Società
La parola chiave di questo volume è Società. Lo sguardo sulla società italiana – nelle sue articolazioni regionali – in realtà attraversa tutta l’opera. Qui si intende affrontarne in profondità un aspetto, quello che rende una società civile. In connessione all’aggettivo civile, il termine ha assunto significati diversi, a volte perfino contrastanti. L’espressione Società civile presenta, infatti, una storia complessa in quanto le interpretazioni differiscono notevolmente le une dalle altre, lasciando perlopiù i suoi confini incerti e ambigui, diversamente da quanto succede per l’entità che il linguaggio politico è solito contrapporle: lo ‘Stato’ o anche la ‘società politica’. Qui il termine viene utilizzato per indicare l’insieme delle reti associative e culturali, le forme di solidarietà che intercorrono tra cittadini, che costituiscono un tessuto sociale spontaneo e auto-organizzato, distinto, ma non necessariamente contrapposto, al mondo del governo, nei suoi vari livelli, a cui vengono rivolte domande di partecipazione e di cambiamento. Il giudizio di valore favorevole che attualmente accompagna il termine non deve far dimenticare che la Società civile è un’arena di solidarietà e di potere, in cui – come mostreranno alcuni contributi – accanto a tendenze alla coesione sociale e a norme che regolano la convivenza civile emergono i lati oscuri del capitale sociale, chiusure localistiche, circoli viziosi e forme di illegalità.
A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, si svolgono ampie e documentate ricerche sui fattori culturali della democrazia. Sono in particolare studiosi americani a scegliere il contesto italiano come caso esemplare su cui mettere alla prova ipotesi e interpretare risultati. Si tratta di ricerche che faranno molto discutere sia all’estero sia nell’ambiente intellettuale italiano, costituendo una sorta di metro di paragone con cui dialogare e confrontarsi. Di una di queste ricerche si è già più volte parlato in quest’opera, sia nell’Introduzione generale sia in alcuni contributi dei volumi precedenti, in quanto rappresenta la ricerca empirica più ampia e importante sul tema per noi cruciale del rapporto fra tradizioni civiche e rendimento delle istituzioni regionali. Ci riferiamo alla ricerca di Robert D. Putnam (1993). Essa si presenta come l’ultima di una serie che parte con quella di Edward C. Banfield (1958) sul ‘familismo amorale’ del Mezzogiorno, compiuta analizzando in profondità una comunità della Basilicata, e continua con il lavoro comparato (i Paesi considerati erano quattro oltre all’Italia) di Gabriel Almond e Sidney Verba (1963) sulla cultura civica. Il contesto italiano attirava l’attenzione degli studiosi anglosassoni in quanto, per l’instabilità e la debolezza delle sue giovani istituzioni democratiche, consentiva di sondare quanto questa situazione dipendesse – più ancora che da fattori economici e politici – dalla sua cultura, già nel passato dipinta in tanta letteratura come individualista, di ristrette vedute e laschi legami sociali (basti pensare alla «mancanza di società» di cui parla Giacomo Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani del 1824). Le conclusioni a cui giungevano non erano certo molto lusinghiere per l’Italia, la cui arretratezza politica veniva, alla fine, ricondotta principalmente a gravi carenze sul piano dell’orientamento all’interesse collettivo, all’impegno pubblico, alla fiducia verso gli altri e verso le istituzioni, oltreché alla labilità e inconsistenza del suo tessuto associativo. In una parola alla mancanza di cultura civica o, come si sosterrà più tardi anche con Putnam, usando un termine nuovo e solo in parte coincidente, alla carenza di capitale sociale. Lo stesso grave divario tra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno veniva allora imputato alle differenti dotazioni civiche delle due parti d’Italia.
I contributi di questa sezione si situano, non senza spunti critici, nel solco tracciato da questa linea di ricerca, approfondendo con aggiornamenti di dati e nuove fonti, l’analisi delle diverse dimensioni di cui sono costituiti la cultura civica e il capitale sociale nelle diverse regioni italiane, nel tentativo di rispondere a due domande: come queste dimensioni sono distribuite territorialmente oggi e come sono cambiate nel corso del tempo. Per alcuni il confronto con Putnam è diretto. La domanda è, in questo caso, se le conclusioni di quest’ultimo siano confermate dopo oltre vent’anni dalla pubblicazione della sua famosa ricerca. Partiamo dunque da qui. La lente concettuale con cui si guarda allo stato dell’Italia e dei suoi territori regionali è quella del capitale sociale, espressione ormai largamente usata nelle ricerche economiche, sociologiche, politologiche per indicare, non sempre in modo univoco, una risorsa in grado di generare il benessere dei cittadini, l’efficienza dell’economia, di favorire la cooperazione e la qualità del vivere associato. Il modo non univoco con cui viene utilizzato nell’amplissima e variegata letteratura che lo riguarda, è fonte di ambiguità perché il ventaglio dei significati va dal considerarlo una risorsa strettamente individuale, dovuta al possesso di mezzi relazionali più o meno ampi, a quello di risorsa collettiva, che supera i confini della comunità ristretta, familiare o locale, aggiungendo alle reti relazionali orientamenti culturali e normativi riferiti al senso di responsabilità, fiducia e solidarietà. In quest’ultimo, più ampio significato, finisce per coincidere con la nozione di cultura civica. Come nella definizione di Putnam: «Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale» (1993, p. 196).
Il quadro empirico che emerge, utilizzando gli indicatori in parte già impiegati da Putnam (partecipazione elettorale come indicatore di legittimazione delle istituzioni; lettura di quotidiani come indicatore di relazione con il mondo oltre la cerchia ristretta; volontariato come senso di obbligazione verso gli altri; donazioni di sangue come altruismo disinteressato), disegna una geografia del capitale sociale che, pur nelle diverse tonalità regionali, conferma – a distanza di vent’anni – la netta divisione del Paese in due grandi aree. Al Centro-Nord, con le regioni più virtuose (il Trentino-Alto Adige è in prima posizione, seguito dall’Emilia-Romagna e dal Friuli Venezia Giulia) e tre volte più ricche di capitale sociale delle realtà meridionali, si contrappone il Sud con tutte le regioni collocate in fondo alla graduatoria. In mezzo si situa un’area intermedia costituita dalla fascia centrale di Lazio, Abruzzo e Molise. Anche la dinamica temporale si presenta stabile, poiché i dati del 2010 non solo riproducono quelli di dieci anni prima, ma anche quelli presentati da Putnam trenta-quaranta anni fa. Dunque sembra non essere cambiato nulla nel capitale sociale degli italiani da quando le regioni sono state istituite e certo la situazione resta critica anche rispetto alle analisi degli anni Cinquanta. Sorge a questo punto la domanda su come sia possibile una così persistente carenza. Ma per rispondere in modo non superficiale bisogna prima fare un breve tour attraverso gli approfondimenti storici, sociali, culturali che ci consegnano i diversi contributi riuniti in questa sezione.
L’approfondimento su una dimensione importante del capitale sociale, la fiducia verso gli altri, in realtà conferma e semmai accentua il quadro generale pessimistico appena delineato. Questo elemento, concordemente ritenuto essenziale al capitale sociale di un Paese, in quanto favorisce l’inclinazione alla cooperazione e alla responsabilità sociale, risulta non solo ampiamente deficitario tra gli italiani, ma in progressivo calo nel corso degli anni. Il confronto internazionale è deludente, perché ci colloca tra i cinque Paesi europei che meno si fidano degli altri in generale (registrando una percentuale media di fiducia generalizzata di poco superiore al 30%). Né va meglio per quanto riguarda la fiducia nelle istituzioni, componente assai importante della loro legittimità e autorevolezza, o per la soddisfazione quanto al funzionamento della democrazia, che segna percentuali superiori al 70% di insoddisfatti. Sono soprattutto le istituzioni dello Stato a registrare il maggiore discredito, mentre le istituzioni locali (comune, provincia e regione) godono di maggiore fiducia. La sfiducia nelle istituzioni democratiche risulta tuttavia, a differenza degli altri indicatori, uniformemente distribuita in tutte le regioni italiane. Il divario Nord-Sud – un po’ paradossalmente – viene colmato rispetto a un tratto culturale che non favorisce, ma tende a corrodere la coesione sociale e la legittimazione democratica. Il tratto unificante, verrebbe da dire, è quello che può condurre alla frammentazione del Paese.
Se però passiamo a considerare un fenomeno più recente, chiamato attivismo civico, per sottolinearne novità e differenze rispetto alle forme tradizionali del solidarismo organizzato, sia di matrice cattolica sia socialista-comunista, troviamo una scena in fermento, dai tratti eterogenei quanto anomali, che potrebbe innervare di nuova linfa la società civile italiana. La sua caratteristica è di essere una realtà plurale, dalle organizzazioni volontarie, ai movimenti di voice, ai servizi di consulenza e centri di ascolto, ai gruppi di autoaiuto, fino alle imprese sociali, alle organizzazioni di cooperazione internazionale e alle iniziative civiche su Internet e altro ancora. Il tratto che accomuna tutte queste organizzazioni e nello stesso tempo le distingue quasi come un’anomalia dal magma delle organizzazioni non-profit è l’essere attori della sfera pubblica. L’attivismo civico, in altri termini, non nasce in opposizione al potere politico, ma per fronteggiare problemi pubblici misconosciuti o gestiti in modo burocratico al fine di rendere effettivi i diritti, tutelare i beni comuni e sostenere i soggetti in condizioni di debolezza o difficoltà. Minoranze attive (rappresentano il 34,28% delle istituzioni non-profit), di formazione recente (nate prevalentemente dopo il 1990), di piccola dimensione, si trovano soprattutto al Nord (in particolare nel Nord-Est), ma presentano un forte tasso di crescita al Sud. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila tali organizzazioni raddoppiano rispetto al decennio precedente in Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
Ritornando, dopo questo ‘percorso’, alla domanda sui fattori che hanno permesso alla mappa del capitale sociale in Italia di persistere nella sua debolezza e nei suoi divari regionali, gli autori dei contributi non si allineano completamente con l’interpretazione di Putnam che, come abbiamo già ricordato nella nostra Introduzione all’opera, la fa risalire alla storia medievale della civiltà comunale. Vengono sottolineate, rispetto alle cause remote, quelle più recenti, a partire dalle ‘due Italie’ emerse dalle urne nel 1946, la prima – collocata nel Centro-Nord – in cui domina il peso delle reti orizzontali grazie ai partiti e alle loro costellazioni subculturali, come cooperative, camere del lavoro e casse rurali. La seconda, il Mezzogiorno, in cui prevalgono le reti verticali ereditate dalla politica prefascista. Divisione questa che continua con l’affermarsi della democrazia dei partiti, i circoli viziosi della prima repubblica che alimentano le reti clientelari attraverso benefici particolaristici, il voto di scambio, la sostanziale mediocrità delle classi dirigenti meridionali. È diffusa nei contributi di questa sezione l’idea che la trasformazione e la frammentazione delle riserve di capitale sociale in Italia siano, almeno in parte, riconducibili alla disarticolazione e corrosione delle tradizionali subculture politiche italiane, la subcultura ‘bianca’ radicata nelle regioni del Nord-Est e quella ‘rossa’ presente nell’Italia di mezzo, che storicamente si ricollegano alle fratture generate dai processi di costruzione dello Stato nazionale. Queste subculture, con le loro reti associative e di solidarietà, con il rispetto di una normatività diffusa, pur nella diversa matrice ideologico-politica, si sono rivelate veri e propri serbatoi di cultura civica. Con il loro declino – dal 1976 al 1992 – quando deflagra il sistema dei partiti che avevano rappresentato l’elemento mediatore tra il locale e il centro politico, la frammentazione e il localismo, con venature anti-istituzionali, hanno il sopravvento, aprendo scenari di grande incertezza in cui è sempre più difficile capire chi sarà in grado di intercettare il capitale sociale locale. Inoltre, le regioni in quanto ‘territori capaci’, in grado di promuovere le capacità individuali e di gruppo, di fronte a sfide sempre più globali, dispongono di strumenti di governance deboli, non sempre adatti a governare i beni comuni locali, in alcune regioni più di altre come mostrano i casi studio della regione Toscana e della regione Puglia. In un Paese costruito, a partire dal dopoguerra, come ‘repubblica dei partiti’, l’attivismo civico e nuove forme di auto-organizzazione, hanno, d’altro canto, la possibilità di indicare nuovi percorsi, contribuendo ad allargare il significato e la portata della cittadinanza.
In questa sezione alcuni aspetti già trattati a proposito della cultura civica e del capitale sociale, vengono ampliati e considerati da punti di vista in parte diversi, che ne sottolineano ambiguità, nuove valenze, intrecci con relazioni e atteggiamenti finora lasciati un po’ a latere del discorso principale sul civismo delle regioni italiane. Nel contributo iniziale ci viene ricordato che le forme del dono e della solidarietà, sia che si esprimano nel volontariato organizzato, nella solidarietà suscitata da catastrofi naturali o nella donazione di sangue, quest’ultima considerata forma tipica del dono nella società di massa, non sono necessariamente in opposizione a logiche economiche e pratiche utilitarie. Come mostrano ricerche recenti in quest’ambito, esiste un alto grado di intreccio tra dimensioni apparentemente antitetiche dell’agire sociale. Da un lato negli scambi di mercato si possono affacciare varie forme di solidarietà e di orientamento al bene comune. Dall’altro, i comportamenti solidali e apparentemente altruisti si mischiano spesso alle logiche del profitto e del calcolo interessato.
Se consideriamo il primo tipo di innesto, troviamo le caratteristiche ‘civili’ del mercato, non antitesi, ma momento della sfera pubblica. Queste sono al centro della nascita e sviluppo dell’‘economia civile’ che, anche concettualmente, rifiuta l’antinomia Stato-mercato per sottolineare, come terzo pilastro, l’economia radicata nella società civile a cui si riconosce non solo una valenza culturale, ma una piena soggettività economica. Uno dei principali ambiti presi in considerazione, su cui diversi contributi presenti in questa sezione si soffermano, anche per la disponibilità dei dati recenti del censimento compiuto dall’ISTAT (2013), è quello delle organizzazioni non-profit, come il volontariato organizzato e le cooperative sociali, queste ultime orientate in particolare alla produzione di servizi di utilità sociale tramite la valorizzazione di processi partecipativi. Se nella sezione precedente il volontariato compare nella sua forma più selezionata e circoscritta dell’‘attivismo civico’, di cui si mette in luce la discontinuità con forme più tradizionali di solidarietà, in stretto rapporto con la fase moderna dei nuovi diritti sociali, in questa sezione il mondo convenzionalmente chiamato ‘terzo settore’, considerato nella sua costituzione più ampia e variegata, viene riportato storicamente alla varietà delle ‘istituzioni di carità’, ossia delle ‘opere pie’ che popolano l’Italia al momento dell’unificazione. Queste, successivamente smantellate dal fascismo che tenta di portarle sotto il controllo stretto dello Stato centralizzato, riprendono nel dopoguerra le forme precedenti il regime fascista, con le loro diverse matrici culturali, cattoliche, laiche e legate al movimento operaio.
Una fase cruciale inizia con la Costituzione repubblicana che affida alle autonomie locali il compito specifico di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale» (art. 119). Gli anni Settanta e Ottanta sono poi caratterizzati da un crescente interventismo degli enti locali, delle regioni in particolare, nella tutela dei diritti sociali, tradizionalmente difesi dai soggetti del terzo settore. Dagli anni Novanta in poi, con il crollo della prima repubblica e lo scompaginamento del tradizionale sistema partitico, il volontariato si ‘deideologizza’ e si emancipa dalla tutela dei partiti. Si stempera di conseguenza la tradizionale differenza associativa di matrice cattolica e comunista. Cresce nello stesso tempo l’importanza economica e professionale del volontariato che si dota di basi organizzative sempre più solide. Questa evoluzione è andata di pari passo con un cambiamento legislativo nei confronti dei soggetti del terzo settore (in particolare le organizzazioni non governative, quelle di volontariato e le cooperative sociali sono state regolamentate a partire dall’inizio degli anni Novanta) e con un crescente coinvolgimento di questi in attività e servizi svolti dagli enti pubblici. L’aumento rilevante delle organizzazioni non-profit nel volger del secolo, continuato anche in questi ultimi dieci anni, ha trovato un significativo riconoscimento con l’introduzione nel testo costituzionale del principio di sussidiarietà (con la l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3).
Il volontariato, tuttavia, rappresenta in qualche modo un’eccezione nel tessuto associativo italiano che, considerato complessivamente, continua a mostrare una certa debolezza rispetto al panorama europeo. Per gli anni Novanta, periodo per il quale disponiamo di dati attendibili rilevati attraverso il sistema di indagini Multiscopo avviato dall’ISTAT, si riscontra una sostanziale stabilità dell’impegno associativo degli italiani. Dietro questo dato complessivo stanno comunque due processi che hanno operato in direzioni opposte: il primo è l’aumento della partecipazione ad associazioni di volontariato di cui si è parlato, il secondo è la diminuzione – soprattutto nelle regioni settentrionali – dell’adesione a partiti e sindacati. Più che di ‘riflusso’ e di ripiegamento nel privato, dopo il ciclo delle proteste studentesche, si dovrebbe dire che c’è stato, dagli anni Ottanta in poi, una sorta di ‘travaso’ dell’impegno pubblico dalla militanza politica e sindacale, verso la partecipazione sociale, in particolare nelle forme dell’associazionismo di volontariato e culturale. Bisogna comunque evidenziare che anche per il volontariato, come per molti altri aspetti legati alle forme di partecipazione, solidarietà e impegno civile, la distribuzione territoriale è tutt’altro che omogenea, riproducendo il persistente dualismo tra Centro-Nord e Sud del Paese. La densità organizzativa del Nord-Est è quasi il doppio di quella registrata nelle regioni del Sud. Ai primi posti della classifica, inoltre, troviamo alcune delle regioni dove più marcato è stato il ruolo delle subculture che hanno disegnato il panorama politico italiano, segno che queste, pur omologandosi, continuano a riprodurre capitale sociale a livello locale.
Il secondo tipo di intreccio, alquanto trascurato dalla letteratura su questi temi, e affrontato invece in alcuni contributi di questa sezione, è quello che rileva i rapporti virtuosi che a volte si instaurano tra relazioni fiduciarie e solidali ristrette, come sono le reti familiari, di parentela e di vicinato, e processi di crescita civile e di sviluppo economico. È esplicita la critica al già citato lavoro della fine degli anni Cinquanta dell’antropologo americano Banfield (1958) in cui il ‘familismo amorale’ di un paesino della Basilicata, poi esteso a rappresentare l’intero Mezzogiorno, è visto come la causa dell’arretratezza civile ed economica dell’Italia. Anche in seguito gli studi che hanno sottolineato la particolare forza e coesione delle reti familiari italiane, perdurante pur nelle grandi trasformazioni che la famiglia ha subito nel corso del tempo, hanno in genere seguito l’interpretazione di Banfield, contrapponendo la solidarietà familiare a quella civica e vedendola come un freno alla modernizzazione del Paese. Qui non si contesta a Banfield – come peraltro già avevano fatto precedenti lavori di carattere storico e sociologico – solo un’osservazione superficiale della vita relazionale del Mezzogiorno nell’Italia del dopoguerra, che gli aveva impedito di cogliere meccanismi di scambio e di reciprocità, una fitta trama di solidarietà già allora diffusi in molte realtà meridionali anche se non sotto forma di associazionismo civico. Si ricorda anche la positiva interazione tra reti familiari e sviluppo economico nei distretti industriali dell’Italia centrale e nordorientale nei primi decenni del secondo dopoguerra, dove è sorto un capitale sociale locale capace di generare coesione e civismo nel territorio, anche se – possiamo aggiungere – ha incontrato difficoltà istituzionali a un allargamento sul piano nazionale.
Ma è proprio ai nostri giorni che ricerche socioantropologiche svolte sulle relazioni informali di parentela, amicizia, conoscenza e vicinato in alcune significative realtà del Mezzogiorno mostrano quanto le dicotomie analitiche tradizionali siano inadatte a cogliere la varietà e rilevanza degli intrecci tra i rapporti e i valori ‘tradizionali’, particolaristici, variamente riaffermati e reinterpretati a seconda dei diversi contesti storico-sociali, e i rapporti universalistici di tipo moderno. I diversi casi esaminati – dai maestri ebanisti dell’artigianato napoletano alle piccole e medie imprese della old e della new economy, fino alle aggregazioni sociali e alle iniziative spontanee durante l’emergenza rifiuti a Napoli e in Campania –, anche se disegnano un quadro tutt’altro che completo e sono legati a contesti circoscritti, delineano una trama di forme di partecipazione e aggregazione sociale alternativa che, contro ogni stereotipo, deve essere compresa e integrata in ogni analisi e narrazione del Mezzogiorno. Tali reti di interazione informale – si osserva – non solo sono cruciali nella sfera privata per il sostegno e il benessere personale ma, nelle loro proiezioni esterne, possono giocare un ruolo importante nel favorire lo sviluppo economico e la partecipazione democratica.
Se questo è senza dubbio un potenziale di risorse da valorizzare, da solo non basta a sciogliere il ‘nodo del Mezzogiorno’, per cui è cruciale il ruolo svolto dall’assetto istituzionale, politico ed economico nell’attuare politiche di sviluppo. Là dove – come nelle aree distrettuali della Terza Italia dall’inizio degli anni Novanta – si sono attuati meccanismi di azione congiunta tra diversi attori sociali (governi locali, associazioni, enti e istituzioni) per la progettazione e l’implementazione delle politiche, attraverso la concertazione, la partnership, momenti deliberativi, si è realizzato un marcato attivismo delle regioni, è cresciuta l’importanza del livello locale e regionale di regolazione dell’economia, si sono affermati modelli di ‘regionalismo competitivo’: uno (tipico della Toscana) indirizzato a creare beni collettivi locali e uno (tipico del Veneto) che prevede un minor intervento dei governi locali e regionali e una maggiore presenza del versante associativo basato sulla bilateralità. Il crescente protagonismo dei territori italiani, dei loro attori e delle loro istituzioni, che si è realizzato ormai da molti anni, comprende anche tutta quella variegata area della partecipazione e mobilitazione dal basso emersa soprattutto negli ultimi due decenni – dai comitati di cittadini su questioni circoscritte ai social forum locali – pur nelle contraddizioni e ambiguità di alcune forme di protesta (come quelle comprese nella cosiddetta sindrome Nimby, Not In My Backyard, «non nel mio giardino»). Resta dunque aperto – come viene osservato - l’interrogativo sulla frammentazione localistica del conflitto. Già ricerche svolte in altri Paesi hanno sottolineato come iniziative, aggregazioni e soprattutto comitati attivi su diversi temi tendano, almeno dal punto di vista retorico, a superare la sindrome Nimby, collegandosi a tematiche globali e generando nuove figure di cittadinanza attiva, come quella definita, con un ossimoro, dei ‘cosmopoliti radicati’.
Quando si parla di cultura civica, di orientamento all’interesse pubblico, in un quadro di rispetto delle regole e delle istituzioni, non dobbiamo dimenticare il fatto che la società civile in generale, come si accennava introducendo la parola chiave di questo volume, è costituita – nonostante il giudizio di valore favorevole che attualmente connota il termine – anche dal suo opposto, ossia incivismo, sfiducia e mancanza di rispetto delle regole. Così come è stato messo in luce dallo stesso Putnam (2000), il capitale sociale non è privo di lati oscuri, soprattutto quando i confini della comunità non sono inclusivi, ma stabiliscono invece vincoli di solidarietà solo tra i propri membri, favorendo la chiusura all’estraneo e stimolando la pressione al conformismo.
Nella società italiana quanto detto risulta particolarmente appropriato. Un suo tratto distintivo consiste, infatti, nella diffusione di una gamma ampia ed eterogenea di fenomeni che non si manifestano solo nell’ambito della criminalità e dell’illegalità esplicita, ma che si sviluppano anche attraverso processi di ibridazione e commistione tra sfera legale e illegale. La loro entità non è rilevabile semplicemente – com’è facile immaginare – per sottrazione, considerando quanto rimane una volta sottratte le percentuali di fiducia allargata, civismo, partecipazione associativa, capitale sociale ecc., che sono stati analizzati nelle sezioni precedenti. La fenomenologia molto ampia e articolata – dall’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale, all’abusivismo e all’illegalità ambientale, fino alla criminalità organizzata di tipo mafioso, alla corruzione politica e amministrativa, alla criminalità economica e dei ‘colletti bianchi’ – richiede strumenti appositi, quantitativi e qualitativi, per essere rilevata in maniera non superficiale. La scarsa credenza e fiducia nella legalità e nelle istituzioni, ampiamente ricostruita nelle sezioni precedenti, mostra come il livello di accettazione sociale e di non stigmatizzazione dei comportamenti illegali prima elencati è certo l’humus su cui questi proliferano. È quest’area di illegaltà diffusa che caratterizza la specificità italiana rispetto agli altri Paesi europei.
I dati utilizzati per descrivere l’economia sommersa mostrano in generale la sua enorme incidenza sul PIL (tra il 16,3% e 17,5%). Se si prendono in considerazione i singoli parametri, il lavoro nero e l’evasione fiscale (IRAP e IVA), si constata che, pur rimanendo a livelli elevati, mostrano una certa diminuzione in anni recenti. Ne emerge inoltre una geografia assai diversificata, ma non molto diversa da quella che contraddistingue la distribuzione territoriale di civismo e capitale sociale. Per quanto riguarda il lavoro nero il risultato peggiore si ottiene nel Mezzogiorno, mentre l’area più virtuosa è quella del Nord-Est, seguita dal Nord-Ovest e dal Centro. Una tendenza analoga la troviamo considerando l’evasione fiscale. Al contrario, sia l’illegalità economica amministrativa sia la criminalità organizzata di tipo mafioso non rispettano il tradizionale divario Nord-Sud. Infatti, i livelli più elevati della prima si registrano nelle regioni a statuto speciale del Nord (Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige) e in quelle regioni del Sud che si contraddistinguono come aree di insediamento tradizionale delle mafie (Campania, Sicilia e Calabria). La criminalità mafiosa si riproduce sia nelle aree dove si è storicamente formata sia in quelle di nuova espansione. Così le attività di riciclaggio, spesso connesse a forme strutturate di criminalità organizzata, si distribuiscono a macchia di leopardo sul territorio italiano. Sono particolarmente intense proprio in alcune regioni del Nord, come la Liguria, il Friuli Venezia Giulia, oltreché, com’è più generalmente riconosciuto, in Campania, Calabria, Lazio, Puglia, mentre all’ultimo posto troviamo, è vero, la Sicilia, ma la Valle d’Aosta è penultima.
Se queste forme di illegalità possono essere studiate e analizzate empiricamente, come rilevare, invece, l’universo ‘oscuro’ della corruzione? I livelli da cui origina e in cui si espande sono molteplici, come ci ricordano gli approfonditi contributi di questa sezione. C’è, in primo luogo, la diffusione sotterranea della corruzione, come percezione diffusa tra la popolazione e tra gli ‘esperti’. Se il Corruption perception index (con un range da 100, corrispondente al massimo di trasparenza, a 0 corrispondente al massimo di corruzione) colloca l’Italia nel 2013 al 69° posto tra i 175 Paesi considerati, terz’ultima tra i Paesi dell’Unione Europea, altre indagini centrate sul nostro Paese mostrano che le esperienze dirette di corruzione sono dichiarate maggiormente nelle regioni meridionali: Campania, Molise, Lazio, Calabria, Abruzzo e Sicilia. Esiste, in secondo luogo, l’insieme degli scambi corrotti che vengono scoperti a seguito di denuncia o di indagini autonome dei magistrati. Attraverso le statistiche giudiziarie può dunque essere misurata l’ampiezza della corruzione emersa, perseguita e sanzionata. L’effetto ‘mani pulite’ che ha fatto raggiungere il picco delle denunce per corruzione e concussione nel 1995, per poi seguire un andamento discendente fino ai giorni nostri, appare meno straordinario se si considera una gamma estesa di reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato, malversazione e frode), il cui trend è ricostruibile fin dal 1948. Esso, collocato in questo ampio arco temporale, da un lato risulta analogo per intensità a quello dei primi anni del dopoguerra, dall’altro risulta come l’esito della brusca accelerazione di un processo di progressiva emersione per via giudiziaria di tali crimini, cominciato già da un decennio. La distribuzione territoriale della corruzione riproduce il radicamento delle organizzazioni mafiose delle regioni meridionali, con alcune regioni del Centro-Nord – Valle d’Aosta, Friuli e Marche – in testa alla classifica della trasparenza. Seguire l’attenzione dedicata dai media alla realtà della corruzione è molto utile per cogliere non tanto l’effettiva dimensione del fenomeno quanto il livello dell’allarme sociale da questo suscitato. Si nota che l’esposizione mediatica è stata massima a metà degli anni Novanta, in corrispondenza con ‘mani pulite’, quando quasi un quarto di tutte le notizie avevano per oggetto tali reati, per poi subire un crollo nei decenni successivi (con una modesta risalita solo tra il 2010 e il 2013), in coincidenza con la nuova ondata di scandali che ha colpito – tra gli altri – Protezione civile, Finmeccanica e anche molti consigli regionali.
Alcuni saggi hanno cercato di spiegare questa triste specificità italiana, almeno rispetto alla grande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea. Le spiegazioni non sono certo facili: per la loro complessità non possono essere qui sintetizzate e si deve rimandare alla lettura approfondita dei singoli contributi. Si può soltanto richiamare come ipotesi generale che il problema dell’Italia non sia tanto l’assenza dello Stato o della legalità, quanto la sua debolezza e che un certo margine di tolleranza verso comportamenti ai confini dell’illegalità sia stato una delle leve dello sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra, con l’effetto perverso di creare un modello di sviluppo fragile, non regolato, in cui non si sono mai poste davvero le basi per forti politiche anticorruzione, in grado di rompere il circolo vizioso tra affari e politica. La plausibilità di questa ipotesi è mostrata dalla grande espansione territoriale delle organizzazioni mafiose che, se hanno origine in specifiche zone del Mezzogiorno (‘cosa nostra’ nella Sicilia occidentale, la ‘ndrangheta nella Calabria meridionale, la camorra nel Napoletano), si sono diffuse in alcune regioni del Centro e del Nord Italia, soprattutto in corrispondenza di aree metropolitane, in particolare Bologna, Milano, Roma, Firenze e Torino. La loro diffusione non è, per così dire, un fenomeno di mera ‘importazione’, perché entrano in gioco le ricche risorse relazionali dei mafiosi e la loro capacità di renderle produttive, a suo modo un ‘capitale sociale’ in grado di mettere radici nel territorio attraverso l’attività di ‘estorsione-protezione’, messa in luce da tempo dagli studi sulla mafia come il meccanismo più efficace per stabilire e mantenere nel tempo il controllo territoriale.
Se corruzione e criminalità organizzata sono una specificità italiana, ciò non vale per altri tipi di reati. L’Italia non si distingue per livelli eccezionali di delittuosità rispetto alla maggior parte dei Paesi occidentali. In alcuni casi, anzi, in Italia si commettono reati in misura nettamente inferiore alla media europea. Le dinamiche temporali e le distribuzioni territoriali dei reati particolarmente gravi, come gli omicidi e i delitti contro il patrimonio (furti, rapine, estorsioni, sequestri di persona), analizzati approfonditamente in questa sezione, mostrano un interessante andamento dal dopoguerra a oggi. Negli anni Quaranta i delitti contro la persona e contro il patrimonio mostrano un’impennata, dovuta a molti fattori, tra cui va certo annoverato il peggioramento generale delle condizioni di vita. Come prevedibile, l’aumento del tasso di omicidi si rivela particolarmente elevato nelle regioni centrosettentrionali, in coincidenza con il crescere della Resistenza e il radicalizzarsi della guerra civile. Non a caso, esso raggiunge il valore più alto nel 1944, nelle regioni centrosettentrionali, in Toscana, seguita da Piemonte ed Emilia Romagna, e in alcune grandi città: Bologna, Roma, Firenze, Torino. Terminato il periodo del dopoguerra, negli anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia torna a una situazione di normalità anche riguardo alla criminalità, con un crollo del numero dei reati. Negli oltre vent’anni che vanno dal 1969 al 1991 si assiste invece a una crescita straordinaria del numero dei furti, delle rapine, dei sequestri di persona a scopo di estorsione e degli omicidi, con una particolare distribuzione territoriale, che vede i reati contro il patrimonio commessi con la violenza prevalere nelle regioni meridionali, e i reati contro il patrimonio commessi con l’inganno e il raggiro più frequenti nelle regioni centrosettentrionali. La spiegazione di questo straordinario aumento va cercata in primo luogo in alcune grandi trasformazioni demografiche e sociali, in particolare nei mutamenti nella composizione per età della popolazione (la propensione a commettere reati è maggiore tra i giovani), e, in secondo luogo, nei cambiamenti delle opportunità legati allo sviluppo economico. Nell’ultimo decennio del Novecento, infine, la tendenza si inverte e si assiste a un marcato calo della criminalità, un vero e proprio crollo per quanto riguarda gli omicidi. Un processo analogo si verifica in Europa, mostrando un’Italia addirittura meno trasgressiva della media europea.
Se l’immagine di un’Italia dove la criminalità organizzata è diffusa e in espansione, dove ampia e oscura è la zona grigia al confine tra legalità e illegalità, getta un’ombra poco rassicurante sul futuro, i saggi qui raccolti non dimenticano di analizzare le diverse modalità del contrasto alle mafie, ricostruendo dettagliatamente la storia delle due grandi tipologie di lotta. La prima è quella istituzionale, formata dalle attività condotte in applicazione di specifiche disposizioni di legge e materialmente poste in essere dagli apparati giudiziario e di polizia o da altre articolazioni dello Stato. La seconda è espressione della mobilitazione dei singoli e dei gruppi organizzati entro la società civile. Dal modo in cui soggetti istituzionali (amministratori locali, organi di controllo, ecc.) e sociali (associazioni, movimenti, comitati, ecc.) già mobilitati e attivi in questo campo, sapranno coordinarsi e condividere iniziative e ‘buone pratiche’ diffuse sul territorio, dipenderà gran parte dell’efficacia della lotta alle mafie.
Caratterizzato nella sua storia da flussi migratori in entrata e in uscita, con la prevalenza degli uni o degli altri nel corso del tempo, il nostro Paese è stato definito un ‘crocevia migratorio’: definizione che sembra particolarmente attuale oggi, quando il numero dei cittadini italiani all’estero e quello dei cittadini stranieri presenti in Italia risulta quasi equivalente (più di 4.300.000 in entrambi i casi). Ricordiamo che nell’arco temporale qui considerato l’Italia è passata da Paese esclusivamente di emigrazione a Paese prevalentemente di immigrazione; ed entrambi i fenomeni hanno interessato in modo differente le diverse aree del Paese: il punto di svolta si colloca negli anni Settanta, quando gli ingressi dall’estero cominciano a superare le partenze; nello stesso periodo le migrazioni interne cominciano a declinare. L’istituzione delle regioni nel 1970 funge quasi da spartiacque tra queste due fasi e da cartina di tornasole dell’importanza della mobilità interna alla penisola: ai nuovi enti viene infatti attribuito il compito di gestire le politiche migratorie che, in una prima fase, hanno riguardato esclusivamente gli emigrati e gli emigranti (con l’effetto di rafforzare le aggregazioni regionali degli italiani all’estero) e, in seguito, in anni più recenti, anche e soprattutto gli immigrati.
Sia per quanto riguarda le migrazioni interne sia per l’emigrazione all’estero, le direzioni e la portata dei flussi hanno registrato continuità ma anche mutamenti di rilievo. Un caso particolarmente rappresentativo è quello di alcune aree del Nord-Est che da luoghi di grande emigrazione verso l’estero e verso le regioni del ‘triangolo industriale’ hanno progressivamente mutato il loro ruolo fino a diventare rilevante polo di attrazione per le migrazioni interne e soprattutto per l’immigrazione dall’estero; al contrario, per esempio, il Mezzogiorno non ha mai cessato di svolgere il suo ruolo di area di emigrazione, ma con una intensità diversa nei vari periodi e con una ripresa significativa nel corso dell’ultimo quindicennio. La fotografia di questi casi aiuta a mettere a fuoco l’intreccio temporale tra i due flussi: da un lato, nel secondo dopoguerra dopo l’abolizione del blocco sancito dalla legislazione fascista, la forte ripresa migratoria (sia sotto forma di emigrazione transoceanica sia di emigrazione ‘assistita’ in Europa, cioè ‘controllata’ attraverso accordi tra i Paesi); dall’altro, l’incrociarsi di questa fase dell’emigrazione italiana (l’emigrazione transoceanica declina già dopo la metà degli anni Cinquanta, mentre quella europea ha il suo apice nel triennio 1960-62) con le migrazioni interne che, sempre negli anni Cinquanta-Sessanta, accompagnano e sostengono il passaggio del Paese dall’agricoltura all’industria e dalla campagna alla città.
L’emigrazione interna o all’estero, che interessò massicciamente il Mezzogiorno, contribuì a modificare radicalmente il contesto di partenza: l’alleggerimento della pressione demografica sulla terra migliorò le condizioni di vita dei contadini che restavano, mentre l’arrivo delle rimesse innalzava il complessivo livello del reddito e dei consumi delle famiglie; questo, combinandosi con l’estendersi del sistema del welfare, contribuì a ridurre l’effetto ‘spinta’ sull’emigrazione. Ora, da diversi anni, dal Mezzogiorno si è ripreso a partire nella direzione Sud-Nord e qui, nel crocevia migratorio italiano, gli effetti dell’emigrazione e dell’immigrazione si intrecciano: l’emigrazione dei giovani, unita alla riduzione delle dimensioni familiari, determina la crescente incidenza di famiglie di soli anziani e il conseguente richiamo dall’estero di lavoratori per le attività di cura. E questo spiega, tra le altre cose, l’apparente paradosso della coesistenza in Italia e in particolare nel Mezzogiorno di occupazione straniera e disoccupazione.
Se spostiamo ora il nostro interesse sui flussi dell’immigrazione dall’estero, notiamo che il passaggio dell’Italia a Paese di immigrazione è stato costruito soprattutto ‘dal basso’, nel mercato del lavoro e nei contesti sociali locali: decisive sono state le modalità spontanee dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. In questo processo alcuni attori hanno svolto un ruolo di punta: i datori di lavoro, le reti migratorie e gli attori della solidarietà organizzata (sindacati, associazioni, forze del volontariato). Poiché nell’ultimo decennio di crisi, mentre cresceva il tasso di disoccupazione aumentava anche il numero di stranieri regolarmente occupati (e la loro incidenza sull’occupazione complessiva), grande importanza riveste, nella comprensione del fenomeno, l’analisi dei territori che hanno prodotto il variegato paesaggio dell’immigrazione. Esso risulta riconducibile ad alcuni modelli specifici e differenziati di integrazione, ma con una caratteristica comunque prevalente: dove maggiore è il benessere, maggiore è anche l’immigrazione (i dati ci dicono che la popolazione straniera si concentra per più dell’85% nelle regioni centro-settentrionali). Ecco perché si è soliti parlare di un ‘effetto specchio’ dell’immigrazione straniera rispetto alla società italiana, volendo significare che l’arrivo, l’inserimento lavorativo, l’insediamento sul territorio di persone di origine straniera hanno rivelato tratti costitutivi e contraddizioni sociali tipici del nostro Paese. L’integrazione – si osserva – quando avviene, avviene in luoghi specifici, in sistemi di relazioni situati nel tempo e nello spazio, per lo più prescindendo dalla regolazione politica.
Il processo è visibile anche se si pone attenzione alle famiglie della migrazione e in particolare alle famiglie miste (quelle composte da un partner autoctono e uno immigrato), che rappresentano una realtà in costante crescita sia in Italia sia nel resto dei Paesi europei. Sulla base dei dati disponibili si evidenzia che la coppia mista tipica della realtà italiana è costituita da un uomo italiano e una donna straniera e vive prevalentemente al Nord. I matrimoni misti, in relazione alla loro incidenza in un dato contesto, sono il segno del più alto livello di integrazione tra i gruppi che compongono una società: segnalano infatti l’allentamento dei legami tradizionali che regolano i rapporti interni a un gruppo e l’apertura delle diverse comunità immigrate nei confronti della società ospitante. Le coppie miste rappresentano un fenomeno che facilita l’ibridazione e la pluralizzazione delle società e della loro identità. Nelle famiglie miste diventa preponderante l’emancipazione della coppia dalla famiglia di origine e la scelta individuale prevale oltre, e in alcuni casi contro, ogni condizionamento del gruppo di appartenenza.
Le regioni nelle quali i matrimoni misti pesano di più, nel 2012, sui matrimoni in generale sono l’Emilia-Romagna (15,2%), seguita dalla Liguria (14,6%) e dall’Umbria (14,5%). È la Lombardia, fra le regioni italiane, ad avere invece l’incidenza più elevata di matrimoni misti sul totale italiano, ed è ancora la Lombardia la regione dove nascono più figli da coppie miste. Da questi dati si ricava che ciò che pesa a favore di queste unioni è la presenza di soggetti migranti: infatti là dove questi sono in numero più elevato si riscontra un numero maggiore di matrimoni misti, il che significa che in queste regioni la presenza dei migranti sembra normalizzare e rendere maggiormente accettabili le unioni miste. In generale, tuttavia, nonostante il costante incremento dei matrimoni misti, i dati dimostrano che la strada dell’accettazione di tali unioni nel nostro Paese sembra essere ancora in salita.
Tornando al tema della cittadinanza economica di fatto acquisita dagli immigrati, notiamo che essa non si è tradotta in cittadinanza politica. Eppure, da oltre vent’anni, in Italia le trasformazioni portate dall’immigrazione hanno prodotto un processo di intensa politicizzazione, a cui ha corrisposto anche il fiorire di una abbondante legislazione in materia. La questione dell’integrazione è entrata nell’agenda pubblica di intervento a metà degli anni Novanta, dopo che già erano state promulgate due leggi sull’immigrazione (l. 30 dic. 1986 nr. 943 e l. 28 febbr. 1990 nr. 39, ‘legge Martelli’): nessuna di queste due leggi affrontava in un’ottica programmatica la questione dell’integrazione, come invece tentò di fare la legge nota come Turco-Napolitano (l. 6 marzo 1998, nr. 40) attraverso la programmazione dei flussi in entrata, le misure contro l’immigrazione illegale e l’integrazione sociale degli immigrati. È con questo provvedimento legislativo che si chiarisce maggiormente anche il ruolo delle regioni, designate come il perno delle politiche di integrazione. Questa normativa, inoltre, per la prima volta chiamava in causa in maniera esplicita il terzo settore – di fatto da anni già attivo nel campo dell’integrazione – incoraggiando una collaborazione tra gli enti locali, le associazioni di stranieri e le organizzazioni che operano in loro favore. All’inizio degli anni Duemila vari fattori hanno concorso a un’ulteriore spinta verso la devoluzione delle politiche di integrazione alle regioni e agli enti locali: la legge di riforma dell’assistenza sociale (l. 8 nov. 2000 nr. 328) e la riforma del titolo V della Costituzione.
Come si è già anticipato, una delle dimensioni principali in cui si è manifestato lo scarto tra politiche di inclusione degli immigrati dichiarate e in uso è stata l’asse nazionale-locale. Il livello di governo locale fin dagli anni Novanta è stato un vero e proprio laboratorio di innovazioni, in collaborazione – più o meno formalizzata – con operatori di servizi pubblici e agenzie del privato sociale ai fini dell’estensione dei diritti sociali degli immigrati. Pur in presenza di stili diversi, lo confermano i casi di programmazione e intervento degli enti regione del Veneto, Emilia e Puglia, qui analizzati. A conferma di quanto già ricordato sul caso del Veneto, un elemento specifico della programmazione di questa regione riguarda il fatto che gli immigrati sono costantemente messi a confronto con gli emigranti veneti di ritorno: emigrazione e immigrazione vengono trattate negli stessi documenti, salvo accordare una corsia preferenziale agli emigrati di ritorno nell’accesso ai servizi sociali, tra cui quello all’edilizia pubblica. Altro dato interessante è che la retorica anti-immigrato della Lega non risulta incompatibile con l’alto livello di integrazione mostrato dal Veneto, se paragonato alle altre regioni italiane: un risultato che è dipeso in gran parte dal dinamismo dell’economia regionale che fino a un certo punto ha potuto garantire impieghi stabili agli immigrati.
A conclusione di questa sezione rimane da sottolineare, che in Italia, a differenza di molti altri Paesi europei, è mancato e continua a mancare un modello nazionale coerente di inclusione degli immigrati, che non è mai stato neppure formulato in maniera articolata come politica ‘dichiarata’ (si pensi per contrasto al caso francese).
Il titolo di questa sezione fa riferimento a un gruppo di contributi che guardano alla relazione tra cultura e territori ponendo l’accento sulle relazioni (reti) che si costruiscono nella società attorno alla produzione/fruizione dal basso di strumenti culturali e artistici (biblioteca, radio, canto, cinema, teatro, letteratura). Ancora più che in altri saggi del volume e dell’opera, qui il termine regione ha la duplice valenza, più volte ricordata, di istituzione – produttrice di norme e finanziamenti – e di contesto – un territorio con una sua propria storia e geografia. Risalta, anche in questo caso, la convergenza dei diversi punti di osservazione sia per quanto riguarda il timing del ciclo ascendente della partecipazione sociale (collocato unanimemente negli anni Settanta) sia per l’addensarsi in alcune particolari aree geografiche (in generale centro-settentrionali) di iniziative e consumi culturali. Una ‘eccezione’ interessante a questo paradigma è rappresentata dalla letteratura contemporanea.
Biblioteca pubblica è in Italia qualsiasi struttura ‘aperta al pubblico’: questo significa che, rispetto ad altre nazioni europee, è la concezione stessa della biblioteca pubblica (la public library tipica dei Paesi di tradizione protestante) a non aver mai ricevuto nel nostro Paese una codificazione esplicita, quella che la differenzia dalle biblioteche di conservazione grazie all’offerta e all’accessibilità di servizi rivolti a tutti i cittadini. Così troviamo sotto questo nome modelli e servizi eterogenei: in sintesi, la storia delle biblioteche pubbliche in Italia riflette un Paese che ha ereditato un grande patrimonio librario, ma che non è riuscito a creare una moderna ed efficiente rete di servizi, se non in alcuni casi e in determinati territori. Periodizzante a questo proposito è stata la svolta degli anni Settanta, allorché, con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario fu attuato il trasferimento ai nuovi enti, da parte dello Stato, della responsabilità in materia di organizzazione territoriale dei servizi di pubblica lettura. Dal quel momento lo sviluppo della rete delle biblioteche di ente locale è diventata una questione tutta regionale, da regolamentare attraverso specifiche leggi, e proprio per questo con risultati molto differenziati.
Come si è visto a proposito dell’arrivo e dell’inserimento di persone straniere nella società italiana, anche per la distribuzione e il funzionamento delle biblioteche dipendenti dagli enti territoriali si può parlare di un ‘effetto specchio’ del nostro Paese: si conferma infatti la storica spaccatura Nord-Sud (su un totale di 6417 biblioteche, solo 1194 si trovano nel Mezzogiorno; ISTAT, Annuario statistico italiano, 2013). Più in specifico, vengono qui individuate e descritte le principali tendenze nel funzionamento dei servizi bibliotecari per aree regionali: i risultati importanti ottenuti, al Nord, per quanto riguarda la cooperazione bibliotecaria, gli interventi a sostegno dell’edilizia e la valorizzazione del ruolo sociale delle biblioteche; i sistemi di coordinamento e gli investimenti in nuova edilizia delle regioni del Centro; la mancanza di un piano (in realtà, di volontà politica) al Sud (e nelle Isole), ma anche la presenza di aree di cooperazione (biblioteche e soprattutto bibliotecari che gestiscono veri e propri presidi culturali). Gli esempi positivi infatti non mancano, ma anche questi rimangono isolati, non coordinati, sottofinanziati. Da segnalare in questo panorama il caso della Sardegna che, con una programmazione regionale molto forte e incisiva, è riuscita a creare in ogni comune biblioteche quasi interamente sostenute con i finanziamenti regionali. Il risultato è che la biblioteca si afferma come l’istituzione pubblica più diffusa sul territorio (una biblioteca ogni 5700 abitanti, nel 2012, in Sardegna, meglio dell’Emilia Romagna!) e gli effetti si vedono, scorrendo le classifiche regionali dell’indice di lettura. Negli ultimi quindici anni nuove biblioteche si sono aperte un po’ in tutto il Paese, ma sempre con una prevalenza nel Centro-Nord. Continuano, inoltre, a esserci troppe biblioteche di vecchia concezione, con collezioni scarsamente accessibili; i nuovi edifici sono pochi e rari nelle periferie; decisamente esigui soprattutto gli investimenti al Sud, dove ce ne sarebbe maggiore bisogno. Tuttavia, anche nel Mezzogiorno si possono incontrare servizi che funzionano bene; e questi, come qui si illustra, sono quasi sempre espressione diretta della società civile: si tratta di giovani, associazioni, librai, singoli cittadini che hanno capito che oggi le biblioteche sono il ‘fertilizzante’ di cui le nostre città, i nostri paesi, le nostre periferie hanno bisogno. Basterebbe – questa è la conclusione – sostenere le mille iniziative dal basso fiorite in questi anni per migliorare di colpo la situazione.
Ancora con l’ottica delle ‘voci’ dalla società civile viene qui dedicata speciale attenzione alla radiofonia indipendente locale. Si è privilegiato questo mezzo, rispetto a quello televisivo, per una duplice ragione: da un lato, il caso della radiofonia italiana, con l’irruzione nell’etere di migliaia di emittenti negli anni Settanta, presenta uno scenario originale nel panorama internazionale; dall’altro, il mezzo radiofonico è riuscito a sfuggire a lungo all’irrigidimento che si è prodotto rapidamente nel campo televisivo, soprattutto locale, diviso tra monopolio di Stato e televisione commerciale. I primi episodi di utilizzo indipendente (dal monopolio statale) della radio si segnalano negli anni del conflitto mondiale, con finalità etico-politiche; è tuttavia Danilo Dolci, con Radio libera di Partinico (1970), il vero antesignano della radiofonia indipendente, anche se solitario e isolato quanto a consapevolezza del mezzo (dare voce ai ‘poveri cristi’). In generale, la radio non sembra attirare in quegli anni (e neppure in seguito) l’interesse delle grandi articolazioni della società politica e civile, o della Chiesa stessa; neppure gli enti locali o le neonate regioni sapranno approfittare della fine del monopolio per dare vita a proprie voci, tutti impegnati nella conquista di uno spazio televisivo. Il 1975 è il primo anno di vera e propria ondata di accessi, con una precoce diffusione in Piemonte, prima del consolidarsi di un lungo primato milanese (modello sia di radio ‘commerciali’ sia di radio ‘democratiche’). Nel 1976, in seguito al pronunciamento della Corte costituzionale, le radio libere escono dalla condizione di illegalità, ma senza entrare in un quadro legislativo definito. Nate nelle grandi città come nei centri più piccoli, alla fine del 1975 le radio private sono almeno un centinaio, ma nel 1979 si parla di 1800 emittenti, un numero che all’inizio degli anni Ottanta è raddoppiato, prima di cominciare a declinare.
Tra i vari fattori, una delle spinte determinanti per la nascita delle radio libere è certamente la forte domanda giovanile di musica, unita a un’ispirazione genericamente libertaria: tra gli anni Settanta e Ottanta, le radio democratiche, in particolare, danno risalto a correnti musicali poco trattate dalle radio commerciali (punk, reggae). Fra gli ambiti che si avvantaggiano maggiormente di questa informazione ravvicinata ci sono il mondo locale dello sport e gli sport minori; accanto alla microinformazione, le emittenti locali offrono poi una sorta di ‘auto-sociologia’ dei loro territori, senza contare che questa relazione diretta con il territorio comporta la legittimazione nella pratica radiofonica degli usi locali della lingua italiana, degli accenti, delle parlate e dei dialetti.
Nell’insieme, tuttavia, la capacità del mondo radiofonico di restituire la realtà del nostro Paese, di valorizzare la dimensione locale e di rappresentare l’universo giovanile, dopo avere raggiunto l’apice negli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, si è fortemente e progressivamente appannata. Nel vuoto legislativo che si prolunga fino alla fine degli anni Ottanta (la cosiddetta legge Mammì, la l. 6 ag. nr. 223, è del 1990), le voci economicamente più forti trovano il modo di affermarsi ridimensionando il tessuto di esperienze più piccole, localmente e politicamente connotate. Nonostante negli anni Novanta intervengano nuove presenze e alcuni casi di aggregazione (network), nei primi anni Duemila il numero delle radio scende a 1000, ed è da allora in costante diminuzione. Tra le cause di questo impoverimento non è da trascurare la sottovalutazione del mezzo e della sua potenzialità in ambito locale (anche se gli ascolti complessivi oggi sono stabili o addirittura in rialzo), aggravata negli anni più recenti dall’imporsi di Internet, che ha contribuito a distogliere dalla radio molta di quell’utenza giovanile che aveva trovato la sua voce nella radiofonia indipendente.
«Il ‘fare musica’ in forme collettive e condivise svolge una funzione sociale preziosa nel delineare identità di gruppo e veicolare messaggi sociali e valori collettivi». È questo l’assunto da cui parte la ricostruzione che qui si propone della specificità italiana nel campo della produzione del canto sociale, che vede il suo riposizionarsi, dopo la lunga parabola tra Ottocento e Novecento, entro nuove forme espressive originate in ambito internazionale. Come si è visto in maniera estesa nel vol. 3 (Culture), negli anni Sessanta-Settanta lo sviluppo della ricerca in materia di canto sociale si colloca all’interno di un progetto complessivo di rinnovamento della cultura politica del movimento operaio (Gianni Bosio, Nuovo canzoniere italiano). Dal punto di vista antropologico, il filone di studi sul canto sociale è considerato il fenomeno contemporaneo più rilevante sul quale porre lo sguardo della disciplina (Alberto Mario Cirese). Dal punto di vista musicale, la sfida raccolta da alcuni protagonisti di quella stagione produce la visione ‘utopica’ di una possibile nuova cultura musicale in grado di valorizzare e combinare in Italia il meglio sia della musica classica sia del patrimonio folclorico (Giovanna Marini). Dal punto di vista della ricostruzione storica, si evidenzia come diversi filoni musicali siano confluiti all’interno del canto sociale, che si pone così come fenomeno di frontiera a più livelli, tra campagna e città e tra diversi strati socioculturali (Cesare Bermani). Nella fase di crisi del movimento operaio la ricerca si è aggiornata spostandosi sulle forme espressive della conflittualità di base e riflettendo sul rock e sui ‘giovani’ (Alessandro Portelli).
Il percorso che qui viene proposto porta a includere nella specificità italiana della produzione musicale di identità di gruppo anche la più recente cultura urbana giovanile hip hop (organizzata in gruppi detti posse): un fenomeno complesso, che in Italia ha vissuto una prima fase embrionale nelle strade e nelle periferie delle grandi città, per poi trovare un momento di grande visibilità politica e mediatica nella stagione dei centri sociali. Se inizialmente i testi sono in inglese, ben presto si compongono nuovi brani in italiano e molto spesso nei vari dialetti di provenienza delle posse. Le posse meridionali, in particolare, hanno spinto molti osservatori a parlare di un rinnovamento della musica folclorica, grazie all’uso marcato del dialetto, allo stile vocale dei gruppi e, soprattutto, alla riformulazione in chiave hip hop di alcune forme musicali tradizionali. In maniera originale la dimensione locale della lettura dei fenomeni sociali, che non era affatto centrale nella stagione del canto sociale del movimento operaio (di ispirazione universalista), lo è diventata invece in anni più recenti, grazie a una scelta di traduzione in chiave microidentitaria e radicale di formule culturali (cultural studies) e musicali (posse) diffuse in ambito internazionale.
È interessante sottolineare come il percorso del canto sociale si sviluppi in parallelo a un fenomeno musicale più ampio e ‘nazionalizzante’, quello del successo della canzone italiana. Partiamo da una cifra: alla fine degli anni Sessanta gli italiani spendevano 25 miliardi di lire all’anno per l’industria canzonettistica. Questo dato economico (che rispecchia il fenomeno della crescita esponenziale di vendita di dischi e di ore di trasmissione radiofonica e televisiva) offre lo spunto per ricostruire il significato culturale svolto dalla canzone italiana nei decenni che vanno dal dopoguerra agli anni della modernizzazione politica e economica del Paese, per concludersi alla vigilia del millennio e della rivoluzione digitale. Intanto, in che senso si può parlare di canzone italiana, al di là della condivisione di un vocabolario, di una sintassi e di una grammatica? La canzone, qui si afferma, si può definire italiana in quanto rappresenta qualcosa di più della somma delle varie partizioni regionali e dialettali in cui l’Italia si è storicamente manifestata per secoli. Nasce nei primi anni del Novecento, e in particolare dopo la Prima guerra mondiale, differenziandosi da un lato dalle arie operistiche, dalle romanze e dai repertori popolari regionali, dall’altro dalla canzone napoletana (che ne costituirà tuttavia una matrice identitaria permanente), ma si afferma soprattutto – nonostante il già esplicito appoggio, per ragioni di consenso, del regime fascista al genere – dopo la Seconda guerra mondiale. Una data molto significativa, come qui si ricorda, è rappresentata dall’avvio nel 1951 del Festival di Sanremo, la prima istituzione duratura specificamente dedicata alla promozione e diffusione della canzone italiana: belcanto e retorica ne caratterizzano lo stile e offrono quello standard che sarà nel corso degli anni continuamente sfidato in una dialettica, che accompagna tutta la storia della canzone italiana, tra tradizione e modernità. Paradigmatico di questa sfida il caso sorprendente, nel 1958, della vittoria della canzone di Domenico Modugno “Nel blu, dipinto di blu”.
Mentre le gare canore si moltiplicano diffondendosi sul territorio nazionale rilanciate dalla radio, dal mercato discografico e da riviste specializzate, la distribuzione regionale delle strutture produttive e distributive mostra un policentrismo che ripete dinamiche riscontrabili anche in altri settori di produzione culturale. In maniera parallela anche la canzone napoletana conosce una sua vicenda di successo, caratterizzata da capacità di rinnovamento della tradizione, ricerca nel campo folclorico, sperimentazione nel campo rock e nazional-popolare. Dopo la canzone napoletana, un genere che ha acquisito una sua specifica autonomia è la canzone d’autore, che si definisce sulla base della qualità artistica attribuita al suo campo. La sua genesi si colloca ancora a Sanremo, nel gennaio 1967, quando la morte (per suicidio) del cantautore Luigi Tenco (uno dei più qualificati della ‘scuola genovese’) getta un’ombra lunga sul mondo della musica leggera nazionale, ma allo stesso tempo contribuisce a determinare un suo salto qualitativo. Attorno a quell’evento nasce infatti il Club Tenco e la Rassegna della canzone d’autore, delineando un campo, alternativo al Festival di Sanremo, definito sulla base di una ‘qualità’ non solo estetica, ma anche politica e culturale (l’‘impegno’ del cantautore). È in questa scia che si può leggere anche il fenomeno del folk revival, ovvero la reintegrazione di elementi dialettali e di musiche tradizionali nel mainstream discografico, in una riscoperta delle radici in cui la scelta del dialetto qualifica un percorso musicale e testuale nuovo e autonomo rispetto ai modelli internazionali.
La conclusione degli studiosi è che, benché la canzone continui probabilmente a essere ancora un oggetto – e un campo di produzione – culturale meno legittimato e meno consacrato di altri da tempo entrati nel canone della cultura, è indubbio che il suo ruolo e il suo statuto anche intellettuale siano enormemente aumentati nel giro degli ultimi venti anni.
Teatro e territorio è un binomio necessario, ma allo stesso tempo problematico, in quanto fa riferimento, come qui si ricorda, al ‘nomadismo dell’attore’ e alla ‘residenzialità dello spettatore’. In Italia, tanto la costruzione del sistema teatrale quanto l’evoluzione dell’arte scenica sono state attraversate da questa contraddizione tra esigenze di stabilità e tendenze al mutamento negli anni dal 1970 al 2000. Protagonista di questo lungo ed eccezionale periodo è stato il ‘nuovo teatro’, una etichetta che si estende dal vertice di una già affermata ‘avanguardia’ all’ampia base costituita dai ‘teatri di ricerca e di sperimentazione’. Le caratteristiche originali di questo nuovo teatro italiano sono così sintetizzabili: in primis la sua apertura ai ‘teatri degli altri’, cioè la capacità di assorbirne le influenze e di sposarne le tendenze; poi il suo essere soprattutto un ‘teatro d’attore’, che produce anche un nuovo ‘spettatore’, che sta in una relazione continua con l’artista (differenziandosi così dal pubblico all’antica). Infine, si sottolinea l’intenso rapporto di questo teatro con la sua propria tradizione e con le tradizioni delle città e regioni d’Italia. Dagli anni Settanta in poi – in coincidenza non casuale con l’istituzione delle regioni – gli interessi e gli interventi verso le culture locali, ma anche verso le specificità sociali di ogni pur piccola realtà, hanno sempre coinvolto il teatro prima e più delle altre arti; questa attenzione non si è tuttavia tradotta in localismi e provincialismi. Esemplare la questione del dialetto: diversamente dal cinema della ‘commedia all’italiana’, il nuovo teatro raramente usa il dialetto per dare spazio a mondi e ceti particolari, mentre se ne serve per dare forza musicale e poetica alla recitazione. Si può dunque affermare che il teatro nuovo è forse il primo vero teatro ‘nazionale’, proprio perché le lingue e le tradizioni locali non sono più riserve separate, ma si offrono come un terreno accessibile per nuovi scavi creativi.
Del resto il paradosso del teatro nuovo è quello di essere in larga parte ridefinito dai molti teatri piccoli in continua insorgenza: si tratta di un fenomeno non solo interessante sociologicamente, ma che si rivela anche come la condizione più adatta al diffondersi di una ‘motivazione teatrale’ che attiverà attori e spettatori nel lungo periodo. Dopo avere toccato il livello più basso nel 1963, infatti, per tutti gli anni Settanta le rappresentazioni teatrali nel loro complesso faranno registrare incrementi annuali perfino del 150%. Considerando la parallela presenza della militanza politica giovanile in quegli stessi anni, si è così potuto parlare di questo teatro come ‘espressione dei movimenti’; al contrario – qui si osserva – sarà proprio il teatro a offrirsi, negli anni di riflusso della politica, come il luogo in cui proseguire una vita di gruppo. Un ultimo paradosso riguarda la diffusione geografica del ‘teatro nuovo’. Mentre il sistema istituzionale tendeva a distribuire fondi e a far nascere forze in modo da costruire una rete più equilibrata nel territorio nazionale, le attività e le imprese teatrali si sono concentrate e moltiplicate nelle zone già ricche di presenze e proposte: il caso della Romagna dimostra come è la densità dei teatri che incoraggia altri teatri, tanto è vero che, attorno alla Romagna anche la restante Emilia e la Toscana hanno sviluppato una simile fertilità organizzativa. Valutando l’arco cronologico che inizia con il 1970, con le parole di Piergiorgio Giacchè nel suo saggio sul teatro in questo volume, si può concludere che «le Regioni hanno unito l’Italia anziché dividerla, proprio perché il nomadismo del teatro ha funzionato in profondità (più della superficialità del cinema e della pervasività della televisione), attivando un rinnovato sistema circolatorio degli infiniti “particulari” che da sempre confluiscono nella strana universalità della cultura italiana».
Cinema e territorio è l’altro binomio che abbiamo voluto isolare sotto il segno della cultura, delle istituzioni e dell’immaginario diffuso. Due sono i momenti in cui il rapporto tra la centralità di Roma, luogo di produzione quasi esclusivo a partire dagli anni Trenta, e la rappresentazione delle diverse realtà regionali contribuisce alla costruzione di una più ricca e variegata identità nazionale. Entrambi coincidono non a caso con due fasi di forte mobilitazione della società civile: si parla infatti degli anni Sessanta (il decennio del boom economico e poi del Sessantotto) e degli anni Novanta (la stagione dei sindaci). Prima di allora va ricordato che già il cinema del dopoguerra era meno centralista di quello del fascismo: del resto il neorealismo è per definizione più aperto alle varie realtà regionali. In quegli anni il centro rimane saldamente l’asse Roma-Napoli, ma si registrano alcuni spostamenti a Milano, Torino e soprattutto in Sicilia, che proprio in quella fase assume il proprio statuto di luogo simbolico dell’ingiustizia e del sottosviluppo. Anche nella grande stagione del cinema d’autore (e della commedia all’italiana) degli anni Sessanta l’immagine dell’Italia rimane ancorata a Roma, con due poli che definiscono la secca opposizione Nord-Sud: Milano da un lato, la Sicilia dall’altro. Milano a sua volta diventerà sempre più specializzata in pubblicità, ma sarà solo negli anni Ottanta, con la disponibilità di tecnologie più pratiche (a partire dal video) e sullo sfondo della nascita delle televisioni private, che una vera produzione indipendente milanese tenterà strade alternative all’accentramento di Roma. Tra gli anni Ottanta e Novanta il cinema italiano riemerge da un decennio di crisi profonda, economica e creativa, e riscopre in maniera sorprendente il territorio; a questo si accompagnano tentativi di decentramento produttivo, specie al Sud, con l’arrivo di una generazione di autori e produttori napoletani e siciliani (e in un secondo momento pugliesi e sardi) che provano a raccontare i luoghi in prima persona. Questa tendenza si può leggere in parallelo con la cosiddetta stagione dei sindaci, ossia la vittoria delle giunte di sinistra in molti comuni italiani, che puntano su una riscoperta delle città e sulla valorizzazione dei centri storici in particolare.
Sempre collegata alle fasi più attive della società civile è anche la nascita, nei decenni, dei numerosi festival che hanno costruito l’identità della critica e degli spettatori. Per cogliere più da vicino una fotografia del pubblico italiano, delle minoranze di spettatori appassionati, un utile strumento è anche seguire le vicende dell’associazionismo cinematografico. I circoli del cinema nascono nel secondo dopoguerra, ereditando in parte la tradizione dei Cineguf, ma la vera svolta si avrà (non a caso) intorno al Sessantotto, con la nascita di una nuova tipologia di sale cinematografiche, ossia quelle interamente dedicate all’attività di cineclub, la prima delle quali, il Filmstudio 70, viene aperta a Roma nell’ottobre del 1967. Disposte abbastanza uniformemente sul territorio nazionale, sorprende la loro presenza capillare, nella provincia più sperduta come nei quartieri periferici delle grandi città.
Una fase ulteriore e importante vedrà, nei primi anni 2000, la nascita di una serie di Film commission regionali: dapprima quella del Piemonte, e poi tra le altre la Puglia, il Friuli, e così via. Oggi il panorama del cinema italiano, caratterizzato da una notevole incertezza economica a livello centrale, si basa sempre più su forme di intervento locali o indirette; ma, soprattutto, l’immaginario cinematografico nazionale è ormai ‘disseminato’, grazie al lavoro di autori di ricerca, documentaristi, o dello stesso cinema popolare.
Il ‘viaggio in Italia’ di questo volume (e della nostra opera) si conclude con uno sguardo al Paese osservato attraverso le lenti degli scrittori che hanno narrato le sue cento città. È uno sguardo che muove dalla provincia verso il centro alla ricerca di quella varietà, maturità e pluralità di voci che hanno sempre contraddistinto la cultura italiana nelle sue varie espressioni. La nazione Italia è il risultato della vitalità delle sue culture locali e della loro grande ricchezza giunta fino a tempi vicinissimi a noi, in maniera non comparabile, per varietà e durata storica, con gli altri Paesi europei che prima di noi hanno costruito grandi Stati sovrani. Esistono ancora oggi i segni di questa ricchezza, di questa pluralità? Esiste ancora nell’animo dei suoi abitanti, nelle piazze dei suoi paesi, la «contemporaneità dei tempi» di cui parlava ammirato e commosso Carlo Levi in Un volto che ci somiglia (1960)? La mutazione ha toccato il paesaggio ma soprattutto l’animo della sua popolazione, oggi non più ‘popolare e aristocratica’ bensì ‘media e mediocre’. L’assunto di fondo del saggio finale è che la storia della cultura italiana sia storia ‘regionale’ (o ‘provinciale’) che si fa nazionale per forza propria – a partire dalla periferia e con sorprendente vitalità – contro la vocazione centralizzatrice di interi settori (i media, le scuole, il cinema). Lo dimostra il fatto che le città capitali sono state meglio narrate da immigrati da altre città e che l’elenco degli scrittori regionali è ricco e in costante crescita; il teatro ha moltissime radici locali, non così il cinema e ancor meno la televisione, che ha svolto invece una funzione accentratrice, insieme alla stampa quotidiana.
Un segnale pesante di questa mutazione è la scomparsa della ‘questione meridionale’ dal dibattito non solo nazionale, ma nello stesso Sud (ogni regione si vede isolata dalle altre e diversa). Non sembra, invece, che esista una questione meridionale nella cultura, in particolare nei primi anni Dieci del nuovo secolo. Stupisce la vitalità di una cultura meridionale che produce buoni libri e buoni film per opera di scrittori e analisti – in gran parte giovani – che descrivono il nuovo mondo e le sue storture, in uno scambio efficace tra chi inventa storie e chi fa inchiesta. Senza illudersi sulla vitalità della periferia, dove esiste una creatività autentica, ma ci sono anche mafie e leghe, o deprecare la ‘mortalità’ dei centri (amministrativi e politici), che hanno anche conosciuto in passato culture e modelli in grado di conciliare organizzazione e autonomia, rimane il fatto che a caratterizzare gli ultimi decenni è la diffusione di esperienze locali di intervento che hanno saputo parzialmente supplire alle crescenti mancanze, ai crescenti abbandoni dei vari centri; esse riguardano ‘persone di buona volontà’, minoranze che hanno avuto in comune la tensione al ‘ben fare’, e si sono spese in iniziative sociali, culturali, pedagogiche, politiche, religiose che sono state – e sono – il sale della nostra storia civile.
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ISTAT, 9° Censimento dell’industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non profit. Primi risultati, 2013.