sodomiti
A designarli, D. non usa esplicitamente il termine, sibbene, a mo' di collettivo, il nome di Sodoma, città della Pentapoli tristamente famosa, con la vicina Gomorra, per il vizio che v'era comune: e però lo minor giron suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa (If XI 49-50). Il nome della città è pure gridato da una seconda schiera di lussuriosi (contro natura), che si autoaccusano nell'atto d'incontrarsi con la prima (pure composta di peccatori carnali, ma secondo natura) nella settima cornice del Purgatorio: la nova gente: " Soddoma e Gomorra " (Pg XXVI 40, e cfr. v. 79). Ma mentre della gente espiante che offese / di ciò per che già Cesar, trïunfando, / " Regina " contra sé chiamar s'intese (vv. 76-78) il poeta fa solo fuggevole menzione, ai s. dannati nel settimo cerchio infernale dedica l'intero canto XV e i primi novanta versi del XVI, e di essi convoca singoli personaggi, dando luogo a due episodi fra i più salienti della prima cantica.
Posto che il fine d'ogne malizia è l'ingiuria (If XI 22-23), e cioè la violazione del diritto (" omne enim quod non iure fit, iniuria fieri dicitur ", secondo il diritto romano), e che l'ingiuria si attua sia attraverso la violenza sia attraverso la frode, nella suddivisione del cerchio settimo (dei violenti) in tre gironi s'individua evidentemente una progressione, in quanto riguarda la gravità morale delle colpe commesse. " Secondo l'ordine naturale ", come scrive il Nardi, " l'amore per il nostro prossimo è meno forte che l'amore per noi stessi. L'amore naturale per Dio è invece più forte: poiché, se ogni essere ama per natura se stesso, tanto più deve amare quello da cui esso dipende e di cui non può fare a meno " (Il c. XI dell'Inferno, p. 199). Sì che, tendendo la violenza a infrangere la vis unitiva (il Nardi cita Cv III II 7) che s'identifica con l'amor naturale, ne deriva che essa " è tanto più colpevole quanto più questo amore è radicato nella natura " (ibid.).
I violenti contro Dio, la natura (che da Dio prende il suo corso, ed è quindi da considerarsi sua figlia) e l'arte (" l'arte naturale ", " che procede da natura e lei come suo maestro séguita ", annota l'Ottimo) sono quindi rei di peccato più grave di quello commesso da chi fu violento nei confronti del prossimo e delle sue cose, e di sé stesso e dei propri beni. A Soddoma e Caorsa compete dunque il terzo girone del cerchio: l'ingiuria dei s. fu difatti tale da infrangere le leggi naturali che regolano il rapporto erotico. Ai s. espianti, invece, D. sembra non rimproverare una colpa più grave dell'incontinenza: non li distingue infatti dai lussuriosi secondo natura, facendone un gruppo a essi contrapposto, che però ne condivide in pari grado la pena, il fuoco (cfr. Pg XXVI 28-29).
Il fuoco punisce altresì i s. dannati, ma in modo diverso: Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento (If XIV 28-30). È evidente l'analogia con la narrazione biblica della distruzione di Sodoma e di Gomorra (" Igitur Dominus pluit super Sodomam et Gomorrham sulphur et ignem ", Gen. 19, 24; e cfr. altresì " Ignem et sulphur pluam super eum ", Ezech. 38, 22); potrà inoltre vedersi un accenno all'innaturalità del peccato dei s. nel fatto che il fuoco piova dall'alto verso il basso, mentre per sua natura esso tende all'alto, alla sfera che è proprio suo luogo (cfr. Pd XXIII 40-42), caso perspicuo di contrapasso per analogia. L'analogia, è vero, si limita ai s., la cui colpa soltanto la biblica pioggia ignea punisce, ma è ragionevole l'estensione della pena (salvo le modalità dell'applicazione) ad altri violenti, rei di bestemmia e di usura, peccati che dal punto di vista assunto D. considera assimilabili alla sodomia, per le ragioni accennate.
Mentre il poeta e il suo duca procedono camminando sopra uno degli argini del rigagno (If XIV 121), che spiccia / fuor de la selva (vv. 76-77) e attraversa il sabbione per gettarsi là dove più non si dismonta (v. 118), protetti dal vapore che dal ruscello si solleva e di sopra aduggia (XV 2) spegnendo con la sua umidità la pioggia ignea, si fa loro incontro una prima schiera di s.; fra costoro (cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d'un peccato medesmo al mondo lerci, vv. 106-108), sono Brunetto Latini, Prisciano, Francesco d'Accursio, Andrea de' Mozzi (v. le voci relative).
L'episodio, che ha come protagonista il primo dei nominati, implica preliminarmente un problema esegetico di non pacifica soluzione: qual fosse stata in realtà la colpa del dotto notaio fiorentino, motivo della condanna inflittagli dal poeta, che certo in vita gli era stato amico e aveva potuto dirsi suo discepolo, sia sotto il rispetto morale sia anche, come autorevoli studiosi propongono, sotto il rispetto letterario (a onta delle riserve presenti in VE I XIII 1). Effettivamente l'atteggiamento riverente di D. nei confronti del personaggio e l'assenza di ogni notizia, a non far conto di quelle derivanti dal testo stesso della Commedia, riferentesi alla sodomia di cui si sarebbe macchiato, rendono ragione del dubbio espresso in merito da taluni dantisti e di proposte interpretative diverse da quella tradizionale. Così A. Pézard in un libro ben noto sostiene che ser Brunetto non si macchiò già di sodomia, ma di un altro più grave ancorché meno infamante peccato (il che spiegherebbe il rispetto che D. gli porta): la bestemmia contro lo Spirito, per avere egli, magnificando la lingua francese (" la parleure .., plus delitable et plus commune a tous gens ", come la definì), innaturalmente abbassato la sua lingua materna, con grave offesa della sacralità del linguaggio umano. Ciò collegherebbe la colpa del Latini (e anche quella di Prisciano, reo di " violence à la grammaire "; di Francesco d'Accursio bestemmiatore, nella sua glossa, della filosofia e della teologia; di Andrea de' Mozzi, oratore sacro blasfemo, nella sua ‛ bestialitas '), anziché alla sodomia vera e propria, all'empietà di Capaneo. Mentre R. Kay ritiene che il notaio fiorentino sia stato assegnato da D. ai violenti contro natura per essersi egli, valente filosofo e retore e insieme uomo politico, avvalso della filosofia in vista del mantenimento e del potenziamento dell'istituto comunale, che per D. sarebbe innaturale e anarchico, anziché dell'Impero, d'istituzione divina.
Ma tali proposte, pur suggestive e ingegnose, non hanno in generale ottenuto il consenso degli studiosi, i quali preferiscono attenersi all'interpretazione tradizionale, d'altronde giustificata dalla lettera del poema, presupponendo la conoscenza, da parte di D., di circostanze che ad altri sfuggirono (cosa ben possibile, specie per quel che riguarda Brunetto e Andrea de' Mozzi), o comunque la sua accettazione di dicerie correnti, vere o false che fossero; e tenendo presente che, come bene osserva F. Montanari, " l'insufficienza del singolo uomo (la dannazione di Brunetto e lo sconcio peccato) non diminuiva la gloria della letteratura sapienziale [da lui esercitata], anzi ne metteva maggiormente in rilievo lo splendore, come di quella virtù che irresistibilmente splendeva, pur nella miseria del peccatore " (Brunetto Latini, p. 472).
Continuando a parlare col concittadino e antico discepolo, Brunetto ha accompagnato D. lungo l'argine per non breve tratto, lasciandosi alle spalle la sua masnada (If XV 41); è costretto a raggiungerla, velocemente, quando vede surger nuovo fummo del sabbione (v. 117), indizio dell'approssimarsi di un'altra schiera di s., con la quale non gli è lecito stare. E quando i due poeti giungono a un punto dell'argine donde è possibile udire il fragore provocato dal precipitar nel burrato delle acque del rio rosso, ecco distaccarsi correndo tre ombre insieme dalla nuova torma (XVI 4-5), e rivolgersi a D., che alla foggia del vestire hanno riconosciuto per fiorentino. Sono essi Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci (v. le rispettive voci), insigni e benemeriti cittadini di Firenze (del secondo e del terzo il poeta già aveva chiesto notizie a Ciacco), i quali, per aver dal concittadino notizie fresche della patria loro, essendo loro vietato di arrestarsi, si dispongono in cerchio e girano a tondo sul posto, volgendo però sempre il volto verso D., che con Virgilio procede sull'argine sovrastante.
L'appartenere i tre s. (anche stavolta, che tali fossero il solo D. afferma) a una medesima schiera, di cui pure fa parte Guglielmo Borsiere (ricordato dal Rusticucci, che parla a nome suo e degli altri due compagni di pena, XVI 70), fa ritenere che il poeta abbia inteso raggruppare a sé gli uomini politici, d'arme, di corte che si macchiarono di sodomia, distinguendoli dai cherci e dei litterati di cui fa parte Brunetto, e da altri gruppi non espressamente menzionati. E il fatto che i tre siano fiorentini offre a D. l'appiglio per enunciare l'apostrofe carica di severa rampogna, rivolta a Firenze, ove la gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata (vv. 73-74), che ricollega l'episodio a un tema per la prima volta accennato, in termini diversi, da altro fiorentino, Ciacco (VI 73-75) e ben presente nel canto di Brunetto (XV 61-78).
Il quale resta fra i s. il solo personaggio caratterizzato da alta e potente originalità, ricco com'è di un profondo senso umano, che basta a dissolvere il disagio determinato nel lettore dalla condanna di D. e dal biasimo di ordine morale a essa inerente. Mentre resta nel generico l'enunciazione delle virtù civili dei tre protagonisti dell'episodio iniziale del canto XVI, sì che scarso è il rilievo delle loro figure e sbiadita la loro fisionomia umana, ancorché concorrenti alla composizione di un quadro complesso e di alta perfezione, di cui è parte integrante, con l'episodio degli usurai (XVII 34-78), il mirabile intermezzo della descrizione della cascata, del lancio della corda e dell'ascesa di Gerione (XVI 91-136, XVII 1-30).
Bibl. - E. Moore, The classification of Sins in the Inferno and Purgatorio, in Studies in D., s. 2, Oxford 1899; F. D'Ovidio, La topografia morale dell'Inferno, in Studi sulla D.C., I, Caserta 1931; B. Nardi, Il c. XI dell'Inferno, in Lett. dant. 193-207; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950; F. Montanari, Brunetto Latini, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 471-475; R. Kay, The Sin of Brunetto Latini, in " Medieval Studies " XXXI (1969) 262-286. Fra le letture dei canti XV e XVI: E.G. Parodi, Il Canto di Brunetto Latini, in Poesia e storia nella D.C., Venezia 1965 (Iª ediz. Napoli 1921), 165-200; U. Bosco, Il Canto di Brunetto (1961), in Lect. Scaligera I 483-507 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 92-121); L. Caretti, Il c. XVI dell'Inferno, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 467-488; S. Pasquazi, Il c. dei tre fiorentini, in All'eterno dal tempo, Firenze 1966, 13-47; F. Salsano, Carità e giustizia (Brunetto Latini e i tre fiorentini), in La coda di Minosse, Milano 1968, 21-52; G. Petronio, Il c. XV dell'Inferno, in Nuove lett. II 75-85; M. Marti, Il c. XVI dell'Inferno, ibid., 87-115.