Abstract
La società in nome collettivo è il tipo societario più elementare utilizzabile per lo svolgimento di un’attività di impresa commerciale e si caratterizza per la responsabilità personale ed illimitata dei singoli soci, elemento inderogabile nei rapporti esterni (art. 2291 c.c.). Anche in virtù della sua struttura agile, si tratta del modello societario applicabile in mancanza di una diversa scelta effettuata dalle parti, sempre che ricorra un’attività commerciale.
Sul piano della disciplina applicabile, le norme tipicamente predisposte dal legislatore per la s.n.c. si ricollegano per lo più alla cd. commercialità del tipo e sono integrate da quelle dettate per la società semplice. Sono così previsti maggiori oneri pubblicitari, una più accentuata autonomia patrimoniale (destinata a venire meno nel caso di s.n.c. non registrata, ossia irregolare) ed una regolamentazione, sia pure scarna, del capitale sociale, nonché alcune regole specifiche per lo scioglimento e la liquidazione.
La società in nome collettivo è il tipo più elementare di società disciplinato dal nostro ordinamento per lo svolgimento di un’attività di impresa commerciale; nel codice civile è regolata appena dopo la società semplice, che costituisce il modello di base da cui partire nella ricostruzione della disciplina, poiché le disposizioni dedicate a quest’ultima sono applicabili anche alla s.n.c., salvo che sia previsto diversamente (art. 2293 c.c.). Ciò spiega perché le norme relative alla società in nome collettivo sono inferiori, per numero, a quelle riservate alla società semplice.
Alla società in nome collettivo sono riferibili, in linea di principio, anche le regole dettate per i contratti associativi in generale e, se compatibili, quelle stabilite dalla regolamentazione generale sul contratto, oltre alle prescrizioni concernenti ogni tipo di società (artt. 2247-2250 c.c.). In quest’ultimo gruppo di norme spicca l’art. 2249 c.c., con cui viene sancita la residualità della s.n.c., essendo stabilito che le società aventi ad oggetto un’attività commerciale sono regolate dalla relativa disciplina, salva la facoltà dei contraenti di effettuare una scelta differente. Ciò non esclude, come ovvio, che le parti possano anche orientarsi in maniera diretta ed esplicita verso la costituzione di una s.n.c. Le ragioni di un’espressa scelta dei contraenti dovrebbero risiedere, in linea astratta, nella possibilità di avvalersi di un’organizzazione flessibile, con largo spazio per l’autonomia privata e ridotti costi di gestione, all’interno della quale tutti possono (e tendenzialmente vogliono) partecipare attivamente alla vita della società e, nello specifico, all’amministrazione della stessa. Il contrappeso di questi vantaggi è costituito dalla responsabilità personale ed illimitata di tutti i soci.
La presenza di tali caratteristiche comporta, come già segnalato nel sistema previgente, che le società in nome collettivo siano costituite, di regola, da pochi soci legati da reciproca fiducia (Vivante, C., Trattato di diritto commerciale, V ed., Milano, 1929, rist. 91). Questi tratti sono comuni, del resto, all’antica figura della societas mercatorum, nella quale è da più parti intravisto l’antecedente storico della s.n.c., con la vistosa differenza, però, dell’imputazione dell’attività di impresa in capo alla stessa società, anziché ai vari soci, superando così la concezione del mandato reciproco (eventualmente tacito) concesso fra di loro (Galgano, F. Società (dir. priv.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 866 s.).
La facoltà di esercitare tramite la s.n.c. un’attività di impresa tra quelle elencate nell’art. 2195 c.c., salvo le riserve di legge, impone di annoverare tale tipo tra le ccdd. “società commerciali”. Per questo motivo, anche in presenza di una scelta per un’attività agricola, restano fermi gli obblighi relativi all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese (art. 2296 c.c.), pure per quanto riguarda l’eventuale istituzione di sedi secondarie (art. 2299 c.c.), nonché il dovere, posto in capo agli amministratori, di tenuta delle scritture contabili (art. 2302 c.c.), da conservarsi per i dieci anni successivi alla cancellazione della società (art. 2312 c.c.). Per la sottoposizione a fallimento, invece, non scatta la regola di prevalenza della “forma” sulla “sostanza”, dovendo necessariamente sussistere lo svolgimento di un’attività di impresa commerciale (artt. 2308 c.c. e 1 l. fall.).
Non è affatto agevole individuare le caratteristiche distintive della società in nome collettivo. A giudizio della Relazione al codice del 1942 (n. 938), la s.n.c. conserva immutati i suoi caratteri essenziali «impressi dalla lunga tradizione: organizzazione su base personale, responsabilità illimitata e solidale dei soci». In effetti, entrambi sono presenti nel tessuto normativo attuale, ma verosimilmente soltanto l’ultimo rappresenta un fattore davvero indefettibile. E ciò si spiega agevolmente, perché l’assenza di una struttura per organi altro non è se non il riflesso, sul piano dei vantaggi organizzativi, della responsabilità illimitata e solidale dei soci. Questo non esclude, tuttavia, che i soci siano liberi di prevedere un’organizzazione capitalistica, allorché ritengano che ciò possa rispondere ad una migliore efficienza sul piano imprenditoriale: la liceità di un’opzione del genere si ricava, in sintesi, dall’assenza di norme inderogabili in proposito e dal fatto che i terzi ed i creditori certamente non sono lesi, ma semmai avvantaggiati, da scelte di questo tipo. Tra le varie evenienze possibili, si pensi all’apertura della compagine sociale, tramite la previsione di clausole di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali (Piscitello, P., Società di persone a struttura aperta e circolazione delle quote. Modelli legali ed autonomia statutaria, Torino, 1995, 5 ss., 42 ss.).
Differente è il discorso della responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, poiché l’inderogabilità di tale previsione, nei rapporti esterni, è chiaramente posta dall’art. 2291, co. 2, c.c., in base a cui il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi; ai soci è pertanto consentito solo di prevedere una diversa regolazione interna dei loro rapporti. Inderogabilità non vuol dire, però, necessariamente anche tratto distintivo o tipologico, poiché una disposizione imperativa può riguardare anche altre società e, dunque, non essere caratterizzante. Ebbene, la responsabilità personale dei soci della società semplice e degli accomandatari di s.a.s. rende questo connotato senz’altro pertinente all’intera classe delle società personali. Tanto è vero che è stato affermato, nel quadro di un riesame dalle fondamenta del principio di tipicità delle società, come la s.n.c. non rappresenti un tipo autonomo, bensì la disciplina residuale dell’iniziativa societaria (inderogabile nei rapporti esterni e suppletiva in quelli interni) per la qualificazione commerciale dell’attività comune (Spada, P., La tipicità delle società, Padova, 1974, 93 ss., 435 ss.).
Certamente, il dato formale della rubrica dell’art. 2291 c.c. – concernente la nozione di società in nome collettivo – non può essere considerato dirimente. È innegabile, nondimeno, che solo la s.n.c. prevede, quale elemento imprescindibile e tipico, la responsabilità solidale ed illimitata di tutti i soci in via inderogabile nei rapporti esterni (Graziani, A., Diritto delle società, V ed., Napoli, 1962, 130 s.), in quanto nell’accomandita tale elemento appartiene ai soli soci accomandatari; mentre, nella società semplice, è consentito escludere la responsabilità dei soci che non hanno il potere di agire in nome e per conto della società attraverso apposito patto sociale (art. 2267 c.c.).
Dal punto di vista della disciplina del rischio illimitato, vanno segnalati due aspetti: il primo è che chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci anche per le obbligazioni sociali anteriori al suo ingresso, in applicazione dell’art. 2269 c.c. (Buonocore, V., Società in nome collettivo, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1995, 6). Il secondo è che l’esposizione personale dei soci assume carattere sussidiario rispetto a quella della società, quale debitore principale (Di Sabato, F., Capitale e responsabilità interna nelle società di persone, Napoli, 1967, 309 ss.). Ciò si desume dalla circostanza che i creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci se non dopo l’escussione del patrimonio sociale (art. 2305 c.c.). Si tratta di un beneficio accordato ai soci – in maniera più netta rispetto alla società semplice – i quali sono esposti al pagamento dei debiti sociali soltanto dopo che il creditore abbia effettuato un’infruttuosa escussione del patrimonio sociale, essendo insufficiente la mera richiesta di pagamento alla società. La giurisprudenza consolidata ammette, però, la possibilità di agire direttamente contro il singolo socio per potersi dotare di un titolo esecutivo, anche ai fini dell’iscrizione dell’ipoteca giudiziale (Cass., 10.1.2017, n. 279; Cass., 3.1.2014, n. 49; Cass., 17.12.2013, n. 28146; Cass., 16.1.2009, n. 1040; Cass., 10.2.1996, n. 1050); sino ad affermare la possibilità di prescindere dall’aggressione del patrimonio sociale quando emerge da circostanze oggettive che ciò sarebbe inutile e non consentirebbe di recuperare neanche parte del credito (Cass., 13.3.1987, n. 2647; Cass., 20.9.1984, n. 4810; Cass., 4.9.1984, n. 4752; Cass., 8.7.1983, n. 4606; Trib. Reggio Emilia, 9.9.2014, in Società, 2014, 1274).
Per altro verso, il beneficio opera solo nei rapporti con i creditori sociali e, perciò, non trova applicazione nell’ipotesi in cui il socio che ha pagato il debito della società intende esercitare il regresso nei confronti degli altri (Cass., 19.10.2016, n. 21066; Cass., 21.2.2013, n. 4380; Cass., 18.8.2006, n. 18185).
La responsabilità illimitata dei singoli soci giustifica anche il perché sia richiesto che nella ragione sociale venga riportato almeno il nome di uno di loro con l’indicazione del rapporto sociale (art. 2292, co. 1, c.c.); tuttavia, non è necessario che si tratti del nome di un socio attuale, in considerazione della facoltà di conservare nella ragione sociale quello del receduto o defunto, con il consenso dell’interessato o dei suoi eredi (art. 2292, co. 2, c.c.). Pertanto, l’affidamento che i terzi possono fare sulla ragione sociale è ridotto, dovendo costoro verificare, piuttosto, quali sono le evidenze pubblicitarie o, in difetto, informarsi adeguatamente in altro modo (Cottino, G. - Weigmann, R., Le società di persone, in Cottino, G. – Sarale, M. - Weigmann, R., Società di persone e consorzi, in Tratt. Cottino, III, Padova, 2004, 170 s.).
La natura inderogabile del regime di responsabilità illimitata, in uno con il carattere commerciale della società, incide, poi, sulla partecipazione degli incapaci alla s.n.c., poiché il legislatore ne prevede la sostanziale equiparazione all’esercizio individuale di un’impresa commerciale, richiedendo l’osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 320, 371, 397, 424 e 425 c.c. (art. 2294 c.c.). Significa che il minore, l’interdetto e l’inabilitato non possono partecipare ex novo ad una s.n.c., ma solo subentrare, con le dovute autorizzazioni, nella titolarità della partecipazione sociale loro pervenuta, a differenza di quanto concesso al minore emancipato (Auletta, G., Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 72 ss.). Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi – sopraggiunta con l’evoluzione normativa – del beneficiario dell’amministratore di sostegno, occorre guardare al decreto di nomina ed agli eventuali provvedimenti successivi del giudice tutelare ex artt. 405 e 407, co. 4, c.c. (Campobasso G.F., Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, IX ed., Milanofiori Assago, 2015, 64 s.).
La costituzione della società in nome collettivo avviene necessariamente per contratto, essendo inammissibile in via unilaterale; non è necessario il rispetto di alcuna forma particolare, se non quelle richieste dalla natura dei beni conferiti ex art. 2251 c.c. (Cass., 14.2.2000, n. 1613). Così, ad esempio, è indispensabile l’atto scritto per i contratti di società con cui si conferisce il godimento ultranovennale di un bene immobile o di altri diritti reali immobiliari (art. 1350, co. 1, n. 9, c.c.) Da ciò consegue che, al di sotto dei nove anni, può essere sufficiente anche una manifestazione orale o tacita. Sotto questo profilo, peraltro, si è sviluppata una tendenza (esegetica) a riconoscere, nei casi dubbi, il carattere di godimento infranovennale al conferimento di un bene immobile, nella prospettiva del principio di conservazione del contratto statuito dall’art. 1367 c.c. (Di Sabato, F., Società in generale. Società di persone, in Tratt. dir. civ. C.N.N., V, 4, Napoli, 2004, 123; Guerrera, F., Società in nome collettivo, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 941); in alternativa, si è ritenuto che la durata della stessa società possa considerarsi inferiore ai nove anni (Cass., 17.6.1985, n. 3631). La giurisprudenza ormai consolidata è, però, di avviso contrario, sul presupposto che ricostruzioni del genere finirebbero per esulare dalla mera interpretazione della volontà delle parti, traducendosi in un’arbitraria sostituzione del loro effettivo intento (Cass., 19.1.1995, n. 565; Cass., 6.3.1990, n. 1757; Cass., 4.7.1987, n. 5862). Analoghe esigenze conservative sono sottese a quelle interpretazioni che circoscrivono l’eventuale nullità per difetto di forma alla singola partecipazione e non all’intera società, salvo che quella venuta meno sia essenziale ex art. 1420 c.c. (Galgano, F., Le società in genere. Le società di persone, in Tratt. Cicu-Messineo, III ed., Milano, 2007, 201 s.), ritenendo che l’invalidità sia destinata comunque ad operare solo ex nunc (Palmieri, G., Conferimenti immobiliari ed invalidità nelle società di persone, in Riv. soc., 1992, 1407 ss., 1444 ss.).
Diversa dalla forma ad substantiam è quella richiesta a fini pubblicitari. Nello specifico, il legislatore prescrive la necessità dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, allo scopo di consentire l’iscrizione della società nel registro delle imprese, ponendo l’obbligo di provvedervi, entro trenta giorni, in capo agli amministratori e, se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, anche a carico del notaio (art. 2296 c.c.). Analogo regime pubblicitario sussiste per le modifiche dell’atto costitutivo e per gli altri fatti relativi alla società, dei quali è obbligatoria l’iscrizione (artt. 2300, 2306 e 2307 c.c.), per gli atti che conferiscono o limitano il potere di rappresentanza (art. 2298 c.c.), per la creazione di sedi secondarie (art. 2299 c.c.), per la nomina dei liquidatori (artt. 2309 e 2310 c.c.); e, infine, per la cancellazione della società (art. 2312 c.c.).
Che la pubblicità non incida sulla validità della s.n.c. lo si ricava agevolmente dall’art. 2297 c.c., a mente del quale, fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, i rapporti con i terzi sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice, ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. Ciò significa che la società è valida, ma bisogna rifarsi alla disciplina della società semplice e, quindi, al meno netto regime di autonomia patrimoniale riconosciuto a quest’ultima, con maggior favore per i creditori sociali e personali. Non trova applicazione, pertanto, la regola dell’automatica operatività del beneficio di escussione ex art. 2304 c.c., bensì quella contemplata dall’art. 2268 c.c., secondo cui è il socio a dover invocare la preventiva aggressione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditore può agevolmente soddisfarsi. Nulla cambia, invece, per quanto attiene all’esposizione personale dei soci e, perciò, il richiamo alla disciplina della società semplice non può certo consentire di applicare alla collettiva irregolare la facoltà di limitazione della responsabilità ex art. 2267, co. 2, c.c. (Galgano, F., Le società in genere, cit., 364). Anzi, vige la presunzione secondo cui ciascun socio che agisce per la società è investito della rappresentanza sociale, anche in giudizio, quale ovvia conseguenza della mancata iscrizione nel registro delle imprese, poiché il sistema di pubblicità legale non può operare, salva l’eventualità di opporre le limitazioni dei poteri rappresentanza ai terzi provandone la loro effettiva conoscenza (art. 2297, co. 2, c.c.). L’irregolarità della s.n.c. comporta pure il mutamento delle regole concernenti la posizione del creditore particolare del socio, poiché questi potrà chiedere la liquidazione della quota spettante al suo debitore secondo quanto previsto dall’art. 2270, co. 2, c.c., in luogo della preclusione sancita dall’art. 2305 c.c. (Galgano, F., Le società in genere, cit., 317 ss.).
Si è soliti differenziare, nell’ambito della mancata iscrizione della s.n.c., l’ipotesi della società sorta per facta concludentia e quella dell’atto costitutivo che, pur materialmente predisposto, non è stato iscritto nel registro delle imprese; tale differenza non ha particolare rilievo sul piano delle disposizioni applicabili, se non per la maggiore facilità con cui può operarsi la regolarizzazione nel caso in cui l’atto costitutivo sia stato redatto ed autenticato, perché ciascun socio potrebbe provvedere al deposito a spese della società o far condannare gli amministratori ad eseguirlo ex art. 2296, co. 2, c.c. (ipotesi che pare essere, tuttavia, prettamente teorica).
Per altro verso, la distinzione tra collettiva regolare ed irregolare non sembra dare luogo ad autonomi sottotipi di s.n.c. (Galgano, F., Le società in genere, cit., 368 s.); piuttosto, si tende a sottolineare l’incidenza dell’iscrizione sulla disciplina applicabile, facendo spesso riferimento ad una particolare forma di pubblicità “normativa”, se non “costitutiva” (Pavone La Rosa, A., Il registro delle imprese, in Tratt. Buonocore, I, t. 4, Torino, 2001, 103), fermo restando che quanto regolarmente iscritto può essere opposto erga omnes secondo il generale regime della c.d. efficacia dichiarativa, salva la facoltà di provare, in mancanza, la conoscenza effettiva in capo ai terzi. In alcune circostanze, nondimeno, l’iscrizione nel registro delle imprese assume un ulteriore significato peculiare, in quanto comporta il decorso del termine per l’opposizione concessa ai creditori sociali, ovvero a quelli particolari: è il caso, rispettivamente, della riduzione reale del capitale sociale (art. 2306 c.c.) e della proroga della società (art. 2307 c.c.).
In base all’art. 2295 c.c. l’atto costitutivo della società deve indicare: i) il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza dei soci; ii) la ragione sociale; iii) i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; iv) la sede della società e le eventuali sedi secondarie; v) l’oggetto sociale; vi) i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito ed il modo di valutazione; vii) le prestazioni a cui sono obbligati i soci di opera; viii) le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; ix) la durata della società.
La presenza di tali elementi è richiesta ai fini della regolarità della società, in quanto si tratta di aspetti che devono essere menzionati nell’atto costitutivo da iscrivere al registro delle imprese; di contro, i requisiti necessari per la validità della s.n.c. sono ricavabili dall’art. 2247 c.c. e dalle norme generali sul contratto, essendo destinati ad operare su di un piano diverso, per cui la necessità della loro sussistenza prescinde dall’evidenza statutaria.
Rispetto a quanto stabilito dall’art. 2295 c.c., bisogna chiarire, anzitutto, che le generalità dei soci possono anche non riguardare persone fisiche. Ed invero, la norma prende in considerazione l’ipotesi normale, ma nulla vieta che, ad esempio, le società di capitali possano assumere la qualità di socio di una s.n.c., come è oggi certamente ammesso dagli artt. 2361, co. 2, c.c. e 111 duodecies disp. att. c.c. (dovendosi indicare, allora, la denominazione, lo Stato di costituzione e la sede). Inoltre, vi sono di sicuro alcune previsioni che possono mancare ed alla cui assenza supplisce la legge: è il caso, in primo luogo, dell’individuazione dei soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società, spettante in via disgiunta ad ognuno dei componenti della compagine sociale in applicazione degli artt. 2257 e 2266 c.c. Del pari, la mancata identificazione della quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite impone di far riferimento alla regola di proporzionalità ai conferimenti ex art. 2263 c.c. Altre menzioni non sono, di per sé, indispensabili, come accade per l’indicazione delle prestazioni a cui sono obbligati i soci di opera, trattandosi di figura eventuale, mentre è discussa la necessità di prevedere i conferimenti dei soci, quanto meno ai fini della regolarità dell’atto costitutivo, dipendendo ciò anche dall’applicabilità o meno della regola che ne ammette la determinazione successiva, ex art. 2253, co. 2, c.c. (in argomento v. Guerrera, F., Società in nome collettivo, cit., 956 s.).
Un cenno a parte merita la durata della società. In verità, non sembra che si tratti di aspetto necessario, potendo anche aversi una società contratta a tempo indeterminato (Galgano, F., Le società in genere, cit., 373; contra, Guerrera, F., Società in nome collettivo, cit., 947). Un’argomentazione in questo senso può trarsi dalla disciplina della proroga tacita, perché è previsto, in tale ipotesi, che ogni socio può sempre recedere dalla società ex art. 2285 c.c. e che i creditori particolari possono chiedere la liquidazione della quota del loro debitore ai sensi dell’art. 2270 c.c. (art. 2307, co. 3, c.c.). L’interpretazione più liberale si lascia preferire, altresì, per ragioni di coerenza sistematica, vista l’attuale ammissibilità di società di capitali a tempo indeterminato, sorgendo altrimenti una diversità di trattamento che potrebbe risultare ingiustificata. Né pare decisiva l’obiezione secondo cui si rischia, in questo modo, di compromettere l’autonomia patrimoniale della s.n.c. regolare, essendo ciò ugualmente possibile in caso di proroga tacita della s.n.c. debitamente iscritta.
Il capitale sociale, assente nella disciplina della società semplice, è timidamente regolato, invece, nella s.n.c. Non vi sono, invero, disposizioni che obbligano la società a dotarsi di un capitale minimo, né è prescritta la sua riduzione obbligatoria in presenza di perdite. Neppure ne è richiesta l’indicazione nell’atto costitutivo, essendo sufficiente individuare i conferimenti di ciascun socio, il loro valore ed il modo in cui sono stati stimati (art. 2295, n. 6, c.c.), senza dover osservare meccanismi volti ad assicurarne una corretta valutazione. Nondimeno, è fatto espresso divieto di ripartire tra i soci somme non rispondenti ad utili realmente conseguiti ed è statuito che non si può addivenire alla loro ripartizione in presenza di perdite del capitale sociale, se non dopo che lo stesso sia stato reintegrato o ridotto (art. 2303 c.c.), fermo restando che la riduzione per perdite assume sempre carattere volontario, non essendo previsto alcun dovere al riguardo (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 77). Diverso è il discorso per quanto attiene alla riduzione reale del capitale sociale, giacché è riconosciuto ai creditori sociali anteriori alla decisione il diritto di opporsi entro tre mesi dall’iscrizione della medesima, salva l’eventualità che il tribunale, nonostante l’opposizione, consenta ugualmente l’esecuzione, previa prestazione da parte della società di un’idonea garanzia (art. 2306 c.c.).
È appena intuitivo che l’esposizione personale dei singoli soci rende assai meno importante approntare una rigida disciplina del capitale sociale e, più in generale, di protezione dei creditori sociali. Da altro punto di vista, l’esiguità delle regole dettate in tema di conferimenti e di capitale apre al dibattito circa la necessaria capitalizzazione o meno di tutti gli apporti dei soci, vista anche la mancanza di un procedimento di stima dei conferimenti diversi dal danaro (Guerrera, F., Società in nome collettivo, cit., 955 ss.). Problema che si è posto specialmente per le prestazioni di opera e servizi, nel quadro della distinzione tra conferimenti di capitale e quelli di patrimonio (per una critica alla quale, Di Sabato, F., Società in generale, cit., n. 37, 134 ss.); distinzione che sembrerebbe trovare indiretta conferma, invero, nel trattamento riservato al socio di industria nella trasformazione in società di capitali (art. 2500 quater, co. 2, c.c.).
Tutto ciò non esclude che, sia pure in forma embrionale, anche nella s.n.c. il capitale sociale possa svolgere funzioni analoghe a quelle ricoperte nelle società di capitali (Cottino, G. - Weigmann, R., Le società di persone, cit., 185 ss., spec. 189; Greco, P., Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, Torino, 1959, 215 ss.), ivi compresa pure una qualche attitudine organizzativa, nelle rare e singolari circostanze in cui a tale parametro si fa riferimento per alcune decisioni attribuite alla maggioranza dei soci (Rivolta, G.C.M., Diritto delle società. Profili generali, in Tratt. Buonocore, Torino, 2015, 83, nt. 59). È il caso della proposta e delle condizioni del concordato fallimentare, per la cui approvazione è richiesto il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale sociale (art. 152, co. 2, lett. a) l. fall.). Regola analoga vale per la presentazione della domanda di concordato preventivo (art. 161, co. 4, l. fall.). Non sono mancate, tuttavia, letture correttive volte a ritenere che la base di calcolo debba essere, in questi casi, la partecipazione agli utili se si tratta di s.n.c. in cui sono state conferite prestazioni d’opera e servizi non capitalizzate, anche per ragioni di coerenza con la regolamentazione complessiva delle decisioni sociali (Cottino, G. - Weigmann, R., Le società di persone, cit., 194). In effetti, non sussistono altre eventualità del genere tra le previsioni tipicamente dettate per la s.n.c.: si registrano due fattispecie in cui sembra essere richiesta l’unanimità, pur nella controvertibilità del dato letterale, consistenti nella deroga del divieto di concorrenza posto a carico dei soci (art. 2301 c.c.) e nell’approvazione del bilancio di liquidazione (art. 2311 c.c.), oltre all’ipotesi di designazione a maggioranza (senza ulteriori specificazioni) della persona presso cui depositare le scritture contabili ed i documenti non spettanti ai singoli soci (art. 2312, co. 3, c.c.). Al di fuori di queste situazioni, valgono le regole predisposte per la società semplice, dove i casi in cui le decisioni sociali sono assunte a maggioranza prevedono che il calcolo avvenga per quote di partecipazione agli utili (artt. 2257, co. 3 e 2258, co. 2, c.c.) o per teste (art. 2287 c.c.), piuttosto che in base al capitale sociale. Resta fermo che per le modifiche dell’atto costitutivo è indispensabile l’unanimità, se non è previsto diversamente dall’atto costitutivo (art. 2252 c.c.), ovvero dallo stesso legislatore, come accade per le operazioni straordinarie (artt. 2500 ter, co. 1, c.c.; 2502, co. 1, c.c. e 2506 ter, co. 5, c.c.).
Per quanto riguarda, invece, le regole gestorie, la peculiarità della disciplina della s.n.c. si risolve in alcune disposizioni dettate in tema di rappresentanza degli amministratori; ma, in virtù della riforma dell’impresa agricola, le differenze con la società semplice si sono attenuate, se si pensa al sistema di pubblicità legale cui anche quest’ultima è stata sottoposta con il d.lgs. 28.5.2001, n. 228. Ad ogni modo, il riferimento è a quanto prescritto dall’art. 2298 c.c., a mente del quale gli amministratori dotati del potere di rappresentanza possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, ad eccezione delle limitazioni risultanti dall’atto costitutivo o dalla procura, purché regolarmente iscritte nel registro delle imprese o, in mancanza, effettivamente conosciute dai terzi. Ciò implica che tanto l’oggetto sociale quanto le limitazioni convenzionali (derivanti dall’atto costitutivo o dalla procura) determinano i confini entro cui gli amministratori possono agire ed impegnare all’esterno la società. Il sistema è, pertanto, diverso da quello stabilito per le società di capitali, in cui i limiti regolarmente iscritti sono comunque inopponibili ai terzi, fatta salva la prova che questi abbiano agito intenzionalmente a danno della società (artt. 2384 e 2475 bis c.c.); tuttavia, la giurisprudenza tende, in modo singolare, ad attenuare tale differenza, essendo consolidato l’orientamento secondo cui il maggiore livello di tutela dei terzi previsto nelle società di capitali impone, in quelle personali, di adottare «una concezione più sfumata dei limiti al potere di rappresentanza degli amministratori derivanti dall’oggetto sociale, da intendere con molta larghezza» (Cass., 19.2.2014, n. 3900; Cass., 18.2.2000, n. 1817; Cass., 14.5.1999, n. 4774).
Alcune norme si occupano di disciplinare determinati aspetti in tema di scioglimento e liquidazione della società, per lo più legati alla commercialità del tipo e ad esigenze pubblicitarie, in aggiunta a quanto già previsto per le società semplici (rispetto alle quali, però, la differenza di regime pubblicitario è oggi venuta meno). In particolare, sono contemplate due ulteriori ipotesi di scioglimento, in passato previste specularmente anche per le società di capitali (ed ora espunte dalla versione attuale dell’art. 2484 c.c.: Ferri, G. jr., Fallimento e scioglimento delle società, in Riv. dir. comm., 2009, I, 27 ss.), consistenti nel fallimento e nel provvedimento dell’autorità governativa nei casi previsti dalla legge (art. 2308 c.c.). Con quest’ultima previsione si intende far riferimento alla liquidazione coatta amministrativa nelle circostanze in cui ciò può accadere (Bavetta, G., La società in nome collettivo, in Tratt. Rescigno, XVI, 2, 1985, Torino, 155); si pensi, ad esempio, alle imprese sociali ed alle società di revisione contabile svolte in forma di s.n.c.
Regole specifiche sono poi dettate per l’iscrizione della nomina dei liquidatori (art. 2309 c.c.), non necessariamente soci, a decorrere dalla quale la rappresentanza della società, pure in giudizio, spetta a loro (art. 2310 c.c.). La mancata osservanza degli adempimenti pubblicitari ne determina l’inopponibilità ai terzi, in ossequio ai principi generali; ne deriva, fra l’altro, che non può essere opposta la carenza del potere gestorio e di rappresentanza dell’amministratore sostituito dal liquidatore, salvo che si provi la conoscenza effettiva da parte del terzo. Analogo ragionamento deve svolgersi, a monte, per le società irregolari.
Altre disposizioni peculiari riguardano la chiusura del procedimento di liquidazione, compiuta la quale i liquidatori devono redigere il bilancio finale ed il piano di riparto, con il quale propongono ai soci la divisione dell’attivo residuo (art. 2311, co. 1, c.c.). Il bilancio deve essere sottoscritto dai liquidatori e comunicato ai soci, insieme al piano di riparto, mediante raccomandata: entrambi possono essere impugnati entro due mesi dalla comunicazione, dovendosi ritenere altrimenti approvati (art. 2311, co. 2, c.c.). Si lascia intendere, cioè, che l’approvazione richiede il consenso di ciascuno dei soci, poiché ad ognuno di loro è attribuito il diritto all’impugnativa (Fiorentino, A., Su lo scioglimento e la liquidazione delle società commerciali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1952, 398 s.). Una volta esperita quest’ultima, il liquidatore può chiedere che le questioni relative alla liquidazione siano esaminate separatamente da quelle concernenti la divisione, alle quali può rimanere estraneo, non coinvolgendone operato ed eventuale responsabilità (art. 2311, co. 3, c.c.). Con l’approvazione del bilancio i liquidatori sono liberati di fronte ai soci e sono obbligati a chiedere la cancellazione della società, fermo restando il diritto dei creditori sociali rimasti insoddisfatti di agire nei confronti dei soci e, altresì, dei liquidatori se il mancato pagamento è dovuto a loro colpa (art. 2312 c.c.). Resta fermo che le varie regole procedimentali previste per la liquidazione della società non sono inderogabili, anche in virtù dell’applicabilità alla s.n.c. dell’art. 2275, co. 1, c.c., per cui si tende a reputare indispensabile la sussistenza di una fase volta alla definizione dei rapporti in essere, a prescindere però dalle sue concrete modalità (Ferri, G. sr., Le società, III ed., in Trattato Vassalli, X, t. 3, Torino, 1987, 321 ss.).
Da sempre problematico, specie in giurisprudenza, è il rapporto tra liquidazione ed estinzione della società, per via della propensione, diffusasi in passato, a ritenere ancora in vita la società in presenza di ulteriori debiti, nonostante la chiusura del procedimento di liquidazione e la stessa cancellazione dal registro delle imprese. La solidità di tale concezione ha, tuttavia, iniziato a vacillare in ambito fallimentare con l’intervento della Corte Costituzionale (C. cost. 21.7.2000, n. 319, in Riv. dir. comm., 2000, II, 211), sostanzialmente recepito nell’odierna stesura dell’art. 10 l. fall., attraverso cui è stabilito che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento decorre, in linea di principio, dalla cancellazione dal registro del imprese, egualmente per l’imprenditore individuale e per quello collettivo.
Un ulteriore mutamento di rotta si è avuto dopo la riforma del diritto societario a seguito dell’intervento della Cassazione a Sezioni Unite, giacché l’orientamento formatosi in relazione al novellato art. 2495 c.c., dettato in tema di società di capitali, è stato esteso pure a quelle personali, sebbene soggette ad un regime di pubblicità dichiarativa e non costitutiva. In particolare, si è affermato che le società di persone, al pari di quelle di capitali, debbano considerarsi estinte a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, anche per ragioni di coerenza logica e sistematica, tanto in ambito societario quanto fallimentare. Si è ritenuto, ancora, che proprio il venir meno della società costituisce il presupposto per le azioni dei creditori sociali direttamente nei confronti dei soci (art. 2312 c.c.), senza che si debba (e possa) procedere con l’escussione del patrimonio sociale, essendosi appunto estinta la società al momento della cancellazione (Cass., S.U., 22.2.2010, nn. 4060-4062; Cass., S.U., 12.3.2013, nn. 6070-6072). D’altro canto, di «estinzione» della s.n.c. che sia stata cancellata dal registro delle imprese si parla già nella Relazione al codice del 1942. Il differente regime pubblicitario (dichiarativo e non costitutivo) cui è sottoposta la s.n.c. implica, secondo la S.C., che sia possibile offrire la prova contraria attraverso un «fatto dinamico», ossia che la società abbia in realtà continuato ad operare, essendo insufficiente il mero «dato statico» della pendenza di rapporti non ancora definiti (Cass., 10.8.2015, n. 16638; in argomento, anche per altri riferimenti, Zorzi, A., L’estinzione delle società di capitali, Milano, 2014, 47 ss.).
Naturalmente, resta aperto il problema rispetto alle società irregolari, in relazione alle quali non si può, per definizione, procedere alla cancellazione dal registro delle imprese. La questione esprime tutta la sua rilevanza applicativa in sede fallimentare, al fine di stabilire quale sia il termine entro cui poter dichiarare il fallimento della s.n.c. non iscritta (art. 10 l. fall.). Il problema è stato risolto, per lo più, nell’alternativa tra la fallibilità senza limiti di tempo e la necessità di individuare, ai fini della decorrenza, il momento dell’effettiva cessazione dell’attività di impresa (per quest’ultima posizione, Piscitello, P., §§ 25-29, in Calvosa, L. – Giannelli, G. – Guerrera, F. - Paciello, A. – Rosapepe, R., a cura di Diritto fallimentare. Manuale breve, III ed. Milano, 2017, 103 ss). In questo secondo caso, è dietro l’angolo il rischio della reviviscenza di quell’opinione giurisprudenziale consolidatasi nel sistema previgente ed oggetto di vivaci critiche, in base alla quale solo il pagamento di tutti i debiti è considerato in grado di determinare la fine dell’impresa e l’estinzione della società, con la conseguenza che, a conti fatti, potrebbe comunque conseguirne l’applicazione della prima delle due soluzioni innanzi indicate, ossia quella del fallimento senza limitazioni temporali.
Artt. 2247-2250; 2291-2312.
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