Socrate
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Socrate è il primo – e forse l’unico – uomo ad avere dedicato l’intera vita alla filosofia, cioè a quell’amore della sapienza che può nascere soltanto dalla consapevolezza della propria ignoranza e da un intimo impulso alla ricerca della verità. La sua morte eroica ha reso imperitura una vita al servizio di quell’esame costante delle proprie e delle altrui credenze che è il sommo bene per un uomo; l’estrema coerenza fra pensiero e azione che ha portato Socrate a scegliere la sua morte lo ha consacrato uomo felice.
Socrate di Sofronisco, ateniese del demo di Alopece, appartiene alla tradizione dei filosofi antichi che non hanno scritto nulla, a partire da Pitagora fino a Epitteto, Ammonio Sacca e Plotino,, che non scrive prima dei cinquant’anni. Esistono due specie di agrafia filosofica: l’agrafia esoterica o dogmatica di chi non vuole divulgare il proprio pensiero, come Pitagora, e l’agrafia dialettica di chi ritiene la scrittura inadeguata a sostituire il dialogo orale. Questa seconda specie di agrafia ha origine con Socrate ed è condivisa da filosofi scettici come Pirrone, Arcesilao di Pìtane e Carneade.
L’autore neoplatonico dei Prolegomeni alla filosofia di Platone afferma che Socrate e Pitagora non hanno lasciato scritti dietro di sé, ma “allievi che sono come degli scritti viventi” (13.12-14). Socrate non si considerava un maestro, ma ha avuto degli “allievi” che hanno scritto molto, e molto di lui. Malgrado la scelta di non scrivere, o forse proprio in virtù di questa, Socrate è infatti l’ispiratore del dialogo filosofico come genere letterario innovativo rispetto alla tradizione: i “discorsi socratici” o logoi sokratikoi, diversi dai trattati sulla natura dei presocratici e dalle orazioni epidittiche dei sofisti. Questo è il primo, e il più noto, dei paradossi che circondano la sua figura, come ricorda la minuta di un trattatello medievale sulla chiromanzia conservato alla Bodleian Library di Oxford. Forse per una ironica trasposizione dei nomi, l’immagine ritrae Socrate nell’atto di scrivere sotto dettatura di Platone!
Nell’Apologia di Platone Socrate afferma di avere settant’anni quando è chiamato in giudizio nel 399 a.C.; questo ci permette di collocare la sua nascita fra il 470 e il 469 a.C., durante la LXXVII Olimpiade, ad Atene. Il padre, Sofronisco, è uno scultore del demo di Alopece, un quartiere periferico a sud-est della città riservato alla produzione artigianale. La notizia che Socrate stesso sia stato scultore per un periodo della sua vita è dubbia e di certo è leggendario che sia l’autore delle Càriti vestite che si vedevano all’uscita di Atene verso l’Acropoli. La madre, Fenarete, svolge solo a un certo punto il mestiere di levatrice forse per incrementare i guadagni familiari, che inizialmente, grazie al lavoro del padre, non dovevano essere così esigui: Socrate riceve infatti l’educazione tradizionale della mente e del corpo, imparando a leggere, scrivere e far di conto, ed esercitandosi nella ginnastica. Prima di diventare levatrice e in seguito alla morte di Sofronisco, Fenarete sposa Cheredemo e dà alla luce Patrocle, fratellastro di Socrate. Nel clima di apertura culturale dell’Atene di Pericle, il giovane Socrate si avvicina alla filosofia della natura leggendo gli scritti di Anassagora di Clazòmene e frequentando il suo scolaro ateniese, Archelao. Risalgono a questo periodo anche i suoi incontri con i sofisti Protagora di Abdera, Prodico di Ceo e Ippia di Èlide e con il retore Gorgia di Lentini, come sappiamo dal Protagora e dal Gorgia di Platone. Incerto è invece l’incontro con gli eleati Parmenide e Zenone, che secondo il Parmenide platonico sarebbe avvenuto in occasione delle Grandi Panatenee del 450 a.C., quando Parmenide aveva circa sessantacinque anni e Socrate meno di venti. Questi dati non concordano, tuttavia, con la testimonianza del dossografo Diogene Laerzio che attribuisce a Parmenide, all’epoca del presunto – e in tal caso inverosimile – incontro con Socrate, la veneranda età di novant’anni.
In seguito Socrate abbandona le filosofie della natura perché escludono dalla loro indagine il fine, cioè la ricerca del bene, che è per l’uomo la cosa più importante. Nel Fedone platonico dichiarerà: “Mi parve bene che dovessi rifugiarmi nei ragionamenti (logoi) e indagare in essi la verità delle cose” (99e). La sua abitudine, per compiere questa indagine, di interrogare chiunque in Atene abbia fama di sapiente lo porta a diventare, sulla fine degli anni Venti, un personaggio pubblico e un komodoúmenos, una “persona schernita nelle commedie”. Nel 423 ben due delle tre commedie vincitrici alle Grandi Dionisie hanno Socrate come protagonista: al secondo posto (dopo la Fiasca di Cratino) il Conno di Amipsia, che mette in scena Socrate e il suo maestro di musica, Damone, e al terzo le Nuvole di Aristofane. Claudio Eliano racconta nella Varia storia che, durante la rappresentazione delle Nuvole, Socrate, presente all’evento, si sarebbe alzato tra il pubblico rimanendo in piedi, ben visibile a tutti, per l’intera durata dello spettacolo.
La partecipazione di Socrate alla vita politica di Atene non oltrepassa l’adempimento dei doveri, militari e civili, di buon cittadino. Solo questi doveri lo allontanano dalla città, dove trascorre l’intera vita. Durante la guerra del Peloponneso, si distingue come oplita in tre campagne militari. Nel 432 a.C., alle soglie della guerra, salva la vita e le armi di Alcibiade, ferito durante la battaglia di Potidea, nella penisola Calcidica; e rinuncia, di ritorno ad Atene, alle onorificenze meritate in favore dell’amico. In questa circostanza, ormai quasi quarantenne, dà prova di una resistenza fisica non comune alla fame e al freddo, camminando scalzo sul ghiaccio ed esponendosi al gelo con “il medesimo mantello che usava portare anche prima” (Platone, Simposio, 220b). Nel 424 a.C. partecipa allo scontro a Delio con i Tebani, dal quale si ritira in compagnia del generale Lachete dopo la sconfitta, con una padronanza di sé che gli vale il rispetto degli avversari e lo sguardo ammirato di Alcibiade; combatte, infine, un’ultima volta ad Anfipoli nel 422 a.C.
Dopo avere dimostrato sul campo il suo valore, anche nelle vicende interne alla polis Socrate dà prova di grande coraggio. Nel 406 a.C., estratto a sorte, assolve il compito di prìtano nel consiglio dei Cinquecento. L’assemblea popolare è chiamata a giudicare gli strateghi vincitori della battaglia navale delle isole Arginuse per avere abbandonato i naufraghi dopo la vittoria. Socrate si oppone, invano, alla decisione illegale della maggioranza di condannarli a morte collettivamente con un processo sommario, difendendo la sovranità delle leggi di Atene sul popolo, a rischio della vita. Il politico Callìsseno, per ottenere voti, aveva infatti minacciato i prìtani che avessero contrastato la condanna degli strateghi di condividerne le sorti. Due anni dopo, nel 404 a.C., l’ultima flotta va a picco a Egospòtami presso lo stretto dei Dardanelli e Atene perde la battaglia finale della lunghissima guerra. Il potere politico passa nelle mani dei Trenta oligarchi, detti in seguito “tiranni”. Quello stesso anno, Socrate rischia di nuovo la vita rifiutandosi di eseguire l’ordine di Crizia, capo dei Trenta, di arrestare con altri quattro cittadini il democratico Leonte di Salamina, condannandolo a morte certa; a salvare Socrate è la caduta della tirannide e il ritorno della democrazia.
Della famiglia abbiamo poche notizie certe, legate agli eventi dei suoi ultimi anni di vita. Sembra che Socrate abbia sposato Santippe in tarda età, dal momento che i figli, Lamprocle, Sofronisco e Menèsseno, sono ancora piuttosto giovani quando muore. Dal racconto del Fedone sappiamo che Santippe e Menèsseno, il figlio minore, sono presenti in carcere l’ultimo giorno, ma Socrate li fa allontanare prima di discutere con gli amici, come d’abitudine, in attesa che venga eseguita la sentenza; l’intera famiglia tornerà per salutarlo poco prima della fine. Rimane assai dubbio che abbia avuto una seconda moglie, Mirto, e se l’abbia avuta prima o durante il matrimonio con Santippe.
Malgrado la restaurata democrazia, nella primavera del 399 a.C. Socrate è citato in giudizio dal giovane Meleto, figlio di un poeta della città, dietro il quale agiscono probabilmente il ricco mercante Ànito e l’oratore Licone. Insieme esprimono l’insofferenza accumulata dagli esponenti della cultura democratica, poeti, retori e uomini d’affari, per il modo in cui Socrate è solito discutere con loro smascherandone presunzione e ignoranza. Il testo depositato nel Metròo, l’archivio di Stato ateniese, riporta i tre capi d’accusa così formulati: “Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò questa accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani. Pena richiesta: la morte” (Diogene Laerzio, II 40).
L’esito del processo è noto: dopo essersi difeso a suo modo, Socrate viene dichiarato colpevole con una maggioranza di 280 voti contro 220 (o 221); e, dopo aver proposto come pena alternativa di essere mantenuto a pubbliche spese per i servizi resi allo stato, è condannato a morte con una differenza di altri 80 voti. Per un mese, nel carcere di Atene, attende il rientro in porto della nave sacra da Delo, prima del quale non era permesso eseguire una condanna capitale. Un mese importante per la filosofia, perché offre a Euclide di Mègara l’occasione di ascoltare da Socrate i racconti che daranno luogo al Teeteto di Platone, oltre a rendere il carcere teatro delle conversazioni del Critone e del Fedone. Un giorno dopo il rientro della nave, congedandosi dagli amici presenti, Socrate beve il veleno (phármakon) e muore ad Atene nel 399 a.C. per volere e per mano degli Ateniesi. Parafrasando Aristotele, viene commesso così il primo crimine contro la filosofia.
Lo psicologo Francis Galton sovrapponeva su un’unica lastra alcune fotografie di facce diverse per ottenere il quadro delle caratteristiche comuni a tutte: per esempio la tipica faccia cinese. Socrate non può essere paragonato a una “fotografia collettiva” à la Galton, perché il residuo comune alle testimonianze su di lui si ferma alla superficie, quando non è assente del tutto. Seguendo questo metodo dovremmo limitarci a dire l’ovvio, cioè che Socrate ha suscitato l’interesse delle menti eterogenee dei suoi concittadini, con i quali amava dialogare – ma sul modo di dialogare che gli era proprio non c’è accordo –, e a descriverne l’aspetto fisico.
I tre testimoni diretti, Aristofane, Platone e Senofonte, concordano nel presentare Socrate come un uomo non di bell’aspetto: con il ventre gonfio (ma pallido e smagrito per Aristofane), il naso camuso, occhi e labbra sporgenti; sempre scalzo e vestito dello stesso mantello logoro. Se questo, tuttavia, è per Aristofane ragione di scherno, il Socrate di Senofonte osserva come i suoi occhi bovini siano “più belli” perché “vedono anche sui lati”; e Alcibiade, nel Simposio platonico, lo paragona ai satiri ammaliatori e ai sileni costruiti dagli artigiani, quelli che, “una volta aperti in due, si scopre che hanno dentro la statua di un dio”.
Aristofane
Le Nuvole, vv. 358-363
CORIFEO: “Salve, o vecchio di antica età, cacciatore di musici discorsi! (a Socrate) E tu, sacerdote di fole sottilissime, che cosa desideri da noi? Parla. A nessun altro, fra tutti i sofisti che oggi si appendono al cielo, daremmo ascolto se non a Prodico: a lui per la sapienza e il pensiero, a te perché vai superbo per le vie e volgi gli occhi di traverso, e scalzo sopporti molti mali e per causa nostra ti dai arie”.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Senofonte
Simposio
Simposio, V 5-7
“Sai dirmi”, riprese Socrate, “perché abbiamo bisogno degli occhi?”
“Per vedere, mi pare chiaro”.
“Se è così, i miei occhi si possono dire più belli dei tuoi”.
“E perché?”
“Perché i tuoi vedono soltanto diritto in avanti, mentre i miei, sporgenti come sono, vedono anche sui lati”.
“A sentire te, il granchio è l’animale che ha gli occhi più belli”.
“Sicuro, perché tra l’altro ha anche occhi più potenti”.
“E va bene”, disse Critobúlo, “ma veniamo al naso: chi di noi due ce l’ha più bello, io o tu?”
“Io; almeno mi pare, se, per gli dèi, ci hanno muniti di naso perché sentissimo gli odori; infatti le tue narici guardano in basso, mentre le mie si spalancano in alto in modo da poter captare gli odori da qualsiasi parte provengano”.
“Ma come fai a dire che un naso camuso è più bello di un naso diritto?”
“Posso dirlo perché non fa da ostacolo, ma permette agli occhi di vedere tutto ciò che vogliono; invece un naso diritto e alto si erge arrogante come un muro tra i due occhi”.
“Allora per quanto riguarda la bocca”, disse Critobúlo, “devo proprio cedere; perché, se è fatta per mordere, è certo che tu riesci a strappar via bocconi più grossi dei miei. E poi, con quei labbroni, ti immagini che sollucchero di baci?”
“Ehi, ehi”, esclamò Socrate, “ad ascoltare te io avrei una bocca più sozza di quella di un asino! Ma ti sembra cosa da niente, a riprova che io sono più bello di te, il fatto che le Naiadi (delle dee, pensa un po’) partoriscano i Sileni? i quali, converrai, sono molto più simili a me che a te”.
E Critobúlo: “Basta”, disse, “non ce la faccio a tenerti testa” [...].
Senofonte, Simposio, trad. it. di M. Vitali, Milano, Bompiani, 1993
Il ritratto del Simposio rispecchia la tradizione iconografica più antica, che sottolinea i tratti da sileno di Socrate, riservando la bellezza alla sua anima; il ritratto dello scultore Lisippo di Sicione, voluto da Licurgo in omaggio retrospettivo a Socrate, è invece all’origine dell’opposta tradizione che ne enfatizza i tratti ideali. Silenico anche il Socrate del film di Roberto Rossellini del 1970, che ripropone la mitologia di Santippe “donna difficile”, come la descrive Senofonte. Il carattere iracondo e vivace che numerose testimonianze attribuiscono a Socrate èSocrateè invece rappresentato da Philippe Léotard nel Banchetto di Platone (1989) di Marco Ferreri, i cui dialoghi sono firmati da una specialista come Monique Canto. L’aspetto di Socrate è il primo elemento caratteristico della sua “stranezza” (atopía), anomalo per un intellettuale, agli occhi dei Greci, perché rompe l’ideale di bellezza e bontà come qualità inscindibili (kalokagathía); tanto che Aristòsseno testimonia la pratica fisiognomica di giustificare la sua capacità persuasiva con la voce e i tratti del volto. Cicerone riporta l’aneddoto secondo il quale Zòpiro, un fisiognomico, definì Socrate libidinoso sulla base del suo aspetto fisico, suscitando il riso di Alcibiade!
Aristofane è il testimone più antico: le Nuvole sono l’unico documento di cui disponiamo antecedente alla morte di Socrate. Nella sua parodia, Socrate è il concentrato dei nuovi saperi della cultura periclea, contro i quali il comico reagisce in difesa della tradizione. Appeso in un cesto a mezz’aria sotto le nuvole, è il sofista senza scrupoli che produce pensieri dietro pagamento.
Aristofane
Le Nuvole, vv. 218-238
STREPSIADE [...] (scorgendo Socrate sospeso in alto) Ehi, chi è l’uomo lassù in quell’arnese che pende?
DISCEPOLO Lui
STREPSIADE Chi, lui?
DISCEPOLO Socrate.
STREPSIADE O Socrate! (al Discepolo) Dài, fammi un favore, grida forte.
DISCEPOLO Chiamalo tu stesso: io non ho tempo. (Entra nel pensatoio)
STREPSIADE O Socrate, o Socratuccio!
SOCRATE Perché mi chiami, creatura di un giorno?
STREPSIADE Intanto dimmi che cosa stai facendo, ti prego.
SOCRATE Muovo per l’aere e scruto il Sole.
STREPSIADE Allora gli dèi tu li guardi dall’alto di un cestino, e non dalla terra: non è così?
SOCRATE Esatto: non avrei mai rettamente scoperto i fenomeni del cielo, se non appendendo in alto l’intelletto e mescolando il pensiero con l’aere: è sottile, e va con il suo simile. Se fossi rimasto per terra a osservare da sotto le cose che stanno sopra, addio scoperte! Proprio così: la terra attira a sé con forza l’umore del pensiero. È la stessa cosa che succede al crescione.
STREPSIADE Come dici? Il pensiero attira l’umore verso il crescione? Dài, adesso scendi da me, Socratuccio, insegnami: sono venuto per questo.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Insegna a far prevalere il discorso più debole, o ingiusto, sul discorso più forte, o giusto, al riparo del suo “pensatoio” (phrontistérion); e insieme è il naturalista empio che crede nelle divinità del Caos, delle Nuvole e della Lingua, ma non crede in Zeus, prefigurando le accuse che gli saranno mosse vent’anni dopo.
Aristofane
Le Nuvole, vv. 218-238
STREPSIADE [...] (scorgendo Socrate sospeso in alto) Ehi, chi è l’uomo lassù in quell’arnese che pende?
DISCEPOLO Lui
STREPSIADE Chi, lui?
DISCEPOLO Socrate.
STREPSIADE O Socrate! (al Discepolo) Dài, fammi un favore, grida forte.
DISCEPOLO Chiamalo tu stesso: io non ho tempo. (Entra nel pensatoio)
STREPSIADE O Socrate, o Socratuccio!
SOCRATE Perché mi chiami, creatura di un giorno?
STREPSIADE Intanto dimmi che cosa stai facendo, ti prego.
SOCRATE Muovo per l’aere e scruto il Sole.
STREPSIADE Allora gli dèi tu li guardi dall’alto di un cestino, e non dalla terra: non è così?
SOCRATE Esatto: non avrei mai rettamente scoperto i fenomeni del cielo, se non appendendo in alto l’intelletto e mescolando il pensiero con l’aere: è sottile, e va con il suo simile. Se fossi rimasto per terra a osservare da sotto le cose che stanno sopra, addio scoperte! Proprio così: la terra attira a sé con forza l’umore del pensiero. È la stessa cosa che succede al crescione.
STREPSIADE Come dici? Il pensiero attira l’umore verso il crescione? Dài, adesso scendi da me, Socratuccio, insegnami: sono venuto per questo.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Aristofane
Le Nuvole, vv. 94-118
STREPSIADE: Quello è il pensatoio di spiriti sapienti. Lì abitano uomini che con le parole ti convincono che il cielo è un forno e sta attorno a noi, e noi siamo carboni. È gente che ti insegna a vincere con le parole quando hai ragione e quando non ce l’hai: ma bisogna pagarli.
FIDIPPIDE: E chi sono?
STREPSIADE: Di preciso, il nome non lo so. Pensatori di idee, persone di riguardo.
FIDIPPIDE: Bah, gentaglia, li conosco: dei fanfaroni con le facce smunte e i piedi scalzi vuoi dire, come quel disgraziato di Socrate e Cherefonte. [...]
STREPSIADE: Dicono che da loro ci sono entrambi i discorsi, quello forte – qualunque esso sia – e quello debole. E dicono che uno di questi due discorsi, il debole, vince con le parole anche le cause più ingiuste. Dunque, una volta che tu mi impari questo discorso ingiusto, di tutti i debiti che ho per causa tua non restituirò neppure un obolo, a nessuno.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Aristofane
Le Nuvole, vv. 275-426
CORO: Nuvole sempiterne,
noi visioni in lucente
figura di rugiada!
Dal padre Oceano che strepita cupo
leviamoci alle cime degli alti monti
chiomate di alberi, onde
contemplare vette lontane
e le messi e la sacra terra irrigata
e il fragore dei fiumi divini
e il mare sonante di profondi fremiti:
poiché l’occhio dell’etere splende instancabile
nello sfolgorio dei raggi.
Scuotiamo il nembo di pioggia
dal viso immortale, contempliamo
con occhio di lungo sguardo la terra.
SOCRATE: O Nuvole molto venerande, avete dunque inteso la mia chiamata. (a Strepsiade) Hai sentito la voce e insieme il muggito divino del tuono? [...]
STREPSIADE: Per Zeus, ti prego, dimmi: chi sono, Socrate, costoro che intonano un canto così solenne? Forse sono delle eroine?
SOCRATE: Nient’affatto. Sono le Nuvole celesti, grandi dee per gli uomini che non fanno nulla. Sono loro che ci forniscono il giudizio e il ragionamento e l’intelligenza, e poi l’arte di sbalordire, di parlare di ogni cosa, la battuta e la replica.
STREPSIADE: Proprio così! Appena ho sentito la loro voce, la mia anima si è messa a volare; e già cerca di parlare sottile e di stringere discorsi di fumo, e di colpire un concetto con un concettino, di ribattere un discorso con un altro discorso. [...]
CORIFEO: (a Strepsiade) O tu uomo, che da noi desideri la sapienza somma, quanto sarai felice fra gli Ateniesi e gli Elleni! Purché tu abbia memoria e giudizio, e ci sia sopportazione nell’animo tuo, e non ti stanchi di stare ritto né di camminare, e non patisca troppo il freddo, e non abbia brama di pranzi, e sappia tenerti lontano dal vino e dalle palestre e da ogni altra frivolezza. Insomma devi considerare che questo sia il bene supremo, come si conviene a un uomo di qualità: vincere con l’azione e con il consiglio e con le guerre della lingua. [...]
SOCRATE: E a nessun altro dio credereai tranne che ai nostri: il Caos qui attorno e le Nuvole e la Lingua? Tre, non uno di più.
STREPSIADE: Assolutamente: con gli altri non voglio scambiare una parola, neppure se li incontrassi. Niente sacrifici per loro, niente offerte d’incenso.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Aristofane
Le Nuvole, vv. 1476-1492
STREPSIADE: Ahimè, che delirio! Pazzo ero, quando ho ripudiato gli dèi a causa di Socrate. (rivolgendosi alla statua di Ermes che sta accanto alla porta) Mio caro Ermes, non essere in collera con me, non distruggermi. Perdonami, a forza di ciarle mi hanno fatto uscire di senno. Consigliami tu: devo presentare un atto di denuncia contro di loro, oppure hai qualche altro piano? (facendo l’atto di ascoltare la statua) Ottimo suggerimento! Non è il caso di imbastire processi: bisogna dare fuoco subito alla casa dei ciarlatani. Qui, qui, Xantia, portami fuori una scala, dammi un piccone! Sali sul pensatoio, butta giù il tetto, se vuoi bene al tuo padrone: fagli crollare addosso la casa! Datemi una torcia accesa! La farò pagare a qualcuno di loro, oggi, anche se fanno tanto gli spacconi.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
La visione di Aristofane è sincronica: gli interessi giovanili di Socrate per la filosofia della natura si fondono con l’interesse nuovo per il logos e con la sua abitudine di interrogare gli Ateniesi mettendo a nudo le loro credenze. In un’altra delle sue commedie, gli Uccelli, Aristofane conia perfino un verbo (esokráton, v. 1282) per indicare l’atteggiamento di chi “socratizza”, di chi cioè, come Socrate, porta i capelli lunghi e dà scarsa importanza al cibo e alla pulizia del corpo. Il gesto di Socrate di alzarsi in piedi durante la rappresentazione delle Nuvole è stato forse compiuto perché il pubblico confrontasse l’uomo che aveva conosciuto con l’immagine deformata e arricchita che si trovava ora di fronte.
Senofonte dedica a Socrate quattro delle sue opere: il Simposio e l’Apologia di Socrate, omonimi di due opere platoniche, l’Economico e i Memorabili. Recentemente la sua testimonianza è stata rivalutata, riprendendo una posizione propria dell’età moderna. Senofonte è uno storico, dunque gli dobbiamo la ricostruzione dettagliata delle vicende politiche di cui Socrate è stato protagonista; e ne prende le difese nei Memorabili, come socratico. Tuttavia, la sua frequentazione di Socrate si interrompe prima degli eventi che lo porteranno al processo e alla morte, per i quali dipende dunque dalla testimonianza platonica e da altre fonti indirette. In particolare, non si evince dagli scritti socratici di Senofonte la causa della condanna a morte: se Socrate fosse stato l’uomo che descrive, verrebbero meno le ragioni per cui gli Ateniesi lo hanno condannato. Mancano, infatti, in Senofonte i motivi dell’atopía umana e filosofica di Socrate. Il suo modo di dialogare è endossale, cioè si basa su concezioni comuni (éndoxa) per arrivare a conclusioni altrettanto comuni; e questo ne fa l’oratore più persuasivo, come Odisseo.
Senofonte
Memorabili, IV, 6.15
Quando Socrate argomentava qualcosa, procedeva in base alle credenze più comunemente accettate, ritenendo che questo fosse l’unico metodo sicuro. Perciò, tra quelli che conosco, lui solo, quando discuteva, guadagnava un gran numero di consensi da parte degli ascoltatori. E diceva che Omero ha fatto di Odisseo l’oratore sicuro proprio perché era capace di condurre le discussioni in base alle credenze condivise dall’umanità.
Senofonte, Memorabili, trad. it. di W. Cavini, Milano, BUR, 1989
Inoltre, la formulazione di Senofonte dell’oracolo di Delfi rende Socrate un modello di virtù da seguire: nessuno è più liberale, né più giusto, né più saggio di lui; di conseguenza non ne riconosce la professione di ignoranza e l’ironia che le fa da corollario, escludendo il nucleo della testimonianza platonica. In conclusione, se uno dei meriti di Platone è di avere cercato le cause della condanna a morte di Socrate, per Senofonte semplicemente non si sarebbe difeso perché, ormai vecchio, non intendeva continuare a vivere sopportando i tormenti dell’età.
Senofonte
Apologia di Socrate
Detto questo, s’allontanò in piena coerenza con le sue parole, splendente negli occhi, nell’atteggiamento, nel passo. Ma, accortosi che gli amici l’accompagnavano piangendo: “Che è ciò?, disse. Vi mettete a piangere adesso? O non sapete da molto tempo che quando nacqui la natura mi ha condannato alla morte? Comunque, se morissi prima del termine stabilito, in mezzo a comodità d’ogni sorta, sarebbe comprensibile il dolore mio e di quanti mi sono benevoli: se, invece, pongo fine alla vita quando non devo aspettarmi altro che mali, penso che tutti voi dovete rallegrarvi perché la mia sorte è felice”. [...] A me sembra che gli toccò una sorte divina, poiché lasciò la parte più dolorosa della vita e ottenne una morte quanto mai facile. E dimostrò pure la forza del suo animo: infatti, quando si rese conto che morire era per lui meglio che continuare a vivere, come non si era mostrato restìo di fronte agli altri beni, così neppure si avvilì davanti al sacrificio della morte, ma lietamente l’accolse e lo consumò.
in G. Giannantoni, Socrate: Tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai Padri Cristiani, Roma-Bari, Laterza, 1971
Frammentario il Socrate dei cosiddetti socratici minori, che testimoniano la vivacità dell’incontro fra Socrate e l’Atene dei secoli V e IV a.C.: da un lato Eschine di Sfetto, dall’altro Antìstene di Atene, Aristippo di Cirene ed Euclide di Mègara – cui si attribuisce rispettivamente la fondazione delle scuole dei cinici, dei cirenaici e dei megarici – e infine Fedone di Èlide, che avrebbe anch’egli fondato una scuola filosofica nella sua città natale. Quanto rimane dei loro scritti è raccolto da Gabriele Giannantoni nei quattro volumi dell’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae (1983-1985). Aristotele invece è il primo testimone indiretto, ma dalla prospettiva privilegiata di chi ha frequentato Platone per vent’anni, e dunque fonte attendibile. La sua testimonianza è preziosa perché fissa i contributi specifici di Socrate alla filosofia indipendentemente dalle vicende che hanno segnato la sua vita, distinguendoli al contempo dai contributi platonici: l’identità di sapere e virtù; l’induzione; l’importanza assegnata all’universale come oggetto della definizione.
Nella Metafisica, Aristotele osserva come Socrate abbia tralasciato lo studio della natura per le questioni etiche (ta ethiká) e insieme abbia fornito le basi alla teoria platonica delle idee, distinguendo l’universale dai particolari concreti che lo esemplificano, senza tuttavia separarli come farà Platone (I 6, XIII 4 e 9). La ricerca socratica parte dalla domanda tí esti (“che cos’è”): Socrate si chiede, per esempio, che cos’è il coraggio e cerca una risposta che lo definisca in modo universale, cioè come un’unica cosa, e non fornendo un elenco di singole azioni coraggiose. Su questa base Platone arriverà a separare il coraggio in sé e per sé (o idea di coraggio) dalle azioni coraggiose del mondo empirico in cui viviamo, facendone l’oggetto di una realtà superiore o intelligibile.
Platone fa di Socrate l’eroe della sua filosofia scritta, presente in tutti i dialoghi tranne le Leggi e protagonista della maggior parte. La testimonianza platonica è naturalmente in accordo con quella di Aristotele, ma in profondo disaccordo con il Socrate di Aristofane e di Senofonte. Le ragioni principali che hanno portato gran parte della critica a preferirla come la più fedele sono due: in primo luogo, Platone ha trascorso con l’ultimo Socrate un periodo di tempo maggiore rispetto a Senofonte, e soprattutto lo ha fatto da filosofo, vale a dire con quel sentire comune che ha potuto creare tra i due un legame elettivo. In secondo luogo, ha saputo riprodurre nelle scene fittizie dei suoi dialoghi la pluralità delle prospettive che gli Ateniesi avevano su Socrate, dimostrandone una piena consapevolezza.
Intorno al 430 a.C., un evento fa precipitare la crisi intellettuale che aveva colpito Socrate allontanandolo dalla filosofia della natura.
L’oracolo delfico, interrogato dall’amico Cherefonte, risponde che nessuno è più sapiente di Socrate, suscitando in quest’ultimo grande perplessità su come intendere tali parole. Socrate è infatti consapevole di non essere sapiente, ma sa anche che gli dèi non possono mentire e dunque l’oracolo è veridico. Per dare un senso al responso enigmatico della Pizia, compie allora una lunga indagine, interrogando chiunque in Atene abbia fama di sapiente, uomini politici, poeti e artigiani, in cerca di qualcuno che si dimostri più sapiente di lui. La ricerca gli costa numerose inimicizie, ma lo porta infine alla soluzione dell’enigma: il significato dell’oracolo è in realtà che nessun uomo è sapiente. Il dio si è servito di Socrate come di un esempio per dire che l’uomo più sapiente è quello che, come lui, è consapevole di non esserlo, cioè di non essere esperto di alcun sapere che riguardi “le cose più importanti” (ta mégista). Quella di Socrate è dunque una “dotta ignoranza”, l’ignoranza di chi non è sapiente ma non crede nemmeno di esserlo; e una “sapienza umana”, cioè il riconoscimento che il proprio sapere (umano) non vale nulla rispetto alla vera sapienza (divina). Ciò non significa, naturalmente, che Socrate non sappia nulla: come tutti ha un sapere delle cose comuni, sa per esempio che il giovane Teeteto è figlio di Eufronio di Sunio; oltre a una serie di certezze morali, in particolare che commettere ingiustizia è sempre un male. Anche se in seguito, in età ellenistica e romana, l’atteggiamento socratico sarà compendiato nella formula paradossale, poi divenuta luogo comune, “sapere di non sapere”, formula che non ricorre mai nelle fonti antiche.
Sciolto l’enigma dell’oracolo, Socrate dedica il resto della vita, in totale povertà, a quello che lui stesso chiama “il servizio al dio”, cioè la missione di educare gli Ateniesi alla conoscenza di sé e alla cura dell’anima attraverso l’esame delle proprie credenze. Questa dedizione esclusiva che trasforma la sua vita in un bíos filosofico fa di Socrate il “padre della filosofia”, come lo ha definito Cicerone, e della filosofia un modo di vivere. Ne fa qualcuno, cioè, che vive da filosofo e per la filosofia a tempo pieno, escludendone per esempio l’impegno politico; tanto che nel Simposio, l’amico Apollodoro crede che filosofare significhi sapere ogni giorno ciò che Socrate dice e fa. Le parole rivolte agli “uomini di Atene” (ándres Athenaîoi) durante il processo e conservate nell’Apologia di Platone rappresentano il suo testamento spirituale: “[...] questo è addirittura il massimo bene per un uomo, parlare giorno dopo giorno della virtù e delle altre cose di cui voi mi sentite discutere, esaminando me stesso e gli altri, mentre una vita non soggetta a esame non è una vita per un uomo” (38a). Nella storia della filosofia occidentale forse soltanto Ludwig Wittgenstein ha eguagliato, come poteva farlo un uomo moderno, la dedizione di Socrate per la filosofia pura, quel qualcosa di “semplice e intimo” che era parte della sua natura e a cui dobbiamo l’eredità di un filosofo complesso come Platone e di tutte le filosofie di ispirazione socratica (Friedrich Schleiermacher, Sul valore di Socrate come filosofo, 27 luglio 1815).
La consapevolezza della propria ignoranza è una condizione necessaria della filosofia come “amore della sapienza”, perché ogni forma di desiderio implica la mancanza dell’oggetto desiderato. Le sole cose di cui Socrate si dirà esperto, per averle apprese da Diotima, donna di Mantinea dalle capacità profetiche, sono infatti “le cose d’amore” (ta erotiká).
Senofonte
Memorabili, III, 11.15 ss.
E Teodote: “Perché, allora, non diventi tu il mio collaboratore nella caccia degli amici?” “Se tu me ne convincerai” rispose. “Ma come ti potrei convincere?” chiese. “Lo cercherai tu stessa e inventerai uno stratagemma, se hai qualche bisogno di me.” “Allora vieni qui spesso, rispose”. E Socrate, ironizzando sul proprio modo di vivere in ozio: “Veramente, o Teodote”, rispose “non è affatto facile per me avere tempo libero; molti affari privati e pubblici infatti mi tengono impegnato; poi ho delle amiche che non mi permettono di abbandonarle né di giorno né di notte e imparano da me filtri e incantesimi.” “Sai anche queste cose, o Socrate?” chiese. “E perché pensi” rispose “che Apollodoro, questo qui, e Antistene non mi lascino mai? E perché mai Cebete e Simmia son giunti da Tebe? Sappi bene che questo non accade senza molti filtri, incantesimi e ruote magiche”. “Dammi dunque in prestito la ruota, perché io la spinga per prima cosa verso di te.” “In vero, per Zeus,” disse “non voglio essere portato verso di te, ma che tu venga da me.” “Certo che verrò, se solo mi accogli.” “Sicuro che ti accoglierò” rispose “se non c’è in casa nessuna più cara di te”.
Senofonte, Memorabili, trad. it. di A. Santoni, Milano, BUR, 1989
Proprio nel Simposio, il dialogo che Platone dedica al tema dell’amore, emerge per voce di Alcibiade tutta l’atopía, la stranezza e l’unicità di Socrate, che non assomiglia a nessun uomo del passato o del presente ma solo ai satiri e ai sileni: átopos significa alla lettera “privo di un luogo”, dunque non classificabile. La prospettiva di Alcibiade è chiara e rispecchia fin troppo bene quel fraintendimento dell’opinione pubblica a cui Socrate è andato tristemente incontro: brutto fuori ma con un tesoro celato al suo interno, è infatti accusato, dai sofisti come anche da Alcibiade e forse dai suoi giudici, di “ironia” (eironeía). L’ironia socratica è dunque in origine un biasimo che gli altri rivolgono a Socrate, ovvero l’accusa di dissimulare ciò che è in realtà – un uomo sapiente – agli occhi di chi lo frequenta, mostrandosi, al contrario e in modo ingannevole, ignorante; oltre al fatto che l’aspetto silenico lo fa sembrare intemperante, mentre il comportamento ne rivela tutta la temperanza (sophrosyne). È quindi qualcosa di ben diverso da quella che in seguito sarà la figura retorica dell’antìfrasi, ovvero dire qualcosa volendo significare il contrario.
Alla sua eccezionale resistenza fisica di fronte ai dolori (kartería), per esempio al freddo e alla fatica, come quando a Potidea rimane fermo in piedi a pensare dall’alba all’alba del giorno dopo, senza mangiare né dormire, corrisponde un’altrettanto rara forza morale riguardo ai piaceri del corpo (enkráteia) come la bellezza del giovane Alcibiade, alla quale resiste lasciandolo frustrato e deluso. E d’altra parte la stessa coscienza di non essere sapiente è una forma di moderazione intellettuale che corrisponde al dominio delle passioni in ambito morale. Questa accusa di dissimulazione deriva da un fraintendimento della vera natura di Socrate, che si interessa ai giovani per educarli a prendersi cura della propria anima e non per scambiare la sua presunta sapienza con la loro bellezza fisica, come crede Alcibiade e come vorrebbe il tradizionale rapporto tra l’amante maturo e il giovane amato. Un ultimo tratto caratteristico dell’atopía di Socrate è la capacità di ammaliare come il satiro Marsia chi lo ascolta, ma “con le semplici parole”, senza l’ausilio della musica; e l’effetto persuasivo dei suoi logoi sopravvive anche alla sua presenza, ripetendosi invariato chiunque sia a pronunciarli e ad ascoltarli.
Platone
Simposio, 215d-216c
[Alcibiade:] Per quanto ci riguarda, certo, quando invero ascoltiamo un altro oratore, anche molto virtuoso, esporre discorsi di altro genere, non ce ne importa un bel nulla, per così dire, a nessuno; ma quando uno ascolta te o un altro che pronuncia i tuoi discorsi, per quanto sia di poco conto colui che li pronuncia, e che sia una donna ad ascoltare o un uomo o un ragazzino, ne siamo sbalorditi e ne veniamo posseduti. Io, signori, se non rischiassi di sembrare completamente ubriaco, vi direi sotto giuramento gli effetti provocati dai suoi discorsi, che io stesso ho provato e provo ancora adesso. Perché quando lo ascolto, molto peggio di quanto avviene a chi subisce la musica dei coribanti, il cuore sobbalza e le lacrime mi sgorgano ai suoi discorsi, e vedo anche tutti gli altri subire i medesimi effetti. Mentre nell’ascoltare Pericle e altri buoni oratori ritenevo sì che parlassero bene, ma non provavo nulla di paragonabile, e il mio animo non era turbato né fremeva al pensiero di essere soggetto a servitù, a causa di questo Marsia qui, invece, mi sono trovato spesso in una condizione tale da ritenere che la mia vita non meritasse di essere vissuta nella situazione in cui mi trovo. E questo, Socrate, non potrai dire che non è vero. E ancora adesso sono ben conscio del fatto che se volessi porgergli le orecchie non resisterei, ma finirei per subire i medesimi effetti. Mi costringe infatti a convenire sul fatto che, pur essendo manchevole in molte cose, continuo a non prendermi cura di me stesso, ma mi occupo degli affari degli Ateniesi. Allora, a viva forza, tenendomi tappate le orecchie, me ne parto in fuga, come dalle Sirene, per evitare, sedutomi accanto a lui, di giungere alla vecchiaia al suo fianco. Mi è capitato solo davavnti a costui ciò che nessuno penserebbe che esista in me: provare vergogna di fronte ad un altro, chiunque egli sia. Ed io di lui solo mi vergogno. Sono infatti ben conscio di non poterlo contraddire asserendo che non bisogna fare ciò che questi comanda, ma quando mi allontano, mi lascio sopraffare dall’ossequio della folla. Allora lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, mi vergogno al pensiero di ciò che ho ammesso con lui. E spesso mi piacerebbe che lui non fosse tra i vivi; ma se d’altra parte ciò avvenisse, so bene che soffrirei molto di più, così che non ho idea di come comportarmi con quest’uomo.
Platone, Simposio, trad. it. di A. Giavatto, Siena, Barbera , 2008
In difesa del sommo bene umano di una vita esaminata, Socrate andrà incontro alla morte.
Platone
Lachete, 187e6-188a3
NICIA [...] chi sta vicino a Socrate e gli è amico e discute con lui, può iniziare a discutere di qualunque altra cosa, ma poi deve lasciarsi condurre dai suoi discorsi, finché non arrivi a render conto di se stesso, del modo in cui sta vivendo e di come ha vissuto in passato; e, arrivato a questo punto, sappi che Socrate non lo lascia andare via prima di aver saggiato ben bene tutte queste cose.
Platone, La Dialettica, trad. it. di W. Cavini , Firenze, Le Monnier, 1987
Il “fastidio” che la sua missione filosofica suscita negli interlocutori è implicito nell’immagine che sceglie per descrivere se stesso di fronte ai giudici: come un tafano che sprona un grande e pigro cavallo di razza, così il dio ha messo Socrate al fianco della città. Le tre imputazioni ufficiali nascondono la lunga maturazione, almeno ventennale, dell’insofferenza che gli Ateniesi hanno mostrato verso la sua atopía.
L’accusa di ateismo e di empietà, cioè di non credere negli dèi della polis (ateismo), nasconde la mancata comprensione della natura divina della missione di Socrate, nata da un oracolo di Apollo, che Socrate chiama eufemisticamente “il dio”; ma soprattutto della rivoluzione da lui compiuta nella teologia dell’Occidente. Come ha riconosciuto Gregory Vlastos (1991), Socrate per la prima volta afferma il principio per cui l’attributo essenziale della divinità è quello di essere buona, contrariamente al comune sentire greco, principio che sarà al centro della riforma educativa della Repubblica di Platone. Socrate dunque crede negli dèi della città e della Grecia, ma non nello stesso modo degli altri Greci. La seconda accusa di empietà, cioè di introdurre nuovi dèi nella polis (eterodossia), affonda le sue radici nelle “accuse antiche” formulate da Aristofane nelle Nuvole; e nasce dall’ammissione dello stesso Socrate di lasciarsi guidare talvolta da “qualcosa di divino e di demonico” (theîón ti kai daimónion), una voce o un segno che interviene da quando era ragazzo al solo scopo di trattenerlo dal fare qualcosa di ingiusto, per esempio dal fare politica o dal frequentare qualcuno. Non un nuovo dio o un demone, dunque, ma un segno divino o demonico, che Platone a differenza di Senofonte descrive solo come impediente e nel quale i moderni hanno voluto ravvisare la voce della coscienza.
Infine, l’accusa di corrompere i giovani sembra incompatibile con la sua professione di ignoranza e con l’aver sempre negato di essere un maestro, come ovvia conseguenza del non avere niente da insegnare. Dietro quest’ultima accusa si nascondono probabilmente due ragioni. Una ragione politica, cioè gli esiti nefandi della carriera politica di Alcibiade, Crizia e Carmide, che avevano frequentato Socrate con assiduità entrando a far parte per un certo periodo della sua synousía, cioè di quello “stare insieme” orizzontale, senza maestri né allievi, che consisteva nel passare il tempo esaminando reciprocamente le proprie credenze. Un motivo personale, cioè la vergogna retorica a cui sono esposti i sapienti della città quando i giovani smascherano pubblicamente la loro insipienza imitando Socrate e il suo modo di interrogare. Le parole che Alcibiade rivolge ai partecipanti al simposio del 416 a.C. nascondono, infine, il giudizio di Platone sugli “uomini di Atene” che hanno condannato Socrate: “[...] sappiate bene che nessuno tra di voi lo conosce davvero” (Simposio, 216c-d).
Il modo socratico di dialogare è fatto di domande e risposte brevi e pertinenti e, secondo Platone, è aporetico, cioè porta da premesse plausibili a conclusioni implausibili. Il termine comunemente usato per indicarlo è élenchos, che in greco moderno significa “controllo”, il controllo a distanza del telecomando o quello scolastico della pagella e del registro.
L’élenchos di Socrate è una “verifica” delle credenze del suo interlocutore, di norma un presunto sapiente. Interrogato da Socrate su che cosa sia ciò di cui si dice esperto, per esempio il coraggio, sostiene una certa tesi p di partenza e in seguito concede una serie di premesse q, r... che corrispondono a credenze irrinunciabili del senso comune, ma da cui deriva necessariamente una conseguenza incompatibile con p. Ma non è possibile mantenere p e insieme le premesse q, r... da cui deriva la conclusione incompatibile con p; dunque l’interlocutore è costretto a fare una scelta e, non potendo rinunciare alle sue credenze basilari, rifiuta la tesi di partenza, riconoscendola falsa. In questo modo viene confutato, liberandosi della presunzione di sapere qualcosa che in realtà non conosce e trovandosi in uno stato di aporía, alla lettera “senza una via d’uscita”, cioè incapace di rispondere alla domanda iniziale (che cos’è il coraggio?). Recuperare la coscienza della propria ignoranza è il solo modo di sfuggire alla trappola della amathía o “ignoranza doppia”, cioè l’ignoranza di chi non sa ma presume di sapere, e di conseguenza non desidera intraprendere alcuna ricerca della verità.
Scopo ultimo dell’esame socratico è conoscere le virtù, che ne costituiscono l’oggetto d’indagine privilegiato, per potersi comportare in modo virtuoso. Nella Grecia del V secolo a.C. esiste un’educazione a leggere, scrivere, far di conto ed esercitarsi con il corpo, ma non esiste un’educazione del bene e del male se non quella affidata ai premi e alle punizioni, e alle leggi. Non esiste un insegnamento morale – ed è ciò che colpisce Socrate – per cui i nostri valori di scelta sono affidati alla routine piuttosto che alla riflessione e all’apprendimento da un maestro. Il V secolo a.C. rappresenta il trionfo delle téchnai – di cui Sofocle tesse l’elogio nell’Antigone – ma non c’è una techne che insegni a essere persone per bene. Il modello assunto implicitamente è quello di Pindaro: che ciò avvenga per natura; e costituirà il problema del Menone platonico: se la virtù si acquisisca per natura, per insegnamento o per caso. Per colmare questa lacuna educativa, Socrate ritiene un dovere morale di ogni uomo interrogarsi su cosa siano il coraggio, la giustizia, la temperanza e la santità. La sua tesi paradossale è che conoscere la virtù sia condizione necessaria e sufficiente per essere un uomo virtuoso: come colui che conosce la matematica è un matematico, così chi sa che cosa è bene fare non può non farlo e chi sa che cosa è male lo evita necessariamente. Questa identità tra virtù e conoscenza porta a un secondo paradosso, ovvero la negazione dell’akrasía o “debolezza morale”, condizione in cui si trova chi pur sapendo che qualcosa è male lo fa ugualmente, spinto dal desiderio o vinto dal piacere – un tipico caso moderno è quello del fumatore. L’acquisizione di un sapere morale, tuttavia, è solo il fine ultimo a cui tende l’esame socratico, difficilmente conseguibile; l’élenchos ha anche uno scopo prossimo, a portata di ognuno, che consiste nell’adottare uno stile di vita coerente con il logos béltistos, cioè con quelle credenze che siano risultate provvisoriamente le migliori per essere sopravvissute all’esame ripetuto dell’élenchos.
Platone
Critone, 46b-c
SOCRATE Caro Critone, la tua premura è assai lodevole, se fosse accompagnata da una qualche rettitudine; altrimenti, quanto essa è maggiore, tanto più è per me incresciosa. Bisogna che noi e-saminiamo se queste cose siano da farsi oppure no, poiché io sono un uomo fatto in modo tale – e non solo ora, ma sempre – da prestare ascolto, tra le cose di cui dispongo, soltanto al discorso che all’esame del ragionamento mi paia il migliore. I discorsi che facevo prima non li posso ripudiare ora, giacché mi è capitata questa sorte, ma anzi essi mi appaiono pressoché simili, e io venero e onoro i medesimi discorsi che veneravo e onoravo anche prima. Se al momento presente non abbiamo nulla di meglio di loro da dire, sappi bene che non ti darò mai retta, neppure se la potenza dei molti, che già ci infligge catene, morti e confische di beni, agitasse di fronte a noi, come a dei bambini, lo spauracchio di un numero ancora maggiore di mali rispetto a quelli che ci sono già adesso.
Platone, Critone, a cura di A. Linguiti, Firenze, Sansoni, 1984
In un solo dialogo, il Teeteto, Platone attribuisce a Socrate un metodo “segreto” diverso dall’élenchos, e lo fa ricorrendo a un paragone tra la sua arte e quella delle levatrici. Socrate è figlio di una levatrice con un provvidenziale (e sospetto) nome parlante: Fenarete significa infatti “che fa venire alla luce la virtù”. Come le levatrici fanno partorire figli ai corpi delle donne gravide, così Socrate fa partorire pensieri alle menti degli uomini che hanno le doglie. La sua “arte maieutica” lo accomuna alla dea Artemide, protettrice del parto ma “senza parto”, perché come la dea, e a differenza delle levatrici che sono sterili per ragioni biologiche ma hanno avuto l’esperienza del parto, Socrate non ha mai generato alcun pensiero.
Platone
Teeteto, 148e-150c
TEETETO Sappi bene, però, Socrate, che più volte ho intrapreso l’esame di questo problema, quando udivo ciò che mi riferivano delle tue domande, ma in realtà non riesco a persuadere me stesso che sono in grado di fornire una risposta in qualche modo adeguata, né riesco a sentire un altro rispondere così come tu richiedi, e d’altra parte non mi è possibile nemmeno sbarazzarmi dell’assillo che la questione mi procura.
SOCRATE È il segno che hai le doglie, caro Teeteto, non essendo tu vuoto bensì gravido.
TEETETO Non lo so, Socrate; esprimo solo ciò che provo.
SOCRATE E allora, ridicola creatura, non hai sentito dire che io sono figlio di una levatrice, davvero nobile e maschia, Fenarete?
TEETETO Questo sì, l’ho già sentito.
SOCRATE Hai anche sentito, allora, che pratico lo stesso mestiere?
TEETETO Mai.
SOCRATE Ma sappi che è così. Solo non denunciarmi agli altri; ho infatti tenuto nascosto, amico mio, di possedere quest’arte, e loro, poiché ne sono all’oscuro, non è questo che dicono di me, bensì che sono il più strano degli esseri e suscito aporie negli uomini. Anche questo, l’hai sentito?
TEETETO Io sì.
SOCRATE Debbo dunque dirtene la causa?
TEETETO Certamente.
SOCRATE Poni allora attenzione a tutto quanto riguarda l’attività della levatrice, e imparerai piuttosto facilmente cosa voglio dire. Suppongo infatti che tu sappia che nessuna di loro, sino a che è ancora in grado di concepire e di generare, fa da levatrice ad altre, ma lo fanno soltanto quelle alle quali è ormai impossibile generare.
TEETETO Certamente.
SOCRATE Responsabile di ciò, a quanto si dice, è Artemide, che, pur essendo “senza parto”, ebbe in sorte di proteggere il parto. Alle donne sterili, per conseguenza, non ha concesso di fare le levatrici, perché la natura umana è troppo debole per acquisire un’arte che concerne cose di cui non ha esperienza. Ha invece attribuito l’incarico a quelle che, per l’età, non sono in grado di procreare, onorandone la somiglianza con se stessa.
TEETETO È probabile.
SOCRATE Anche questo dunque è probabile e anzi necessario, cioè che le levatrici meglio di altre riconoscano quelle che sono incinte e quelle che non lo sono?
TEETETO Certo che sì.
SOCRATE E inoltre naturalmente le levatrici, somministrando blandi farmaci e pronunciando incantamenti, possono sia stimolare sia, se vogliono, rendere meno dolorose le doglie, e far partorire le donne che hanno difficoltà; e se sembra opportuno far abortire un feto ancora immaturo, allora procurano l’aborto?
TEETETO È così. [...]
SOCRATE Ora, la mia arte ostetrica presenta tutte le caratteristiche che appartengono a quella delle levatrici, essa differisce però nel fatto che io faccio partorire uomini, non donne, e sorveglio le loro anime partorienti, non i corpi. Ma la più importante caratteristica inerente alla nostra arte è questa, che chi la possiede è in grado di saggiare in ogni modo se la mente del giovane dà alla luce una mera immagine e una falsità, o qualcosa si fertile e di vero. Poiché anch’io mi trovo, quanto a questo, nella stessa condizione delle levatrici: sono incapace di generare sapienza. [...]
Platone, Teeteto, trad. it. di S. Nannini, Torino, Einaudi, 2011
Questa affinità è la ragione per cui nell’Accademia si festeggerà la sua nascita nello stesso giorno del natalizio di Artemide, il sesto del mese di Targelione (maggio-giugno). Il motivo dell’ignoranza va allora aggiornato: Socrate non è sapiente perché non ha avuto maestri, perché non ha acquisito un sapere esperto in seguito a una ricerca personale o comune, ma anche perché non lo ha generato lui stesso. Non è dunque per esperienza che ha acquisito l’arte maieutica, ma la esercita per volere del dio come una vocazione.
In che cosa la maieutica si distingue dall’élenchos? In primo luogo i loro destinatari sono diversi: Socrate può esercitare quest’arte solo con chi si presenti a lui già nello stato di aporía in cui consiste la gravidanza intellettuale. Il giovane Teeteto, per esempio, ha l’assillo perché non riesce a smettere di chiedersi che cosa sia la conoscenza, ma da solo non ha le risorse per rispondere esprimendo il proprio pensiero in merito. L’arte maieutica di Socrate è in grado di far cessare le sue doglie spontanee aiutandolo a “far crescere” e quindi a partorire questo pensiero. Il compito maieutico più importante consiste, tuttavia, nel saggiare la bontà della credenza partorita per stabilire se è vera, e di conseguenza merita di essere allevata, oppure falsa e dunque da abbandonare. Questa seconda fase della maieutica consiste di fatto in un élenchos, con la differenza che il pensiero sottoposto a esame è stato generato. Nel caso di Teeteto, l’unico offerto dai dialoghi platonici, l’esito è negativo: le tre credenze sulla conoscenza partorite dal giovane sono confutate, lasciandolo “vuoto” e cosciente della propria ignoranza, e quindi pronto per una nuova ricerca.
Il discepolo di Socrate, che nelle Nuvole abortisce un pensiero, non sembra poter condividere l’arte maieutica del Teeteto, dove non si assiste mai all’aborto, ma solo alla confutazione di credenze che una volta partorite risultano false; così come il motivo maieutico è assente in Senofonte.
Aristofane
Le Nuvole, vv. 133-137
DISCEPOLO: In malora! Chi è che bussa alla porta?
STREPSIADE: Strepsiade figlio di Fidone, del demo di Cicinna.
DISCEPOLO: Che ignorante, per Zeus! Ma tu non sei capace di meditare? Prendere a calci la porta con tutta la tua forza – e così hai fatto abortire il pensiero escogitato.
Aristofane, Le Nuvole, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Mondadori, 1996
Nel Simposio, l’arte promnestica, cioè la raffinata abilità di combinare matrimoni che è parte della maieutica platonica, è trasformata volgarmente nell’arte del mezzano e attribuita (da Socrate) ad Antistene.
Senofonte
Simposio, IV, 63-64
[Socrate:] Poi mi hai fatto l’elogio di Eschilo di Fliunte, e a lui hai parlato bene di me, e così, con le tue intromissioni, ci hai fatto innamorare, e ci hai ridotti come due cani da usta alla ricerca l’uno dell’altro. Vedendo dunque le tue capacità in questo campo, mi pare giusto concludere che tu sia un buon mezzano. Perché chi è in grado di riconoscere le persone capaci di utilità reciproca, e di far sì che esse si desiderino, costui mi pare in grado anche di favorire l’amicizia tra città, [alleati] ed amici. Ma tu te la sei presa con me, come se dire che sei un buon mezzano fosse cosa offensiva.
Senofonte, Simposio, trad. it. di M. Vitali, Milano, Bompiani, 1993
Il motivo maieutico appartiene dunque a Platone, che fa di Socrate – del Socrate sopravvissuto nei suoi dialoghi – la levatrice della filosofia. Il destinatario della maieutica non ha infatti alcuna presunzione di sapere, ma al contrario tende per natura alla ricerca della verità: il suo stato di aporía spontanea, accesa ma non costretta dalle parole di Socrate, non è altro che l’urgenza della vocazione filosofica. Il “segreto” dell’arte maieutica è dunque rivolto da Platone ai lettori filosofi dei suoi dialoghi; preservandone l’unicità, quello che Socrate è stato per lui può continuare a esserlo per noi.
“Non sempre la morte segna il confine di una vita in quanto termine esterno ad essa; talvolta ne è una parte, che ne prosegue la storia in modo significativo. Nel caso di Socrate, Abraham Lincoln, Giovanna d’Arco, Gesù e Giulio Cesare la morte fu un ulteriore episodio della loro vita e non semplicemente una fine, e noi possiamo pensare le loro vite nella prospettiva di quelle morti imperiture” (Robert Nozick, La vita pensata, 2004, p. 22).
La morte di Socrate è l’evento che ha reso la sua vita immortale. Quando è ancora “alba profonda” e riceve in carcere la visita dell’amico Critone, Socrate ha appena fatto un sogno: una donna biancovestita gli è apparsa dicendogli “fra tre giorni giungerai a Ftia, fertile terra”. Socrate non ha alcun dubbio sul significato del sogno: dopo un lungo mese di attesa, il dio vuole informarlo che fra tre giorni morirà; e trattandosi di un sogno divinatorio è destinato ad avverarsi.
Platone
Critone, 43a-44b
SOCRATE Perché sei venuto a quest’ora, Critone? O non è ancora presto?
CRITONE Sì, è proprio così.
SOCRATE Che ora, di preciso?
CRITONE Alba profonda.
SOCRATE Mi meraviglio che il guardiano della prigione sia stato disposto a farti entrare.
CRITONE Ormai è mio amico, Socrate, a forza di venire qui, e ha anche avuto da me qualche beneficio.
SOCRATE Ti trovi qui da poco o da molto?
CRITONE Da un bel pezzo.
SOCRATE E allora, perché non mi hai svegliato subito e invece te ne stai seduto qui accanto in silenzio?
CRITONE Per Zeus, Socrate, no, neanch’io vorrei vegliare insonne in una situazione tanto dolorosa, e anzi da un pezzo mi meraviglio di te vedendo come dormi dolcemente; e apposta non ti ho svegliato, affinché tu trascorressi il tempo nel modo più dolce possibile. E spesso ti ho giudicato felice per il tuo carattere, certo anche prima, durante tutta la tua vita, ma molto di più nella sventura che adesso ti si presenta, tanto serenamente e mitemente la sopporti.
SOCRATE E infatti sarebbe fuori luogo, Critone, che un uomo della mia età provasse rammarico se ormai è necessario che muoia.
CRITONE Eppure, Socrate, altri della tua età sono sorpresi da tali sventure, ma l’età non li solleva per nulla dal provare rammarico per la sorte imminente.
SOCRATE È vero. Ma perché, insomma, sei venuto così presto?
CRITONE Per portarti una dura notizia, Socrate, non per te, a quanto pare, ma per me e per tutti i tuoi amici intimi dura e grave, e che io, come mi sembra, sopporterò con maggiore difficoltà di tutti.
SOCRATE Quale notizia? È forse giunta da Delo la nave al cui arrivo devo morire?
CRITONE No davvero, non è arrivata, ma a mio parere arriverà oggi, a giudicare da quanto riferiscono alcuni giunti dal Sunio e che l’hanno lasciata là. Da questi messaggeri è chiaro che arriverà oggi, e sarà dunque necessario che domani, Socrate, tu concluda la tua vita.
SOCRATE Ma con buona sorte, Critone; se così piace agli dèi, così sia! Pur tuttavia non credo che arriverà oggi.
CRITONE Da cosa lo congetturi?
SOCRATE Te lo dirò. È necessario, suppongo, che io muoia il giorno successivo a quello in cui arriverà la nave.
CRITONE Così, almeno, dicono i responsabili di queste cose.
SOCRATE Dunque penso che essa arriverà non nel giorno che viene, bensì in quello seguente. Lo congetturo, infatti, da un certo sogno che ho fatto poco fa, questa stessa notte; e direi proprio che hai fatto bene a non svegliarmi!
CRITONE E allora, qual era il sogno?
SOCRATE Mi pareva che una donna bella e di nobile aspetto, venendomi incontro con indosso vesti bianche, mi chiamasse e mi dicesse:
O Socrate, il terzo giorno giungerai a Ftia, fertile terra.
CRITONE Che strano sogno, Socrate!
SOCRATE Ma evidente, Critone, almeno per quanto mi sembra.
CRITONE Anche troppo, a quanto pare.
Platone, Critone, trad. it. di C. Capuccino
La scelta che gli si prospetta non riguarda allora la possibilità di salvare la propria vita accogliendo il piano di fuga dell’amico, ma soltanto il modo in cui morire. Rimanendo al suo posto in attesa che venga eseguita la sentenza di morte, Socrate rende questa morte il coronamento della sua vita di filosofo; una vita all’insegna del vivere bene, cioè con giustizia e virtù, ma soprattutto una vita in cui le azioni e i comportamenti seguono con coerenza il pensiero fino alle sue estreme conseguenze, e il pensiero è sottoposto costantemente a esame affinché risulti sempre il migliore possibile per un uomo. Se avesse rinnegato, durante il processo, il valore di una vita esaminata, Socrate sarebbe sopravvissuto, ma a discapito della cura di sé e della propria anima a cui aveva dedicato l’intera vita; la sua scelta di “parlar chiaro” incurante dei pericoli che ciò comporta (parresía) è, al contrario, il coraggioso omaggio che rivolge a questa vita. Allo stesso modo, fuggendo dal carcere avrebbe tradito le leggi di Atene, con le quali aveva contratto un patto tacito come cittadino, senza mai porle in discussione. Scegliendo di restare dimostra loro la sua completa fedeltà, senza per questo condividere la sentenza degli uomini che lo hanno giudicato. Socrate è dunque un esempio di coerenza morale e un eroe del pensiero: la sua vita sarebbe stata diversa se la morte non fosse stata quella che è stata.
Il sogno che apre la scena del Critone platonico ci mostra l’atteggiamento del filosofo di fronte alla morte. Nell’Apologia, Socrate dichiara di non sapere se la morte sia un bene o un male, le sue ultime parole lo confermano: “Ma ormai è ora di andare (allà gar ede ora apiénai), io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso il meglio, è oscuro a tutti tranne che al dio” (42a). Ma ci sono ottime ragioni per sperare sia un bene, dal momento che il segno demonico non si è opposto a che si recasse in tribunale il giorno del processo; e delle due cose l’una: o la morte è non essere nulla e non provare più alcuna sensazione, come in un lungo e dolcissimo sonno senza sogni, oppure è un trapasso e un trasloco dell’anima da qui a un altro luogo, dove, se è vero quel che si dice, incontrerà le anime degli altri morti e potrà dialogare con menti straordinarie come quelle di Omero e di Odisseo.
Platone
Apologia di Socrate, 40a-42a
Quella solita voce profetica, quella dell’essere demonico, in tutto il mio passato si faceva sentire sempre, con estrema frequenza, opponendosi anche nelle faccende più minute, se mi accingevo a fare qualcosa non correttamente. Ma ora mi è capitato quello che, lo vedete anche voi, potrebbe essere ritenuto, e così è reputato, l’estremo male: il segno del dio non si è opposto a me né quando uscivo di casa questa mattina, né quando mi dirigevo qui al tribunale, né mai durante la mia difesa quando stavo per dire qualcosa. Eppure in altre circostanze mi aveva frenato spesso nel bel mezzo del discorso. Ora invece, nel corso di questa vicenda, non si è mai opposto né alle mie azioni né alle mie parole. A cosa suppongo che sia dovuto? Ve lo dirò: forse questo che mi è accaduto è un bene, e non è possibile in alcun modo che noi, quanti pensiamo che morire sia un male, avanziamo la supposizione corretta. Ne ho avuta una prova sicura: non sarebbe stato possibile infatti in alcun modo che il solito segno non mi si opponesse, se non stavo per fare qualcosa di buono.
Riflettiamo anche da questo punto di vista, perché ci sono ottime ragioni per sperare che questo sia un bene. Delle due cose la morte o è l’una o è l’altra: o è non essere nulla e il morto non ha alcuna sensazione di nulla, oppure, secondo quanto si dice, è in qualche modo un mutamento e una trasmigrazione dell’anima da questo a un altro luogo. E se non c’è alcuna sensazione ma la morte è come un sonno, quando uno dorma addirittura senza sogni, meraviglioso guadagno sarebbe la morte – io infatti penso che, se qualcuno dovesse scegliere quella notte nella quale ha dormito in modo tale da non vedere neppure un sogno, e dovesse confrontare le altre notti e i giorni della propria vita con questa notte, e riflettendo dovesse dirci quali giorni e notti ha vissuto meglio nella sua vita e più dolcemente di questa notte, io penso che, non dico un cittadino comune, ma il Gran Re in persona scoprirebbe che può facilmente fare il conto di questi a confronto con gli altri giorni e notti. Se dunque la morte è così, quanto a me dico che è un guadagno: l’eternità del tempo pare essere così nulla più di una sola notte. Ma se, per converso, la morte è come un viaggio da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che lì ci sono tutti i morti, quale bene ci sarebbe maggiore di questo, giudici? Se infatti uno giunto all’Ade, liberatosi di questi sedicenti giudici, troverà giudici per davvero, quelli che appunto si dice giudichino là, Minosse e Radamanto, Eaco e Trittolemo e quanti altri fra i semidei furono giusti nella loro vita, sarebbe forse un viaggio da poco? O ancora, per stare insieme con Orfeo Museo Esiodo e Omero quanto pagherebbe uno di voi? Io vorrei morire molte volte, se questo è vero. Che per me, infatti, sarebbe straordinario passare là il tempo, se incontrassi Palamede e Aiace Telamonio e chiunque altro degli antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando i miei casi ai loro – il che penso non sarebbe sgradevole – e poi la cosa più importante di tutte, continuare nel tempo a esaminare quelli di là come ho fatto con questi qui, e a cercare, per appurare chi di loro è sapiente e chi pensa di esserlo, ma non lo è. Quanto non pagherebbe, uno, giudici, per esaminare chi ha condotto quell’esercito grandioso contro Troia, od Odisseo o Sisifo e mille altri che si potrebbero citare, uomini e donne: parlare là con loro e stare insieme ad esaminarli sarebbe l’inesprimibile colmo della felicità. Ad ogni modo loro non mettono certo a morte per questi motivi. Che non solo per altri aspetti sono più felici quelli di là che quelli di qua, ma anche perché sono diventati ormai immortali per l’eternità, sempre che quello che si dice sia vero. [...] Ma ormai è giunta l’ora di andarmene, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso la condizione migliore, è oscuro a tutti tranne che al dio.
Platone, Apologia di Socrate, trad. it. di S. Nannini, Siena, Barbera, 2007
Qualunque sia tra le due la verità, la morte è per Socrate un bene e una “terra fertile”. Come Ftia, in Tessaglia, è il luogo natio di Achille, e la decisione di tornarvi abbandonando la guerra gli salverebbe la vita fisica privandolo dell’onore e della gloria, così nel destino incrociato di Socrate è la morte a essere una fertile dimora, preservando il senso di una vita vissuta al servizio della filosofia; mentre continuare a vivere per umana codardia getterebbe un’ombra irremovibile su quella stessa vita. Questo è l’ultimo, estremo tratto caratteristico della sua atopía.
La morte scelta è un bene per Socrate perché corona il sommo bene umano di una vita esaminata: felix Socrates, dunque – citando un bel titolo di Vlastos –, perché è la coerenza di pensiero e di vita che dà la felicità, malgrado il sofista Antifonte lo giudichi infelice. Ed è un bene per la filosofia, perché fa sì che la vita di Socrate e l’opera di Platone possano rendersi immortali a vicenda.
Senofonte
Memorabili, I, 6
[...] Antifonte infatti una volta si recò da Socrate con l’intenzione di portargli via i compagni e, alla presenza di questi ultimi, gli disse: “Io pensavo che quelli che si dedicano alla filosofia, o Socrate, dovessero diventare più felici; ma mi pare che dalla filosofia tu ottenga risultati opposti. Per esempio, tu conduci un tipo di vita come non la sopporterebbe neanche uno schiavo messo a rigore dal padrone. Mangi e bevi cibi e bevande modestissimi, indossi un mantello che non solo è di cattiva qualità, ma è lo stesso estate e inverno, e vivi costantemente senza scarpe e senza chitone. E per di più non accetti il denaro, che porta gioia a chi lo acquista e fa vivere in modo più conveniente a un uomo libero e più piacevole chi lo possiede. Se dunque, come i maestri delle altre discipline fanno diventare i propri scolari loro imitatori così intendi fare anche tu con i tuoi, sappi che sei un maestro di infelicità”.
Senofonte, Memorabili, trad. it. di A. Santoni, Milano, BUR, 1989