Società civile
È ormai un dato storiografico consolidato considerare l’Italia, nell’arco temporale che va dal Medioevo alla modernità, il principale (sebbene non unico) terreno nel quale è maturata ed emersa l’invenzione della società civile, un’invenzione profondamente legata alla nascita e allo sviluppo dei mercati, prima, e dell’economia di mercato poi (Skinner 1978; Garin 1990; Todeschini 2007). La società civile in Italia ha avuto due grandi luoghi d’origine: la vita cittadina nei comuni e la grande tradizione monastica e carismatica, fuori (prima) e dentro (poi) le città. Il tratto distintivo per individuare l’emergere di una categoria che oggi chiamiamo società civile è l’autonomia sia dal potere politico sia, in Europa, da quello religioso, che ha consentito e consente la nascita della figura del cittadino. Questa emersione inizia senz’altro nel Medioevo, sia nei liberi comuni sia nei monasteri, quando in Europa rivive qualcosa dell’esperienza della polis greca e della civitas romana, ma con tratti nuovi che non ritroviamo nel mondo antico, tra i quali il ruolo positivo ed essenziale del lavoro artigiano, la dimensione quantitativa (l’esperienza della politica in Grecia e a Roma era limitata a minoranze molto esigue di uomini), e soprattutto il cambiamento culturale operato dall’evento cristiano. Il cristianesimo, infatti, creò la precondizione per lo sviluppo del civile – poiché il paradigma uni-trinitario rese reale la diversità e la molteplicità – e non solo dell’uno tipico del politico. Su questo importante aspetto così scrive il filosofo Giuseppe Maria Zanghì (2008, p. 253):
Di fatto, nelle grandi civiltà pre-cristiane non si dà il sociale […] ma solo il politico. […] E ciò è comprensibile. Perché l’intelligenza “naturale” affascinata dall’Assoluto non può ammettere da se stessa una reale diversità tra esso e il mondo: non si dà diversità nell’Assoluto (così essa pensa, e non scorrettamente per gli elementi di cui dispone) – dunque, non si dà diversità dall’Assoluto. L’Assoluto è il tutto. […] Ecco, allora, l’utopia negata; ecco il politico come organizzazione dell’illusione per salvarla da se stessa.
Anche per queste ragioni, le città-Stato medioevali, pur se presentavano tratti in comune con le città-Stato greche, diedero vita a un fenomeno inedito, quella civiltà cittadina che poi è sfociata nella modernità. Quelle città furono capaci di dare origine a nuove comunità di cittadini che esercitavano una certa libertà e autonomia sia verso il papa sia verso l’imperatore o il sovrano, come teorizzato teologicamente e filosoficamente da uomini quali Marsilio da Padova, Guglielmo di Occam o Tommaso d’Aquino, per citare solo alcuni tra i massimi. Dal Duecento inizia dunque qualcosa di nuovo e di progressivamente sempre più distinto e di autonomo, vale a dire un ceto o una classe di persone, i cittadini, che iniziano ad affermare loro diritti, leggi (si pensi alla lex mercatoria), istituzioni (statuti cittadini, corporazioni, gilde).
Il secondo ‘luogo d’origine’ sono stati appunto le abbazie e i monasteri, che in Italia iniziano a diffondersi, grazie soprattutto al movimento originato da Benedetto da Norcia, già dal 5° sec., e hanno la loro età dell’oro e la massima diffusione attorno all’anno Mille, quando assistiamo, soprattutto in Italia e in Francia, a un’autentica fioritura di istituzioni monacali. Il monachesimo è stato il grande fenomeno culturale e civile del primo Medioevo senza il quale la rivoluzione cittadina del secondo Medioevo o non sarebbe stata, o sarebbe stata certamente molto diversa (e non credo più civile).
Durante il Medioevo e, pur se con peso diverso e minore, anche nella modernità le abbazie e i monasteri rappresentarono laboratori dai quali presero vita forme di democrazia (gli abati venivano eletti all’interno di governance di una certa complessità e articolazione) e di relativa autonomia politica (anche nei confronti dei vescovi locali), che furono molto importanti come paradigma delle democrazie civili sviluppatesi poi nelle città italiane ed europee. I monaci (e più tardi i frati francescani e domenicani) erano non solo maestri e dottori di trivio e di quadrivio, di cui le città si avvantaggiavano per la loro formazione culturale e tecnica, ma anche consulenti fondamentali nella stesura degli statuti delle nuove città, giuristi e giudici. Al tempo stesso, nei monasteri si svilupparono sia il nuovo lessico economico, sia quelle innovazioni tecniche che furono essenziali per lo sviluppo dei mercati.
L’ora et labora benedettino (e non solo dei benedettini, ma di gran parte del movimento monacale del primo millennio), ricomponendo l’unità tra attività lavorativa e attività spirituale – rottura che risaliva al mondo greco e al suo dualismo (il lavoro era per gli schiavi) –, creò le precondizioni culturali e concrete perché i monasteri potessero diventare dei veri e propri laboratori di cultura a tutto tondo, generando e rigenerando una cultura e delle prassi di cui si alimenterà tutto l’Umanesimo medioevale, rinascimentale e moderno, e dal quale, invece, l’Occidente postmoderno si sta allontanando.
Da quei luoghi di spirito e di lavoro si generarono importanti innovazioni tecniche, sia in agricoltura (con l’invenzione e lo sviluppo di buona parte della tradizione che ha fatto dell’Italia e dell’Europa una straordinaria terra di vini, formaggi, frutta, frumenti e così via), sia nelle tecniche di costruzione edile, di commercio, nella medicina, e nello sviluppo dello studio e dell’insegnamento delle matematiche e delle scienze.
I monasteri, insieme alle città dei mercanti, degli artisti e degli artigiani, diedero vita a un’altra precondizione per la nascita della società civile: la produzione di un significativo valore aggiunto di ricchezza immobiliare e mobiliare (denaro), che rendeva possibile e rafforzava l’indipendenza istituzionale e politica. Ricchezza significava la possibilità di avere fortificazioni, difesa e potere, una ricchezza che nel caso dei monasteri nei secoli divenne molto ingente, e co-determinò la riforma interna al movimento stesso (Cluny, Vallombrosa…), ma anche la nascita degli ordini mendicanti francescani, domenicani e molti altri.
Città e monasteri, dunque, come ‘cellule staminali’ di quella civiltà italiana dalla quale iniziò una progressiva differenziazione sociale della vita civile e istituzionale, e dalla quale quindi nacque la società civile che è stata, ed è, il regno della convivialità delle differenze.
La società civile italiana è stata, allora, il frutto di una cultura artigiana e contadina di tipo prevalentemente comunitario, e quindi cooperativo, nelle città, nei monasteri e poi nei conventi, maschili e femminili. L’Italia (e anche l’Europa) aveva dato vita, a partire dal Medioevo fino alla modernità, alla cultura dei mestieri e delle professioni, il vero muro maestro della sua civiltà. Senza voler partire dalla cultura romana e precristiana, il Medioevo, nei suoi luoghi vitali laici e religiosi (che abbiamo indicato), fu anche, e soprattutto, una grande scuola di mestieri e di professioni. Città e monasteri furono infatti i luoghi attorno ai quali si sviluppò la cultura del lavoro: artigiani e mastri che grazie alle grandi commesse di queste complesse (e normalmente ricche) comunità, poterono raggiungere abilità e conoscenze tacite che hanno poi avuto ricadute fondamentali nella qualità delle costruzioni delle città, delle chiese e dei palazzi della cultura cittadina.
In quei luoghi vitali si sviluppò una cultura di conoscenze e di saperi prevalentemente non scritti, che ha poi fecondato e nutrito la civiltà e l’economia dei territori. Se oggi andiamo a scavare nella storia e nella geografia di tanti attuali distretti industriali in Italia, o dei luoghi ad alta tradizione agricola e industriale, in non pochi casi scopriamo che quei luoghi avevano conosciuto la presenza di qualche abbazia o monastero.
Accanto – e con profonde sinergie e intrecci con questa – alla cultura religiosa e umanistica dei monasteri, durante tutto il Medioevo, soprattutto durante e dopo la rivoluzione commerciale dei secc. 12°-15°, l’Italia ha dato vita a una tradizione di artigiani e di mastri, una e vera e propria cultura e un umanesimo fatti non solo di botteghe, ma di riti, cerimonie, e di una complessa struttura di simboli e di cultura tacita ed efficacissima (Sennett 2012). Falegnami, fornai, levatrici, sarte, mietitori, fabbri, dottori, carpentieri, allevatori di bestiame e contadini, i mille mestieri delle botteghe artigiane hanno generato un’etica del lavoro e delle professioni che ha caratterizzato, e in parte caratterizza ancora, l’Italia e la sua cultura umanistica. L’etica sottostante a questa cultura dei mestieri era l’etica delle virtù, di tradizione aristotelica, ma anche profondamente ripresa e arricchita dal cristianesimo e dai suoi ‘carismi’ medioevali.
Ma in quella cultura che diede vita, e alimentò, la società civile ritroviamo anche il concetto e l’esperienza della con-vivenza, vale a dire lo sviluppo dell’arte della ‘civil conversazione’, delle buone maniere nella vita in società, la nascita e lo sviluppo dell’uso delle posate, delle tovaglie e, in generale, del cibo come luogo di relazione e di ben vivere, la creazione e la cura dei luoghi e delle istituzioni della vita civile, dei luoghi di incontro (le chiese, le piazze, e quindi i teatri e le accademie), ma anche dei luoghi dello svago (i giardini, le terme e successivamente i salotti) e della festa. Una civil società si costruisce con la coltivazione delle virtù individuali, ma nondimeno con l’attenzione per e con la cura dei beni relazionali che, essendo fatti di relazioni, hanno bisogno di luoghi e di istituzioni per essere coltivati. Non è di certo un caso che l’Italia è ancora oggi nota nel mondo, ed economicamente vive, di quelle istituzioni e di quella cultura fatte di arte, cibo, cultura, creati da tutto un Umanesimo fondato su quei valori.
Quell’etica delle virtù e della con-vivenza, aveva prodotto un’etica del lavoro e delle professioni, basata su una regola aurea che era una vera e propria pietra angolare dell’intera fabbrica civile: la prima motivazione del lavoro ben fatto si trova nella dignità professionale stessa. Quando con la rivoluzione industriale iniziò a svilupparsi la prima cultura capitalistica del lavoro, fu proprio quest’etica dei mestieri a essere messa in crisi, e iniziò (e sta continuando a tutt’oggi) una rivoluzione silenziosa ma di portata epocale: il denaro veniva presentato e diventava il principale o unico ‘perché’, la motivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. Ecco perché furono quella cultura dei mestieri e quell’etica delle virtù che reagirono, dando vita al movimento cooperativo, all’attacco che veniva loro sferrato dal capitalismo, al quale non servivano più i mestieri, bensì lavoro astratto, anonimo, operazioni e prestazioni meccaniche, non più il ‘manufatto’, che, come ci ricorda Richard Sennett (2012), emergeva dall’etica dei mestieri in cui ci si rivolgeva a un ‘tu’, non a un ‘esso’.
La tradizione cooperativa italiana, per es., frutto diretto dell’antica cultura civile italiana, fu in piena modernità anche un estremo tentativo di ridare vita a un’economia di mercato civile e non capitalistica, capace di guardare avanti ma in continuità con l’etica dei mestieri, degli artigiani, dei mastri, ma anche dei contadini. I contadini italiani (quando non erano schiavi o servi), soprattutto quelli che avevano una certa autonomia nei latifondi della Chiesa (nel Centro Italia) e dei principi del Centro-Nord (Toscana, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna ecc.) grazie ai contratti di enfiteusi e di mezzadria, erano molto più simili, come laboriosità ed etica delle virtù, agli artigiani cittadini che agli operai delle fabbriche di fine Ottocento. Erano abituati tra di loro a cooperare per le grandi imprese stagionali (vendemmia, mietitura, uccisione del maiale e così via), a gestire nelle montagne pascoli e boschi comuni, antiche comunanze, i tanti beni comuni di cui era fatta la proprietà dell’Italia e dell’Europa.
Le cooperative furono essenzialmente faccende civili, cooperazione tra mestieri, unioni di contadini, di artigiani, di capifamiglia per il credito, che continuarono, anche se con un salto di scala, quell’antica tradizione civile e dell’etica del lavoro comune vista come via alternativa al capitalismo individualista che si stava affermando, soprattutto dal mondo anglosassone, e che rischiava di schiacciare e cancellare tutta una tradizione antica millenni, profondamente radicata nel tessuto spirituale e civile del nostro Paese.
Ci sono, allora, alcune caratteristiche essenziali della prima stagione della tradizione italiana della società civile che mette conto di rilevare. Innanzitutto la radice romana, che significa civiltà della civitas e della res-publica, ma anche tradizione giuridica e istituzionale fondata su una dimensione territoriale e, in certo senso, decentrata, del governo (su cui si innestò anche la struttura della Chiesa basata su diocesi territoriali e con una certa autonomia dal papato), e sviluppo dei mercati e degli scambi in tutta Europa e nel Mediterraneo. Quando dopo l’anno Mille ripresero in Italia e in Europa i traffici e rifiorirono le città, vi fu certamente molto di nuovo (il cristianesimo su tutto), ma vi fu anche la continuazione di una civiltà che aveva quelle radici antiche.
Una seconda caratteristica della società civile italiana è poi il suo meticciato, cioè l’assenza di confini tra il civile, il religioso, l’artistico, l’etico, l’economico, tra mercante e tempio. Umanisti laici (per es., Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni) e santi (Bernardino da Siena, Giacomo della Marca) sono stati insieme protagonisti dell’Umanesimo italiano. Marco Polo e Cristoforo Colombo, poi, erano allo stesso tempo due mercanti e due rappresentanti della christianitas. Nella stessa piazza della città medioevale insistevano sia il duomo sia la loggia dei mercanti. Arte, letteratura, economia e politica sono state, e sono ancora oggi, dimensioni dello stesso Umanesimo italiano: l’artista, l’artigiano e il mercante sono stati alleati per la costruzione della stessa civitas.
In terzo luogo, il mercato in Italia è emerso dal cuore della dinamica civile e comunitaria, non è mai stato pensato come un ambito neutrale e separato, né considerato «sterco del demonio» (nonostante l’autorevole opinione di Jacques Le Goff, 2010, che sostiene questa tesi in polemica con Giacomo Todeschini, 2004). In realtà i primi teorici dell’economia di mercato, della moneta e della banca sono stati anche, e soprattutto, santi e teologi.
Vi è poi una quarta caratteristica importante, l’ambivalenza civile. La società civile italiana è certamente communitas, ma lo è nel duplice significato di «cum moenia» (mura comuni) e «cum-munus» (dono reciproco). La libertas scritta sulla mura delle città (come quella di Lucca) era l’ideale per chi stava all’interno di quelle moenia che consentivano il munus reciproco per la nuova communitas civile che quelle mura proteggevano. La storia civile italiana è vissuta anche e soprattutto di questa tensione e di questa ambivalenza e, proprio per questa tensione, ha conosciuto periodi felici di apertura e di inclusione, ma anche fasi regressive dove le ‘mura’ hanno prevalso sul ‘dono’ universalistico, l’esclusione sull’inclusione. La natura necessariamente elettiva della società civile vive dunque di questa ambivalenza. Le corporazioni e le varie forme di associazioni, prima tra tutte l’associazione stessa che dava vita alla città, furono caratterizzate da varie forme di esclusione (per es., nei confronti degli ebrei; cfr. Todeschini 2007) e di elettività tali da escludere quell’amicizia civile che in certi momenti e tempi vive anche in quanto opposizione al nemico comune.
Al tempo stesso, in quelle città le persone si associavano, per la prima volta (se si eccettuano alcune rare esperienze durante la Roma repubblicana) senza vincoli di sangue o di appartenenza (al medesimo padrone), proprio perché da liberi cittadini cooperavano per raggiungere quegli scopi raggiungibili solo insieme da coloro che individuano uno scopo comune. La società civile vive solo se i cittadini danno vita a corpi intermedi che si autoregolano e si coordinano fra di loro, praticando la democrazia al loro interno. La corporazione medioevale è un concetto che va oltre le corporazioni di arti e mestieri. I monasteri come le università, le camere dei mercanti come i circoli dei proprietari di terre erano delle ‘corporazioni’: anche la parola inglese corporation, che denota la grande impresa industriale, deriva dalla medesima radice, sebbene nei secoli il significato abbia subito un’evoluzione. Sussidiarietà, autogoverno, autoaiuto e autoresponsabilità sono le dimensioni costitutive di ogni società civile.
Al culmine di questo Medioevo già in buona parte civile, l’Umanesimo civile italiano è stato un momento di apertura e di crescita civile, la Controriforma e il Seicento sono stati invece un momento di involuzione civile, caratterizzato da una fase di ri-feudalizzazione, di ritorno alla terra, al sangue e ai titoli nobiliari, e a un conseguente disprezzo per la vita cittadina (Bruni 2004). Il «Settecento riformatore» è stato invece una primavera straordinaria dell’Italia, soprattutto (e questo è un punto cruciale) dell’Italia meridionale, dove ritroviamo gli stessi elementi della tradizione civile: arte, riforme politiche e mercato.
Non a caso, quindi, Antonio Genovesi, leader della scuola illuminista napoletana e italiana, scelse come titolo del suo trattato Delle lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767), dove l’aggettivo civile (che ritroviamo in molti libri di economia del Settecento e Ottocento italiano) era anche un esplicito riferimento a quell’antica tradizione italiana. La ‘pubblica felicità’ settecentesca, altra connotazione tipica della tradizione economica italiana, fu essenzialmente la versione moderna della tradizione classica del bene comune, comunitaria e cattolica, in cui si afferma che non vi è vita civile senza sviluppo dei mercati: il mercato è civiltà (anche se ha bisogno di altri principi coessenziali).
Nell’Ottocento la storia della tradizione civile italiana si complica e conosce una fase sostanzialmente involutiva. La tradizione cittadina e la ricchezza culturale regionale non trovano sbocco adeguato nel nuovo Stato unitario. Il Sud non ritrova la sua vocazione economica e civile. In Toscana, e soprattutto a Milano, la tradizione civile resta viva in alcuni luoghi, in antiche pratiche e in alcuni importanti economisti italiani, eredi di Genovesi e degli economisti civili del Settecento: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Marco Minghetti, Fedele Lampertico, Giuseppe Toniolo. Ma quella tradizione resta viva ancora di più in intellettuali civili, quali Alessandro Manzoni, Vincenzo Gioberti o Giuseppe Verdi.
Si perde però in economia l’idea stessa di una tradizione civile italiana capace di servire le esigenze del nuovo sviluppo industriale ed economico sul quale il Paese si stava affacciando. Gli economisti più influenti dell’Ottocento (Francesco Ferrara in modo tutto particolare) considerarono la tradizione civile arretrata e inadeguata, e guardarono a Nord (Francia, Germania, Inghilterra) in cerca della ‘vera’ scienza economica, commettendo così una sorta di ‘uccisione dei Padri’ e dell’antica tradizione civile da essi impersonata. Gli economisti neoclassici di fine Ottocento (penso a economisti leader in Italia, come Maffeo Pantaleoni o Vilfredo Pareto) manterranno molto poco della tradizione civile italiana classica (qualcosa resta, ma è molto tenue), diventando illustri esponenti di una sola e unica scienza economica, della sola vera scuola economica (quella composta da «quelli che la sanno», come si dice nelle note parole ironiche di Pantaleoni in Erotemi di economia, 1925).
La tradizione civile ed economica italiana nell’Ottocento ha continuato comunque a vivere soprattutto nella grande tradizione di quella che fu chiamata, soprattutto in Francia, ma anche in Italia, l’economia sociale, in particolare il movimento cooperativo (nelle sue varie espressioni e anime), le Casse rurali e di risparmio, il movimento sociale cattolico, il sindacalismo, e molto altro ancora (Bruni 2012). Anche i distretti industriali dell’attuale made in Italy sono espressione in continuità con la tradizione civile italiana, poiché in essi ritroviamo i suoi elementi essenziali: il ‘meticciato’ tra economico/civile/religioso, il modello comunitario sul quale convivono sinergicamente la competizione e la cooperazione, e in cui prima del singolo individuo ritroviamo una comunità che intraprende, fatta di un intreccio di famiglia/impresa/città/politica.
Vi è, infine, un elemento cruciale per capire gli ultimi centocinquant’anni di società civile italiana. In Italia, l’abbiamo visto, la società civile era stata generata da (e poi a sua volta aveva generato) città e mercati ma anche dal monachesimo, fino ai tanti carismi sociali moderni, istituzioni sociali e culturali che portavano alle prime forme di welfare tra Seicento e Ottocento. Tra Carlo Borromeo e don Giovanni Bosco, centinaia sono stati i carismi, soprattutto nell’Italia centrale e settentrionale, che hanno dato vita a ospedali, scuole, ospizi per i poveri e istituti per ragazzi e giovani. Questa straordinaria stagione di opere, frutto di secoli di storia, costituiva autenticamente società civile, sebbene in un modo diverso da quella società individualistica e puramente mercantile che stava emergendo con forza dalla modernità nordica e protestante.
Lo Stato italiano unitario non ha saputo cogliere la dimensione laica di questi carismi sociali (per una mutua responsabilità della Chiesa e della nuova classe dirigente), e quel primo welfare generato dai carismi è stato considerato come qualcosa di tendenzialmente religioso e antimoderno, senza coglierne la sua dimensione civile, economica e politica.
È così accaduto che in Italia, dove la dimensione civile era in buona parte carismatica e legata al cattolicesimo, non essendosi create le condizioni politiche e culturali per accogliere, far maturare e valorizzare le esperienze civili dei carismi, si interrompesse una tradizione millenaria di società civile, determinando un deficit di cui l’Italia contemporanea ancora soffre. Le grandi innovazioni democratiche e di governance di quelle antiche istituzioni non sono diventate eredità ‘civile’, ma sono state confinate nell’ambito religioso. In questo complicato processo, un ruolo decisivo lo ha svolto il potere temporale della Chiesa (con la fondamentale questione romana), e le sue ambivalenze.
Anche per queste ragioni l’Italia del Novecento ha dato vita a uno Stato ipertrofico, perché la centralità dello Stato è stata ritenuta la principale strada per concretizzare e rappresentare simbolicamente la vocazione e tradizione cattolico-comunitaria del bene comune, ancora fortemente presente nel DNA della nostra storia. Non essendosi potuta esprimere armoniosamente, la tradizione civile-comunitaria italiana ha generato due gravi malattie: le mafie, che sono una risposta sbagliata all’antico urgente bisogno di comunità, e il corporativismo fascista, che ha raccolto la tradizione comunitaria dell’economia civile (e il suo desiderio di ‘corpo’), ma in un contesto illiberale e autoritario. Dove invece le tradizioni comunitarie e civili sono sopravvissute nella loro forma originaria, il mercato ha portato buoni frutti, economici e civili: i distretti industriali del made in Italy e la grande tradizione cooperativa e sociale, che sono gli eredi naturali della lunga storia civile italiana.
M. Pantaleoni, Erotemi di economia, Bari 1925.
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G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007.
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