “occasione d’opera” e con l’etica attivistica teorizzata da Pericle nell’Epitafio tucidideo.
L’epimeixia (comunanza d’uso, scambio, nel senso di circolazione di beni o di denaro) tra ricchi e poveri designa sia un mutuo scambio di risorse economiche e di energie lavorative mirato alla tutela di quello che oggi chiameremmo stato sociale, sia l’investimento di beni e di denaro nel ciclo produttivo: concetti che riflettono e sviluppano motivi della politica economica periclea, mirata a riassorbire le differenze economiche tra i ceti sociali e i cittadini attraverso i benefici effetti dell’investimento pubblico e privato. La città in cui vige l’anomia è opposta a quella retta dalla buona legislazione, e la peggiore calamità che ne possa derivare è la tirannide, la quale sorge come conseguenza dell’anarchia, e ha come radici sia il decadere della forza vincolante del nomos sia l’eccesso di libertà dalle norme: notazioni, queste, che aderiscono perfettamente alla reale situazione dell’Atene della fine del V secolo a.C., dominata dai demagoghi e poi segnata dall’inquietante restaurazione dei Trenta Tiranni, e ancora dalle incessanti lotte delle due fazioni politiche che si fronteggiano per la conquista del potere.
Anonimo di Giamblico
Fr. 11 = 89, 7 DK
“Anche la tirannide, calamità così grande e così grave, non da altro deriva se non dall’illegalità. Alcuni credono – ma è opinione errata – che il tiranno s’imponga per diversa ragione, e che gli uomini perdano la libertà non per colpa loro, ma perché violentati dal tiranno che si è imposto: ma il loro ragionamento non è corretto. Colui che crede che un re o un tiranno possano sorgere per altra ragione che non siano l’illegalità e la sopraffazione è uno stolto. Perché appunto allora ciò avviene, quando tutti i cittadini si siano volti al male; non essendo possibile che gli uomini vivano senza leggi e senza giustizia. Quando dunque queste due cose, le leggi e la giustizia, siano esulate dal popolo, allora avviene che la tutela e la custodia di esse si trasferiscano in uno solo: perché come altrimenti il governo si ridurrebbe nelle mani di uno solo se non per l’abolizione della legge che difende i diritti del popolo?”
Giamblico, Protreptico
Crizia nasce all’incirca nel 455 a.C. da una famiglia aristocratica; frequenta Socrate, dal quale tuttavia si distacca presto. Vicino all’oligarchia nel 411 a.C., partecipa al governo dei Trenta Tiranni e cade nella battaglia di Munichia del maggio 403 a.C. È autore di opere poetiche, tra cui drammi, attribuiti anche a Euripide, nonché di scritti in prosa di contenuto prevalentemente politico. Pur non potendo essere considerato un sofista nel senso proprio (cioè, in ultima analisi, protagoreo) del termine, Crizia è vicino alla sofistica a causa del suo vivo interesse per questioni politiche, etnografiche, storico-letterarie e poetiche; benché non svolga mai alcuna forma di insegnamento, tutta la sua opera manifesta l’intento di fornire ai giovani nobili un orientamento culturale capace di contrapporsi alla pressione della democrazia.
Nell’atmosfera di contrapposizione tra Atene e Sparta, che domina il secolo e trova espressione paradigmatica nell’Epitafio di Pericle in Tucidide, Crizia si schiera a lode e difesa del modello di vita lacedemone, che gli è vicino non solo per ragioni culturali e ideologiche, ma anche perché filosoficamente si armonizza perfettamente con il ruolo che egli attribuisce al “carattere” capace di creare una forma superiore di vita. Il tema della Kulturgeschichte è centrale nel Sisifo, di cui ci è pervenuto un frammento (88 B 25 A DK), che si esita a sottrarre a Crizia e che è agevole leggere in controluce alla storia dell’origine della vita associata disegnata da Protagora nel mito del Protagora platonico. Il primo stadio della vita umana è rappresentato da una condizione di vita ferina, disordinata, dominata dalla mera forza. La successiva introduzione della legge reca la giustizia e la sanzione degli atti di offesa: il nomos ha una funzione positiva, anche se Crizia ne sottolinea, con spregiudicato realismo, il carattere impositivo; parallelamente, la giustizia è una dike tyrannos che si regge sul potere e sulla sua forza, anche se in tal modo essa tiene soggetta a sé la dismisura, o tracotanza (hybris). Il terzo stadio è rappresentato dall’imposizione della credenza religiosa, la quale non sorge prima dell’organizzazione della società (come riteneva Protagora), ma proviene da un atto razionalista di assoggettamento escogitato da uno spirito superiore, e astuto: con l’invenzione degli dèi, e di una teologia tutta tesa a generare il timore del divino, si completa e perfeziona l’opera della legge, la quale teneva gli uomini lontani dalle azioni violente solo nel caso queste fossero manifeste, mentre gli uomini stessi continuavano a compierle di nascosto. Anche la religione è dunque una sorta di legge, che inventa gli dèi al fine di ottenere da ogni singolo uomo la sua autorepressione; riposa su un inganno, è mero instrumentum regni, e tuttavia è necessaria per ottenere una comunità politica ordinata, spegnendo con ciò l’anomia, sempre in agguato perché riposante in realtà su physis.
Crizia è peraltro capace di disegnare, in parallelo a questa visione lucida e dissacrata della legge, anche un’antropologia, che è certamente pensata in prima istanza per l’individuo nobile, ma è pur sempre indirizzata all’uomo considerato in quanto singolo. Egli parte dal concetto che gli agathoi (i “buoni”, intesi anche e soprattutto come gli “uomini eccellenti”) provengono assai più dallo studio (melete) che non dalla natura (physis) (B 9 DK). L’esercizio e lo studio sono valori necessari per vincere quanto nell’uomo non è, come dato di partenza, sano, o è insufficiente rispetto ai compiti che egli può assegnare a se stesso: in questo volontarismo costruttivo Crizia riprende un concetto protagoreo, pur inserendolo in un quadro teorico suo personale. Coerentemente con ciò, delinea in B 40 DK uno spunto di teoria gnoseologica per la quale attraverso l’esercizio diviene più forte e più penetrante la gnome, il pensiero, che acquisisce così la capacità di organizzare le molteplici e svariate sollecitazioni del sentire. Anche in B 39 DK Crizia traccia una linea di demarcazione tra il sentire e il conoscere, per cui le sensazioni e il pensiero appaiono, ben diversamente che in Protagora, distinte, mentre l’esaltazione della gnome traduce l’espressione di un ideale aristocratico a fronte dell’egalitarismo democratico protagoreo, che proprio nella teoria del conoscere trovava il suo fondamento.
La teoria criziana del “carattere” (tropos) è esposta in B 22 DK, ove è importante l’opposizione stabilita tra la fragilità della legge, che l’abilità retorica degli oratori può far volgere in ogni senso, e il carattere, che, quando si realizza in un uomo, è fermo e inamovibile. Qui la pointe contro le seduzioni della retorica non contraddice di certo l’appartenenza sofistica di Crizia, perché la consapevolezza del carattere potenzialmente ingannatore del logos è, al contrario, costitutivo della sofistica, ed è presente sia in Gorgia sia in Antifonte. E se la legge di cui qui si parla è il nomos democratico, quello di cui aveva parlato Protagora identificandolo con la decisione della città, è evidente che l’incertezza e la mutevolezza della legge traducono quella mancanza di fermezza che è propria del demos, e dell’uomo considerato come parte indifferenziata di esso. Viceversa il tropos è proprio di un individuo capace di essere norma a se stesso, tale, quindi, da far coincidere la propria physis – per quanto bisognosa d’aiuto essa sia sempre da parte del pensiero, dell’esercizio e dello studio – con quell’insieme di norme e comportamenti che il nomos può bensì dettare, o imporre, ma che l’uomo eccellente deriva fondamentalmente da se stesso.