ŚIVA
Ś, che insieme a Viṣṇu (v.) occupa il vertice del pantheon hindu, è per un verso un dio terribile, spaventoso, al quale ci si avvicina con profonda soggezione, dall'altro impersona il creatore pacifico e protettore che concede la grazia, della quale il credente non può fare a meno. Nei testi brahmanici egli viene rappresentato come creatore di diverse arti e capacità, quali la meditazione (yoga) e l'esposizione dimostrativa (vyākhyāna), nonché autore degli Śāstra, i testi della tradizione, soprattutto di quelli riguardanti musica e danza. Tra gli innumerevoli epiteti che gli vengono attribuiti, i più frequenti sono: Maheśvara, il «Grande Signore» e Mahādeva, il «Grande Dio». Egli è l'amato consorte di Umā, la grande dea madre. Molti altri suoi nomi secondarî fanno capire come nell'ambito di questa evoluta concezione di Ś si siano fuse organicamente immagini divine locali proprie delle tribù primitive.
La sua figura ha origini molto remote. Prototipo dello Ś. puranico è il dio vedico Rudra, i cui tratti terrifici si attenuano in epoca tardo-vedica. Ha ricevuto anch'egli numerosi epiteti che pongono in risalto la sua duplice natura di dio terrifico, ma anche misericordioso. Il nome Śiva si incontra per la prima volta in età tardo-vedica, e proprio come epiteto di Rudra. Per quanto il concetto di Rudra-Ś. possa essere stato significativo in epoca post-vedica, l'inizio di un movimento religioso che elegge Ś. a dio supremo elaborando una filosofia e dandosi una propria organizzazione, non può collocarsi prima del II sec. a.C.
La ricostruzione della storia dello scivaismo antico è complicata dall'esistenza di diverse sette, ognuna delle quali poneva in risalto uno degli aspetti del dio come particolarmente degno di venerazione. La più antica corrente scivaita, che diede origine a ulteriori sette, fu la scuola dei Pāśupata o Māeśvara, la quale raggiunse l'apice della sua influenza sotto la guida di Lakulin o Lakulῑśa (v. oltre).
Non è facile definire lo sfondo spirituale dello scivaismo. Esso abbraccia esperienze religiose e spirituali a diversi livelli, dagli iniziali riti primitivi del culto del fallo attestato nella cultura di Harappā fino alla teologia scivaita derivata dalle Upaniṣad, per culminare nella concezione delle cinque manifestazioni e delle cinque forme di Śiva. Inoltre i varî insegnamenti si sono influenzati a vicenda in modo tale che il patrimonio di concezioni primitive si è trasformato in norma spirituale, tendenza evidente anche nelle opere d'arte.
Lo scivaismo si diffonde in India nei primi secoli dell'era cristiana, come è testimoniato da iconografia e numismatica, più che da fonti letterarie. Tuttavia l'immagine del dio sulle monete è stranamente diversa da quella delle sculture. Si svilupparono all'inizio due concezioni iconografiche del dio, l'una propria alla monetazione del Nord-Ovest, l'altra alla scultura di Mathurā, nell'India del Nord.
Le più antiche testimonianze artistiche del culto di Ś. sono i liṅga (v.) litici e rilievi con scene di adorazione del liṅga. Il liṅga si evolve in forme che presentano sulla colonna fallica una, due o quattro facce o addirittura la figura intera di Śiva.
Le prime sculture che rappresentano Ś. in forma umana si conservano solo in stato frammentario o sono danneggiate. Lo Ś. più antico è probabilmente da riconoscere in una grande immagine in situ a Rishikesh (Uttar Pradesh), che nonostante il cattivo stato di conservazione rivela la forma originaria e le fondamentali caratteristiche dello Ś. di più antica concezione. Il dio ha due braccia: la mano destra è alzata in gesto regale con il palmo rivolto in dentro, la sinistra regge un vaso sul fianco; veste una fascia attorno ai fianchi ed è itifallico (ūrdhva-liṅga), a simboleggiare la forza sessuale di dio creatore e la potenza spirituale di yogin. L'acconciatura era probabilmente di asceta, cioè con una crocchia sciolta. Restano poche sculture di questo tipo, ma vi sono indicazioni che le prime rappresentazioni di Ś. fossero caratterizzate anche da un terzo occhio sulla fronte e dalla presenza del toro, quale animale simbolico. Queste caratteristiche non sono tuttavia imprescindibili come l'itifallismo, segno distintivo delle figure di Ś. a Mathurā e nell'India del Nord. Degna di nota è la totale assenza del tridente (triśūla) in tutte le raffigurazioni mathurene del dio di epoca kuṣāṇa.
Il modello iconografico di Ś. esprime l'aspetto pacifico (saumya) del dio. In un primo tempo il suo aspetto terrifico (ugra) non è molto accentuato benché sia presente come componente dei liṅga a più facce. Tratto caratteristico delle immagini terrifiche (ugra) è la presenza di denti sporgenti agli angoli della bocca.
Nel II-III sec. d.C. si diffuse la rappresentazione di Ś. in coppia con Umā (Umāmaheśvaramūrti), ma evidentemente solo in ambito domestico, poiché tutti i rilievi dell'epoca raffiguranti questo soggetto che ci sono giunti sono di piccole dimensioni, mentre grandi immagini templari della coppia divina vengono realizzate solo in epoca gupta (IV sec. d.C.). Nei piccoli rilievi in pietra il braccio di Ś. cinge le spalle della consorte, rappresentata sempre alla sua sinistra; essi sono di regola accompagnati da un toro come animale-simbolo. La variante con la coppia in posizione seduta non è ancora attestata. Lo Ś. itifallico non ha ancora in questo periodo l'acconciatura d'asceta di epoca gupta, ma una pettinatura a riccioli. La mano destra è sollevata nel saluto regale, mentre il braccio destro di Umā poggia sul dorso del dio.
Accanto alla popolare rappresentazione di Umāmaheśvara, gli artisti elaborarono a partire dal II sec. d.C. anche le immagini cultuali di Ardhanārῑśvara, ossia la forma androgina di Ś., nella quale si fondono la potenza spirituale creativa maschile (puruṣa) e la materia originaria femminile attiva, ma non spirituale (prakṛti). Le immagini di Ardhanārῑśvara sono formate dalle due metà verticali e unite di Ś. e di Umā. La metà femminile, riconoscibile dal seno, occupa di regola la parte sinistra del corpo. L'altra metà corrisponde al tipo iconografico di base di Ś.: il fallo eretto è inclinato in direzione della parte maschile dell'immagine con un solo testicolo. Una delle immagini più antiche di questo tipo mostra la divinità assieme a Vāsudeva, Gajalakṣmῑ e Kubera. I più pregevoli esemplari di Ardhanārῑśvara, la cui concezione nasce dal bisogno di venerare la doppia sessualità della creazione in una sola figura divina, saranno tuttavia realizzati in epoca gupta.
Di origine completamente diversa è la figura, relativamente tarda, di Harihara, le cui prime attestazioni iconografiche risalgono al IV sec. d.C. e che rappresenta l'unione di Viṣṇu (Hari) e Ś. (Hara) in un solo corpo. Essa trae origine da motivi politico-religiosi, in quanto si presta alla venerazione da parte dei seguaci di entrambe le divinità. Tuttavia i seguaci di Ś tenderanno a mutare di frequente il nome neutro di Harihara in Ś. Haryardha, riconoscendovi il loro dio come «colui la cui metà è Hari (Viṣṇu)». Tale nome è indice della forma che assume la religione scivaita.
In queste immagini Viṣṇu occupa invariabilmente la parte sinistra del corpo, Ś la destra. Segno distintivo della figura di Harihara è la bipartizione dell'acconciatura: dalla parte di Ś. mostra la crocchia degli asceti, da quella di Viṣṇu, invece, la metà di una corona cilindrica. Le mani reggono rispettivamente per Viṣṇu la ruota (cakra) e la conchiglia (śaṅkha), per Ś di regola il tridente (triśūla) e un rosario (akṣamālā).
A partire dall'epoca gupta, all'interno del repertorio figurativo scivaita, una posizione del tutto particolare è occupata da Lakulῑśa. Questo personaggio, la cui esistenza è storicamente documentata, visse intorno al 200 a.C. a Karvan (Gujarat); egli fu fondatore e guida di sette scivaite e venne successivamente considerato una sorta di incarnazione di Ś. e venerato egli stesso al pari di una divinità.
È usualmente rappresentato seduto a gambe incrociate con le ginocchia cinte da una fascia, tipica degli asceti scivaiti, che conferisce stabilità alla posizione meditativa. Le mani sono unite nel gesto dell'insegnamento. Nell'incavo del braccio sinistro è visibile l'attributo che lo contraddistingue, la mazza (lakuṭa), e nella mano destra può trovarsi il rosario. Nonostante sia rappresentato egli stesso come itifallico, anche la mazza può a volte essere di forma fallica. In epoca gupta, il tridente viene introdotto anche nell'arte di Mathurā come attributo di Śiva.
Nuovi ritrovamenti hanno mostrato che oltre alle figure di maggiore diffusione popolare, gli artisti si dedicarono per tempo alla elaborazione di tipi iconografici riflettenti idee filosofico-religiose complesse. Sebbene ce ne siano giunti solo pochi esempî, essi manifestano un aspetto del pensiero speculativo del clero dell'epoca. Vennero così prodotti, parallelamente allo sviluppo dei liṅga a più facce, rilievi e sculture che rappresentano Ś. a più figure (Sadāśiva o Maheśamūrti). In esse si rivela la potenza spirituale del dio tramite le sue emanazioni; più antico esemplare di Maheśamūrti è un rilievo su pilastro da Musanagar (I sec. d.C.) con Ś. assiso e composto da quattro figure. Al centro siede Ś. nell'aspetto di uṣṇῑṣin, con turbante regale. Dietro la testa si erge il corpo dello yogin ascetico, che nelle mani alzate regge il disco solare e il crescente lunare, che lo identificano come aspetto cosmico della divinità. Non è possibile determinare l'aspetto della terza e della quarta figura che spuntano dalle spalle, ma è verisimile che una delle due rappresenti il carattere terrifico di Ś. mentre l'altra ne incarni la potenza femminile. Le poche opere confrontabili non permettono di ricostruire lo sviluppo di questa iconografia. A quanto pare, tuttavia, la figura centrale dell'uṣṇῑṣin viene sostituita con quella dello yogin al più tardi in epoca gupta.
Parallelamente all'evoluzione della figura di Ś nell'ambito scultoreo, si forma una iconografia del dio nella monetazione; essa può essere studiata in modo approfondito sulle monete dei sovrani Kuṣāṇa. Secondo una radicata opinione, le figure rappresentate nella monetazione si rifarebbero a modelli delle arti figurative (scultura, terracotta, ecc.). Poiché il centro dell'impero kuṣāṇa era il Nord-Ovest del subcontinente indiano, le fonti iconografiche potrebbero trovarsi soltanto nell'arte del Gandhāra; ma questa ipotesi è contraddetta dal fatto che l'arte gandharica, di ispirazione buddhista, non ci ha lasciato che ben pochi rilievi scivaiti, e non può essere considerata la fonte dell'iconografia monetaria. Si deve dunque supporre l'esistenza di un'autonoma iconografia scivaita propria della numismatica.
Le prime raffigurazioni del dio sulle monete lo mostrano con due braccia, stante dinanzi a un toro, con un tridente nella mano destra e una fiaschetta nella sinistra. Sebbene questo motivo sia attestato anche nei più antichi rilievi di Mathurā, si distingue per un particolare importante: il tridente, che è imprescindibile attributo del dio sulle monete, è assente nei rilievi di Mathurā fino a epoca gupta; inoltre il fallo eretto non compare nella monetazione kuṣāṇa che molto sporadicamente. Considerando il tridente simbolo di origine occidentale e il fallo simbolo indiano, si assiste all'incontro di due mondi diversi.
Le prime immagini di Ś. a quattro braccia sono attestate sulle monete di Kaniṣka I, mentre rappresentazioni a più braccia del dio si incontrano a Mathurā solo nel IV sec. d.C. Costanti attributi dello Ś. a più braccia della monetazione sono il tridente e la fiaschetta, i rimanenti due possono essere il fulmine (vajra), la gazzella o il diadema. Con monete di Huviṣka e Vāsudeva (II-III sec. d.C.), compaiono immagini di Ś. a due o quattro braccia e con tre facce, generalmente stante dinanzi al toro. Il viso centrale mostra Ś. come yogin, cosicchè esse possono essere interpretate come varianti nord-occidentali della Maheśamūrti. È possibile che queste figure siano da intendersi a quattro facce, apparendo con tre soltanto nella rappresentazione frontale propria alle monete. Nel complesso, dall'esame della monetazione emerge un'immagine del dio già molto evoluta, più probabilmente di matrice colta che popolare.
Questi modelli figurativi di base, evolutisi dai primi timidi tentativi, costituirono il punto di partenza per gli ulteriori sviluppi dell'iconografia di Ś. in epoca gupta e post-gupta. Molti nuovi centri artistici, sorti ovunque in India, non solo introdussero nuovi stili, ma favorirono anche un arricchimento del repertorio iconografico scivaita.
A partire dal periodo gupta, Ś. presenta di regola quattro, sei, otto e anche più braccia; a volte è raffigurato con più teste. A personificare l'aspetto pacifico del dio, ci sono ora figure come Candraśekhara, il dio «con la falce lunare sui capelli d'asceta» e con l'ascia e la gazzella come attributi, o come Vṛṣavāhana, ossia lo Ś. accompagnato dal suo animale simbolico - il toro. La coppia Ś.-Umā è sempre più spesso raffigurata seduta. Il quadretto familiare con Ś., Umā e il loro figlio Skanda (Kārttikeya) è molto caro all'India meridionale. Nascono diverse composizioni con Ś. come maestro di musica, di yoga, ecc., che sono riconducibili al concetto di Dakṣinamūrti. Si incontrano ora anche le prime rappresentazioni del dio in posa danzante (Nṛtyamūrti), la più nota delle quali è Ś. Naṭarāja, «Signore della danza». Questo tema raggiunge la perfezione artistica nei bronzi dell'India meridionale: essi rappresentano Ś. danzante su un demone, a significare il trionfo del bene sul male. Il tamburo e il fuoco sono i suoi attributi di battaglia; determinati gesti delle mani e pose delle braccia e delle gambe garantiscono protezione e liberazione.
L'aspetto terrifico del dio viene espresso soprattutto nelle molteplici forme di Bhairava, dal relativamente mite Bhikṣātana allo spaventoso Vaṭuka Bhairava, figura nuda dagli occhi spalancati e dai canini sporgenti agli angoli della bocca, il corpo ornato da una collana di cranî e nelle mani una spada, una clava fatta di cranî, un tridente e una coppa ricavata da un cranio. Il suo animale-simbolo è il cane.
Tutti i menzionati tipi di Ś. furono creati indipendentemente dalle leggende. Possono essere inoltre citati, soprattutto nel primo periodo medievale, molti grandi rilievi in cui il dio è protagonista di scene di carattere narrativo, nell'ambito delle quali egli svolge atti di grazia (anugraha) o di distruzione (saṃhāra) e per la cui comprensione si rende necessaria la conoscenza delle relative leggende.
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