SOCRATE (Σωκράτης, Socrătes)
La vita. - L'iniziatore del grande periodo attico della filosofia classica morì nel marzo del 399 a. C. (tra antesterione ed elafebolione del primo anno dell'olimpiade 95ª); e giacché la migliore tradizione attesta che egli aveva allora settant'anni, così la data di nascita viene a cadere nel 470-69, o sulla fine dell'anno precedente (il giorno non è determinabile con sicurezza, perché quello poi festeggiato come tale nell'Accademia, e cioè il sesto del mese di targelione corrispondente a un giorno della prima metà di maggio, sembra fissato in funzione non della realtà storica ma della coincidenza col giorno solennizzato dai Delî quale natalizio di Artemide: questa infatti, protettrice della maieutica, poteva apparire divinità tutelare di S. nello stesso modo in cui il giorno successivo, che i Delî consideravano come natalizio di Apollo, era nell'Accademia celebrato come genetliaco di Platone). Nato nel demo attico di Alopece, che era il sobborgo industriale di Atene, S. era figlio di uno scultore, Sofronisco, e di Fenarete, la quale, forse soltanto quando a ciò la spinsero difficoltà economiche della famiglia, esercitò il mestiere di levatrice. S. non sembra infatti sia stato allevato in strettezze, e il padre dové lasciargli tanto da permettergli di vivere, sia pure modestamente, senza esercitare egli stesso il mestiere dello scultore (leggendaria è infatti la notizia che un gruppo delle tre Grazie, che si vedeva all'ingresso dell'Acropoli, fosse stato scolpito da lui); e la grande povertà, che gli viene attribuita da più d'una fonte, deve soprattutto riferirsi all'ultimo periodo della sua vita, quando egli, ammogliatosi in età relativamente tarda (al tempo del processo, poco prima della sua morte, il maggiore dei figli era ancora adolescente) fu costretto ad opporre alle nuove esigenze finanziarie una sempre maggiore sobrietà di costumi. Pochissimo d'altronde è noto della sua vita familiare, della quale S., tutto preso dal suo ideale di ricerca, non dové occuparsi molto; e nelle nebbie dell'incertezza svanisce anche la figura della moglie Santippe (v.). L'iniziale agiatezza, sia pur relativa, di S. si manifesta anche nel fatto che egli compì il suo servizio militare come oplita: fu allora che, nel decennio tra il 432 e il 422, prese parte alle battaglie di Potidea, di Delio e di Anfipoli, salvando a Potidea la vita e le armi al ferito Alcibiade e dando nella ritirata ateniese di Delio il migliore esempio di serena fermezza. Furono le sole volte che S., fedele alla sua città non meno che alle sue leggi e più curioso degli uomini che della natura, abbandonasse Atene. Ma, come lo interessava la riflessione e la discussione sui principî e sui criterî della politica, così non aspirava alla diretta partecipazione alla vita dello stato: non poté tuttavia evitare di far parte della bulè, ed era fra i pritani quando, nel 406, gli strateghi vincitori nella battaglia navale delle Arginuse furono accusati di non aver provveduto adeguatamente alle estreme onoranze per i caduti ateniesi. In tale occasione S. dimostrò la stessa impavida fermezza di cui aveva dato prova sui campi di battaglia, opponendosi al popolo che tumultuava e pretendeva si seguisse una procedura illecita: e nulla toglie al significato della sua opposizione il fatto che essa non bastasse poi ad evitare la condanna di quegli strateghi. Con pari energia e dignità S. si comportò quando, durante il governo dei Trenta tiranni, ebbe da questi, che desideravano di crearsi il maggior numero possibile di corresponsabili, l'ordine di partecipare alla cattura di Leone di Salamina, che doveva essere condotto a morte. Rifiutò nettamente, unico dei cinque a cui era pervenuto tale ordine, e forse avrebbe pagato tale disobbedienza con la morte se il regime dei Trenta non fosse presto caduto (Plat., Apol., 32).
Ma ciò che non poté accadere durante l'oligarchia avvenne dopo che fu restaurata quella democrazia di fronte alla quale S. aveva egualmente dimostrato, nell'occasione del processo degli strateghi, il suo senso incondizionato del dovere e della legge. S. fu accusato da Meleto, di fronte al popolo ateniese, perché "agiva illecitamente, in quanto non credeva agli dei a cui credeva la città e introduceva divinità (δαιμόνια) nuove, e inoltre in quanto corrompeva la gioventù". Pena . richiesta era la morte. Meleto, giovane di scarso rilievo, che pare fosse irritato per la dimostrazione socratica dell'inconsapevolezza dei poeti quanto all'essenza della loro arte (forse era figlio del poeta Meleto, ricordato da Aristofane) dovette essere poco più che una comparsa: dietro di lui era Anito, ricco mercante di pelli e rozzo demagogo, che più di ogni altro impersonava l'astio della peggiore democrazia contro l'implacabile critica di S. Terzo era il retore Licone, forse (giusta un accenno di Platone) esponente dell'insofferenza della classe oratoria per il modo di argomentare di S., nemico dei "lunghi discorsi" e ironizzatore di ogni empito retorico, forse semplice avvocato ai servizî degli altri due. Del modo in cui S. rispose alle accuse dei tre abbiamo un'idea attraverso i discorsi che gli fa pronunciare l'Apologia platonica, la quale, composta pochi anni dopo la morte di S., non poteva troppo divergere, per i suoi intenti artistici e apologetici, dalla realtà storica. La serena, e bonariamente ironica, fermezza di S., che si giustificò minutamente delle accuse ma non volle piegarsi al costume d'invocare la clemenza dei giudici, dovette irritare i cinquecento Ateniesi chiamati a decidere, e far pendere a suo sfavore una votazione che altrimenti si sarebbe presentata assai incerta: S. fu infatti dichiarato colpevole con soli sessanta voti di maggioranza. Invitato, secondo la procedura attica, a opporre alla pena chiesta dall'accusatore quella che egli pensava di meritare, rispose che, per ciò che aveva fatto alla città, credeva di dovere essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo. Ciò dovette aumentare l'irritazione di una parte dell'assemblea, che lo condannò quindi a morte con una maggioranza di ottanta voti. L'esecuzione della sentenza fu peraltro ritardata di circa un mese, perché proprio il giorno prima era stata coronata la prora della nave sacra che recava le offerte degli Ateniesi a Delo, e fino a che la cerimonia non si fosse compiuta col ritorno della nave la città doveva restar pura da ogni esecuzione capitale. S. avrebbe avuto perciò tutto il tempo di accogliere il progetto di fuga, che il discepolo e amico Critone gli faceva e che connivenza di seguaci avrebbe reso effettuabile: ma preferì concludere la sua vita con un ultimo gesto di ossequio verso quelle leggi che era stato accusato di trasgredire e in nome delle quali si sentiva ingiustamente condannato. In carcere, secondo il celebre quadro che ne offre il Fedone platonico, circondato dagli amici e scolari e dopo aver filosoficamente discusso il problema della morte e dell'aldilà, bevve serenamente la cicuta.
La dottrina. - Com'è noto, S. non scrisse nulla; non amava (secondo ciò ch'egli dice nelle ultime pagine del Fedro platonico, e che certo gli appartiene nonostante che quel dialogo sia relativamente tardo) il discorso scritto, che non sa difendersi da sé e la cui rigidità è giustificata solo da un'ambizione letteraria, ma il discorso parlato, che vive e combatte e genera nuovi discorsi. Questo, che è il tratto fondamentale dell'attività di S., è insieme la causa dell'enorme difficoltà che s'incontra nel ricostruire i lineamenti storici della sua figura, la quale ci è nota solo attraverso fonti di diversa natura e di diverso spirito, in cui l'intento dell'apologia e dell'integrazione ideale dell'immagine del maestro soverchia non di rado l'esigenza della semplice esposizione storica: e dei problemi che esse sotto questo aspetto presentano sarà fatto cenno più oltre. Ciò che S. sostanzialmente fu, risulta d'altronde con bastevole nettezza sia dal complesso dei dati in cui si possono considerare consenzienti tutte le fonti (tra le quali, come si vedrà, la critica più recente tende a vedere meno forti contrasti di quanti scorgesse quella più antica), sia dalle interpretazioni che le scuole socratiche dànno della dottrina del maestro, e che rimandano a un comune punto di partenza, tale che giustifichi il loro stesso divergere.
S. è anzitutto un critico, che vuol rendersi conto delle cose e perciò discute: il suo ideale è quello dell'ἐξεταζειν, dell'interrogare le persone per controllare le loro verità, cioè per vedere se i principî e i criterî su cui esse si basano nei loro giudizî e nelle loro azioni siano frutto di convinzione ragionata o semplice portato di abitudine. Da questo punto di vista egli è un fiero nemico della tradizione, non accogliendo alcun principio che non si giustifichi da sé medesimo ma si richiami comunque a un'autorità; e in ciò è il suo nesso col grande movimento sofistico del sec. V, che gli è in parte contemporaneo e di cui quindi, in tali limiti, può essere considerato partecipe. Per quanto incerta sia infatti la sua dipendenza da singole personalità della sofistica, innegabile appare l'affinità di certi atteggiamenti teorici o metodici. Leggendaria, p. es., è la massima parte di ciò che gli antichì raccontano circa quello che egli avrebbe attinto da Prodico, ma ciò non toglie che nelle indagini che questo sofista compiva per distinguere i significati dei sinonimi sia già un motivo della ricerca socratica, che analizzava e criticava tali distinzioni. S. è comunque più affine alla sofistica che al naturalismo ionico, alle cui dottrine deve pur essersi accostato in un certo periodo della sua giovinezza: donde la tradizione che lo fa scolaro dell'anassagoreo Archelao, e la possibilità stessa del racconto contenuto nel Fedone platonico, secondo il quale S., incuriosito della dottrina di Anassagora che poneva l'lntelletto a principio ordinatore dell'universo, avrebbe iniziato con entusiasmo la lettura del suo libro, ma sarebbe rimasto deluso in quanto il filosofo ionico concepiva quell'Intelletto come semplice causa primordiale e non già come divina provvidenza, argomentabile in base all'intrinseca perfezione teleologica di ogni parte dell'edificio cosmico. Infatti, se anche altri aspetti di questo racconto, appartenente a un dialogo della maturità di Platone, attribuiscono alla figura di S. tratti che piuttosto appartengono al suo grande scolaro, esso non può essere nella sua totalità incongruente rispetto al S. storico: e anche la caratteristica aristotelica, che poi ritorna in Cicerone e che rispecchia uno degli aspetti fondamentali dell'opera di S., secondo la quale questi rivolse la filosofia dallo studio della natura a quello dell'uomo, presuppone un suo iniziale interessamento per il naturalismo ionico.
Queste premesse generiche dell'attività di S. spiegano d'altronde l'idea sommaria che di lui si fanno i suoi contemporanei, e quindi anche i motivi della tanto discussa condanna. Della prima sono testimonianza tipica le Nuvole di Aristofane, rappresentate nel 424 e costituenti l'unico documento superstite circa S. che non sia posteriore alla sua morte: per quanto il fatto che esse non venissero accolte con pieno favore dimostri probabilmente come, fra il pubblico ateniese, non tutti la pensassero allo stesso modo sul conto di S. Qui egli presenta a un tempo i tratti di un naturalista in ritardo e quelli, discordi rispetto ai primi, di un sofista, nel senso più specifico di questa parola: assume, per riferirlo a due suoi contemporanei, per metà la fisionomia di Diogene di Apollonia e per metà quella di Protagora. Uomo del buon vecchio tempo, nemico delle novità che sente perigliose per i valori tradizionali, Aristofane non si attarda a distinguere, e rivolge i suoi strali contro colui che gli sembra il rappresentante più cospicuo di tutto il razionalismo e l'illuminismo del suo secolo. Tale considerazione di S. nella luce di quella cultura di cui egli è sì l'erede ma anche l'acerbo critico è d'altronde il motivo determinante della sua condanna. S. è, in questo senso, il martire di quella stessa sofistica che senza tregua mira a combattere e a superare. Alla sua condanna possono infatti concorrere anche motivi personali, così come vi contribuisce il fraintendimento, voluto o spontaneo, di ciò che egli chiama il δαιμόνιον, cioè il "segno divino, arcano" che lo trattiene dalle azioni non convenienti: δαιμόνιον che per lui è soltanto il simbolo del richiamo della coscienza, mentre i suoi accusatori lo trasformano nelle "nuove divinità", la cui predicazione mette in pericolo la religione riconosciuta dallo stato. E di tal genere è il motivo che forse influisce più immediatamente di ogni altro sull'animo dei borghesi di media levatura, chiamati dalla storia a decidere della vita e della morte di S.: il motivo dell'irritazione per l'implacabile e ironico suo interrogare, che dimostra agl'interlocutori la loro ignoranza nello stesso atto in cui prova l'inconsistenza di quel sapere, che pure si presenta come il sacro portato dalla tradizione. Ma il fondamentale motivo storico della fine di S. resta certo quest'ultimo carattere, antitradizionale e antiautoritario, della sua critica, senza il quale gli altri moventi rimarrebbero privi della necessaria giustificazione. S., in questo senso, mette in pericolo i fondamenti tradizionali dello stato greco, e perciò lo stato lo condanna: e il pericolo che egli rappresenta è costituito più dalla sua generale posizione critica che da particolari suoi atteggiamenti rispetto al problema dello stato, perché da tale punto di vista egli può essere considerato piuttosto come un difensore che come un disgregatore dello stato stesso. Alieno, infatti, dalla politica solo in quanto non presume di averne conquistata la scienza, ma pronto ad assumere ogni responsabilità e a sfidare ogni rischio per il rigido rispetto della legge, egli rispecchia pur nella sua critica la mentalità del democratico ateniese, il quale esige che di ogni cosa gli sia reso conto e all'obbedienza non vuol essere costretto con la forza ma convinto con la persuasione: e anche quando critica il sistema democratico della scelta delle cariche mercé l'elezione o il sorteggio, parte da un punto di vista che in fondo si avvicina di più all'ideale tradizionale della saggezza, perché presuppone che debba governare solo colui che possiede l'oggettiva scienza del governo.
Ma proprio in quanto la sua critica non conosce, in linea di principio, alcun limite, così essa viene a rendere ipotetica ogni norma, e quindi a suscitare il sospetto e la difesa di chi quelle norme impersona.
Questa giustificazione storica dei motivi della condanna di S. (su cui tante volte ha insistito, non di rado esagerando per reazione alle astratte deplorazioni, la storiografia dell'Ottocento) non esclude d'altronde che il contegno dei giudici ateniesi appaia ingiusto quando venga considerato dal più vasto angolo visuale onde S. si presenta nella sua piena fisionomia, non solo di continuatore ma anzi di oppositore e di superatore del movimento sofistico: secondo ciò che del resto è avvertito a non molta distanza di tempo dagli stessi Ateniesi, e che genera da un lato la leggenda delle vendette compiute contro gli accusatori e dall'altro l'idealizzazione della figura di S., assurta da allora in poi a simbolo della virtù morale e filosofica. La critica sofistica, che ha la sua maggiore espressione nel relativismo protagoreo, è essenzialmente negativa: pone in funzione della soggettività i valori oggettivi e perviene così a dissolverli, sostituendo al criterio della verità quello dell'utilità pratica, e all'ideale della dimostrazione scientifica del reale stato delle cose quello della persuasione oratoria, che fa vedere e sentire le cose nel modo in cui meglio giova. S. invece, pur sapendo di non poter muovere che dall'indagine e dal controllo soggettivo, è persuaso di dover giungere alla determinazione obiettiva di quei criterî di valore, che appaiono presupposti da ogni giudizio e azione. Che cosa è il bello e il buono, che cosa il giusto? Qual'è la "virtù" dell'uomo, cioè (secondo il significato della greca αρετή la perfetta rispondenza dell'azione umana alle sue esigenze intrinseche? A tali scoperte mira l'implacabile interrogare di S., il suo eterno τί ἐστιν; (quid est?): per questo egli interpella le persone più diverse, a cominciare dalle più umili, e studia il maggior numero possibile di casi singoli, cercando di risalire da essi all'unico concetto e all'unica definizione. Solo in questo senso (anche, come si vedrà, secondo il più genuino significato dei famosi accenni aristotelici) S. è l'inventore del concetto, dell'induzione e della definizione: e non già in quello che egli, in sede di teoria della logica, determini il concetto del concetto e definisca l'induzione e la definizione, se è vero che tale compito non viene a rigore assolto neppure dal suo maggiore scolaro, ma soltanto da Aristotele. Questi concetti, che sono principalmente i criterî etici dell'azione, le categorie della prassi, non sono posseduti da S., che appunto perciò ne va in cerca: donde il suo continuo domandarne per le strade e per le piazze, a chiunque con la sua attività faccia presupporre di averne nozione o addirittura presuma di conoscerli, e quindi in primo luogo ai sofisti, che affermano non solo di possedere la "virtù" ma anche di saperla, dietro ricompensa, insegnare agli altri. Il risultato di queste interrogazioni è negativo, e S. può constatare che coloro che credono di sapere non ne sanno più di lui che non sa: donde la sua "ironia", bonaria simulazione d'inferiorità, e la sua interpretazione del responso dell'oracolo delfico, interrogato dall'amico Cherefonte, secondo il quale egli è il più sapiente di tutti i Greci, nel solo senso che egli sa di non sapere, mentre gli altri non sanno e s'illudono di sapere. All'antica sapienza delfica egli del resto si richiama (e non è escluso che da ciò dipenda la stessa consacrazione che l'oracolo fa della sua sapienza) in quanto assume a motto della sua ricerca l'esortazione γξῶϑι σαυτόν, nosce te ipsum, che d'accordo con tutta l'intonazione della morale delfica è un invito all'umile riconoscimento della pochezza umana di fronte alla divinità, e che certo anche S. intende nel senso dell'avvertimento della propria ignoranza, per quanto poi esso passi a significare quella stessa ricerca interiore che di tale avvertimento è il mezzo. Questa ironia e questa modestia non è, d'altronde, esclusivamente negativa, perché S. non è uno scettico ironico che si diverta soltanto a dimostrare agli altri che sono ignoranti al pari di lui. Pur conoscendo la virtù purificatrice dell'incertezza e del dubbio, che libera dalle opinioni fallaci, è sempre animato dalla sincera speranza che gli auri sappiano "che cosa è" il buono e il bello, o che ciò, almeno, possa risultare dalla indagine comune. Sotto questo aspetto, il metodo di S., figlio della levatrice Fenarete, è quello della "maieutica", o "ostetricia" spirituale: egli non sa procreare le verità, ma sa aiutare gli altri a metterle alla luce, con l'esercizio dialettico della domanda e della risposta. Per quanto questa immaginosa idea del metodo maieutico convenga, più ancora che all'essenza del pensiero socratico, a quella della filosofia platonica e alla sua concezione delle idee come innate nell'anima, la quale deve riportarle dall'oblio alla consapevolezza, essa riflette certo un momento intrinseco anche all'eterno interrogare socratico, inconcepibile senza una sincera fede nell'altrui capacità a generare il vero.
In questa fede è d'altronde ancorata tutta la morale di S., la quale può sembrare priva di contenuto quando si constati come la sua ricerca non approdi (o approdi solo in qualche caso, e in forme che la discordanza delle fonti rende non troppo certe) a stabili determinazioni di concetti e definizioni di virtù, ma che di fatto ha un nucleo ben saldo in quella stessa concezione della dipendenza della virtù dal sapere, la quale ne costituisce, secondo ciò che risulta concordemente dalle fonti, la più evidente caratteristica. S. non crede che l'uomo possa fare il bene se non lo conosce, cioè se non ne possiede il criterio, il concetto. E neanche crede che l'uomo, conosciuto il buono, il giusto e il bello, debba poi possedere e coltivare una diversa capacità per realizzarlo nella pratica. Non che si contenti della contemplazione teorica, e neghi perciò la vita attiva: bensì non crede che quei valori possano scoprirsi alla consapevolezza dell'uomo senza che questi se ne innamori e sia senz'altro spinto a tradurli nella realtà della vita. Chi non fa il bene, non lo fa perché non conosce ciò che bene sia, e fa quel che egli crede che bene sia: che se davvero lo conoscesse, non potrebbe mai preferirgli il bene minore, meno universale e vero. Questo il significato della famosa frase socratica che "nessuno pecca di propria spontanea volontà" (οὐδεὶς ἐκὼν ἐξαμαρτάνει): la quale non è da intendere nel senso di un maligno destino che impacci la libera volontà dell'uomo, ma in quello di un'irresistibile energia attrattiva, onde il bene appare come suprema realtà desiderabile e non può quindi essere posposto, se conosciuto, ad alcun altro oggetto della volontà. Comunque si voglia, non si può non volere ciò che appare il bene, e il massimo bene: ma solo chi conosce quel massimo bene che non semplicemente appare, ma veramente è, può tendere ad esso.
Che l'esatto significato del cosiddetto "intellettualismo etico" di S. sia questo, per cui la conoscenza è momento intrinseco della stessa volontà, come consapevolezza di ciò che vien voluto, e non quello, più comunemente accolto, onde esso si presenta quale asserzione di un dominio della teoria sulla pratica, in cui le convinzioni conoscitive della prima appartengono a una sfera del tutto distinta da quella in cui si muovono le passioni della seconda (così come p. es. accade nella psicologia platonica dell'età matura), è confermato dal fatto che solo intendendo in tal modo quell'"intellettualismo" è possibile comprendere come da esso si generino, per varie vie, prima le interpretazioni che ne dànno le cosiddette scuole socratiche e poi le più complesse concezioni di Platone e di Aristotele. L'edonismo cirenaico, che nella sua intonazione sembra così contrario allo spirito socratico, si spiega di fatto in funzione del capovolgimento della stessa tesi dell'attraenza del bene, intesa come identità convertibile: se per l'eudemonismo socratico il bene attrae, per l'edonismo aristippeo quel che attrae è bene. Il cinismo, d'altronde, che nel suo più proprio vangelo si ricollega all'aspetto della personalità pratica di S. onde esso appare superiore e indifferente alle ricchezze, agli agi, alle comodità della vita, e signore di sé e di tutto in forza dell'autonomia onde il suo spirito provvede a sé medesimo non legandosi alla sorte delle cose esterne, risponde anch'esso a suo modo all'esigenza socratica dell'attraenza del bene, in quanto considera come suprema attrattiva la superiorità all'attrattiva di tutte le cose particolari. E la stessa fusione megarica del concetto socratico del bene con quello eleatico dell'ente prova che questo bene, pur nella sua assoluta unità e universalità, è realtà oggettiva, termine di volontà possibile, e non astratta verità teoretica: è l'ἀγαϑόν che si contrappone agli ἀγαϑά, ai "beni" particolari, ma che tuttavia rimane un "bene", nel senso complesso del greco ἀγαϑόν, termine nello stesso tempo del desiderio pratico e dell'approvazione morale. L'unità si spezza bensì quando Platone, contrapponendo pitagoricamente il corpo all'anima, tende a escludere del tutto la passionalità corporea dalla contemplatività psichica, e cerca di rimediare a tale estremo, che condurrebbe all'assoluto abbandono dell'attivo aldiquà per il contemplativo aldilà, trasferendo il contrasto in seno all'anima stessa, e cioè imponendo alla conoscenza razionale di domare e dirigere l'irrazionalità degl'impulsi. Il contrasto permane in Aristotele, che pur cerca sempre più di attenuarlo, ripiegando in certa misura sulla posizione socratica e cercando di considerare la consapevole volontà buona come non condannata a combattere con la passione, ma anzi come destinata ad attuarsi quale consapevole passione del bene: ma l'iniziale suo platonismo, palese nei dialoghi, si mantiene anche nelle opere della maturità, e fa sì che nella Nicomachea l'ideale della vita attiva resti comunque inferiore a quello della vita contemplativa, in cui si riflette la beatitudine attribuita alla divinità nell'antica teologia del libro XII della Metafisica. E l'ideale della contemplazione autosufficiente, affrancata dall'eterna insoddisfazione della prassi, resta da allora in poi determinante per tutte le concezioni etiche dell'età postaristotelica. Si vede quindi come nella fondamentale impostazione socratica del problema morale siano compresi i motivi teorici, da cui in vario modo deriva tutta la posteriore storia dell'etica classica.
Il problema delle fonti. - La caratteristica della figura di S., che si è sopra cercato di delineare, si è limitata a quei tratti fondamentali della sua fisionomia che si possono, come si è detto, considerare accertati dalla sostanziale concordanza di tutte le fonti a loro riguardo. Una più particolare determinazione storica dell'opera compiuta da S. deve invece anzitutto superare il problema della valutazione relativa delle fonti, per tutto ciò in cui esse non concordano: e tale valutazione si riflette spesso, quando concluda nell'esclusione completa o quasi completa del valore di una o più fonti, anche nella delineazione degli stessi tratti fondamentali della personalità socratica. Sono perciò qui brevemente ricordate le principali soluzioni che di tale problema sono state date in età moderna, e che nello stesso tempo caratterizzano le più notevoli tendenze della critica storico-filosofica nei riguardi di S.
Fonti principali sono, come è noto, Senofonte, Platone e Aristotele. Tra le minori, concernenti soprattutto la vita di S., merita particolare menzione la biografia (βίος Σωκράτους) composta da Aristosseno di Taranto, lo scolaro di Aristotele che proseguì, tra l'altro, le ricerche erudite compiute dal maestro nel campo della biografia letterario-filosofica (per i frammenti superstiti di tale Vita, v. K, Müller, Fragm. historic. Graec., II, p. 280 segg.). Egli infatti vi si basa, in parte, su colloquî avuti col padre Spintaro, il quale aveva conosciuto personalmente S.; e il fatto che, non ostante l'intento scandalistico, proprio, in genere, delle biografie di Aristosseno, curioso delle faccende private dei precedenti pensatori, questi non abbia potuto rinfacciare a S. nulla di serio, viene a confermare come l'altezza della sua figura morale non sia soltanto un prodotto dell'idealizzazione apologetica di Platone e di Senofonte. Per le altre fonti si vedano, in generale, le indicazioni date in Ueberweg-Praechter, Grundriss d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ed. (Berlino 1926), p. 131 (per le allusioni dei comici, e specialmente di Aristofane, oltre alla silloge data da H. Gomperz, in Histor. Zeitschrift, CXXIX, 1926, p. 395, v. anche C. Ritter, S., Tubinga 1931; per le cosiddette "lettere di S. e dei socratici", spurie come ogni altro scritto attribuito a S., v. J. Sykoutris, Die Briefe des S. und der Sokratiker, Paderborn 1933). Ma il problema fondamentale resta quello della valutazione relativa delle tre fonti principali, cioè dei dialoghi platonici di contenuto propriamente socratico (Apologia, Critone, soprattutto per ciò che concerne la vita; Protagora, Lachete, Carmide, Liside, Ippia Minore, e anche singole parti di dialoghi di età posteriore, come, p. es., l'encomio di S. fatto da Alcibiade alla fine del Simposio, ecc.), dei Memorabili e dell'Apologia di Senofonte (come delle altre parti dell'opera di questo autore, quale, p. es., la concezione del perfetto principe esposta nella Ciropedia, in cui si manifesta l'influsso delle idee socratiche) e infine dei brevi ma densi accenni dedicati a S. da Aristotele nella Metafisica e nell'Etica Nicomachea (per le edizioni di questi scritti v. aristotele; platone; senofonte; sillogi di testi platonici e senofontei concernenti S. sono: K. Lincke, Eine Sammlung apologetischer Schriften Xenophons und Platons, Halle a. S. 1896; E. Müller, S. geschildert von seinen Schùlern, voll. 2, Lipsia 1911).
La testimonianza platonica, considerata nell'ambito generale della sua produzione più giovanile e cioè prescindendo dalle questioni singole concernenti la maggiore o minore socraticità di qualche dialogo o parte di dialogo, è quella di cui può dirsi sia stato più largamente riconosciuto il valore. Essa infatti appare per lo più negata, almeno in tale ambito, solo da sostenitori di tesi estreme, negative o positive che siano, e che cioè impoveriscano o arricchiscano in misura eccezionale il contenuto storico della personalità socratica. Fra le tesi estremamente negative può essere ricordata, come più tipica, quella recente di E. Dupréel (La légende socratique et les sources de Platon, Bruxelles 1922), la quale non giunge invero alla piena negazione della stessa realtà storica della figura di S., ma considera tale figura come ormai affatto irriconoscibile attraverso la fitta selva della tradizione che lo concerne. Per i λόγοι Σωκρατικοί, che nascono intorno alla leggendaria personalità del maestro all'incirca come i vangeli intorno a quella di Gesù, e da cui poi derivano anche i dialoghi giovanili di Platone, S. non è infatti, secondo questa tesi, altro che una finzione letteraria, che dà il nome a concezioni le quali possono talora essere state sue, ma nella maggior parte risalgono a sofisti come Prodico e Ippia. La tesi estremamente positiva è principalmente rappresentata da quella che può dirsi la recente scuola inglese, cioè da J. Burnet e da A. E. Taylor (v. soprattutto, del primo, l'edizione del Fedone platonico, Oxford 1911, e del secondo Varia Socratica, ivi 1911 e S., Londra 1933: cfr. su quest'ultimo libro Giorn. crit. d. filos. ital., XV, 1934, pp. 223-27), per i quali socratico è non soltanto il contenuto dei dialoghi platonici giovanili, ma anche quello di tutti gli altri, la filosofia platonica venendo cioè pienamente a risolversi in quella del suo maestro. L'antistoricità di entrambe queste tesi (i cui sostenitori non mancano peraltro di fornire, in singoli casi, utili indicazioni ermeneutiche) è costituita dal fatto che, nell'un caso e nell'altro, totalmente infirmate risulterebbero le testimonianze di Platone e di Aristotele, cioè del maggiore scolaro e diretto conoscitore di S. e di colui che, essendo stato per vent'anni scolaro di Platone e avendo quindi potuto constatare personalmente il progressivo evolversi della sua filosofia, era per ciò stesso in grado di stabilire quella differenza storica di S. da Platone, a cui d'altronde si volgeva anche il suo interesse di studioso, e anzi d'iniziatore della storiografia del pensiero precedente. Che il vero S. sia anzitutto da ricercare nell'Apologia e nei dialoghi giovanili di Platone può perciò considerarsi come opinio recepta dalla grande maggioranza dei critici.
Estremamente controverso è, invece, il valore della testimonianza senofontea. Caratteristica, a questo proposito, l'antitesi delle due interpretazioni, quasi contemporanee, di A. Döring e di K. Joël. Il primo (Die Lehre des S. als soziales Reformsystem, Monaco 1895) accentua la tesi per cui la stessa povertà filosofica della mentalità senofontea dà piuttosto garanzia di fedeltà dossografica che non sospetto d'incomprensione e quindi di appiattimento, e costruisce pertanto, partendo dal disperso materiale dei Memorabili e riorganizzandolo in sistema d'idee, l'immagine del S. riformatore ed educatore sociale, non esplicitamente interessato a quelle ricerche logiche e concettuali a cui dettero poi rilievo Platone e Aristotele. Questo orientamento era del resto già stato seguito, molti anni prima, da A. Labriola, il quale aveva peraltro saputo evitare una troppo unilaterale esclusione dell'aspetto logico-gnoseologico della mentalità socratica, e aveva con ciò fornito un ritratto di S. che per il suo equilibrio resta il migliore studio italiano sull'argomento ed è ancor oggi di assai utile lettura (La dottrina di S. secondo Senofonte, Platone, Aristotele, Napoli 1871: se ne veda ora la ristampa curata da B. Croce, Bari 1921, che vi ha aggiunto una bibliografia degli studî italiani sull'argomento, tra i quali merita pure menzione G. Zuccante, S., Torino 1909). Il Joël invece, in una voluminosa opera (Der echte und der xenophontische S., voll. 3, Berlino 1893-1901), la cui tesi appare ora attenuata nella trattazione socratica contenuta nella Geschichte der antiken Philosophie (Tubinga 1921, p. 730 segg.), sostiene che il S. senofonteo non è quello storico, bensì quello della tradizione antistenica, il quale pone in primo piano gl'ideali dell'astinenza e dell'autosufficienza proprî dell'etica cinica e trascura invece quel carattere logico e razionalistico, palese anche nell'intellettualismo etico, a cui invece si richiama soprattutto Aristotele, dal Joël considerato come fonte principale. Si vede quindi come la contrapposizione del S. senofonteo al S. storico (cioè aristotelico) derivi nel Joël dalla stessa astratta separazione e contrapposizione di quei due motivi, volontaristico e razionalistico, della dottrina di S., che solo compresi nella loro unità rendono possibile (come si è visto sopra, nell'interpretazione del cosiddetto suo "intellettualismo etico") d'intendere da un lato la sua caratteristica impostazione del problema morale e dall'altro la possibilità delle diverse e contrastanti soluzioni datene dalle singole scuole socratiche. La svalutazione della testimonianza senofontea appare, invece, attenuata nell'opera che, nella schiera delle trattazioni di più largo respiro, è oggi generalmente ritenuta quella complessivamente più adeguata, e cioè nell'opera di H. Maier, S., sein Werk und seine geschichtliche Stellung (Tubinga 1913). Il Maier distingue infatti, nei Memorabili, i primi due capitoli del primo libro da tutto il resto dell'opera, considerando solo quelli come risalenti al diretto intento apologetico a cui si ricollega anche l'Apologia e vedendo in tutta la restante parte dell'opera una libera ricostruzione letteraria di colloquî socratici, non dissimile perciò sostanzialmente dalle analoghe ricostruzioni compiute da Platone nei dialoghi giovanili. E nonostante che l'intento di rappresentazione realistica sia in Senofonte anche più esclusivo che nel giovane Platone, la minor capacità di comprensione filosofica da un lato e lo stesso forte distacco cronologico dall'altro (i Memorabili sembra debbano essere stati composti dopo il 370, cioè a circa un trentennio di distanza dalla morte di Socrate) restringono fortemente il valore storico di tutta questa seconda parte dell'opera senofontea. In tale discriminazione del valore dei Memorabili il Maier è seguito da U. von Wilamowitz-Moellendorf, la cui trattazione di Socrate (in Platon, I, Berlino 1919, pp. 92-114) è poi specialmente interessante per la determinazione di alcuni dati biografici, concernenti l'ambiente economico-politico in cui S. visse.
Ma, se in questo senso il Maier viene a limitare l'importanza dei Memorabili quale fonte socratica (essi sono infatti per lui validi solo in quanto vengono interpretati dal punto di vista della fonte precipua, cioè dei dialoghi giovanili di Platone, e si accordano perciò in certo senso alle altre testimonianze che pur si possono desumere dalle opposte interpretazioni date al verbo del maestro dalle diverse scuole socratiche, in quanto tali interpretazioni rimandano a un comune punto di partenza, giustificante la genesi stessa delle antitesi), ben più grave è la critica che egli compie delle testimonianze aristoteliche. Egli cerca, infatti, di dimostrare come queste ultime non siano che notizie di seconda mano, risalenti a passi del Protagora platonico o dei Memorabili; e giacché soprattutto a tali passi aristotelici, e specialmente a quelli della Metafisica, risale la tradizione che fa di S. un teorico della logica scopritore del concetto e dell'induzione, così la svalutazione della loro diretta importanza dossografica viene per il Maier a convalidare la sua presentazione di S. non razionalista né gnoseologo, ma soltanto predicatore di un verbo morale. Questo antiaristotelismo del Maier è peraltro già soggiaciuto alla critica fìn da quando si è osservato (v., p. es., W. Jaeger, Aristoteles, Berlino 1923, p. 98, n. 2: e la cosa era stata di fatto già notata dal Labriola) come Aristotele (p. es., nel passo più famoso, Metaph., XIII 4, 1078 a 27 segg.: δύο γάρ ἐστιν ἅ τις ἀποδοίη Σωκράτει δικαίως, τούς τ'ἐπακτικοὺς λόγους καὶ τὸ ὁρίζεσϑαι καϑόλου "due sono le cose che è giusto attribuire a S., le argomentazioni induttive e il definire universalmente": dove la stessa forma espressiva dell'attribuzione implica che Aristotele l'enuncia non come semplice riferimento di opinioni altrui, ma come risultato di una personale riflessione sul problema storico di ciò che si potesse realmente considerare come merito di S.) non dica già che S. fu l'autore delle teorie logiche concernenti l'induzione e la definizione, ma che egli nel suo ricercare, compì di fatto processi induttivi e definitorî. In questo senso neppure i passi della Metafisica concernenti i procedimenti logici di S., al pari di quelli dell'Etica Nicomachea alludenti, sia pure in forma assai sommaria, all'identità socratica della virtù con la scienza, risultano più contraddittorî rispetto a quell'immagine del S. maestro di ricerca e di elevazione morale che si ricava dai dialoghi giovanili di Platone e dallo stesso Senofonte, per incerti che possano rimanere molti dei tratti particolari che quest'ultimo le attribuisce. A questo miglior riconoscimento della natura delle testimonianze aristoteliche si accompagna di conseguenza, nella critica più recente, una tendenza alla riabilitazione dello stesso Senofonte (vedi, per esempio, H. von Arnim, Xenophons Memorabilien und Apologie des S., in Hist.-filolog. Meddelelser udgivne of det Kgl. Danske Videnskabernes Selskab [Comunicazioni della Reale accademia svedese delle scienze], VIII, 1923-24, p. 1 segg.; H. Gomperz, Die sokratische Frage als geschichtliches Problem, in Historische Zeitschrift, CXXIX, 1924, pp 377-423). La critica più moderna tende quindi, in generale, a eliminare i troppo forti contrasti stabiliti in passato tra le varie fonti socratiche a vantaggio dell'una o dell'altra, e a ricercare se una più minuta e penetrante indagine dei passi paralleli (si veda, per questa, J. Stenzel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III A, Stoccarda 1926, coll. 811-90) possa, riconducendo a comuni punti di partenza, arricchire di determinazioni ulteriori quella fisionomia del pensatore ateniese, che nei suoi tratti fondamentali è pur presentata, come si è detto, con sufficiente concordia e nettezza da tutte le sue fonti.
Bibl.: Le principali trattazioni d'insieme su S., in quanto nello stesso tempo rappresentano soluzioni tipiche del problema delle fonti socratiche, sono state citate nel corso della rassegna sopra data circa tale problema. Della letteratura concernente S., la bibliografia più vasta è quella di P. K. Bizoukides, 'Επιστημονικαὶ πηγαὶ περὶ Σωκράτους, Lipsia 1921 (già pubblicata meno completamente in appendice al libro dello setsso autore sul processo di S.: ‛Η δίκη τοῦ Σωκράτους, Berlino 1918); per gli scritti pubblicati dopo il 1921 si veda il manuale bibliografico del Marouzeau. Per bibliografie più scelte, v.: Ueberweg-Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philosophie, I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 56-59 dell'Appendice e J. Stenzel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III A, coll. 811-90. Tra le più importanti trattazioni d'insieme, non citate nella precedente rassegna, sono da ricordare, oltre a quelle contenute nella Philosophie der Griechen di E. Zeller e nei Griechische Denker di Th. Gomperz: A. Fouillée, La philosophie de S., voll. 2, Parigi 1874; R. Pöhlmann, S und sein Volk, Monaco-Lipsia 1899; C. Piat, S., Parigi 1900; A. Busse, S., Berlino 1914. Brevi, ma penetranti caratteristiche: I. Bruns, Das literarische Porträt der Griechen im 5. und 4. Jahrhund. v. Chr., Berlino 1896, p. 181 segg.; E. Schwartz, Charakterköpfe aus der antiken Literatur, I, 4ª edizione, Lipsia 1912, pp. 47-59. Tra gli scritti più recenti, oltre al già citato A. E. Taylor, S., Londra 1933, v.: Chr. Schrempf, S., seine Persönlichkeit und sein Glaube, Stoccarda 1927; C. Ritter, S., Tubinga 1931; H. Kuhn, S., Berlino 1934.