Sociobiologia
di David P. Barash
SOMMARIO: 1. Cenni storici: a) etologia; b) ecologia evoluzionistica; c) genetica evoluzionistica; d) genetica comportamentale; e) la nuova sintesi. □ 2. Presupposti fondamentali. □ 3. Evoluzione del comportamento sociale e altruismo: a) selezione di parentela; b) selezione di gruppo; c) reciprocità; d) manipolazione parentale; e) altre osservazioni sull'altruismo. □ 4. Strategie riproduttive: a) selezione sessuale; b) strategie parentali. □ 5. La vita sociale: a) la strategia adattativa del raggruppamento; b) sistemi di accoppiamento. □ 6. Strategie competitive: a) predominanza sociale; b) aggressione; c) strategie evolutive stabili; d) territori e uso dello spazio. □ 7. Sociobiologia umana: a) presupposti fondamentali; b) evoluzione del comportamento sociale e altruismo; c) strategie riproduttive; d) vita sociale; e) strategie competitive; f) cultura e biologia; g) politica e sociobiologia umana. □ Bibliografia.
1. Cenni storici.
Secondo lo storico della scienza Th. Kuhn la scienza progredisce attraverso una serie di processi discontinui, paragonabili a rivoluzioni, che si verificano quando il precedente sistema di riferimento diventa inadeguato ad accogliere i nuovi dati e viene individuato un approccio migliore. Nuovi paradigmi si sostituiscono ai vecchi, fenomeno seguito in genere da un periodo di relativa calma, durante il quale vengono consolidati i progressi vertiginosi che si sono registrati, e al furore rivoluzionario che accompagna il mutamento di paradigma succede una scienza ‛normale'. Naturalmente, è possibile che a un certo punto anche il nuovo paradigma si riveli inadeguato, nel qual caso sarà a sua volta sostituito.
Rivoluzioni scientifiche di questo tipo hanno segnato il passaggio dall'astronomia tolemaica a quella copernicana, l'avvento della meccanica newtoniana, l'evoluzione darwiniana, la meccanica dei quanti, la meccanica relativistica, la scoperta della genetica biochimica e così via. A differenza delle altre scienze naturali, lo studio del comportamento deve ancora trovare un coerente paradigma scientifico; si può dire che si è avuta piuttosto una serie di ‛miniparadigmi' - ognuno con un certo numero di sostenitori - ma scarsamente collegati gli uni agli altri. Per fare un esempio, il nostro secolo ha visto nascere la teoria del riflesso di Sherrington, l'elaborazione della teoria dei tropismi di Loeb, la teoria del condizionamento classico di Pavlov, la teoria del condizionamento operante di Skinner, l'‛epistemologia genetica' di Piaget, e potremmo continuare. Le scienze sociali sono caratterizzate da un enorme numero di ‛paradigmi', generalmente frammentari e pressoché incapaci di convalida reciproca. D'altra parte, da Darwin in poi la biologia ha avuto un suo paradigma unificante: l'evoluzione per selezione naturale. Eppure, stranamente, soltanto in quest'ultimo decennio i biologi hanno incominciato a rendersi conto che il paradigma dell'evoluzione organica, che ha dato in così grande misura coerenza e potere esplicativo ad altri aspetti delle scienze naturali, può rivelarsi egualmente produttivo anche applicato allo studio del comportamento.
La sociobiologia è un nuovo modo di considerare il comportamento. Secondo la definizione di E. O. Wilson (v., 1975; tr. it., p. 4) essa è ‟lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale", e si è andata affermando come una disciplina in cui confluiscono vari settori di studio precedentemente separati. La sociobiologia, quindi, non è una ‛teoria' del comportamento, e ancor meno può essere considerata una teoria del comportamento umano; essa rappresenta piuttosto una prospettiva biologica per lo studio del comportamento; più precisamente, la sociobiologia consiste nell'applicazione della biologia evoluzionistica a un aspetto degli organismi (il loro comportamento), che fino a poco tempo fa era ritenuto al di fuori della sua portata.
Va sottolineato infine che non esiste una singola disciplina affine, da cui la sociobiologia sia chiaramente e univocamente derivata. Essa è nata piuttosto da un processo, verificatosi durante gli anni settanta, di fusione di varie branche della biologia.
a) Etologia.
L'etologia, lo studio del comportamento animale da parte degli zoologi, si è andata sviluppando da radici prevalentemente europee e pone l'accento sull'osservazione minuziosa del comportamento degli animali in libertà (v. Eibl-Eibesfeldt, 1970). Sotto l'influsso determinante di O. Heinroth e K. Lorenz, gli etologi hanno aperto la strada dell'applicazione della biologia evoluzionistica al comportamento; si trattava comunque di una disciplina di natura prevalentemente storica, che mirava principalmente a spiegare le filogenie comportamentali nell'ambito di classificazioni ben determinate. La sociobiologia, quindi, deriva non tanto dall'etologia storica e descrittiva quanto piuttosto dalla tradizione di N. Tinbergen, che con la sua opera ha sottolineato il significato adattativo del comportamento animale libero. Esemplare per questo tipo di approccio è la ricerca di E. Cullen (v., 1957), un'allieva di Tinbergen, che ha messo a confronto il comportamento del gabbiano tridattilo (Rissa tridactyla), che nidifica sulle scogliere, con quello di una specie più comune e numerosa che nidifica sul terreno. La Cullen ha descritto un'ampia gamma di comportamenti caratteristici dei gabbiani tridattili, comportamenti che, chiaramente adattati all'ambiente delle scogliere, non erano stati riscontrati fra i gabbiani che nidificano sul terreno. Mentre gli studi motivazionali in chiave etologica (v. Hinde, 1970) porrebbero l'accento sul ruolo degli ormoni, delle esperienze precedenti e dei meccanismi nervosi nella genesi del comportamento dei gabbiani tridattili, l'interesse per il suo significato adattativo conduce invece a chiedersi perché i gabbiani tridattili siano stati selezionati a comportarsi in modo diverso dai gabbiani che nidificano a terra, a prescindere dagli specifici meccanismi interni coinvolti in questo processo (v. istinto).
Oltre all'interesse per il significato adattativo in generale, l'etologia ha fornito alla sociobiologia un altro elemento capitale: l'ecologia del comportamento sociale. Il regno animale mostra, in fatto di sistemi sociali, una notevole diversità, in cui, fino a poco tempo fa, si era potuto individuare soltanto un piccolo numero di schemi. Nel corso degli ultimi quindici anni, tuttavia, gli studi di strutture sociali complesse compiuti su un'ampia gamma di specie hanno rivelato una tendenza costante: non soltanto i comportamenti individuali, ma anche gli schemi di interazione sociale sembrano dotati di adattatività in quanto adeguati alla nicchia ecologica occupata da ciascuna specie. Per esempio, le marmotte sono solitarie e aggressive se vivono in ambienti che, per la lunghezza della buona stagione, consentono una crescita lenta, e quindi la dispersione precoce e un tasso di riproduzione elevato, mentre sono socievoli e tolleranti in ambienti che, per la brevità della buona stagione, impongono una crescita rapida, selezionando la dispersione ritardata e tassi riproduttivi più bassi. I primati non umani che vivono nelle savane sotto la pressione dei predatori sono in genere di grandi dimensioni e tendono a vivere in gruppi, mentre gli insettivori arboricoli sono generalmente di piccole dimensioni e solitari. Gli uccelli tessitori che si nutrono di erba sono in genere molto socievoli, mentre quelli che vivono nelle foreste presentano un'ampia dispersione, e così via. In breve, è diventato sempre più chiaro che quella che si presentava sulle prime come una diversità caleidoscopica, assolutamente refrattaria alle generalizzazioni, può essere invece ridotta a un principio-guida: gli individui sembrano adottare il comportamento che è adeguato alla loro nicchia ecologica. Di conseguenza, sembra sempre più evidente che i sistemi sociali animali non sono altro che i risultati cumulativi del fatto che i singoli individui si comportano nella maniera massimamente adattativa per ognuno. Naturalmente, il modulo comportamentale osservato varierà a seconda della specie in questione e della nicchia che essa occupa, ma il principio resta immutato.
b) Ecologia evoluzionistica.
Nel corso degli ultimi quindici anni gli studi ecologici, soprattutto sotto l'influsso della teoria dell'ottimizzazione, hanno seguito sempre più un indirizzo evoluzionistico. Questo approccio si basa sul presupposto che, all'interno di un sistema, un parametro - o un numero limitato di parametri - tende a essere massimizzato durante l'evoluzione. Il parametro forse più importante, da questo punto di vista, è l'idoneità (fitness), cioè la misura della capacità di ogni individuo di trasmettere nel futuro copie dei suoi geni. Dal momento che l'‛idoneità' in sé è spesso difficile da misurare, e regna l'incertezza circa il ‛punto' (figli, nipoti, pronipoti?) in cui valutare l'‛idoneità' intesa come successo riproduttivo, vengono generalmente misurati altri fattori che si ritengono con essa correlati: fecondità, fertilità, prole allevata, prole felicemente dispersa, capacità di evitare i predatori, efficienza nella ricerca del cibo, ecc. Un'analisi di questo tipo è stata estremamente fruttuosa per rivelare relazioni prima insospettate e per valutare in che misura gli esseri viventi adottino effettivamente quel comportamento che, secondo le nostre attese, dovrebbe essere il loro comportamento ‛ottimale'.
A questo riguardo è stato particolarmente importante il lavoro svolto da D. Lack. Studiando specialmente il problema delle dimensioni della covata negli Uccelli, Lack ha dimostrato in modo convincente che ogni individuo tende a produrre il numero ottimale di uova, vale a dire il numero di uova che permette all'individuo in questione il massimo successo riproduttivo (v. Lack, 1966). La sociobiologia amplia l'approccio di Lack, estendendolo dalla prestazione riproduttiva ‛in sé' a un altro aspetto dell'attività dell'individuo: il suo comportamento sociale.
c) Genetica evoluzionistica.
In un certo senso, naturalmente, la genetica è stata sempre evoluzionistica, in quanto l'evoluzione ‛è' il cambiamento - nel tempo - della costituzione genetica di una popolazione. Tuttavia, lo studio della biochimica degli acidi nucleici è meno direttamente interessato al processo dell'evoluzione che all'azione diretta della selezione naturale e ai suoi effetti sulle frequenze geniche all'interno delle popolazioni: in altre parole, alla genetica di popolazioni. Fra i problemi di cui si occupano i genetisti di popolazioni, il più importante da un punto di vista sociobiologico è forse quello del livello al quale opera la selezione. Nella prima metà del Novecento i biologi sostenevano in linea di massima che le unità fondamentali della selezione erano la specie e il gruppo, e quindi che la selezione operava a beneficio della specie. Questo approccio impediva ai ricercatori di vedere i comportamenti dei singoli organismi e il ruolo del processo evolutivo nel produrre l'adattamento di tali comportamenti.
L'ecologo scozzese V. C. Wynne-Edwards (v., 1962) concentrò l'attenzione sulla selezione di gruppo con un'opera monumentale, in cui molti aspetti del comportamento sociale erano interpretati come il risultato di adattamenti selezionati a livello di gruppo. Il dibattito e l'interesse suscitati da questa teoria portarono a un nuovo apprezzamento della capacità che la selezione naturale, agendo sugli ‛individui', ha di produrre risultati adattativi piuttosto precisi (v. Williams, 1966 e 1971). Quasi contemporaneamente W. D. Hamilton (v., 1964) fece notare che la selezione, operando al livello dei geni, potrebbe fornire una spiegazione di alcuni dei più problematici aspetti del comportamento, come l'altruismo (che verrà trattato in seguito). Il porre l'accento sulla selezione in quanto elemento operante direttamente sugli individui e sui loro geni costitutivi ha contribuito a precisare le ipotesi e a potenziare la capacità di analisi della sociobiologia.
d) Genetica comportamentale.
Sotto molti punti di vista la sociobiologia è l'applicazione della teoria dell'evoluzione naturale al comportamento sociale. La selezione agisce su un carattere solo se esso è in qualche modo correlato al genotipo; in caso contrario, essa non riuscirebbe a produrre un cambiamento evolutivo. Ne consegue che una disciplina che si occupi degli effetti dell'evoluzione sul comportamento deve partire dal presupposto che il comportamento è almeno in parte un riflesso del genotipo. Basato sui principi della genetica comportamentale un campo che si va espandendo - questo presupposto si è rivelato assai solido (v. Ehrman e Parsons, 1976). Attraverso lo studio degli aspetti comportamentali delle mutazioni puntiformi, della selezione artificiale, delle influenze poligeniche, dell'ibridazione e perfino della funzione cromosomica e biochimica, la genetica comportamentale ha autonomamente fornito alla ricerca sociobiologica alcuni indispensabili puntelli.
e) La nuova sintesi.
La sociobiologia è una nuova disciplina sorta dalla convergenza di parecchie branche scientifiche alquanto diverse, delle quali alcune, come ad esempio la genetica comportamentale, sono esse stesse completamente nuove. La sua paternità, quindi, non è attribuibile a una specifica persona. Tuttavia, essa deve il suo nome e, in gran parte, la sua coerenza intellettuale allo zoologo di Harvard E. O. Wilson, la cui monumentale Sociobiology, the new synthesis (1975) è stata di per sé un avvenimento evolutivo. Sulle orme del suo illustre predecessore, J. Huxley (Evolution, the modern synthesis, 1942), Wilson raccolse in un volume buona parte degli elementi teorici e dei dati che già erano ‛nell'aria', pur senza essere espressamente identificati come tali. Sebbene il termine ‛sociobiologia' fosse già stato usato in precedenza in un contesto differente, esso sta ora a indicare la molteplice applicazione dei principi evoluzionistici ai comportamenti sociali.
2. Presupposti fondamentali.
Pur essendo considerata una disciplina scientifica a pieno titolo, la sociobiologia si differenzia da gran parte delle scienze occidentali tradizionali per il tipo di questioni che pone e, di conseguenza, per il tipo di risposte che si attende. Per comodità, possiamo dividere le questioni relative ai fenomeni biologici in due classi: questioni ‛prossime' e questioni ‛remote'. Le prime si riferiscono ai meccanismi specifici responsabili dei fenomeni considerati: nel caso del comportamento, sono in gioco i meccanismi nervosi e ormonali, che determinano la qualità dei vari stimoli, il ruolo dell'esperienza precedente e (soprattutto nel caso degli esseri umani) l'influenza delle norme e delle tradizioni culturali; la causazione ‛remota', invece, riguarda il significato adattativo dei fenomeni esaminati. I meccanismi ‛prossimi', di qualsiasi natura, hanno importanza dal punto di vista evolutivo solo in quanto il loro risultato - nel nostro caso il comportamento - sia rilevante per la distribuzione dei geni che influenzano la produzione di questo o quel carattere. In altre parole, i meccanismi ‛prossimi' sono il ‛mezzo' per un fine ‛remoto', evolutivo.
In primavera, per esempio, molti animali praticano forme elaborate di corteggiamento. L'analisi ‛prossima' di tale comportamento potrebbe concentrarsi sul ruolo degli ormoni, soprattutto degli steroidi, o sulle regioni cerebrali responsabili della loro produzione e/o sensibili agli stimoli dovuti alla loro presenza (probabilmente, in entrambi i casi, l'ipotalamo). D'altra parte, ulteriori fattori ‛prossimi' sono indubbiamente gli stimoli ambientali che promuovono il comportamento di corteggiamento in questione: diversa durata delle giornate, variazioni di temperatura, disponibilità di cibo, presenza di partners adatti, di siti di nidificazione, e così via. Sebbene questi siano oggetti legittimi di ricerca scientifica, vi è un altro settore molto importante che, fino alla nascita della sociobiologia, era stato esplorato soltanto di rado. In questo settore le questioni che si pongono sono di tipo ‛remoto' ed evolutivo: perché mai esiste il corteggiamento in generale (tenuto conto dei costi e dei rischi in esso impliciti)? Come mai il corteggiamento ha luogo in primavera (alcune specie lo praticano in autunno)? Perché i maschi impiegano modalità di corteggiamento diverse dalle femmine ? E perché alcune specie hanno forme di corteggiamento più elaborate di altre? Il fatto di dare una risposta a questi interrogativi non esclude né ignora una possibile causalità ‛prossima', ma porta i ricercatori a sottolineare piuttosto le conseguenze adattative delle varie tattiche ‛prossime'. L'attenzione viene concentrata sui problemi ecologici ed evolutivi, sui risultati, in termini di ‛idoneità', associati a ogni scelta ‛prossima'. Non ha senso anteporre le questioni ‛prossime' a quelle ‛remote' o viceversa; tuttavia, prima che venisse elaborata la prospettiva sociobiologica, la ricerca scientifica era concentrata in massima parte sui meccanismi ‛prossimi', e risultava quindi necessariamente incompleta. Questo è anche il motivo per cui molti aspetti della ricerca sociobiologica appaiono strani agli studiosi formatisi in base al paradigma tradizionale, meramente riduttivo.
La sociobiologia, concentrando l'attenzione su una visione evolutiva del comportamento, presuppone necessariamente un ruolo definito del genotipo nella formazione del comportamento. Essa viene così a inserirsi nella vecchia controversia ‛istinto/apprendimento', ‛natura/educazione'. Questo annoso e improduttivo dibattito è stato risolto col riconoscimento del fatto che tutti i fenotipi, e quindi anche il comportamento, derivano dall'interazione di fattori sia genetici sia legati all'esperienza. Né i geni da soli né l'esperienza da sola determinano il comportamento. Questo ‟principio di interazione" (v. Barash, 1977) è una pietra miliare del pensiero sociobiologico, in quanto legittima l'applicazione di considerazioni evolutive a forme di comportamento semplici come i riflessi o complesse come l'organizzazione sociale. Naturalmente, ciò non significa che i geni e l'ambiente svolgano in ogni caso un ruolo della stessa importanza: a seconda delle specie e del comportamento considerato, può esserci una diversa incidenza dei due fattori. In ogni caso, comunque, il comportamento è sempre esposto all'influenza di entrambi i fattori.
Data la costante azione migliorativa esercitata dai fattori sia prossimi che remoti, il comportamento non può mai essere geneticamente determinato, così come non può essere determinato dall'ambiente. Si può dire piuttosto che è geneticamente ‛influenzato', così come è influenzato dall'ambiente (v. Dobzhansky, 1976). Per gli esseri umani in particolare, e in generale per i Mammiferi, l'influenza genetica è relativamente limitata, mentre per i Protozoi e gli Insetti essa è relativamente grande. Si può dire che quando l'entità dell'influenza genetica è modesta, il potere analitico delle considerazioni evolutive è relativamente debole, sebbene pur sempre reale. Analogamente, il potere analitico della sociobiologia è massimo quando il comportamento esaminato è fortemente influenzato da fattori genetici; e dovrebbe esser massimo anche quando vengono studiati comportamenti tipici, come quelli relativi al corteggiamento, alle cure parentali, alla ricerca di cibo, ecc.
Il significato intellettuale primario della sociobiologia è compendiato nel principio basilare secondo il quale, nella misura in cui il comportamento esaminato riflette una qualche componente del genotipo dell'organismo, ci si può attendere che l'individuo si comporterà in modo da massimizzare la sua ‛idoneità complessiva' (inclusive fitness), vale a dire la capacità dei suoi geni di essere rappresentati nel futuro. Dati due alleli a1 e a2, di cui a1 influenza il suo possessore ad assumere un comportamento b1, mentre a2 influenza il suo possessore ad assumere un comportamento diverso, b2, e supposto che nel particolare ambiente in cui vivono gli individui in questione il comportamento b1 consenta agli individui che lo adottano una ‛idoneità' maggiore rispetto al comportamento b2, ne risulta che, col tempo, si può prevedere un aumento del numero di individui che adottano il comportamento b1, e una diminuzione del numero di quelli che adottano il comportamento b2. Ciò avverrà per l'aumento di frequenza dell'allele a1, che si diffonderà a spese dell'allele a2.
Il risultato è che le popolazioni tendono ad adottare i comportamenti che massimizzano l'idoneità degli individui in questione. Questo schema, tuttavia, non è fisso, e si possono sempre verificare deviazioni dalla condizione ottimale in seguito a mutazioni, cambiamenti ambientali recenti, squilibri da associazione genica (linkage disequilibrium), effetti dovuti alla cooperazione di molti geni nella determinazione di un carattere, ecc. Rimane però vero che il principio centrale della sociobiologia indica una tendenza generale nel comportamento di tutti gli esseri viventi. Esso fornisce un modello sul quale controllare le osservazioni concrete, e suggerisce un uso della teoria evolutiva in chiave predittiva: possiamo cioè predire che un organismo adotterà un comportamento atto a massimizzare la sua idoneità e, su questa base, possiamo formulare predizioni più specifiche e controllabili.
Quattro sono, fondamentalmente, i possibili approcci allo studio del comportamento in chiave evoluzionistica; per comodità, possiamo chiamarli approccio storico, valutativo, correlazionale e predittivo (in ordine crescente di potere logico). L'approccio storico è essenzialmente quello dell'etologia europea classica, la quale, una volta identificato un taxon circoscritto, come la famiglia dei gabbiani (Laridae) o la famiglia delle anitre (Anatidae), e accuratamente descritte le singole specie, ricerca le ‛variazioni sul tema' connesse a un qualche comportamento relativamente stereotipato: tipicamente, il corteggiamento o le esibizioni di aggressività. Lo scopo è quello di stabilire filogenie comportamentali dimostrando la probabile sequenza storica lungo la quale si è svolta l'evoluzione del comportamento in questione. Questo tipo di ricerca è stato molto fruttuoso, sebbene ci siano difficoltà per quanto riguarda la controllabilità. L'approccio storico è comunque una tappa importante nell'applicazione della biologia evoluzionistica al comportamento, in quanto studia il comportamento come un fenotipo che si è evoluto, proprio come avviene per la struttura e la fisiologia.
Diversamente dall'approccio storico, gli studi ‛valutativi' si occupano maggiormente del comportamento come si manifesta nel presente, pur essendo anch'essi orientati in senso evoluzionistico. In particolare, le ricerche di questo tipo mirano a valutare il significato adattativo del comportamento qual è osservabile negli animali che vivono in libertà. L'ipotesi è che la selezione naturale abbia vagliato e discriminato una serie di combinazioni geniche, responsabili di una serie di comportamenti caratterizzati dal massimo valore di adattamento. Di conseguenza, è da aspettarsi un adattamento relativamente buono fra il comportamento e la nicchia ecologica nella quale si manifesta. Gli studi sul campo, spesso col sostegno di semplici esperimenti, hanno dimostrato ripetutamente la saggezza adattativa del comportamento osservato in animali in libertà.
Gli studi ‛valutativi' sono stati estremamente utili, sia perché hanno migliorato la nostra comprensione del mondo naturale, sia anche perché hanno consentito di valutare meglio la capacità che la selezione naturale ha di produrre e modificare un comportamento in modo che si accordi perfettamente ai vincoli ecologici ai quali gli animali devono adattarsi. Tuttavia, c'è anche il rischio che studi di questo tipo, oltre a valutare il comportamento, servano anche, senza volerlo, a valutare l'ingegnosità del ricercatore.
Qualsiasi comportamento, infatti, può essere considerato adattativo qualora venga esaminato con sufficiente fantasia. Per ovviare a questo inconveniente, i ricercatori che seguono questo approccio hanno ritenuto utile verificare le loro interpretazioni esaminando il comportamento della stessa specie, o di specie affini, in ambienti che presentino notevoli differenze. Ammettendo che la valutazione originaria sia esatta, ci si dovrebbero aspettare variazioni notevoli, e, se così è, la sua attendibilità ne risulta grandemente rafforzata. Per esempio, la valutazione data da Cullen del significato adattativo dei processi di adattamento dei gabbiani tridattili alla nidificazione sulle scogliere fu ampiamente convalidata quando Hailman (v., 1965) dimostrò che i gabbiani a coda di rondine delle Galapagos, che occupano ambienti per molti aspetti intermedi fra la spiaggia e la scogliera, presentano adattamenti comportamentali anch'essi intermedi. Questo è un esempio di approccio ‛correlazionale', che cerca correlazioni fra gli ambienti e i parametri comportamentali. Quando specie affini occupano una serie di ambienti diversi fra loro (i genotipi possono essere considerati relativamente costanti), la coerenza delle correlazioni fra ambiente e comportamento consente di gettar luce sul modo in cui l'evoluzione plasma il comportamento.
Esaminiamo infine l'approccio ‛predittivo'. Il principio basilare della sociobiologia offre un valido strumento concettuale per l'analisi del comportamento; esso ci consente inoltre di predire il comportamento degli esseri viventi, una volta che siano sufficientemente note le loro caratteristiche peculiari, e cioè i loro adattamenti precedenti, la natura specifica degli ambienti in cui vivono, ecc. (v. Barash, The whisperings..., 1979). Sotto un certo aspetto si può dire che tutti gli organismi mettono in atto un disegno strategico, in quanto adottano comportamenti cui si può plausibilmente attribuire uno scopo ben definito, vale a dire la massimizzazione dell'idoneità complessiva di ogni individuo. Ciò non implica necessariamente una qualsiasi consapevolezza negli organismi o nello stesso processo evolutivo. Gli esseri viventi vengono selezionati a comportarsi ‛come se' stessero tentando di massimizzare la loro idoneità, sebbene non occorra affatto che vi sia in loro una qualche comprensione consapevole del processo evolutivo o delle loro motivazioni personali. Il problema che si pone è se l'approccio ‛predittivo' sia realmente falsificabile, come sarebbe invero desiderabile. L'accumularsi di un numero sufficiente di predizioni errate finirebbe naturalmente col portare al cambiamento o all'abbandono del paradigma evoluzionistico soggiacente; tuttavia, a giudicare dal loro uso attuale, sembra improbabile che le ricerche predittive conducano a un risultato di questo tipo. La mancata conferma delle predizioni, invece, porta in genere a un perfezionamento delle predizioni stesse, seguito normalmente da una conferma. Di conseguenza, non sembra ragionevole sostenere che gli studi predittivi conducano realmente a controllare il paradigma su cui si basano (anche se, in definitiva, contribuiscono ovviamente a questo scopo). Il vantaggio immediato degli studi predittivi è che consentono di porsi una serie di nuovi e interessanti interrogativi sul comportamento. Il carattere essenziale della sociobiologia sta nel considerare gli esseri viventi come ‛strateghi' selezionati per massimizzare la loro idoneità. Questo modo di vedere le cose consente l'accesso a un universo intellettuale precedentemente inesplorato.
3. Evoluzione del comportamento sociale e altruismo.
Da un punto di vista sociobiologico la questione del comportamento altruistico assume un interesse e un'importanza particolari. L'evoluzione per selezione naturale è essenzialmente una dottrina dell'egoismo: i fattori genetici sono selezionati positivamente quando riescono a trasmettere un numero maggiore di copie di se stessi nel futuro; in altre parole, quando consentono un'idoneità maggiore rispetto ai loro alleli. Quindi, secondo la teoria evoluzionistica, gli organismi dovrebbero comportarsi secondo il principio del massimo egoismo, che massimizza l'idoneità di ogni individuo rispetto a quella di qualsiasi altro. Eppure, il mondo naturale è pieno di apparenti eccezioni a questa regola. In molte specie di Uccelli, per esempio, individui giovani sessualmente maturi spesso aiutano altri adulti ad allevare la prole, invece di tentare di allevarne una propria. Soprattutto nelle specie sociali è stato osservato che gli individui si sacrificano, o perlomeno rischiano di morire o di essere feriti, per difendere dai predatori altri membri del gruppo. In altri casi gli individui, accortisi della presenza di un predatore, danno l'allarme, il che accresce le possibilità di sopravvivenza per gli altri membri del gruppo, ma evidentemente a spese dell'altruistico informatore che svela la sua posizione al predatore potenziale. Un altro fenomeno comune in molte specie è il food-calling: gli individui segnalano agli altri membri il luogo dove si può trovare il cibo, con il risultato che devono dividere con gli altri i frutti della loro scoperta.
Il paradosso del comportamento altruistico è particolarmente evidente nel caso dell'eusocialità degli Insetti, osservabile presso gli imenotteri sociali: le api, le formiche e le vespe. Le caste di operaie sterili collaborano alla riproduzione della loro regina invece di occuparsi di se stesse. Sembrerebbe che ogni mutazione in grado di condurre un'operaia a riprodursi con successo dovrebbe essere selezionata positivamente e diffondersi rapidamente a danno dei condizionamenti altruistici. L'eusocialità sembra invece un fenomeno stabile e molto antico. Una persuasiva spiegazione è stata data nel 1964 da un genetista di popolazioni, l'inglese W. D. Hamilton.
a) Selezione di parentela.
La brillante intuizione di Hamilton consiste essenzialmente nell'aver riconosciuto che, in ultima analisi, il significato evolutivo del comportamento parentale risiede nel fatto che i genitori condividono con la prole metà dei loro geni; ovvero, in altre parole, nell'aver concentrato l'attenzione sui geni invece che sugli individui: negli organismi diploidi a riproduzione sessuale si ha il 50% di probabilità che un dato allele, presente in un adulto, si ritrovi identico nella prole. Quindi, il comportamento parentale non è che un caso particolare di quella tendenza più generale, per cui gli individui dimostrano, nei confronti di altri, una sollecitudine proporzionale alla percentuale di geni che hanno con loro in comune. A livello genico questa formulazione si dimostra valida, in quanto i singoli alleli che hanno determinato nei loro portatori un comportamento benevolo nei confronti delle loro repliche presenti in altri organismi potrebbero, in ultima analisi, dimostrare una maggiore idoneità (vale a dire produrre un maggior numero di repliche di se stessi) rispetto a un allele alternativo ed egoista che, preoccupato solo del proprio organismo, ha mancato di avvantaggiare le copie di se stesso presenti in altri individui.
L'analisi di Hamilton si riferiva soprattutto alla eusocialità degli Insetti. Gli Imenotteri sono caratterizzati da un sistema genetico insolito, aplo-diploide: le femmine (sia le regine che le operaie) sono diploidi e nascono per un normale processo di fecondazione, mentre i maschi sono aploidi e nascono per partenogenesi da uova non fecondate. In questo sistema le operaie hanno in comune i 3/4 dei geni, in quanto hanno sicuramente lo stesso genoma del padre (che è aploide) e ricevono inoltre la metà del loro genoma dalla madre comune. Se potessero riprodursi, invece, avrebbero solo metà del loro genoma in comune con la prole; in conclusione, un allele presente in un'operaia ha il 75% di probabilità di essere rappresentato nelle sorelle, mentre avrebbe solo il 50% di probabilità di essere presente nella discendenza.
Ne consegue che le operaie degli imenotteri di questo tipo contribuiscono maggiormente alla trasmissione dei loro geni nel futuro restando a casa e aiutando ad allevare le loro sorelle che non tentando di allevare una famiglia propria. Quest'analisi contribuisce anche a spiegare la notoria ‛pigrizia' dei fuchi che, essendo aploidi, hanno soltanto 1/4 del loro genoma in comune con le loro sorelle. Non deve meravigliare che i fuchi, in tali circostanze, dimostrino una scarsa dose di altruismo. Un recente lavoro di Trivers e Hare (v., 1976) ha ulteriormente confermato questo schema, dimostrando che le operaie tendono di preferenza a procacciare cibo ad altre operaie piuttosto che ai fuchi; esse investono cioè nel rapporto 3 : 1, prevedibile in base alla loro parentela genetica.
In termini più generali, Hamilton sostiene che i geni responsabili del comportamento altruistico si diffondono quando si verifica la seguente condizione: K > 1/r, dove r è il coefficiente di parentela fra il presunto altruista e il beneficiario, e K è il rapporto (espresso in unità di idoneità) fra i costi sopportati dall'altruista e i benefici derivanti al beneficiario. Quindi, per le specie diploidi, l'r fra i genitori e la prole, come anche tra fratelli germani, è pari al 50%; tra fratelli parziali, zii e nipoti e nonni e nipoti è pari al 25%; fra primi cugini è pari al 12,5% e così via. Questa formula può essere applicata a un'ampia gamma di comportamenti sociali in una gamma altrettanto vasta di specie. In generale, essa prevede che la probabilità dei comportamenti altruistici è massima quando il costo è basso, il beneficio che ne deriva al destinatario è grande e quando i due individui in questione sono parenti stretti. Ogni parente riceverà dal presunto altruista un'attenzione tanto minore quanto minore è il grado di parentela, cioè quanto minore è il numero di geni che essi hanno in comune. Quindi, un comportamento che appare altruistico a livello fenotipico può essere in realtà egoistico a livello genotipico, qualora il risultato ultimo sia quello di trasmettere nelle generazioni future un maggior numero di copie di se stesso.
Dato che sottolinea l'importanza dei parenti nelle interazioni sociali, la teoria di Hamilton è nota sotto il nome di ‛selezione di parentela' (kin selection). Essa suggerisce anche un'importante modifica del precedente, darwiniano concetto di idoneità, che si riferisce unicamente al successo riproduttivo: misura evidentemente basata sul numero dei figli (in cui sono presenti la metà dei geni di ciascun genitore). In questo modo vengono però ignorate le ulteriori repliche geniche presenti nell'organismo degli altri parenti. L'idoneità complessiva rappresenta l'insieme dell'idoneità genetica di ogni individuo, comprendendo cioè sia quella raggiunta attraverso il successo riproduttivo personale sia quella raggiunta attraverso il successo riproduttivo di tutti gli altri consanguinei, la cui importanza decresce progressivamente col diminuire del numero dei geni in comune.
La selezione di parentela ha gettato viva luce su vaste aree dell'altruismo animale, andando ben oltre l'eusocialità degli Imenotteri. Per fare un esempio, ricerche hanno rivelato che nel fenomeno degli ‛aiutanti del nido', precedentemente descritto, gli aiutanti quasi sempre assistono i genitori nell'allevamento di altri loro fratelli. Questi aiutanti quindi, dal punto di vista dell'idoneità complessiva, traggono un vantaggio dalla loro azione, e il loro apparente altruismo potrebbe in realtà rappresentare una forma di egoismo genetico (v. Brown, 1978). Analogamente, si è notato più volte che il dare l'allarme caratterizza i rapporti fra consanguinei, di modo che i geni responsabili di questo comportamento possono favorire le copie di se stessi presenti in altri individui. Consideriamo un ipotetico allele per la segnalazione di allarme, a, e un altro per il rimanere egoisticamente in silenzio, s. Se, grazie al suo fenotipo, l'allele a rivela la sua posizione ai predatori, aumentando così il rischio di morte, sembra inevitabile che la sua frequenza diminuisca rispetto all'allele più egoistico, s. Tuttavia, dato che il dare l'allarme accresce l'idoneità di un certo numero di altri consanguinei, l'idoneità complessiva dell'individuo che dà l'allarme, sebbene diminuisca la sua idoneità personale, può risultarne accresciuta, come pure quella dell'allele che dà l'allarme, con la conseguenza che il gene si diffonderà.
La selezione di parentela (massimizzazione dell'idoneità complessiva) chiarisce molti aspetti del comportamento sociale e il suo studio è attualmente uno dei campi più stimolanti della ricerca sul comportamento animale; inoltre, non c'è ragione di limitare la sua applicazione agli Invertebrati, e neppure agli animali non umani.
b) Selezione di gruppo.
La selezione di parentela non è l'unico meccanismo possibile per l'evoluzione dell'altruismo. Teoricamente, se offrono sufficienti vantaggi al gruppo di cui fanno parte, gli alleli altruistici possono resistere alla selezione, anche se fra i membri del gruppo non vi siano rapporti di parentela genetica. Per esempio, se i gruppi di cui fanno parte individui che danno l'allarme avessero nettamente più successo di gruppi privi di questi individui, i geni della segnalazione d'allarme potrebbero essere favoriti dalla selezione operante a livello dei gruppi. La selezione di gruppo, tuttavia, pone un grosso problema: anche se i gruppi con individui altruisti hanno più successo di quelli che ne sono privi, la selezione operante sugli individui all' ‛interno' dei gruppi agirebbe contro gli altruisti, in quanto, per definizione, essi sono meno ‛idonei' degli altri membri del gruppo, più egoisti. La selezione di gruppo potrebbe quindi generare altruismo solo nel caso in cui il differenziale selettivo fra i gruppi, per la presenza di individui altruisti, fosse maggiore del differenziale selettivo all'interno dei gruppi. Nel primo caso la selezione favorisce l'altruismo sotto forma di selezione di gruppo, mentre nel secondo caso agisce in direzione opposta.
Recenti studi hanno descritto particolari condizioni nelle quali la selezione, operante a livello dei gruppi, potrebbe favorire l'altruismo (v. D. S. Wilson, 1977). Sembra tuttavia improbabile che la selezione di gruppo eserciti un'influenza determinante in natura, soprattutto perché le condizioni necessarie affinché si verifichi sembrano essere troppo restrittive per consentirle di manifestarsi con una certa frequenza.
c) Reciprocità.
Sebbene la selezione di parentela offra una spiegazione persuasiva di molti fenomeni di altruismo apparente, questo comportamento, come ha fatto notare R. L. Trivers (v., 1971), potrebbe venire selezionato anche in assenza di geni comuni. Il punto cruciale è che il vantaggio conseguito dagli alleli altruistici deve più che compensare il costo, misurato in unità di idoneità, dell'atto altruistico. Se il vantaggio non si manifesta sotto la forma di repliche di questi alleli in altri organismi, esso deve essere allora più diretto, e manifestarsi come successo riproduttivo personale dell'altruista. Quindi, l'altruismo fra individui non consanguinei potrebbe venire selezionato purché l'atto compiuto finisca col produrre per l'altruista vantaggi compensatori. In genere, anche se non sempre, tali vantaggi provengono direttamente dal beneficiario il quale, contraccambiando il favore ricevuto, verrebbe così ad accrescere le sue probabilità di riceverne altri nel futuro. La reciprocità può quindi generare altruismo apparente quando si verifichino le seguenti condizioni: 1) il costo iniziale dell'atto altruistico è basso; 2) il vantaggio per il beneficiano è relativamente grande; 3) il beneficiario avrà l'opportunità di ‛ripagare' in seguito l'altruista. L'ultima condizione è determinante, in quanto l'altruista iniziale deve sopportare un costo per il suo atto e, se non compensato in qualche modo, la sua idoneità risulterà inferiore a quella di un qualsiasi altro spettatore più egoista che non si lasci coinvolgere. È perciò più probabile che si formino sistemi di reciprocità quando gli individui si associano per periodi di tempo prolungati, il che aumenta le opportunità di do ut des. La reciprocità dovrebbe essere inoltre più diffusa fra le specie con facoltà di riconoscimento ben sviluppate, il che consente di distinguere gli individui che ‛contraccambiano' da quelli che ‛non contraccambiano'. Quest'ultima considerazione è particolarmente importante, in quanto qualsiasi sistema di reciprocità verrebbe danneggiato dai truffatori, vale a dire da quegli individui che accrescono la loro idoneità grazie all'altruismo degli altri membri, ma si astengono dal contraccambiarlo quando se ne presenti l'occasione (essi vengono così ad avere un doppio guadagno, in quanto migliorano la loro idoneità a spese dell'altruismo degli altri membri, ma non sopportano i costi che il prestare aiuto agli altri richiede). Un buon sistema di reciprocità deve quindi difendersi dai truffatori, e di conseguenza è verosimile che le specie più idonee a sistemi siffatti siano quelle con alti livelli di socialità e con memoria ben sviluppata.
Anche la reciprocità, come la selezione di parentela, fornisce una spiegazione dell'altruismo apparente, dimostrando che non si tratta affatto di vero altruismo. Se si presta aiuto a un altro individuo solo quando ci sono sufficienti probabilità di ricevere col tempo un beneficio maggiore del costo sopportato, è evidente che il presunto altruista non è in realtà affatto tale. Anzi, questo comportamento è di fatto egoistico da un punto di vista genetico, in quanto si tradurrà in profitto sotto forma di successo riproduttivo personale, anche se con un certo ritardo.
d) Manipolazione parentale.
Data la loro preponderanza fisica rispetto alla prole, i genitori hanno anche la possibilità di manipolarla, costringendola ad adottare comportamenti che giovano alla propria idoneità piuttosto che a quella della prole stessa (v. Alexander, 1974). Nel caso limite, i genitori potrebbero uccidere la loro prole per cibarsene o per darla come cibo ad altri. Il beneficio nutritivo derivante ai genitori o al resto della prole potrebbe rappresentare per la loro idoneità un vantaggio tale da compensare la diminuzione, dovuta all'infanticidio, della loro idoneità complessiva. È ovvio che la prole manipolata potrebbe essere di tutt'altro avviso, ma probabilmente non avrebbe grandi possibilità di difesa. Senza dubbio, è difficile definire altruismo il fatto di restare vittime del cannibalismo, sebbene in altri casi, quali la segnalazione di allarme o la sterilità di casta, la manipolazione potrebbe contribuire al fenotipo comportamentale etichettato come ‛altruismo'.
e) Altre osservazioni sull'altruismo.
Dal punto di vista della selezione naturale, e quindi anche della sociobiologia, il mondo è un luogo in cui ognuno bada ai propri interessi; è pieno di individualisti litigiosi, ciascuno dei quali selezionato per massimizzare unicamente la propria idoneità. Le situazioni in cui un individuo si comporta in modo da avvantaggiare un altro individuo sono quindi particolarmente interessanti. L'altruismo potrebbe dunque essere definito come un comportamento che, a spese, in qualche misura, del successo riproduttivo personale dell'altruista, torna a vantaggio di altri individui. L'altruismo può venire selezionato mediante selezione di parentela (massimizzazione dell'idoneità complessiva) o, perlomeno in teoria, mediante selezione di gruppo. In tali casi, l'effetto ultimo del comportamento altruistico è l'aumento della frequenza degli alleli che predispongono al comportamento stesso cosicché, pur essendo fenotipicamente altruistico, esso è egoistico da un punto di vista genotipico. La reciprocità, d'altra parte, originariamente definita ‛altruismo reciproco', in realtà non ha niente di altruistico. Si tratta piuttosto di una forma di egoismo, in quanto, posto che la reciprocità abbia effettivamente luogo, l'altruista iniziale finisce col trarre un vantaggio sotto forma di successo riproduttivo personale. La manipolazione parentale è un'ulteriore possibilità; unica fra quelle qui citate, essa non implica alcuna compensazione genetica per l'altruista. È probabilmente significativo che finora non siano stati osservati in natura casi inequivocabili di altruismo autentico, immune da manipolazione oppure da coercizione.
L'associazione degli individui in gruppi suggerisce l'esistenza di complicati scambi di idoneità complessiva, in cui gli individui intrigano per farsi strada e la competizione è fortemente modificata e complicata da questioni di idoneità complessiva e, in particolare, di reciprocità. I Vertebrati, che, generalmente diploidi, producono raramente discendenti identici, sono particolarmente soggetti a cadere in un individualismo aggressivo. Per quanto riguarda l'altruismo apparente, va fatta un'ultima precisazione: a un'analisi più attenta, questo comportamento potrebbe facilmente rivelare un'estesa componente di puro e semplice egoismo, sottostante all'apparente altruismo. Per fare un esempio, gli ‛aiutanti del nido' potrebbero anche trarre un vantaggio personale dall'aiuto prestato, in quanto moltiplicano le probabilità di ereditare un prezioso territorio parentale, oltre ad acquisire l'esperienza parentale e mantenersi immuni da stress competitivi. Analogamente, può ben darsi che le operaie sterili facciano, per così dire, di necessità virtù: prive di possibilità nella competizione per diventare regine, per esse è probabilmente meglio (sono più ‛idonee') allevare le loro sorelle piuttosto che combattere inutilmente con la madre, fisicamente più grande e dominatrice. Stando così le cose, è difficile parlare di altruismo in casi del genere. Le future ricerche in campo sociobiologico porteranno probabilmente a valorizzare il ruolo della selezione di parentela nella predisposizione al comportamento sociale, e in particolare all'altruismo, senza d'altra parte perdere di vista l'egoismo che sta alla base di qualsiasi comportamento.
4. Strategie riproduttive.
Una delle vie più dirette alla massimizzazione dell'idoneità è quella che passa per la riproduzione personale. Non deve quindi sorprendere che la sociobiologia abbia registrato particolari successi nell'analisi delle strategie riproduttive degli individui.
a) Selezione sessuale.
Quando Darwin cominciò a parlare di selezione sessuale, la distinse dalla selezione naturale, in quanto la prima implica anzitutto la scelta del partner riproduttivo piuttosto che una competizione ecologica diretta per la sopravvivenza e la riproduzione. Tuttavia, anche la selezione sessuale opera sotto forma di riproduzione differenziale, e quindi costituisce semplicemente un altro aspetto della selezione naturale, e non un'entità distinta. Per comodità, possiamo dividere la selezione sessuale in due componenti, la ‛competizione intrasessuale' e la ‛selezione epigamica'.
Competizione intrasessuale. - Si indica con questo termine la competizione fra individui dello stesso sesso per la predominanza sociale, per il libero accesso al partner o ad altre risorse importanti per il successo riproduttivo. A prescindere dal motivo immediato della competizione, il successo riproduttivo è, infatti, l'elemento decisivo che sta alla base di ogni aspetto della competizione sociale. In genere la competizione intrasessuale è, fra i maschi, notevolmente più intensa che fra le femmine. Il biologo G. C. Williams (v., 1966) ha fatto notare che nella grande maggioranza dei casi i maschi sono gli esibizionisti competitivi e sessualmente aggressivi, mentre le femmine sono le timide acquirenti che fanno confronti fra le merci offerte. Questa diversità è dovuta alla differenza biologica fra la mascolinità e la femminilità.
La definizione biologica di maschio e femmina non si riferisce all'aspetto fisico o al comportamento, ma alla natura dei gameti prodotti. Le femmine sono il sesso che produce un numero relativamente piccolo di gameti grandi, le uova. I maschi sono gli appartenenti al sesso che adotta la strategia inversa: cioè produce un numero relativamente grande di gameti piccoli, gli spermi o spermatozoi. I maschi investono negli spermi notevolmente meno di quanto le femmine non investano nelle uova: in molte specie di uccelli le femmine depongono uova aventi un peso pari al 30% del peso del loro corpo. Anche fra i Mammiferi, che producono uova piccole, la fecondazione ha come conseguenza la gravidanza, con tutti gli sforzi e i rischi relativi, la produzione della placenta e la nutrizione del feto attraverso il sangue materno; inoltre, anche dopo la nascita, un periodo di allattamento di lunghezza variabile prolunga l'investimento iniziato con l'uovo. L'investimento obbligatorio del maschio negli spermi, invece, è irrilevante e, a livello biologico, la riproduzione non implica alcun altro investimento da parte sua.
Questa asimmetria biologica ha come conseguenza una parallela asimmetria comportamentale fra i maschi e le femmine di quasi tutte le specie. Postuliamo due alleli, dei quali l'uno predispone il suo portatore a intraprendere una carriera sessuale relativamente indiscriminata, mentre l'altro, di tipo più conservatore, valuta i possibili compagni e si accoppia solo con gli individui che offrono le maggiori probabilità di accrescere l'idoneità del suo portatore. L'allele non discriminante si adatterebbe relativamente bene a un maschio, in quanto un certo grado di promiscuità non comprometterebbe la sua carriera riproduttiva e potrebbe anzi accrescere la sua idoneità, supponendo che alcuni dei suoi gameti finiscano con lo svilupparsi in zigoti vitali. Un simile allele avrebbe invece un'idoneità molto bassa se presente in una femmina, perché l'entità dell'investimento della femmina nei suoi gameti implica necessariamente una maggiore discriminazione.
Per esempio, sembra che gran parte del corteggiamento animale serva a isolare meccanismi che consentono agli individui di stabilire se i potenziali compagni siano o no conspecifici. Dato che gli ibridi interspecifici hanno in genere scarse probabilità di sopravvivenza, è necessario selezionare negativamente i genitori ibridanti, e questo vale soprattutto per le femmine, che investono molto nel futuro delle loro preziose uova. Di conseguenza, i maschi ‛si pubblicizzano' sessualmente e sono aggressivi nel corteggiamento, mentre praticamente in tutte le specie le femmine valutano con cautela la convenienza dei partners potenziali.
La riproduzione sessuale assicura che i maschi e le femmine, considerati come insieme, abbiano sempre un egual grado d'idoneità. Nelle specie diploidi a riproduzione sessuale, ogni organismo rappresenta un eguale successo genetico per un maschio e per una femmina: i suoi genitori. Questo fatto, tuttavia, non implica necessariamente un ugual grado d'idoneità per i singoli maschi e le singole femmine. In realtà, bisognerebbe attendersi esattamente il contrario, data la così rilevante differenza fra maschi e femmine quanto alla produzione dei gameti. Un solo maschio è in grado di fecondare un gran numero di femmine, in quanto produce un'enorme quantità di spermatozoi, non investe praticamente nulla in ognuno di essi e ne può produrre di nuovi in tempo brevissimo. In teoria, quindi, ogni maschio può avere un'idoneità enorme, mentre il massimo successo riproduttivo possibile per ogni femmina è relativamente basso, in quanto deve investire molto in ogni gamete, e nell'eventuale zigote. Quindi, anche se l'idoneità media dei maschi è esattamente uguale a quella delle femmine, la varianza statistica del successo riproduttivo è in effetti più alta per i maschi che per le femmine.
Fra i maschi, un numero ristretto di individui può avere uno straordinario successo riproduttivo, e di conseguenza un numero corrispondente di maschi deve avere un successo riproduttivo molto basso. La varianza relativa al successo riproduttivo femminile è invece più bassa: in genere le femmine, rispetto ai maschi, hanno minori capacità di ottenere un successo sbalorditivo, ma è anche meno probabile che registrino un fallimento completo. Nella maggior parte dei casi, la performance riproduttiva delle femmine è più coerente di quella dei maschi.
Questa situazione è stata chiarita grazie al concetto di ‛investimento parentale'. Si indica con questo termine un comportamento dei genitori - nei confronti della prole - che aumenta le probabilità di sopravvivenza, e, in definitiva, di riproduzione, dei piccoli, a spese però, in certa misura, della capacità di fare investimenti analoghi nella prole successiva (v. Trivers, 1972). Il sesso che investe di più diventa necessariamente una risorsa limitante per il sesso che investe di meno, perché, per sperimentare il loro potenziale successo riproduttivo, gli individui appartenenti al sesso che investe di meno devono avere accesso a membri addizionali del sesso che investe di più. Il processo inverso, per ovvi motivi, non ha luogo. Nella maggior parte dei casi, per i maschi, la massimizzazione del successo riproduttivo implica quindi l'accesso a un numero addizionale di femmine, e, dato che tutti i maschi adulti dovrebbero avere predisposizioni analoghe, ecco poste le basi per la competizione fra i maschi.
La competizione fra i maschi - un fenomeno drammatico e ampiamente diffuso - è la forma principale di competizione intrasessuale. Fra i Vertebrati, i maschi sono quasi sempre più aggressivi delle femmine e, se la specie è dotata di grossi canini, di corna, o altri tipi di armi, questi sono in genere prerogativa dei maschi. Sebbene il dimorfismo sessuale possa essere indotto anche da altri fattori, quali la difesa dai predatori o le cure parentali, la competizione intrasessuale è probabilmente la sua causa evolutiva principale. La competizione aggressiva fra maschi può manifestarsi sotto forma di esibizione, minaccia e lotta, come avviene fra gli Ungulati, o addirittura di tentativi diretti di castrazione dell'avversario, come avviene fra certi vermi acantocefali. In tutti questi casi i maschi sono il sesso competitivo, conformemente alle predizioni della teoria dell'investimento parentale. Questa teoria, tuttavia, non postula una differenza ‛in sé' tra maschio e femmina; si limita piuttosto a predire differenze, dati schemi differenti di investimento. Ci sono anche casi, che servono da controllo, in cui lo schema abituale di investimento parentale è capovolto, e i maschi investono più delle femmine. In questi rari casi ci si attende che le femmine siano il sesso più competitivo, in quanto sesso che investe di meno; e il successo riproduttivo di una singola femmina verrebbe limitato dal numero di maschi ai quali ha accesso. La jacana (Jacana spinosa), un trampoliere dell'America del Sud, è un buon esempio: i maschi costruiscono i nidi e sono i soli responsabili della cova delle uova deposte dalla femmina. Non sorprenderà quindi che le femmine delle jacane siano di grandi dimensioni, vivacemente colorate e aggressive, e competano con le altre femmine per difendere il territorio, all'interno del quale diversi maschi di colore grigiastro, timidi e schivi, si occupano dei nidi e si accoppiano con la femmina proprietaria, la quale depone le uova - a turno - nel nido di ogni maschio. In altri casi, come ad esempio fra gli ippocampi, i maschi portano la prole in una tasca di covata, espellendola poi in un modo che ricorda la nascita fra i Mammiferi. Anche in questo caso, l'aspetto e il comportamento degli ippocampi maschi è molto più simile a quello tipico delle femmine nella maggior parte delle specie, mentre gli ippocampi femmine mostrano un'aggressività sessuale tipicamente ‛maschile'.
Selezione epigamica. - È il processo in base al quale i membri di un sesso (generalmente i maschi) vengono scelti come partners potenziali dai membri dell'altro sesso (generalmente le femmine). Mentre Darwin sosteneva che questa decisione dipendeva da un qualche senso estetico innato nel sesso che sceglie, sembra adesso più probabile che prevalgano preoccupazioni di idoneità: o, in altre parole, che le preoccupazioni di idoneità forniscano agli individui un metro in base al quale viene preferita una certa configurazione di tratti piuttosto che un'altra, a prescindere dagli eventuali stimoli immediati. Nei casi in cui l'investimento parentale delle femmine è maggiore di quello dei maschi, e i maschi vengono quindi selezionati a competere per l'accesso alle femmine, è sempre possibile che le femmine siano una preda passiva del maschio vittorioso. Tuttavia, dato che il loro investimento parentale è rilevantissimo, ci si può aspettare che le femmine pongano ai maschi delle richieste. In altre parole, le femmine concludono un affare rischioso, destinato auspicabilmente a promuovere la loro idoneità.
Prendendo in esame il caso più comune, in cui le femmine scelgono i maschi, possiamo identificare tre criteri di scelta, a seconda delle caratteristiche del maschio prese in esame: qualità genetiche, comportamento del partner potenziale e, infine, accesso ad altre risorse importanti per la riproduzione. Va notato che queste considerazioni non sono indipendenti l'una dall'altra: un maschio che offre un certo tipo di vantaggi ne offrirà probabilmente anche altri di altro tipo. Per esempio, se un maschio con buone qualità genetiche può avvantaggiare la femmina attraverso la combinazione dei suoi geni - aventi un alto livello d'idoneità - con i geni della femmina, è probabile che abbia anche acquisito - in competizione con altri maschi - risorse rilevanti per la riproduzione. Analogamente, scegliendo un maschio il cui comportamento porta al successo riproduttivo, la femmina aumenta le probabilità di produrre una prole che avrà anch'essa un comportamento atto ad accrescere l'idoneità.
1. Qualità genetiche. Nella misura in cui i caratteri sessuali secondari dei maschi (piumaggio, dimensioni, esibizione, ecc.) contribuiscono al loro successo nel corteggiamento, le femmine, scegliendo di accoppiarsi con certi maschi, aumentano le probabilità di procreare discendenti con caratteri simili, che avranno quindi successo come i loro padri. Queste femmine accrescono la loro idoneità attraverso il numero dei loro nipoti. Oltre che con i tratti coinvolti nel corteggiamento, gli individui possono dimostrare la loro qualità genetica semplicemente vivendo fino a età avanzata in buona salute. La preferenza per individui più anziani e maturi potrebbe spiegarsi in questo modo.
In genere, è probabile che la predominanza sociale rifletta almeno alcuni aspetti della qualità genetica, e la prole di individui predominanti ha più probabilità di diventare a sua volta predominante. Quindi, gli individui predominanti dovrebbero essere preferiti anche come partners sessuali. Questo sembra essere il caso dei primati non umani, fra i quali le femmine si accoppiano solitamente con individui giovani e socialmente subordinati all'inizio e alla fine del periodo di estro, riservando l'apice dell'estro, con la correlativa frequenza massima di copulazione, ai maschi predominanti. Le femmine delle foche elefantine (Mirounga angustirostris), quando vengono montate da un maschio subordinato, emettono forti grida; ciò fa scattare la gerarchia di predominanza fra i maschi e scoppiano lotte, al termine delle quali il maschio predominante si accoppia con la femmina. Sebbene non emetta certamente la vocalizzazione iniziale con questo intento esplicito e consapevole, è tuttavia probabile che la femmina in tal modo accresca la sua idoneità, in quanto moltiplica le probabilità di accoppiarsi con un maschio predominante piuttosto che con uno subordinato. Quindi, qualsiasi tendenza di carattere genetico verso questo comportamento verrà, nella femmina, selezionata positivamente.
2. Comportamento. Nelle specie in cui le cure parentali sono irrilevanti, difficilmente il comportamento del partner potenziale assumerà una grande importanza. Tuttavia, in particolare fra le specie con prole inetta, e specialmente fra quelle che richiedono cure notevoli da parte sia del maschio sia della femmina, l'idoneità dell'uno è fortemente influenzata dal comportamento dell'altro. In tali circostanze, ci si può attendere che ciascun partner potenziale si regoli in base alle tendenze comportamentali manifestate dall'altro. In alcuni casi, un comportamento di questo tipo può puramente e semplicemente indicare la disponibilità sessuale del possibile partner. È stato per esempio osservato che i maschi delle tortore domestiche (Streptopelia risoria) ignorano, e a volte perfino attaccano, le femmine che, con il loro comportamento, dimostrano di essere già state corteggiate (e presumibilmente inseminate) da un altro maschio. Le specie monogame, in genere, fanno precedere all'accoppiamento lunghi periodi di corteggiamento, analoghi al periodo di fidanzamento fra gli uomini, nel corso dei quali tutte le eventuali qualità - ai fini della riproduzione - di entrambi i potenziali compagni hanno modo di manifestarsi.
Fra gli uccelli rapaci il corteggiamento implica di solito lunghe acrobazie aeree, durante le quali una preda viene lasciata cadere più volte e poi ripresa in volo. Queste manovre hanno il fine di permettere a ciascun partner di stabilire l'abilità dell'altro: un fattore importante per specie in cui entrambi i genitori devono provvedere regolarmente alla prole e in cui è necessario essere abili cacciatori per catturare la preda. Un interesse di questo tipo per le tendenze comportamentali del compagno si nota nel corteggiamento del pesce-damigella delle Hawaii (Dascyllus albisella). In questa specie i maschi difendono il territorio sul fondale delle barriere coralline, mentre le femmine passano in branchi al di sopra. I maschi indirizzano dunque il corteggiamento verso i branchi, dopo di che una femmina si stacca dalle altre e depone le uova nel territorio di un maschio. Quindi essa ritorna nel branco, lasciando al maschio la cura delle uova. Quali sono le caratteristiche del maschio che la femmina del pesce-damigella prende in considerazione? Data l'enorme quantità di potenziali predatori di uova sulle barriere coralline, sembrerebbe soprattutto importante la scelta di un maschio che dimostri di poter difendere validamente le uova. E in effetti è così: è più probabile che le femmine depongano le uova nel territorio di maschi che mettono in fuga con decisione i predatori che non in quello di maschi meno risoluti; è inoltre più probabile che i maschi scaccino questi predatori quando le femmine sono nelle vicinanze che durante la loro assenza.
3. Risorse. I principali fattori che determinano l'idoneità finale di una femmina possono non dipendere in modo assolutamente diretto dal suo compagno, vale a dire dal patrimonio genetico e dal comportamento di questi. In alcuni casi può assumere invece particolare importanza la natura delle risorse - rilevanti ai fini riproduttivi - a disposizione del maschio. Questo vale soprattutto per le specie poliginiche, nelle quali molte femmine si accoppiano con un solo maschio. Spesso, oltre alla difesa dagli eventuali predatori, questi maschi hanno poche possibilità dirette di accrescere la loro idoneità o quella delle loro compagne. Tuttavia può darsi che, in questi casi, le risorse ambientali controllate dal maschio abbiano un'importanza decisiva, e quindi che i maschi possano essere selezionati a competere fra di loro per l'accesso a queste risorse, accesso che si traduce per il maschio in idoneità una volta che sia stato scelto dalle femmine, le quali, a loro volta, cercano ovviamente in questo processo un aumento della loro idoneità. Esempi di risorse significative potrebbero essere una quantità di cibo sufficiente ad allevare con successo la prole, siti di nidificazione non accessibili ai predatori, ecc.
I sistemi di accoppiamento basati sulle risorse sembrano particolarmente frequenti presso le specie poliginiche (v. Emlen e Oring, 1977); il grado di poliginia è in relazione al grado di concentrazione ambientale delle risorse. Risorse sparpagliate in un ampio raggio non possono essere difese da un piccolo numero di maschi, il che porta a un sistema di accoppiamento più egualitario. La concentrazione delle risorse, invece, consente a un numero relativamente limitato di individui competitivi di monopolizzarle e di monopolizzare quindi, nella maggior parte dei casi, anche le copulazioni.
b) Strategie parentali.
Ai genitori spettano numerose decisioni strategiche. Come per altri comportamenti, l'approccio sociobiologico ritiene molto proficuo il vedere nelle cure parentali una serie di problemi ‛tattici', a proposito dei quali gli individui sono stati selezionati a comportarsi in modo rispondente alla strategia dominante: massimizzare la loro idoneità complessiva.
Quando riprodursi? - Ci sono due modi di considerare il momento in cui dovrebbe avvenire la riproduzione; ci si può cioè riferire alla stagione o allo stadio della vita di ogni individuo. È evidente che in entrambi i casi le preoccupazioni di idoneità svolgono un ruolo determinante. Considerando prima la stagionalità, è chiaro che fra gli organismi delle zone temperate e artiche la riproduzione tende a essere strettamente stagionale: nella maggior parte delle specie avviene regolarmente in primavera o in autunno. In entrambi i casi, lo schema si rivela coerente: il tempo dell'accoppiamento è determinato in modo che i massimi bisogni nutritivi coincidano con la massima disponibilità di risorse nutritive dell'ambiente. Di conseguenza, gli uccelli delle zone temperate si accoppiano all'inizio della primavera, in modo da far nascere i piccoli nel periodo in cui è disponibile la massima quantità di insetti e di vegetali. Gli Ungulati vanno invece in calore in autunno, cosicché, al termine del lungo periodo di gestazione, il parto avvenga in primavera e in estate, quando i piccoli, avendo le migliori possibilità di nutrirsi e di acquistare peso, massimizzano le probabilità di sopravvivere al loro primo inverno. Fra le specie che vivono in ambienti ‛meno stagionali', l'epoca della riproduzione è in un certo senso meno prevedibile. Resta comunque il fatto, perfettamente prevedibile, ch'essa è favorita dalla presenza di fattori ambientali connessi con maggiori probabilità di successo riproduttivo: piogge nel deserto, erba verde e fresca nella savana africana, ecc.
Le preoccupazioni di idoneità servono anche a illuminare il ciclo riproduttivo dei singoli individui. Tenuto conto del costo metabolico implicato dalla produzione di uova, dalla gravidanza e dall'allattamento, ci si potrebbe attendere che le femmine raggiungano la maturità sessuale dopo i maschi; in quasi tutti i casi è invece vero il contrario. Molte specie animali sono caratterizzate dal bimaturismo sessuale e, specialmente nei casi in cui si ha un'intensa competizione fra maschi, i maschi raggiungono la maturità sessuale con un significativo ritardo rispetto alle femmine. L'intensa competizione fra maschi offre grossi vantaggi ai vincitori, ma implica spesso costi altrettanto alti in termini di logoramento, ferite o morte per i perdenti. Quindi, i maschi delle specie molto competitive hanno spesso una maggiore idoneità se raggiungono per gradi la maturità sociale; essi ritardano così il loro ingresso nella lotta competitiva fino a quando non abbiano raggiunto le dimensioni e il grado di forza ed esperienza che garantiscono loro adeguate possibilità di successo. Una maturazione ritardata, invece, non offrirebbe grandi vantaggi alle femmine, solitamente meno soggette alla competizione. Una strategia diffusa fra gli animali caratterizzati da ermafroditismo facoltativo, come si riscontra in alcune specie di gamberetti, è la ‛proteroginia': nei primi stadi di vita gli individui sono di sesso femminile; quando raggiungono dimensioni tali da poter competere con successo, cambiano sesso e diventano maschi.
Quanta prole produrre e quanto investire in ogni discendente? - Tutti gli organismi possono dedicare alla riproduzione solo una quantità limitata di tempo e di energia. Sebbene si possa affermare con certezza che tutti gli esseri viventi vengono selezionati a dedicare alla riproduzione una quantità ottimale di risorse disponibili, si hanno vari possibili schemi di investimento. Per esempio, i merluzzi depongono ogni volta circa un milione di uova (ovviamente le uova sono piccole), ed è inverosimile che la femmina del merluzzo curi singolarmente ogni uovo. La maggior parte degli squali, invece, depongono solo una mezza dozzina di uova per volta; ogni uovo è di notevoli dimensioni ed è protetto da un guscio coriaceo. Mentre i piccoli del merluzzo hanno una mortalità superiore al 99,99%, quella dei giovani squali è nettamente inferiore: in entrambi i casi, per ogni coppia di genitori giungono a maturazione in media due discendenti, cosicché la popolazione rimane più o meno costante. Quindi, sia i merluzzi sia gli squali hanno lo stesso grado di idoneità, anche se lo raggiungono mediante strategie parentali molto diverse.
La strategia impiegata dai merluzzi è un esempio di selezione r, che prende il suo nome dal simbolo ecologico r, il parametro malthusiano o tasso naturale di incremento della popolazione (da non confondere col simbolo dei coefficienti di parentela). La strategia riproduttiva degli squali, invece, è un esempio di selezione K, dove K indica la capacità biologica specifica (carrying capacity). Con selezione K s'indica un quadro adattativo tipico in genere degli individui di una popolazione la cui densità si avvicina alla capacità biologica specifica dell'ambiente. La strategia riproduttiva ottimale consiste in questi casi nel generare un numero relativamente limitato di discendenti, investendo molto in ciascun individuo in modo da massimizzarne la capacità competitiva. La selezione r, invece, caratterizza la strategia opposta: per gli individui di popolazioni con densità basse rispetto alla capacità biologica specifica dell'ambiente, la soluzione ottimale consiste nel produrre il massimo numero di discendenti, con un investimento parentale necessariamente minimo per ognuno di essi. Le popolazioni caratterizzate dalla selezione r hanno in genere un più alto tasso di mortalità, piccole dimensioni corporee, crescita e sviluppo rapidi, organizzazione sociale relativamente semplice e vivono solitamente in ambienti fluttuanti o pionieristici, dove il controllo della popolazione è spesso indipendente dalla densità. Le popolazioni con selezione K, al contrario, tendono ad avere un tasso di mortalità più basso, notevoli dimensioni corporee, crescita e sviluppo più lenti, organizzazione sociale abbastanza complessa e occupano in genere ambienti stabili, climax, in cui il controllo della popolazione è spesso dipendente dalla densità. Va sottolineato che i due tipi di selezione (r e K) non rappresentano due strategie ‛discrete', ma piuttosto i due estremi di un continuum lungo il quale possono situarsi tutti gli organismi.
Devono essere generati maschi o femmine? - L'insigne biologo e statistico R. A. Fisher (v., 1928) è stato il primo a spiegare secondo criteri moderni perché i rapporti terziari dei sessi tendono a essere uguali per la maggior parte delle specie. La sua teoria è che qualsiasi deviazione dall'uguaglianza favorirebbe i genitori che tendono a produrre discendenti del sesso quantitativamente più scarso, poiché questi ultimi avrebbero un'idoneità maggiore rispetto a quelli del sesso sovrabbondante. Il rapporto dei sessi tenderebbe dunque ad autoequilibrarsi, in quanto, ogni volta che esso si sposta a favore dell'uno o dell'altro sesso, interviene la selezione a pareggiare il numero di maschi e di femmine. La teoria di Fisher vale anche per le specie poligame, presso le quali l'insuccesso riproduttivo degli individui non accoppiati è perfettamente bilanciato dal maggiore successo riproduttivo di quei pochi che procreano.
Le conclusioni cui è giunto Fisher, tuttavia, non possono essere applicate alle specie poligame in cui i genitori hanno qualche informazione sul possibile successo o insuccesso della loro prole. Per esempio, per una specie con harem produrre dei maschi è rischioso, perché, per ogni maschio che raggiunge il successo riproduttivo, ce ne devono essere altri che non arrivano a procreare; invece, essendo la competizione tra femmine limitata, una femmina ha più probabilità di riprodursi con successo, a prescindere dalle sue qualità personali. I genitori che hanno probabilità di produrre discendenti non competitivi risultano più ‛idonei' se concentrano il loro investimento nella prole di sesso femminile. Ma vale anche il contrario: l'idoneità di genitori socialmente predominanti o con particolari capacità fisiche, e che quindi produrranno probabilmente una prole altamente competitiva, è maggiore se producono maschi, perché in una società basata sull'harem il rendimento riproduttivo per i maschi di successo è molto alto. Questo principio trova la sua conferma nella biologia riproduttiva di molte specie (v. Trivers e Willard, 1973), il che indica l'esistenza di una selezione naturale della capacità parentale di determinare il rapporto dei sessi nella propria prole.
Chi si occupa della prole? - In tutto il mondo naturale i maschi si occupano della prole nettamente meno delle femmine. Il comportamento paterno è obbligatorio solo in un ristretto numero di specie; in genere, ammesso che ci sia, è facoltativo. Il comportamento materno, specialmente fra gli Uccelli e in tutti i Mammiferi, rappresenta invece la norma. Come per ogni altra analisi sociobiologica, è opportuno considerare ogni specie singolarmente, perché ognuna rappresenta una soluzione unica in risposta a determinati fattori ecologici; sono tuttavia possibili anche in questo caso utili generalizzazioni. Per quanto riguarda le differenze fra maschio e femmina nelle cure parentali, gli aspetti da considerare sono essenzialmente due: l'investimento parentale e la certezza della parentela genetica.
Dato che l'investimento delle femmine nella prole è quasi sempre maggiore di quello dei maschi, esse puntano di più sul futuro dei loro discendenti. Sebbene l'ammontare degli investimenti passati non dovrebbe ‛di per sé' influenzare le considerazioni strategiche attuali, le femmine si distinguono dai maschi in quanto - il loro investimento nella prole essendo maggiore - in caso di fallimento della prole l'investimento addizionale necessario per produrre altri discendenti sarebbe, di nuovo, maggiore per la madre che non per il padre. Già questo fatto predispone le madri a una sollecitudine parentale in genere superiore rispetto a quella dei padri.
Inoltre, le femmine di tutte le specie a fecondazione interna sono di necessità geneticamente legate alla prole, che nutrono e difendono. I maschi, invece, non hanno alcuna garanzia della parentela genetica: possono essere stati ‛traditi', e non c'è alcun vantaggio evolutivo nell'allevare la prole di qualcun altro (a meno che, ovviamente, non si tratti di un parente). La maggior parte dei maschi, quindi, tende a massimizzare la sua idoneità interagendo con altri adulti - lottando con altri maschi e cercando di accoppiarsi con altre femmine - piuttosto che dedicandosi a doveri parentali, il cui rendimento potrebbe essere nullo in termini di idoneità. Fra i Mammiferi, inoltre, le femmine sono dotate di un apparato unico, le mammelle, per nutrire la prole, il che costituisce per i maschi un motivo di più per adottare comportamenti non paterni. È significativo il fatto che un comportamento paterno costante e devoto si riscontra nel modo più coerente in alcuni pesci che depongono le uova sul fondo e in uccelli e mammiferi rigidamente monogami (quali i gibboni, i siamanghi e gli uistitì). In tutti questi casi il maschio adulto ha ottime probabilità di aver generato egli stesso la prole. Come è stato osservato in precedenza, l'allevamento comunitario (communal) della prole è una notevole eccezione alla regola e, quando si verifica, il comportamento coadiuvante sembra predisposto da ragioni di idoneità complessiva.
In assenza di parentela genetica, la teoria sociobiologica prevede una scarsa inclinazione alla sollecitudine parentale, e perfino un aperto antagonismo; tali predizioni trovano effettivamente un riscontro empirico. I maschi dell'uccello azzurro delle montagne (Sialia currocoides), per esempio, si astengono dal procacciare cibo e dal dare l'allarme quando si accompagnano a una femmina della cui prole non sono i padri. Nelle specie poliginiche quali gli entelli (Presbytus entellus), i colobi (genus Colobus), gli scoiattoli terrestri e i leoni (v. Hrdy, 1977), sono stati osservati casi frequenti di infanticidio quando un maschio subentra in un harem, scacciandone il maschio padre della prole presente. Il maschio successore non ha alcuna parentela genetica con i piccoli presenti nell'harem e quindi non ha inibizioni ‛evolutive' a ucciderli. Infatti, una volta che un piccolo ancora in fase di allattamento sia stato eliminato, la madre è indotta a dare inizio a un nuovo ciclo: essa si accoppierà quindi con il maschio infanticida, accrescendone così l'idoneità.
C'è sempre accordo tra genitori e prole? - Il sociobiologo R. L. Trivers (v., 1974), delineando una biologia evolutiva del conflitto genitori-prole, ha introdotto nella sociobiologia una nuova sottodisciplina. Secondo una visione ingenua dell'evoluzione, i genitori e la prole dovrebbero andare quasi sempre d'accordo. I genitori hanno in comune con i discendenti metà dei loro geni, e gran parte del loro successo evolutivo è legato al successo della prole stessa. In teoria, essi dovrebbero quindi incoraggiare tutto quello che potrebbe essere vantaggioso per la prole, che a sua volta, data la stretta comunanza d'interessi, dovrebbe sottomettersi ai voleri dei genitori. Resta tuttavia il fatto che i genitori e la prole non sono geneticamente identici: hanno in comune metà dei loro geni, non tutti, e si può pensare che la differenza genetica si traduca in differenze strategiche e comportamentali.
Prendiamo un neonato di mammifero: per sopravvivere, e sperare di riprodursi, esso ha bisogno dell'investimento parentale, soprattutto dell'allattamento materno. Deve quindi cercare l'investimento materno, così come la madre deve cercare di investire nel neonato. Fin qui, non si prevedono conflitti. Ma, col maturare del piccolo, la madre raggiunge uno stadio in cui, per massimizzare la propria idoneità, cessa di investire nella prole presente e si riproduce di nuovo. Dato che ha la stessa parentela sia con la prole presente che con ogni prole futura, a parità di condizioni dovrebbe dedicare a ognuna le stesse cure. Ma probabilmente la prole iniziale vede le cose in un altro modo. Dato che è imparentata al 50% (non al 100%) con la madre, mentre è imparentata al 100% con se stessa, essa terrà al proprio benessere più di quanto non vi tenga la madre. Inoltre, dato che un altro fratello germano avrebbe in comune con lui solo il 50% dei geni, è prevedibile che la prole iniziale si opponga ai tentativi parentali di sospendere l'investimento nei suoi confronti per dirottarlo su un altro discendente. Si avrà quindi una fase conflittuale, in cui i genitori vengono selezionati a investire soprattutto nella nuova prole, mentre la prole già esistente è selezionata a promuovere la prosecuzione dell'investimento parentale.
La madre è selezionata a cessare l'investimento quando il rapporto fra benefici parentali e costi della cessazione è superiore a 1. Dalla nascita fino a questo momento, tale rapporto è aumentato - da quasi zero - approssimandosi gradualmente a 1. Poiché il rapporto continua ad aumentare con la crescita della prole, si prevede che i genitori cerchino di cessare l'investimento, mentre la prole tenterà di mantenerlo. A un certo punto, comunque, quando il rapporto costi/benefici sarà superiore a 2, si prevede che sia i genitori sia la prole concordino sulla cessazione dell'investimento. Secondo la teoria del conflitto genitori-prole, dunque, l'interazione fra genitori e prole dovrebbe passare da una fase di accordo iniziale al conflitto, per tornare nuovamente all'accordo; il che corrisponde pienamente agli schemi di conflitto osservati, per esempio, nel caso dello svezzamento.
La teoria del conflitto genitori-prole prevede conflitti non solo riguardo al momento della cessazione dell'investimento parentale, ma anche riguardo l'entità dell'investimento in un dato momento. Così, per qualsiasi interazione - per esempio l'allattamento - ci si attende che l'investimento materno sia di tale entità da massimizzare la differenza fra i benefici e i costi relativi all'interazione in questione. Circa la prole, ci si attende invece che valuti un po' diversamente la medesima interazione, in quanto, avendo solo una metà dei geni in comune con la madre, tenderà a dimezzare i costi sopportati dalla madre. Ne risulta che la prole è selezionata a massimizzare la differenza fra i benefici parentali e la metà dei costi parentali, e conseguentemente preferisce un investimento maggiore di quello per il quale il genitore è selezionato: ecco che si determina di nuovo il conflitto.
Inoltre, la teoria del conflitto genitori-prole prevede conflitti circa le tendenze comportamentali della prole verso gli altri individui, compresi i fratelli germani. I genitori verrebbero cioè selezionati a incoraggiare l'altruismo reciproco tra fratelli germani quando il vantaggio netto ottenuto dal beneficiario sia maggiore del costo sopportato dall'altruista. In questo caso, il beneficio netto che deriva al genitore è certo, in quanto egli (padre o madre) è imparentato allo stesso modo con entrambi i discendenti. Ma il potenziale altrui sta dovrebbe pensarla diversamente: esso ha in comune con il fratello il 50% dei geni, ma anche ‛in comune' il 100% dei geni con se stesso. Quindi dovrebbe essere selezionato a evitare un comportamento altruistico nei confronti di un fratello, a meno che il beneficio derivato al fratello dall'atto stesso non sia due volte maggiore del costo. Ci si attende quindi che i genitori e la loro prole discordino circa l'altruismo nei confronti di altri fratelli e che la prole si opponga alle spinte dei genitori, a meno che il comportamento in questione non sia particolarmente privo di rischi e/o presenti per il fratello una speciale urgenza.
Infine, è previsto un conflitto fra genitori e prole per quanto riguarda l'altruismo verso altri individui, nel caso in cui genitori e prole siano diversamente imparentati con gli individui in questione. Per esempio, i genitori hanno, rispetto ai nipoti, un coefficiente di parentela pari a 1/4, mentre per la prole (che in questo caso ha un rapporto di cuginanza) il coefficiente di parentela è pari a 1/8. Ci si attende dunque un disaccordo tra genitori e prole circa il comportamento della prole verso i cugini: i genitori spingerebbero la prole ad avere verso i cugini un comportamento più altruistico di quanto non sia nell'interesse della prole stessa.
Partendo dalla teoria del conflitto genitori-prole, sono possibili molte altre predizioni. Per esempio, il conflitto dovrebbe essere meno accentuato quando la capacità riproduttiva dei genitori è più bassa, in quanto essi dovrebbero essere - per selezione - meno inclini a ritirare l'investimento parentale dalla prole già generata. Inoltre, come fa notare Trivers, ci si può attendere che la prole sviluppi tattiche psicologiche volte a sollecitare l'investimento parentale, quali la regressione al comportamento infantile, ecc. Da parte loro, i genitori resistono ai tentativi di manipolazione da parte della prole e cercano di manipolarla a loro volta, per esempio minacciando di ritirare l'investimento parentale a meno di una maggiore sottomissione. Non è chiaro quali siano i vincitori, e l'intera questione presenta molti aspetti poco chiari. La nozione di conflitto genitori-prole ha comunque una sua validità teorica, ed è assai probabile che nei prossimi anni verranno fatti sforzi considerevoli per ottenere una sua conferma empirica.
5. La vita sociale.
a) La strategia adattativa del raggruppamento.
Tutte le specie a riproduzione sessuale devono presentare, per riprodursi, un qualche sia pur minimo grado di socialità. Tuttavia, i membri di molte specie attuano, con i loro conspecifici, una socializzazione maggiore di quanto non sia strettamente necessario ai fini riproduttivi. Gli schemi specifici di vita sociale sono vari come le specie animali; sono però possibili alcune generalizzazioni. La selezione naturale darwiniana metteva in risalto gli aspetti competitivi dell'esistenza, riducendo quasi a un paradosso il comportamento sociale e il suo apparente carattere cooperativo. L'opera pionieristica dello studioso di ecologia animale W. C. Allee (v., 1938) e della sua scuola ha contribuito a mettere in luce i vantaggi del raggruppamento sociale, anche se quest'impostazione aveva l'inconveniente di considerare gli adattamenti al livello del gruppo piuttosto che a livello individuale. Concentrando l'attenzione, come oggi è abituale, sul livello individuale e genico, il pensiero sociobiologico ha preso in esame ancora una volta il problema dei vantaggi e svantaggi del raggruppamento sociale.
Un aspetto negativo del raggruppamento sociale è che i suoi membri possono essere più facilmente avvistati dai predatori, in quanto costituiscono uno stimolo più grande e quindi più appariscente. D'altra parte, gli animali in raggruppamento hanno effettivamente migliori possibilità di difesa contro i predatori, proprio perché ogni individuo può avvantaggiarsi della vigilanza di ogni altro membro del gruppo. Inoltre, la maggiore sorveglianza permette ogni tanto a ciascun membro del gruppo di dedicare più tempo alla ricerca di cibo, dato che, mentre è occupato in quest'attività, ci sono buone probabilità che qualche altro membro del gruppo faccia la guardia. Anche in caso di attacco di un predatore il raggruppamento può essere vantaggioso, perché le capacità complessive di difesa di un gruppo possono essere superiori a quelle di individui isolati, come nel caso di un gruppo di buoi muschiati che si difende dai lupi o di un branco di babbuini che respinge un leopardo. Alcuni predatori si astengono dall'attaccare gruppi di animali, spesso perché la loro strategia di attacco richiede che venga isolato dal gruppo un singolo animale. Per esempio, gli storni (Sturnus vulgaris) e i piccioni volano in ranghi più serrati quando sono inseguiti da un falco: è improbabile che il predatore attacchi stormi fitti, perché potrebbe ferirsi nell'urto contro di essi. Il raggruppamento sociale può essere inoltre selezionato in base a una semplice considerazione ‛spaziale': si suppone che un individuo aumenti le sue probabilità di sopravvivenza stando vicino agli altri, perché in questo modo è più probabile che il predatore attacchi gli individui che gli sono intorno anziché lui stesso (v. Hamilton, 1971).
Il raggruppamento sociale può inoltre facilitare la ricerca di cibo, perché ciascuno può servirsi delle scoperte fatte dagli altri. Tra gli svantaggi c'è il fatto che, una volta scoperto il cibo, bisogna dividerlo con gli altri, e che la presenza di altri può ridurre l'efficienza del singolo nella ricerca di cibo. Questo vale soprattutto per le specie che predano organismi, la cui cattura può diventare meno probabile se la vista, i rumori o gli odori segnalano loro la presenza di un gruppo sociale, mentre potrebbero essere catturati più facilmente da un predatore isolato. D'altra parte, per alcune specie di predatori il gruppo è indispensabile per il successo della caccia, soprattutto per specie quali i lupi e i licaoni, che di solito cacciano prede troppo grandi per essere catturate da un predatore solitario. In questi casi, lo svantaggio di dover dividere le spoglie è compensato dal fatto che, se non ci fosse il raggruppamento sociale, non vi sarebbero neanche spoglie da dividere.
L'appartenenza a un gruppo sociale fa aumentare il rischio di trasmissione delle malattie o dei parassiti, come anche le probabilità di ‛tradimento' e quindi di investimenti parentali mal diretti. D'altra parte, il raggruppamento sociale fornisce agli individui l'opportunità di profittare del condizionamento biologico dell'ambiente e facilita inoltre la massimizzazione dell'idoneità complessiva di ognuno, sia perché maggiori sono le possibilità di investire in parenti, sia perché, data la situazione, è possibile essere l'oggetto di investimenti altrui. Ma dato che ogni individuo generalmente tiene di più a se stesso che ai suoi parenti, il raggruppamento presenta necessariamente degli svantaggi, perché i membri del gruppo possono essere oggetto di discriminazione da parte di individui esterni al gruppo per quanto riguarda il cibo, le possibilità di accoppiamento, i siti di nidificazione, ecc.
Questi cenni sommari indicano che le conseguenze effettive del raggruppamento sull'idoneità di ogni individuo non si possono dedurre automaticamente da un esame del raggruppamento in generale. È invece necessario, per stabilire quali siano i fattori di volta in volta predominanti, analizzare attentamente i singoli casi.
b) Sistemi di accoppiamento.
Un aspetto speciale e di particolare interesse è la ‛gregarietà', considerata dal punto di vista della riproduzione. È opportuno distinguere tre principali sistemi di accoppiamento: la monogamia, la poligamia e la promiscuità. Nella monogamia, l'unità riproduttiva è costituita da un maschio e una femmina uniti da un ‛legame di coppia'. Il rapporto di varianza del successo riproduttivo maschile rispetto a quello femminile è di circa 1. La monogamia stabile è estremamente rara, anche se si riscontra fra i cigni, le oche, le aquile, i gibboni e i castori, che mantengono per tutta la vita il medesimo legame di coppia. La monogamia annuale, in cui nuovi legami si formano di anno in anno, è più comune. Questo schema è particolarmente diffuso fra alcuni passeriformi di piccole dimensioni, quali i silvidi, i passeri, i tordi, ecc. La monogamia è il sistema di accoppiamento più comune fra gli Uccelli, presso i quali è associato a un investimento parentale quasi uguale da parte di entrambi i partners. Ciò indica che la monogamia verrà selezionata quando, per il successo riproduttivo, è necessario un alto grado di collaborazione fra due adulti. Dati gli alti livelli metabolici delle nidiate, è evidente che un adulto da solo si troverebbe in difficoltà a procurarsi il cibo necessario alla prole. È interessante notare che, fra gli Uccelli, la monogamia caratterizza soprattutto quelli che generano una prole inetta invece che precoce.
A differenza della monogamia, la poligamia è un sistema di accoppiamento in cui l'unità riproduttiva è rappresentata da un individuo di un sesso e da vari individui del sesso opposto. In tali casi, il rapporto di varianza fra il successo riproduttivo maschile e femminile sarà diverso da 1. Esso sarà maggiore di 1 nei casi di poliginia, in cui un maschio si accoppia con più femmine; sarà invece inferiore a 1 nei casi di poliandria, in cui una femmina si accoppia con più maschi. Sia la poliginia che la poliandria possono essere seriali o simultanee, annuali o stabili. Le precedenti considerazioni sull'investimento parentale indicano che la poliginia dovrebbe essere il sistema di accoppiamento più diffuso, specialmente fra i Vertebrati. In un sistema di questo tipo sia i maschi che le femmine si comportano in modo da massimizzare l'idoneità, anche se i maschi possono preferire forme di poliginia più spinte di quanto potrebbe essere nell'interesse delle femmine, che sembrano preferire restrizioni alla poliginia, osteggiate dai maschi.
I sistemi di accoppiamento basati sulla disponibilità delle risorse sono un soggetto interessante per un'analisi del comportamento sociale in termini evolutivi (v. Emlen e Oring, 1977). Consideriamo per esempio il merlo dalle ali rosse (Agelaius phoeniceus), un passeriforme palustre molto diffuso nell'America del Nord. In questa specie tre o quattro femmine si insediano in genere nel territorio di un unico maschio (con cui si accoppiano), il quale non dà praticamente nessuna assistenza paterna alla prole. Scegliendo la poliginia, queste femmine operano una discriminazione nei confronti di celibi apparentemente convenienti, che difendono anch'essi i loro territori e che, in quanto non accoppiati, potrebbero esser di aiuto a una femmina nelle cure parentali. Posto che le femmine scelganopartners atti a massimizzare la loro idoneità, questa strategia lascia perplessi. Tuttavia le perplessità scompaiono se si pensa che le strategie riproduttive delle femmine (come anche dei maschi) non vengono determinate da fattori isolati, come ad esempio la disponibilità di cure parentali addizionali. Quello che conta è piuttosto il risultato finale del processo evolutivo, determinato dalla somma di tutti i fattori che contribuiscono all'idoneità dell'individuo.
Nel caso dei merli dalle ali rosse, sembra che le femmine siano più influenzate dalla natura delle risorse controllate dal maschio che dalla natura del maschio stesso. Ciò è probabile, in quanto l'habitat dei merli dalle ali rosse è molto eterogeneo, e ci sono notevoli differenze fra i territori difesi dai vari maschi. Se tutti i territori fossero omogenei, e offrissero quindi alle femmine uno stesso potenziale in fatto di idoneità, ci si aspetterebbe una preferenza delle femmine per l'accoppiamento con i celibi (che potrebbero dare un'assistenza paterna, impossibile per l'affaccendato maschio poliginico). Tuttavia, data l'ineguale distribuzione delle risorse, le femmine che si accoppiano bigamicamente possono comunque raggiungere un'idoneità maggiore rispetto a quella che avrebbero accoppiandosi monogamicamente con un altro maschio il cui habitat sia qualitativamente inferiore. La differenza qualitativa del territorio, appena sufficiente per produrre un ugual rendimento, in termini di idoneità, per la femmina accoppiata bigamicamente su un territorio qualitativamente migliore rispetto a quella accoppiata monogamicamente su un territorio di qualità inferiore, prende il nome di ‛soglia poliginica' (v. Orians, 1969).
La poliandria può essere riportata allo stesso modello della soglia poliginica, una volta che siano le femmine ad acquisire il controllo delle risorse inegualmente distribuite sui loro territori. Dal punto di vista dell'investimento parentale, tuttavia, la poliandria dovrebbe essere - come infatti è - abbastanza rara. Nella maggioranza delle specie animali i maschi hanno maggiori probabilità delle femmine di accrescere la loro idoneità accoppiandosi con più partners. In un numero limitato di casi, la situazione è però invertita: sebbene lo sviluppo storico di questo fenomeno particolare non sia chiaro, esso potrebbe derivare da uno schema comportamentale - attualmente osservabile in alcune specie di trampolieri quali Actitis macularia - in cui le femmine procacciano il cibo e ricuperano le perdite metaboliche dovute alla produzione delle uova, mentre il maschio dà inizio alla cova. Quando queste femmine hanno sufficiente nutrimento, possono tornare nel nido, o per covare le uova già deposte o per deporne altre con un altro maschio. Verrebbe così posta una possibile base per l'evoluzione della poliandria.
La promiscuità si differenzia sia dalla monogamia che dalla poligamia in quanto fra maschi e femmine non esistono legami di coppia. Ma nonostante l'usuale connotazione linguistica di casualità od occasionalità, da un punto di vista sociobiologico la promiscuità comporta spesso un alto grado di selettività, soprattutto da parte delle femmine. Quindi, in molti sistemi di accoppiamento promiscuo il rapporto di varianza del successo riproduttivo maschile e femminile è paragonabile a quello dei sistemi poliginici, dato che un numero ristretto di individui (in genere maschi) hanno spesso un notevole successo riproduttivo, e di conseguenza un gran numero di individui dello stesso sesso hanno un successo riproduttivo relativamente basso. Alcuni fra i migliori esempi di sistemi di accoppiamento promiscuo si ritrovano nelle specie che mantengono delle ‛arene' (leks), cioè luoghi esclusivamente adibiti all'esibizione. In specie quali il centrocerco urofagiano dell'America del Nord o il colombo dal collare europeo, la maggioranza delle copulazioni sono prerogativa di un piccolo numero di maschi esperti, che si producono in esibizioni elaborate. Le femmine si recano per brevi periodi nelle ‛arene', che lasciano dopo essere state fecondate. In genere, esse allevano la prole senza assistenza paterna. Quindi, i sistemi di accoppiamento promiscuo sono strettamente connessi alla capacità - della femmina - di allevare la prole e, fra gli Uccelli, le specie promiscue sono quasi sempre anche precoci. Come era da attendersi, la promiscuità è il sistema di accoppiamento più diffuso fra i Mammiferi, probabilmente perché l'allattamento rende le femmine più adatte a svolgere il grosso delle cure parentali e dà al maschio la possibilità di massimizzare la sua idoneità con nuove copulazioni piuttosto che mediante le cure parentali.
La selezione di parentela sembra avere, e la cosa non sorprende, un'influenza diretta sull'evoluzione dei sistemi di accoppiamento animale, oltre all'influenza evidente sugli altri schemi di comportamento sociale. Per fare un esempio, i maschi della gallina della Tasmania (Tribonyx mortierii), una specie che pratica occasionalmente la poliandria, sono generalmente fratelli germani, di modo che ogni maschio può beneficiare perlomeno della selezione di parentela (nel caso che suo fratello sia il padre della prole generata), anche quando non sia egli stesso il padre. Analogamente, fra i tacchini selvatici dell'America del Nord (Meleagris gallopavo) è possibile osservare un sistema di accoppiamento promiscuo caratterizzato da coppie di due maschi, che collaborano fra di loro e competono con altre coppie dello stesso tipo. Tuttavia, quando la competizione si è conclusa e la coppia vincente si accoppia con le femmine, il maschio subordinato all'interno della coppia consente al maschio predominante di monopolizzare le copulazioni. Anche in questo caso, i maschi della coppia sono fratelli germani, di modo che il maschio subordinato trae un beneficio genetico dal fatto di diventare, se non padre, zio.
6. Strategie competitive.
Nonostante l'influsso positivo della comunanza dei geni, della reciprocità e, eventualmente, della selezione di gruppo, resta un dato di fatto che la normale interazione fra gli individui è in larga misura caratterizzata dalla competizione. È un fenomeno del tutto ovvio, se si considera che la selezione favorisce in ogni individuo tutti i tratti che contribuiscono alla sua idoneità, ma non necessariamente a quella di un altro. È opportuno distinguere due principali schemi di competizione, la competizione indiretta e la competizione diretta. Nel primo caso, gli individui non interagiscono direttamente, ma consumano, ognuno per proprio conto, date risorse, nei limiti della loro capacità, senza che sia necessario anche solo incontrarsi con altri individui. I vantaggi selettivi andranno agli individui che sfruttano le risorse nel modo più efficace, trasformando l'ambiente nel numero più alto possibile di repliche dei loro geni. La competizione diretta si ha invece quando vi è un'interazione diretta fra gli individui, e la parte di risorse, e a lungo termine anche l'idoneità di ciascuno, è determinata dal risultato di queste interazioni sociali. La competizione diretta può quindi assumere una varietà di forme, molte delle quali non sono affatto in relazione all'uso effettivo delle risorse per le quali ha luogo la competizione. Le strategie della competizione indiretta sono senza dubbio soggette all'azione della selezione naturale e costituiscono in gran parte l'oggetto dell'ecologia animale, e in particolare della sottodisciplina che si occupa dell'approvvigionamento ottimale e delle strategie globali di vita. La sociobiologia, dati gli aspetti sociali della competizione diretta, tende invece a occuparsi maggiormente delle strategie proprie di questo comportamento.
a) Predominanza sociale.
Nella predominanza sociale gli individui esprimono la loro disuguaglianza. Dato che solamente i gemelli identici sono identici geneticamente (ma anche in questo caso bisogna considerare il ruolo della diversità ambientale), gli individui differiscono in genere gli uni dagli altri. Le differenze possono riflettersi nelle dimensioni, nella forza, nell'intelligenza, negli schemi di approvvigionamento, nel corteggiamento, ecc. Nelle specie in cui i vantaggi sono superiori agli svantaggi, si avrà necessariamente il raggruppamento sociale. In tali casi, individui diversi si troveranno gli uni di fronte agli altri. È stato provato che queste associazioni si verificano quando sono vantaggiose per i partecipanti: se il raggruppamento tornasse a svantaggio di un individuo, questi verrebbe selezionato a condurre una vita più solitaria. Ciò non vuol dire, tuttavia, che tutti i raggruppamenti sociali siano necessariamente vantaggiosi per tutti gli individui nello stesso modo e nello stesso momento. In virtù delle differenze fra i membri del gruppo, è probabile che alcuni individui riescano a sconfiggere gli altri nella competizione diretta faccia a faccia. Per l'osservatore umano il risultato di queste interazioni si presenta come un sistema di predominanza sociale o una gerarchia di predominanza.
I rapporti di predominanza costituiscono essenzialmente un sistema di precedenze, socialmente mediate, nell'accesso alle risorse: partner, cibo, luoghi di riposo, ecc. L'instaurazione di questi rapporti presuppone non soltanto le differenze fra gli individui, ma anche la loro capacità di riconoscersi a vicenda; altrimenti, il risultato delle interazioni agonistiche precedenti non avrebbe alcuna influenza sugli incontri futuri, influenza che è invece uno dei segni distintivi della predominanza sociale. In genere, quando due avversari all'incirca uguali si incontrano per la prima volta, si ha una fase di esibizione, di bluff, di minaccia ed eventualmente anche di lotta, da cui uno dei due individui uscirà vittorioso. Di solito, il perdente non viene ucciso e, perlomeno nella maggior parte delle specie altamente sociali, gli è consentito (maschio o femmina che sia) di rimanere nel gruppo sociale. Le successive interazioni fra gli stessi individui rinforzeranno il rispettivo rango sociale, in quanto gli individui predominanti tendono a muoversi in modo deciso, con il pelo o le penne eretti, mentre i subordinati tendono a essere più furtivi, a farsi piccoli il più possibile, evitando in genere di sfidare apertamente i predominanti.
I vantaggi delle gerarchie di predominanza per gli individui che si trovano al vertice sono evidenti: essi acquisiscono il libero accesso alle risorse di cui hanno bisogno senza dover costantemente lottare per esse. Per quanto riguarda i subordinati, tuttavia, il vantaggio è meno evidente, anche se probabilmente non meno reale. Data la sua condizione di sconfitto, l'individuo può abbandonare il gruppo sociale tentando di sopravvivere e riprodursi per proprio conto, oppure può rimanere. Se gli svantaggi della vita solitaria sono abbastanza grandi, potrebbe convenirgli (in termini di idoneità) restare nel gruppo anziché abbandonarlo. In questo caso, l'individuo può scegliere di rifiutare o accettare il suo ruolo di subordinato. Se adotta la prima strategia dovrà combattere con gli altri individui predominanti, impiegando una grande quantità di tempo ed energie in combattimenti che, se tutto va bene, saranno fruttuosi, ma che più probabilmente comporteranno un grosso dispendio di tempo ed energie e potrebbero perfino risolversi nel ferimento o nella morte. Ciononostante, se il subordinato avesse la certezza di non poter mai avere risorse sufficienti a garantire, per il suo comportamento subordinato, un vantaggio in termini di idoneità, la selezione favorirebbe sforzi costanti di automiglioramento, anche se tale comportamento dovesse rivelarsi suicida.
La situazione dei subordinati non è però disperata; anzi, spesso è buona abbastanza da ripagare l'accettazione almeno temporanea del loro ruolo sociale. In genere gli individui predominanti sono più anziani dei subordinati: aspettando il loro momento nel ruolo di subordinati, gli individui più giovani acquistano maggiori probabilità di rimpiazzare i predominanti quando questi non siano più in grado di mantenere la loro posizione. Quindi, sotto un certo punto di vista, lo status di subordinato può essere considerato una ‛situazione di attesa', in cui l'accettazione ditale status è adattativa nella misura in cui è probabilmente temporanea. Al subordinato si offrono anche altri vantaggi: può riuscire a ‛rubare' copulazioni, cibo, ecc., mentre il predominante è occupato in altre faccende. Inoltre, anche se dalla sua condizione sociale non ricava mai un beneficio riproduttivo diretto, il subordinato può trarne però un vantaggio in termini di idoneità complessiva, se ha un grado di parentela abbastanza stretto con gli individui predominanti (e quindi riproduttivamente fortunati). Per riassumere, l'approccio sociobiologico alla predominanza mette in risalto i benefici personali che ogni individuo ricava dal sistema sociale in esame. Gli etologi, invece, hanno generalmente considerato le gerarchie di predominanza come caratteristiche delle specie, e perciò presumibilmente selezionate a livello di gruppo o di specie. Un approccio evoluzionistico, più moderno, suggerisce che le gerarchie di predominanza, come altri aspetti del comportamento animale, non sono altro che la conseguenza dei tentativi compiuti da ogni individuo di massimizzare la propria idoneità. Per gli individui predominanti il vantaggio è abbastanza grande e immediato, mentre i subordinati, a quanto sembra, si limitano a fare di necessità virtù.
b) Aggressione.
L'aggressione è il meccanismo immediato della competizione diretta. Come per tutti gli altri comportamenti, l'aggressione comporta costi e benefici, ma, diversamente dalla maggioranza degli altri comportamenti, c'è una speciale probabilità che l'aggressione comporti costi notevoli. Possiamo quindi attenderci che si verifichi solo quando gli eventuali benefici sono corrispondentemente alti o quando - per una ragione qualsiasi - vi sono buone probabilità che i costi risultino abbastanza limitati. Gli studi etologici sulle aggressioni animali hanno messo in evidenza la natura stereotipata e ‛da torneo' delle interazioni aggressive, e in particolare le frequenti inibizioni all'uccisione intraspecifica. Questa limitazione è stata in genere ritenuta una conseguenza dell'evoluzione, che agisce per il bene della specie.
Questa spiegazione non è accettabile per la biologia evoluzionistica moderna. Se un individuo, quando non venga inibita la sua aggressività, risulta più ‛idoneo' (anche se è minore l'idoneità della specie), ci attendiamo che la selezione favorisca questo comportamento. In realtà, l'inibizione dell'aggressione fallisce spesso in situazioni di cattività, quando gli individui non possono esprimere appieno il loro repertorio comportamentale. Oltre a ciò, sembra che l'astenersi dall'uccidere i rivali sconfitti sia egoisticamente più vantaggioso per la maggior parte degli individui vittoriosi. Dal momento che la vita di gruppo può essere spesso vantaggiosa, e dato che gli individui sconfitti resteranno (per il loro stesso vantaggio egoistico) all'interno del gruppo sociale, risparmiare l'avversario sconfitto potrebbe essere utile per l'individuo predominante, il quale trarrebbe vantaggio dal fatto di conservare nel gruppo un membro cooperante anziché un cadavere.
Spesso, anche fra le specie meno sociali, la restrizione dell'aggressione è favorita dalla selezione naturale perché, portando alle estreme conseguenze il suo vantaggio, anche un individuo vittorioso potrebbe essere ferito o addirittura ucciso, mentre la sconfitta del rivale assicura in genere l'accesso alle risorse disputate. Inoltre, è anche possibile che l'individuo sconfitto sia imparentato con il vincitore; in questo caso l'apparentemente altruistico vincitore trae invece un vantaggio egoistico dal suo comportamento in termini di idoneità complessiva. (Per una spiegazione esauriente dei vantaggi derivanti, al livello degli individui e/o dei loro geni, dalla restrizione dell'aggressione, è necessario rifarsi al concetto di ‛strategie evolutive stabili' esaminato nel paragrafo seguente).
La restrizione dell'aggressione può essere quindi vantaggiosamente analizzata in termini sociobiologici, e lo stesso dicasi per le manifestazioni aggressive concrete. La teoria suggerisce che l'aggressione dovrebbe manifestarsi quando è adattativa, cioè quando i benefici sono superiori ai costi. Dunque ci si attende l'aggressione quando le risorse in questione sono importanti per il successo evolutivo, e quando essa rappresenta un modo efficace per conquistare l'accesso alle risorse stesse. Come si poteva prevedere, l'aggressione è spesso indotta dalla scarsità delle risorse, dalla maggiore densità della popolazione e, spesso, dalla concentrazione di risorse. In natura, gli individui lottano raramente per cose che possono essere ottenute altrimenti, e il combattimento è quasi sempre l'ultima risorsa. Diversamente dall'approccio evoluzionistico della sociobiologia, le teorie etologiche dell'aggressione hanno messo in risalto il fatto che essa è innata, e in particolare sono innate le posture specie-specifiche impiegate e il presunto ‛bisogno' di scaricare gli impulsi aggressivi. Riguardo al primo punto, esso è perfettamente compatibile con le teorie sociobiologiche: posto che una reazione aggressiva sia adattativa, in alcune specie la massima idoneita viene raggiunta con un minimo di flessibilità nel comportamento effettivamente adottato. D'altra parte, postulare un desiderio di aggressione ‛in sé' sembra decisamente gratuito, a meno che non ci si riferisca al bisogno di un comportamento aggressivo in situazioni che rendono tale comportamento adattativo.
Gli studiosi di scienze sociali hanno elaborato una serie di teorie sull'aggressione, che mettono tutte l'accento sul ruolo dell'esperienza nell'adozione del comportamento aggressivo. È significativo il fatto che quasi tutti questi approcci sono compatibili con le teorie sociobiologiche; si concentrano infatti sui meccanismi prossimi, mentre l'approccio evoluzionistico indica le condizioni nelle quali questi meccanismi dovrebbero manifestarsi, cioè quando sono adattativi. Si ritiene quindi che l'aggressione venga predisposta dalla frustrazione, dal dolore, dalle precedenti esperienze (soprattutto dal successo) in incontri aggressivi, e dalla disgregazione del sistema sociale. Tutte queste condizioni creano situazioni in cui la reazione aggressiva è probabilmente la più idonea, ed è quindi favorita dalla selezione naturale.
c) Strategie evolutive stabili.
A quanto pare, vi sono circostanze in cui la massima idoneità del comportamento di un individuo dipende da ciò che un altro individuo sta facendo. In questi casi, e quando è possibile identificare un numero limitato di scelte comportamentali, si può applicare vantaggiosamente la teoria dei giochi (v. Maynard Smith e Price, 1973). Per esempio, supponiamo che, all'interno di una data specie, due siano le possibili strategie applicabili nel corso di interazioni aggressive: combattere strenuamente - se necessario fino alla morte - finché l'avversario non segnala la sua sconfitta (strategia ‛feroce'), o cedere immediatamente al minimo segno di resistenza da parte dell'avversario (strategia ‛mite'). Quindi gli individui ‛feroci' vincono sempre quando hanno dinanzi un avversario ‛mite'; gli individui miti, messi di fronte ad altri individui miti, dividono la risorsa contesa, con scarsi costi dovuti all'interazione aggressiva; se contrapposti ad avversari feroci, gli individui miti perdono la risorsa, ma quasi senz'altro danno, perché si ritirano subito, prima di essere feriti. Gli individui feroci, invece, vincono contro gli avversari miti, ma pagano un costo pesante quando combattono con altri individui feroci, perché uno dei due contendenti verrà gravemente ferito. Immaginiamo una popolazione composta interamente di individui miti. Essa sarebbe molto esposta al rischio di invasione da parte di mutanti feroci, i quali sconfiggerebbero sempre gli individui miti, più numerosi. Poiché inizialmente gli individui feroci sono rari, si incontrano solo di rado con altri individui del loro stesso tipo. Tuttavia, man mano che diventano più comuni, diventa sempre più frequente l'incontro di due individui feroci. Ora, se l'incontro con un individuo feroce ha consenguenze lievi per gli individui miti, ha invece gravi conseguenze per gli individui feroci. È presumibile quindi che la frequenza di individui feroci e individui miti oscilli (la selezione favorisce la strategia più rara), finché non viene raggiunto un equilibrio nel quale gli individui adottano la strategia feroce se il valore (in termini di idoneità) della risorsa contesa è maggiore del costo della sconfitta nella lotta contro un altro individuo feroce, e una strategia mista, feroce-mite, se il valore della vittoria è minore del costo della sconfitta.
In generale, la soluzione matematica consiste nell'individuare la strategia evolutiva stabile, cioè il comportamento che, una volta adottato dalla maggioranza dei membri di una popolazione, non può essere migliorato (in termini di guadagni di idoneità da parte di ciascun individuo) adottando una strategia alternativa. Negli ultimi anni, specialmente sotto l'influenza di J. Maynard Smith, le analisi delle strategie evolutive stabili si sono moltiplicate. Sebbene inizialmente fosse stata elaborata come modello per la comprensione delle interazioni aggressive diadiche, la teoria delle strategie evolutive stabili può essere applicata a un'ampia gamma di situazioni di competizione, in cui si possono identificare scelte comportamentali discrete, e in cui il profitto di ogni partecipante è funzione del comportamento dell'altro. Così l'analisi dei giochi può aiutare a chiarire le scelte strategiche a disposizione di un genitore potenzialmente ‛disertore' (e la cui idoneità dipende dalla probabilità che disertore sia il partner), o la decisione strategica se, e come, corteggiare le femmine (nella misura in cui il successo dipende dalla probabilità che siano presenti altri pretendenti). Finora, l'analisi delle strategie evolutive stabili è stata portata avanti principalmente a livello teorico e di ‛simulazione' (con gli elaboratori). Probabilmente, in futuro si assisterà a una concentrazione degli sforzi per controllare queste predizioni sugli effettivi comportamenti degli animali.
d) Territori e uso dello spazio.
Ci sono vari modi di usare lo spazio. Tutti gli organismi occupano una qualche ‛area familiare' (home range), l'area in cui si muovono nel corso della loro normale vita quotidiana. Le aree familiari non sono difese e possono sovrapporsi in misura considerevole. I territori, invece, sono aree difese, regioni la cui occupazione e uso esclusivi sono acquisiti mediante minacce, esibizione, forme di marcatura e/o combattimenti effettivi. Una conseguenza frequente del mantenimento e della difesa del territorio è che un certo numero di individui non riesce a ottenere un territorio e, di conseguenza, può non riuscire a riprodursi. Questi ‛girovaghi' senza territorio sono generalmente maschi, la cui esclusione non ha effetti demografici durevoli. Tuttavia, quando sono le femmine a subire questa esclusione, il comportamento territoriale ha come conseguenza il calo della popolazione complessiva della specie. È comunque importante sottolineare che il fattore determinante ultimo delle dimensioni di una popolazione sembra essere l'ambiente (cibo, siti di nidificazione, ecc.) e non il comportamento territoriale in sé. Quindi, quando le risorse ambientali, come il cibo, sono sufficientemente abbondanti, i territori sono in genere più piccoli, permettendo così a un maggior numero di individui di riprodursi. Inoltre, il comportamento territoriale viene considerato, molto restrittivamente, come un comportamento mediante il quale ogni individuo fa l'uso massimamente adattativo di una particolare risorsa, piuttosto che come un fenomeno di gruppo la cui funzione è la limitazione delle dimensioni della popolazione. In termini di controllo demografico, ogni effetto del territorialismo appare come un sottoprodotto casuale degli sforzi individuali di massimizzare l'idoneità massimizzando il successo riproduttivo.
Due sono i prerequisiti essenziali per la difesa del territorio: la risorsa in questione deve essere oggetto di competizione e deve poter essere difesa a basso prezzo (v. Brown, 1964). In termini adattativi, non vale la pena di spendere tempo ed energie, magari di correre maggiori rischi, per difendere una risorsa che non merita una tale difesa. Per esempio, i babbuini e altri erbivori in genere non difendono i territori destinati alla nutrizione, in quanto il cibo è abbondantemente distribuito su un'area molto ampia, e qualsiasi individuo che cerchi di difendere le sue provviste personali sarebbe meno ‛idoneo' di un altro che si limiti a consumare la risorsa invece di difenderla. In altre parole, in questi casi la competizione indiretta è più appropriata della competizione diretta. Analogamente, le risorse che cambiano posizione non consentono una difesa economica: gli uccelli oceanici non difendono le zone dell'oceano in cui si trovano branchi di aringhe, perché un'area ricca può diventare improduttiva da un giorno all'altro. Invece, la maggior parte degli uccelli marini difendono i siti di nidificazione, che sono generalmente scarsi (e quindi oggetto di competizione), e hanno inoltre dimensioni e posizione fisse, e sono quindi difendibili a basso costo. Analogamente, i babbuini, sebbene non difendano le loro savane erbose, possono difendere i singoli alberi destinati al riposo. Questi alberi rappresentano risorse essenziali, che mettono al sicuro dai predatori; sono oggetto di competizione e possono essere difesi a basso costo. Mentre i precedenti studi sul territorialismo si sono preoccupati soprattutto di studiare nei particolari il ‛come' i territori vengono difesi e conservati, gli studi sociobiologici si concentrano fondamentalmente sulla comprensione del ‛perché'.
7. Sociobiologia umana.
Allo stadio attuale, non esiste una scienza della sociobiologia umana. Lo studio del comportamento umano è stato finora quasi esclusivamente appannaggio delle scienze sociali: antropologia, psicologia e sociologia. Nonostante i loro pur notevoli progressi, è evidente che il comportamento umano è ancora lungi dall'essere ‛spiegato'. Anche se probabilmente la biologia evoluzionistica non possiede ‛la' chiave per la comprensione di noi stessi (non esiste presumibilmente un'unica chiave), potrebbe però essere di grande aiuto. Le scienze sociali soffrono della mancanza di paradigmi unificanti: porre rimedio a questa mancanza è appunto l'impegno della sociobiologia.
a) Presupposti fondamentali.
Qualitativamente, una sociobiologia umana non differirebbe dalla sociobiologia applicata agli animali non umani: il principio dell'interazione resterebbe valido. Uno dei presupposti fondamentali di qualsiasi tentativo di applicazione dei principi biologici al comportamento umano è la ‛continuità', concetto enunciato per la prima volta da Charles Darwin. Dal momento che l'evoluzione per selezione naturale è l'unico meccanismo responsabile della genesi di tutti gli esseri viventi, compreso l'Homo sapiens, si può legittimamente supporre che le differenze fra animali non umani e specie umana siano quantitative piuttosto che qualitative. Mancano quindi le basi per sostenere una discontinuità biologica che distinguerebbe in modo affatto peculiare, a livello anatomico o fisiologico, gli esseri umani dal resto del mondo biologico. La sfida e la speranza della sociobiologia è che tale continuità valga anche per il comportamento.
Non si vogliono per questo negare le caratteristiche eccezionali dell'Homo sapiens, e in particolare il nostro cervello notevolmente ben sviluppato, le nostre capacità di cultura e di apprendimento sociale. Ma anche altri animali posseggono cervelli di grandi dimensioni, e l'esistenza sia della cultura sia dell'apprendimento sociale è stata osservata presso numerose specie animali, fra cui i Primati, molti altri mammiferi e gli Uccelli. Può ben darsi che la differenza tra la nostra specie e le altre specie del mondo naturale sia riconducibile a una differenza di grado piuttosto che qualitativa.
Tuttavia, quando si vuole spiegare il comportamento umano, i modelli animali vanno usati con cautela, quella cautela che è del resto sempre necessaria quando si estrapola dalla biologia di una specie a quella di un'altra. In un certo senso, ogni specie è unica, e ciò vale per noi non meno che per gli altri. Un approccio utile, nell'esame dei comportamenti animali, consiste nel ricercare i principi generali che in essi si manifestano, anziché un'analogia esatta, punto per punto, col comportamento umano. Per fare un esempio, è chiaro che gli esseri umani non s'impegnano in esibizioni di corteggiamento come i maschi dell'uccello del paradiso, ma le differenze biologiche fra maschio e femmina, cui in ultima analisi risalgono quelle esibizioni, possono dare origine a moduli di comportamento fra i due sessi fondamentalmente simili (anche se superficialmente diversi) anche nella nostra specie.
Una sociobiologia umana, tuttavia, dovrà scontrarsi con talune difficoltà. A differenza degli studi su animali non umani, le ricerche sull'Homo sapiens dovranno necessariamente arrestarsi di fronte alle manipolazioni genetiche e, in generale, è probabile che considerazioni etiche verranno a interferire con l'eleganza nella sperimentazione e nell'osservazione che è possibile raggiungere negli studi sugli animali non umani. Ciononostante, le possibilità di accrescere la nostra comprensione del comportamento umano sono reali. Gli ‛esperimenti' naturali, come i gemelli monozigotici, si ripetono con regolarità statisticamente prevedibile, e possono essere usati per controllare ipotesi genetiche, soprattutto se paragonati ai gemelli dizigotici. Inoltre, gli studi antropologici offrono ottime opportunità di verifica delle predizioni sociobiologiche. Particolarmente adatto a questo fine è lo studio degli universali interculturali, in quanto Homo sapiens è dal punto di vista biologico un'unica specie, sebbene popolazioni differenti mostrino diversi modelli culturali, molti dei quali hanno evidentemente avuto uno sviluppo indipendente. Così, mantenendo costante il fattore biologico, e variando il background culturale, si può valutare il risultato di un gran numero di ‛esperimenti naturali'. La fiducia nell'applicazione del paradigma sociobiologico al comportamento umano cresce proporzionalmente all'identificazione, nonostante la diversità delle tradizioni culturali, degli universali interculturali, come anche in proporzione alla corrispondenza di questi universali con le predizioni strettamente derivate dalla biologia evoluzionistica.
b) Evoluzione del comportamento sociale e altruismo.
L'idea del carattere in ultima analisi egoistico del comportamento umano risale a Hobbes e a Machiavelli. Il contributo della sociobiologia consiste nel dare una solida base biologica a questa tesi. È stato così suggerito (v. Campbell, 1975) che i sistemi sociali umani rivelano una saggezza biologica non riconosciuta in precedenza: dato il nucleo di egocentrismo che è alla base di ogni comportamento - e molto probabilmente anche di quello umano - è verosimilmente da ravvisare nell'istituzione, da parte delle società umane, di codici e di regole di condotta, un comportamento appropriato. Questo modo di considerare le cose suggerisce che le società umane potrebbero essere qualcosa di più della somma dei comportamenti dei singoli individui; in altre parole, la società umana potrebbe avere una qualche forma di esistenza indipendente. D'altra parte, l'appartenenza a una società potrebbe essa stessa dipendere dal fatto che ciascun individuo sente che la società in qualche modo serve a massimizzare la sua idoneità.
Secondo la teoria sociobiologica due sono i fattori principali che dovrebbero mitigare le tendenze egoistiche: la selezione di parentela e la reciprocità. Entrambi sembrano avere un'estrema importanza nelle società umane. Il nepotismo, per esempio, è chiaramente un universale umano interculturale. Soprattutto in società non occidentali, non tecnologiche, la parentela (reale o putativa) è il principio organizzativo predominante della vita sociale. Sebbene società umane differenti abbiano a volte modi diversi di considerare la parentela, lo schema di base è chiaro, e il parallelo con la biologia evidente (v. van den Berghe e Barash, 1977). In generale, al comportamento umano altruistico può in larga misura attagliarsi la formulazione originaria di Hamilton: esso diventa più probabile in proporzione al numero di geni in comune e alla necessità del beneficiario, e meno probabile col crescere del rischio per l'altruista. Molte predizioni specifiche a questo riguardo devono essere ancora controllate.
Anche la reciprocità è un fenomeno ricorrente nel repertorio dei comportamenti umani. In effetti, non esiste una società umana in cui non venga praticata qualche forma di scambio. Le società più complesse hanno elaborato una quantificazione arbitraria della reciprocità sotto forma di denaro. Ciò consente il verificarsi di interazioni reciproche quando non vi sia uno scambio materiale, ma le sue conseguenze biologiche non sono meno reali di quelle che avrebbe un comportamento di reciprocità diretto.
c) Strategie riproduttive.
L'Homo sapiens è una specie caratterizzata da dimorfismo sessuale, con maschi nettamente più grandi delle femmine. I maschi, inoltre, raggiungono la maturità sessuale più tardi delle femmine e fattori ormonali li predispongono, rispetto alle femmine, a una certa maggiore aggressività sia sociale che sessuale (v. Money e Ehrhardt, 1972). Questa è esattamente l'immagine che la sociobiologia si fa di una specie moderatamente poliginica. Fatto significativo, prima dell'omogeneizzazione sociale causata dalla tecnologia occidentale e dall'imperialismo, circa il 75% delle società umane erano di preferenza poliginiche (v. van den Berghe, 1975). La famiglia monogamica e nucleare è in gran parte il prodotto dell'etica giudaico-cristiana, e non della biologia umana. Ancora una volta questo quadro concorda con le predizioni evolutive basate sulla teoria dell'investimento parentale. Inoltre, le differenze evidenti fra maschi e femmine sono anch'esse in accordo con le predizioni sociobiologiche, in quanto i maschi sono il sesso più aggressivo e competitivo.
Per quanto riguarda le strategie parentali, negli esseri umani opera chiaramente la selezione K: producono infatti un numero limitato di discendenti, di rado, e investono notevolmente e per un periodo prolungato in ognuno di essi. È anche interessante notare che la rivoluzione industriale e la modernizzazione tecnologica dei paesi del Terzo Mondo sembra avere accentuato questa strategia parentale. La ‛transizione demografica', il processo per cui i tassi riproduttivi calano immediatamente in seguito all'urbanizzazione e all'avvento della tecnologia occidentale, è un fenomeno ampiamente accertato ma scarsamente compreso. La strategia di contenimento della riproduzione sembra essere una reazione adattativa in condizioni di grande competitività, in cui la massimizzazione dell'idoneità richiede un maggiore investimento pro capite.
Il modello di conflitto genitori-prole di Trivers sembra trovare negli esseri umani un terreno particolarmente favorevole. L'approccio sociobiologico è decisamente differente dalle concezioni tipiche delle scienze sociali, secondo cui i bambini vengono gradualmente inculturati all'interno della società degli adulti per il vantaggio di tutte le parti in causa. Il conflitto viene quindi visto come lo spiacevole ‛rovescio della medaglia' di ogni processo sociale, elemento certamente non indispensabile alla nostra biologia. Ovviamente, la prospettiva sociobiologica è molto diversa. Inoltre, come suggerisce Trivers, il fenomeno psicologico della regressione all'infanzia può affondare le sue radici nel conflitto genitori-prole, dato che il comportamento della prole più giovane indicherebbe una comunanza di strategie con i genitori, mentre quello della prole più anziana sarebbe caratteristico di una situazione di conflitto.
La teoria sociobiologica prevede inoltre che l'infanticidio delle femmine dovrebbe essere un fenomeno relativamente comune fra i membri delle classi superiori, i quali avrebbero difficoltà nel trovare partners adatti alle loro figlie ipergamiche, e accrescerebbero notevolmente la loro idoneità investendo di preferenza nei figli maschi, che hanno buone probabilità di successo come poliginisti. Questa predizione ha trovato un vasto sostegno nelle società tradizionali dell'India e della Cina, come anche in quelle dell'Europa medievale (v. Dickeman, 1979). Resta da controllare la predizione opposta: la tendenza all'infanticidio dei maschi fra le classi inferiori in società altamente stratificate. La predizione si basa sul fatto che i maschi delle classi inferiori risulterebbero probabilmente perdenti rispetto ai poliginisti di successo delle classi superiori, mentre è probabile che l'idoneità delle femmine delle classi inferiori non sia condizionata negativamente dal loro stato sociale.
L'evitazione dell'incesto è un altro potenziale universale umano. Nella maggior parte delle società non si ha riproduzione tra padre e figlia, madre e figlio o fra fratelli germani. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalle famiglie reali egiziane, hawaiane e inca, presso le quali i vantaggi derivanti dal minimizzare la frammentazione delle ricchezze e del potere avevano evidentemente il sopravvento sul modello umano tipico. L'evitazione dell'incesto è stata considerata un fenomeno esclusivamente umano, mentre in realtà si riscontra anche in una vasta gamma di animali non umani. Il suo significato adattativo sembra essere la prevenzione degli inincroci, che hanno come conseguenza un aumento dell'omozigosi e la riduzione dell'idoneità della prole (e quindi anche dei genitori). In genere, questa interpretazione è stata contestata dagli studiosi di scienze sociali, per motivi non del tutto chiari. In ogni caso, recenti studi del sociologo J. Shepher (v., 1971) hanno dimostrato l'esistenza di un convincente meccanismo prossimo che promuove l'evitazione dell'incesto nell'Homo sapiens: l'imprinting sessuale negativo. Fra i bambini allevati insieme sin dall'infanzia nei kibbutzim israeliani il matrimonio era estremamente raro, sebbene queste unioni venissero attivamente incoraggiate dall'intera società. Lo studio del matrimonio Shim-pua, praticato nella società tradizionale taiwanese, ha dimostrato l'esistenza dello stesso fenomeno: gli adulti che da bambini sono cresciuti insieme tendono a non vedere l'uno nell'altro un partner sessuale appropriato. A quanto pare, nel nostro comportamento inconscio agiscono considerazioni di tipo biologico, che ci spingono a comportarci in modo da massimizzare la nostra idoneità: in questo caso riducendo le probabilità di accoppiarsi con determinati individui, qualora questo comportamento limitasse il nostro successo nel trasmettere copie dei nostri geni nelle generazioni future.
Tenuto conto del notevole accordo fra le strategie riproduttive umane e le predizioni della sociobiologia (v. Barash, Predictive ..., 1979), c'è un'apparente eccezione che merita di essere ulteriormente esaminata: l'adozione. Mentre la teoria evoluzionistica prevede che gli adulti non siano inclini a investire in una prole che non è la loro, nell'Homo sapiens questo è un fenomeno ricorrente, che ha esiti positivi. Due sembrano essere i motivi principali. Gli esseri umani hanno iniziato solo di recente a sperimentare le condizioni che attualmente sono loro familiari. Per più del 90% della nostra storia evolutiva siamo vissuti in piccole bande di cacciatori-raccoglitori, con coefficienti di parentela indubbiamente piuttosto alti. Di conseguenza gli individui che si occupavano dei piccoli rimasti orfani ne risultavano avvantaggiati in termini di idoneità complessiva, oltre ai benefici derivanti dalla reciprocità offerta dagli altri membri del gruppo che profittavano a loro volta dell'adozione, pur non avendone preso l'iniziativa. Inoltre, gli esseri umani sono sprovvisti della capacità genetica di riconoscere la prole (gli scambi di neonati che talvolta si verificano nei reparti maternità affollati ne sono una prova). Questo tipo di atteggiamento parentale piuttosto aperto è caratteristico delle specie nelle quali le probabilità di scambi accidentali della prole da parte dei genitori sono molto basse; indubbiamente, è poco probabile che l'Homo sapiens dell'era pretecnologica facesse confusione riguardo alla sua prole. È quindi possibile che gli esseri umani abbiano una predisposizione originaria per l'adozione, combinata con l'assenza della capacità innata di riconoscere la prole da solo, quest'ultimo fattore potrebbe esigere che i genitori restino rigidamente legati ai propri discendenti reali. Si aggiunga a ciò la semplice osservazione che l'adozione è in genere una soluzione di ripiego avendone la possibilità, la maggior parte delle persone preferiscono procreare direttamente la propria prole e ancora una volta si vedrà che non c'è conflitto tra comportamenti umani e predizioni sociobiologiche.
d) Vita sociale.
È evidente che per gli esseri umani i vantaggi della vita sociale sono di gran lunga superiori agli svantaggi. Noi siamo una specie altamente sociale. Fatto non sorprendente, la vita sociale è in gran parte organizzata attorno alla riproduzione, vale a dire attorno alla famiglia. Di nuovo, la teoria sociobiologica getta luce su molti elementi dei sistemi di accoppiamento umani (abbiamo già parlato della poliginia). I sistemi di accoppiamento degli esseri umani sono basati sulle risorse. Fra i musulmani, per esempio, il numero di mogli consentite per ogni uomo è strettamente dipendente dalle sue ricchezze. Un caso analogo è quello di molte società africane fondate sulla pastorizia, dove le mogli vengono acquisite dietro il pagamento di un ‛prezzo' sostanzioso, che garantisce che il futuro poliginista sarà in grado di provvedere adeguatamente alla sua numerosa famiglia.
Nelle società umane la poliandria, in conformità con le attese teoriche, è estremamente rara. Nei casi in cui si verifica, è strettamente collegata a rapporti di fraternità fra i maschi interessati. Ciò consente a ogni individuo di assicurarsi, tramite i nipoti, un profitto genetico di almeno 1/4 (di 1/2 se è il padre effettivo della prole). C'è un'altra apparente anomalia biologica che merita di essere esaminata e, anche in questo caso, a un'analisi attenta il paradigma sociobiologico risulta confermato anziché confutato. Quasi un terzo delle società umane hanno avuto un sistema sociale matrilineare nel quale la discendenza segue la linea femminile, e in cui la responsabilità sociale per la prole spetta generalmente al fratello della madre anziché al marito (e padre putativo della prole). Ciò contrasta con le predizioni, in quanto gli zii, che hanno un coefficiente di parentela di 1/4 con i loro nipoti, non dovrebbero valutare questi ultimi più della loro stessa prole, alla quale li lega un coefficiente di parentela di 1/2. Ci sono però due elementi da considerare a questo riguardo: in primo luogo, le società matrilineari di questo tipo sono notoriamente instabili, e gran parte dell'instabilità deriva appunto dagli sforzi compiuti dagli zii materni per convogliare le risorse verso la loro prole biologica invece che verso i loro nipoti, come vogliono le usanze; in secondo luogo, le società stabili in cui c'è la figura dello zio materno appaiono caratterizzate da una promiscuità sessuale abbastanza elevata, di modo che possono esserci scarse probabilità di avere realmente dei geni in comune con la propria prole putativa (v. Kurland, 1979). In casi del genere, un uomo può avere più geni in comune con i suoi nipoti che non con la prole della moglie; allo zio materno è garantito almeno un coefficiente di parentela pari a 1/4 con i figli di sua sorella, in quanto sia lui che la sorella sono nati evidentemente dalla stessa madre, e d'altra parte la sorella ha di sicuro 1/2 dei geni in comune con la propria prole.
e) Strategie competitive.
Il comportamento aggressivo fra esseri umani è stato oggetto di attente indagini da parte degli studiosi di scienze sociali che, come è comprensibile, hanno posto l'accento sul ruolo dell'ambiente sociale e delle esperienze precedenti. Senza sostenere la convenienza o l'auspicabilità dell'aggressività umana, un approccio sociobiologico che metta in risalto il significato adattativo dell'aggressività potrebbe gettare nuova luce sul fenomeno. La preponderanza dei maschi fra i responsabili di reati di violenza è perfettamente in accordo con le predizioni sociobiologiche.
Nelle nazioni moderne l'aggressione istituzionalizzata, la guerra, appare come un fenomeno di carattere collettivo più che personale. Tra i popoli primitivi, tuttavia, la guerra implica un coinvolgimento personale molto maggiore, ed è significativo che perfino le guerre fra le società apparentemente più irrazionali e aggressive fino all'autodistruzione sembrano avere una base adattativa (v. Durham, 1976), rappresentata in genere dalla carenza di risorse essenziali (in prevalenza cibo), cui è spesso possibile ovviare riducendo la competizione da parte dei popoli limitrofi. È da attendersi una competizione particolarmente aspra soprattutto nei casi in cui non si ha comunanza di geni o manca l'opportunità di praticare la reciprocità.
Dal momento che è sprovvisto del corredo biologico che conferisce a molte altre specie una particolare efficienza nell'uccidere, l'Homo sapiens risulta privo delle inibizioni, biologicamente mediate, che gli impediscano di usare la sua carica aggressiva. Ne consegue che gli esseri umani possono trovarsi in una condizione singolarmente precaria, dato il ritmo straordinariamente veloce del nostro sviluppo culturale specialmente negli ultimi millenni, che, in termini evolutivi, rappresentano un periodo brevissimo. Il progresso culturale ci ha dato armi, incluse quelle atomiche, che uccidono a distanza con terrificante efficacia. D'altro lato, abbiamo ancora una biologia da età della pietra, che non ha inibizioni a usare queste nuovissime estensioni del nostro corpo ancora primitivo. Per quanto riguarda il nostro comportamento aggressivo, la nostra biologia e la nostra cultura presentano quindi un'asincronia pericolosa, e un contributo della sociobiologia a una migliore comprensione di questi problemi potrebbe cadere singolarmente a proposito.
f) Cultura e biologia.
Dal punto di vista sociobiologico, la cultura umana è essenzialmente una serie di meccanismi che aiutano ogni individuo nella massimizzazione della propria idoneità. In generale, e nonostante una notevole diversità superficiale fra i costumi e i modelli culturali, i comportamenti umani sembrano avere un elemento in comune: tendiamo - che siamo o non siamo consapevoli di questo fine ultimo - a comportarci in modo da massimizzare la nostra idoneità complessiva. Resta tuttavia poco chiaro il reale tramite attraverso cui la selezione naturale e la cultura interagiscono. In parte la cultura è un prodotto biologico, in quanto la capacità di cultura è parte del nostro patrimonio biologico. D'altro canto, pratiche culturali specifiche non sembrano derivare direttamente da uno specifico substrato genetico. In molti casi la connessione fra i geni e la cultura può essere del tutto indiretta. Per esempio, la maggior parte della gente in Europa e in Africa orientale consuma grandi quantità di prodotti caseari e possiede la lattasi, l'enzima necessario per digerire lo zucchero contenuto nel latte, il lattosio. La maggioranza della popolazione mondiale, invece, non possiede la lattasi (in età adulta) e quindi non produce latticini. Il collegamento fra i geni della lattasi e il complesso comportamento relativo alla produzione di latticini è abbastanza chiaro, anche se ciò non significa che i comportamenti relativi alla produzione dei latticini siano ‛di per sé' geneticamente codificati.
È anche possibile che i modelli culturali umani vengano scelti, in parte coscientemente, perché ritenuti conformi alla tendenza alla massimizzazione dell'idoneità (tendenza che è a sua volta un prodotto dell'evoluzione per selezione naturale). Di conseguenza, è possibile aspettarsi una corrispondenza abbastanza stretta fra predizioni biologiche e realtà culturale, nella misura in cui quest'ultima tocca direttamente importanti questioni di idoneità. Per fattori di minore importanza biologica si possono prevedere deviazioni più accentuate. Ciò tuttavia non significa che tutti i principali modelli culturali debbano necessariamente essere adattativi, nel senso di accordarsi con la massimizzazione dell'idoneità. Alcuni caratteri scarsamente adattativi possono persistere per periodi di lunghezza variabile, così come possono persistere caratteri biologici individuali scarsamente adattativi a causa delle mutazioni ricorrenti, della pleiotropia, o a causa dello stretto legame con altri caratteri vantaggiosi, il che fa sì che i caratteri svantaggiosi non possano essere discriminati in modo efficace. Ma ogni comportamento culturale è un comportamento biologico, e viceversa. È quindi probabile che il pensiero sociobiologico si rivelerà un valido ausilio nell'analisi dei sistemi culturali umani.
g) Politica e sociobiologia umana.
La sociobiologia, soprattutto se applicata al comportamento umano, è stata accusata di faziosità politica e in modo particolare di ostilità verso gli orientamenti liberali e di sinistra. Ciò è falso. Non ci sono elementi razzistici nella sociobiologia, se si prescinde dal fatto che ogni scienza che si occupi dei geni e del comportamento è esposta al rischio di abusi da parte dei fanatici di qualunque ideologia. In realtà, la sociobiologia è un valido antidoto contro il razzismo, in quanto pone l'accento sugli universali biologici fondamentali che accomunano tutti gli esseri viventi e gli esseri umani di tutte le razze. La sociobiologia rappresenta un tentativo di chiedere alla selezione naturale chiarimenti circa i principi progettuali sottostanti al comportamento, il che non significa sostenere la validità di questi principi, quali che essi siano. In altre parole, il fatto che qualcosa ‛è', non implica necessariamente che dovrebbe essere. Ciò è particolarmente importante rispetto alle differenze fra i due sessi, le quali sono evidentemente reali, che ci piaccia o no. I giudizi etici, morali, politici e sociali spettano agli esseri umani; il fatto che esistano tendenze - frutto dell'evoluzione - verso qualcosa non implica assolutamente che esse siano giuste, così come lo studio degli pneumococchi non implica necessariamente un giudizio positivo sulla polmonite! Forse, gli esseri umani sceglieranno di prendere coscienza della loro biologia comportamentale nell'organizzazione e conduzione dei loro affari: è invero assai probabile l'avvento di una società caratterizzata da un'ampia diffusione di tutte le conoscenze disponibili.
L'interpretazione sociobiologica del comportamento umano, inoltre, non sostiene l'inerzia dei fattori sociali e dovrebbe essere accuratamente distinta dal darwinismo sociale, che confondeva la ‛sopravvivenza del più idoneo' (in realtà la riproduzione differenziale) con l'effettivo successo nella competizione, e commetteva anche l'errore di tentare di derivare imperativi morali da un processo naturale del tutto privo di una connotazione valutativa. Sembra inoltre probabile che l'influenza di fattori genetici sul comportamento sia, nell'uomo, minore che in tutte le altre specie animali. Di conseguenza, resta amplissimo margine di azione per la modificazione, a opera dell'ambiente, di quasi tutte le tendenze comportamentali, né la sociobiologia fornisce argomenti contro il ricorso all'intervento sociale per correggere le ingiustizie. Concludendo, sebbene si occupi di un oggetto controverso - l'uomo - la sociobiologia è una disciplina avalutativa come ogni altra disciplina scientifica.
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