Socialismo e socialdemocrazia
Apertosi nel segno del 'declino' e della 'crisi' della socialdemocrazia - ne erano prova sia le difficoltà in cui si dibattevano i partiti di ispirazione socialdemocratica, sia l'impegno con cui analisti e teorici della politica si dedicavano allo studio del fenomeno - l'ultimo decennio del Novecento si avviò a conclusione con la più diffusa presenza di partiti socialisti in posizioni di governo mai registratasi dall'immediato secondo dopoguerra.
In Europa, all'inizio del 1999, partiti aderenti all'Internazionale socialista governavano 13 dei 15 Paesi dell'Unione Europea (le eccezioni erano l'Irlanda e la Spagna) e in 11 di questi (e anche nella Repubblica Ceca, allora non ancora aderente all'UE) avevano la guida della politica nazionale. Particolare rilievo assumeva il fatto che per la prima volta a capo del governo dei tre maggiori Paesi dell'Europa occidentale ci fossero leader socialisti: T. Blair (Gran Bretagna), L. Jospin (Francia) dal 1997 e G. Schröder (Repubblica federale tedesca) dal 1998. Tuttavia, malgrado questi successi, i fenomeni di ordine economico, sociale e culturale associati alla precedente fase negativa continuavano a condizionare l'agenda politica e a porre ai partiti socialdemocratici dilemmi di ardua e controversa soluzione, sicché l'inversione di tendenza nelle fortune della socialdemocrazia era da ascrivere più al giudizio negativo degli elettori sui risultati dell'opera di governo delle forze moderate e conservatrici che alla capacità dei loro avversari socialdemocratici di indicare con chiarezza un'alternativa organica.
La transizione storica degli anni Ottanta, che sul piano della cultura economica e dell'ideologia si era espressa nella prorompente riscossa dei precetti e dei valori del liberismo, aveva spinto la socialdemocrazia a una radicale riconversione strategica: "la più drammatica rielaborazione programmatica" nella storia dei partiti della sinistra (Sassoon 1996, trad. it. 1997, p. 804). Tale riconversione, nella sua pars destruens, presentava tratti largamente comuni ai singoli partiti: definitiva rinuncia all'idea di poter dare vita a un sistema economico diverso, nei suoi fondamenti, da quello capitalistico e a cui potesse ancora adattarsi la denominazione di socialismo; abbandono della concezione dell'intervento pubblico nei processi economici come prassi di per sé progressiva; dubbi crescenti sulla possibilità di perseguire politiche riformatrici facendo leva, come in passato, sulla manipolazione del bilancio statale e dell'offerta di moneta o sull'aumento della pressione fiscale. Questo sostrato comune alle politiche dei singoli partiti socialdemocratici induceva svariati commentatori a preconizzare l'avvento di un largo consenso politico-culturale, che avrebbe abbracciato indistintamente le forze socialdemocratiche e quelle di ispirazione variamente liberale. In realtà la revisione delle tradizionali forme di intervento della socialdemocrazia non solo non determinò una diminuzione della conflittualità creatasi all'interno delle diverse famiglie politiche, ma non bastò a garantire di per sé nemmeno la coesione tra i diversi partiti socialdemocratici, che nel proposito di contemperare le nuove acquisizioni teoriche con i valori propri della loro ispirazione originaria hanno battuto cammini divergenti, sicché nessun nuovo 'modello socialdemocratico' ha preso il posto di quello in auge fino alla metà degli anni Settanta e poi tramontato.
Il più importante confronto ideologico svoltosi in questo periodo nel campo socialdemocratico ha riguardato la cosiddetta terza via: espressione con la quale il premier britannico Blair, agli inizi dell'azione di governo, sintetizzò la sua concezione di una socialdemocrazia rinnovata. Tale concezione si era peraltro già rivelata attraverso i cambiamenti imposti da Blair al Labour Party dacché, assuntane la leadership nel 1994, aveva reso esplicita l'intenzione di trasformarlo in un New Labour, opposto all'Old Labour della tradizione. La third way, alla cui popolarizzazione contribuì un libro pubblicato con lo stesso titolo dal sociologo A. Giddens (1998), era soprattutto un insieme di riferimenti normativi, incentrata su valori come l'autonomia individuale, l'efficienza e la responsabilità del singolo verso la collettività, e comportava quindi un significativo scostamento dalla classica prospettiva socialdemocratica, imperniata sul primato dell'azione pubblica e sui doveri della collettività verso l'individuo. Mentre le indicazioni di Blair furono accolte con diffidenza dai socialisti francesi (Jospin respinse l'idea di una 'via intermedia' tra socialdemocrazia e neoliberismo e sostenne che il perseguimento dell'eguaglianza, le politiche pubbliche di sicurezza sociale e la regolamentazione del mercato avrebbero dovuto rappresentare anche in futuro i fattori distintivi di una prassi socialdemocratica), un'intesa parve possibile con i socialdemocratici tedeschi, impegnati per parte loro a raffigurare la socialdemocrazia come 'nuovo centro' (Neue Mitte). Un manifesto comune diffuso da Blair e da Schröder nel corso del 1999 accentuava la discontinuità tra passato e futuro della socialdemocrazia, prendendo posizione a favore del "dinamismo economico" e della "libera espressione della creatività e dell'innovazione", e proclamando che "la politica deve integrare e potenziare la funzione essenziale dei mercati, non ostacolarla". Il manifesto non riuscì tuttavia a divenire punto di coagulo delle forze socialdemocratiche. Le idee della 'terza via' non ebbero successo, nello stesso 1999, presso il congresso dell'Internazionale socialista, e anche i socialdemocratici tedeschi non parvero interessati al proseguimento del dialogo: Schröder, pur vincitore in patria nella prova di forza con i fautori di una versione più tradizionale della politica socialdemocratica, doveva ancora fronteggiare forti resistenze al varo di programmi restrittivi di politica economica, dettati dalle difficoltà finanziarie del Paese. Inoltre, sul piano dei rapporti interstatali, il mantenimento da parte della Gran Bretagna, anche sotto Blair, di una posizione defilata in seno all'UE, imponeva a Schröder di considerare assolutamente prioritario il rapporto con la Francia. Proprio ragioni di politica internazionale erano anzi destinate ad allargare più tardi il divario tra la Germania socialdemocratica e la Gran Bretagna laburista, in particolare a causa della politica di stretta solidarietà con gli Stati Uniti seguita da Blair in occasione della seconda guerra del Golfo, in contrasto con l'asse franco-tedesco.
Sebbene nessuno dei partiti socialisti continentali si sia spinto così avanti come il New Labour sulla via dell'affermazione di istanze individualistiche e nel ribaltamento della 'cultura della dipendenza' dall'iniziativa pubblica, sul piano pratico la generalità delle formazioni socialdemocratiche ha adottato politiche che perseguivano obiettivi simili (stabilità monetaria, ristrutturazione dei sistemi di welfare, perseguimento della crescita economica attraverso la modernizzazione degli apparati produttivi e lo sviluppo tecnologico), discendendo tutte dalla convinzione che, in un mercato internazionale aperto, tassi elevati di inflazione avrebbero causato penalizzazioni insostenibili ai sistemi economici nazionali, mentre gli alti oneri gravanti sulle finanze pubbliche non solo non consentivano di stimolare la crescita con politiche di sostegno della domanda, ma imponevano anche rigorosi risparmi sul versante della spesa sociale. Alla precedente visione di uno Stato 'interventista' la socialdemocrazia ha sostituito quella di uno Stato 'regolatore', distinguendosi dal neoliberismo, fautore di uno Stato 'minimo' e dell'autodeterminazione del mercato. Lo scontro con le forze liberalconservatrici ha riguardato anche i criteri e le priorità da rispettare nella realizzazione delle economie di spesa e nella destinazione delle risorse pubbliche. Le difficoltà della congiuntura hanno però consentito limitati margini di manovra per lo sviluppo di programmi riformatori, costringendo i governanti socialdemocratici a selezionare rigorosamente gli obiettivi, anche a costo di determinare tensioni e contestazioni nel loro blocco sociale di riferimento.
Il grado di successo delle singole politiche socialiste nazionali è stato così assai diverso, soprattutto se misurato con il metro del consenso riscosso nella popolazione. Solo in Gran Bretagna i laburisti sono riusciti a mantenersi al potere senza soluzione di continuità; negli altri Paesi dell'UE i partiti socialdemocratici sono stati poco alla volta respinti all'opposizione o retrocessi al rango di partner minori delle coalizioni di governo. Molto severa è stata la sconfitta dei socialisti francesi nel 2002, mentre in Germania la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) ha conservato il cancellierato fino alle elezioni del 2005, dovendo in seguito adattarsi a figurare come partner di una Große Koalition: in entrambi i casi ha pesato la frammentazione dell'elettorato socialista tradizionale, una parte del quale, respinto dalle politiche di rigore seguite dai governi socialisti, ha indirizzato il proprio voto verso candidature di sinistra alternative. Altri arretramenti significativi la socialdemocrazia ha subito in Austria (1999) e nei Paesi Bassi (2002), dove il suo consenso è stato eroso dall'ascesa di formazioni nazionalpopuliste, che hanno intercettato l'inquietudine di vasti settori della società per la commistione etnica e culturale indotta dai fenomeni migratori. Nel 2006 anche in Svezia i socialdemocratici, dopo dodici anni di governo, hanno subito una sconfitta elettorale.Un caso a sé è quello della Spagna, dove i socialisti, dopo otto anni di prevalenza della destra, hanno riconquistato il governo nel 2004 con J.L. Rodríguez Zapatero e hanno subito messo in mostra un profilo politico originale, facendo leva sui temi del pacifismo, della laicità dello Stato e dell'emancipazione dei costumi.
Oltre a dover rivedere le proprie concezioni in tema di potenzialità economiche dello Stato, la socialdemocrazia è stata costretta a misurarsi anche con la crisi della nozione tradizionale di sovranità nazionale prodotta dalla globalizzazione dei processi economici. Mentre il riformismo socialdemocratico, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, si era basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse di cui lo Stato disponeva nell'ambito nazionale per indirizzare l'attività produttiva e correggere le storture del sistema capitalistico, nel contesto della globalizzazione un gran numero di processi da cui dipende il funzionamento delle economie nazionali sfugge al potere di determinazione degli Stati, ponendosi al di fuori di qualsiasi controllo democratico. Nella socialdemocrazia si è così fatta strada la convinzione che per compensare il crescente deficit di autorità dei poteri nazionali occorresse spostare l'esercizio della sovranità in ambiti più vasti: da qui, sin dagli anni Ottanta (auspici, allora, soprattutto il presidente della Repubblica francese F. Mitterrand e il presidente della Commissione europea J. Delors), una più forte attenzione al processo di integrazione europea, di cui in diversi Paesi (una parziale eccezione è la Gran Bretagna) i partiti di ispirazione socialdemocratica appaiono tra i più fermi sostenitori, figurando non di rado anche tra le forze che si propongono di conferire a tale processo una più spiccata caratterizzazione politica (nel 1992 è nato il Partito dei socialisti europei, come federazione dei partiti socialisti dei Paesi dell'UE). Tuttavia, il fatto che anche le maggiori acquisizioni dell'europeismo nell'ultimo scorcio del Novecento (mercato unico, unione monetaria) portino il segno del rigore finanziario e dell'autonomia delle forze del mercato, mentre non ha fatto passi avanti il progetto di affermare una sovranità europea nel campo delle politiche economiche e sociali, ha reso l'Europa un terreno di scontro in seno ad alcuni partiti socialisti, in particolare quello francese, e se ne è avuta prova quando proprio la defezione di militanti ed elettori socialisti, in contrasto con le indicazioni di voto del partito, ha dato un contributo decisivo in Francia all'esito negativo del referendum sulla ratifica del Trattato costituzionale europeo (2005).
Un aspetto della più recente evoluzione della socialdemocrazia è costituito dalla diffusa presenza e dall'affermazione di partiti che si richiamano al socialismo democratico nei Paesi dell'ex blocco orientale, nei quali, subito dopo il 1989, la dialettica politica aveva visto emergere invece forze di orientamento liberale, protese alla creazione accelerata dei fondamenti di un'economia di mercato e meno sensibili ai problemi della coesione e della protezione sociale. In questa parte dell'Europa i partiti di ispirazione socialdemocratica o si ricollegano a quelli esistenti prima dell'instaurazione delle dittature comuniste, come nella Repubblica Ceca, o costituiscono il punto di approdo della trasformazione dei partiti ex comunisti (casi tipici quelli della Bulgaria e dell'Ungheria) o, come in Polonia e in Romania, sono organismi nuovi, pur comprendendo generalmente al loro interno, anche in questo caso, strutture e gruppi derivanti dai vecchi partiti comunisti. Diverse di queste formazioni hanno assunto negli anni più recenti la guida dei governi nazionali (Repubblica Ceca dal 1998 al 2006; Croazia dal 2000 al 2003; Romania dal 2000 al 2004; Polonia dal 2001 al 2005; Lituania dal 2001; Ungheria dal 2002; Bulgaria dal 2005; Slovacchia dal 2006) o hanno comunque fatto parte di coalizioni di governo (Estonia dal 1999 al 2002; Slovenia dal 2000 al 2004; Albania dal 1997 al 2005: qui la coalizione era guidata dal partito ex comunista, anch'esso poi accolto nel 2003 nell'Internazionale socialista). Si tratta di partiti che risentono della particolarità delle rispettive storie nazionali e delle differenti modalità della transizione al postcomunismo nei Paesi di appartenenza: tutto ciò rende il quadro attuale della socialdemocrazia europea ancor più mosso e articolato.
bibliografia
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