Sistemi fiscali
di Alberto Zanardi
Sistemi fiscali
sommario: 1. Introduzione. 2. Alcuni elementi quantitativi. 3. Le riforme dei sistemi fiscali negli anni ottanta e novanta: caratteri comuni e giustificazioni teoriche. a) L'mposta personale sul reddito. b) La tassazione delle imprese. c) La tassazione del capitale finanziario. d) La tassazione indiretta. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle società sviluppate i sistemi fiscali, cioè l'insieme dei prelievi obbligatori imposti dai diversi livelli di governo ai propri cittadini-contribuenti, perseguono una molteplicità di obiettivi. La principale (e, sino a qualche tempo fa, unica) funzione delle imposte è quella di assicurare ai governi le risorse necessarie per finanziare le spese pubbliche, quale alternativa preferibile ad altri strumenti socialmente ed economicamente più costosi, come l'alienazione dei cespiti patrimoniali, l'indebitamento, l'emissione di moneta. Inoltre, i sistemi fiscali affiancano i programmi di spesa pubblica (v. stato sociale) e gli interventi di regolamentazione (v. privatizzazione e regolamentazione) per perseguire direttamente gli obiettivi delle politiche pubbliche in ambito economico, che, secondo la tradizionale classificazione musgraviana, possono essere ricondotti a tre aree fondamentali: stabilizzazione, allocazione e ridistribuzione. In questo senso, il livello complessivo delle imposte, la loro composizione, nonché il disegno dei singoli strumenti fiscali, possono essere innanzitutto determinati dall'obiettivo di stabilizzare il livello dell'occupazione, dei prezzi o della bilancia dei pagamenti di un paese. Mediante le imposte, i governi cercano poi di modificare la distribuzione originaria del reddito e della ricchezza tra individui/famiglie o tra fattori produttivi quando sia ritenuta non coerente con i principî equitativi prevalenti (v. reddito, distribuzione del). Infine, il disegno dei sistemi fiscali dipende dagli effetti allocativi delle imposte: in generale, quasi tutte hanno un qualche effetto sull'allocazione delle risorse e producono un costo economico per la collettività. Ne consegue che un obiettivo della tassazione è quello di ridurre al minimo questi costi, ma talvolta anche quello di favorire certi comportamenti ritenuti desiderabili da parte dei soggetti economici (come la formazione del risparmio o l'attivazione di investimenti a sostegno della crescita), o di disincentivarne altri (quali la produzione di esternalità negative, come l'inquinamento, o consumi negativamente valutati dalla collettività, come l'alcolismo).
La molteplicità degli obiettivi di cui un sistema fiscale viene caricato e il suo essere al centro di processi decisionali complessi, in cui considerazioni economiche si confrontano con valori politici ed esigenze sociali, rende relativamente difficile evidenziare quali dovrebbero essere, nella prospettiva di un economista, i requisiti di una struttura fiscale desiderabile. Richard A. Musgrave così li sintetizza: "la distribuzione del carico fiscale dovrebbe essere equa […]; le imposte dovrebbero essere scelte in modo da minimizzare le interferenze con le decisioni economiche in mercati che, in assenza di tassazione, sarebbero efficienti […]; dove si ricorre alla politica tributaria per perseguire altri obiettivi, per esempio garantire adeguati incentivi agli investimenti, ciò dovrebbe essere fatto in modo tale da minimizzare le interferenze con le finalità equitative; la struttura delle imposte dovrebbe facilitare l'utilizzo della politica fiscale per gli obiettivi di stabilizzazione e crescita economica; il sistema fiscale dovrebbe consentire una gestione delle imposte imparziale, obiettiva e comprensibile per il contribuente; i costi di amministrazione e di adempimento dovrebbero essere il più possibile contenuti compatibilmente con gli altri obiettivi" (v. Musgrave e Musgrave, 19844, p. 225). Tuttavia, chi si accinga a utilizzare questi (e altri) criteri per valutare l'ottimalità di un sistema fiscale si troverà spesso di fronte a obiettivi tra loro almeno parzialmente confliggenti, con la conseguente necessità di ripiegare su soluzioni di compromesso. Così l'equità può richiedere complessità amministrativa e può interferire con la neutralità allocativa, oppure un uso della tassazione quale incentivo per comportamenti desiderabili può indebolire le finalità ridistributive.
Il rilievo attribuito ai diversi obiettivi di politica fiscale - e conseguentemente la loro priorità nella ricerca delle soluzioni ottimali per i sistemi fiscali - si è evoluto nel tempo con lo sviluppo della riflessione teorica sulle modalità dell'intervento pubblico e con il mutare delle caratteristiche strutturali dei sistemi economici su cui la fiscalità interviene. A partire da queste considerazioni, ripercorreremo l'evoluzione dei sistemi fiscali nei maggiori paesi industrializzati dagli anni ottanta al presente, evidenziando le tendenze fondamentali seguite nei processi di riforma, le sottostanti ispirazioni derivanti dalla letteratura economica in tema di tassazione, nonché le maggiori questioni aperte per il futuro.
2. Alcuni elementi quantitativi
Una valutazione di sintesi delle recenti tendenze registrate dai sistemi fiscali può essere ricavata osservando innanzitutto l'andamento della pressione fiscale, cioè il rapporto tra il totale dei prelievi fiscali (imposte, tasse e contributi sociali) e il PIL (Prodotto Interno Lordo). Pur trattandosi di un indicatore assai approssimativo - il cui valore dipende tra l'altro da specificità istituzionali quali, ad esempio, la previsione o meno di sottoporre a tassazione i trasferimenti pubblici a favore delle famiglie, o la combinazione tra agevolazioni fiscali e sussidi diretti scelta dal governo per attuare la propria politica ridistributiva (v. OECD, Tax burdens…, 2000) - la pressione fiscale offre alcune indicazioni fondamentali circa la dimensione del carico fiscale complessivo sull'economia.
A partire dall'inizio degli anni ottanta, l'insieme dei paesi dell'area OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, od OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development) ha registrato un consistente e sostanzialmente ininterrotto incremento della pressione fiscale (circa 5 punti percentuali). Questa evoluzione è stata ancor più marcata nell'aggregato dell'Europa dei 15 che, oltretutto, già all'inizio degli anni ottanta segnava una pressione fiscale di quasi 5 punti percentuali superiore a quella dell'area OCSE. Certamente la crescita del prelievo fiscale ha avuto come causa fondamentale l'ampliamento, in termini di copertura e di generosità delle prestazioni, dei sistemi di welfare nazionali (già a partire dalla metà degli anni sessanta) e le conseguenti necessità di finanziamento soddisfatte soprattutto mediante prelievi sul lavoro (imposta sul reddito personale e contributi sociali). Gli sforzi di consolidamento fiscale richiesti dal percorso verso la moneta unica hanno poi esercitato, limitatamente ai paesi dell'Unione Europea (UE) e a partire dagli anni novanta, ulteriori pressioni verso l'alto sul prelievo fiscale. La spinta prevalente nella crescita del livello della tassazione, tuttavia, nell'ultimo decennio è stata assicurata non più dalle imposte sul reddito personale e dai contributi sociali, ma dalle imposte sulle società e, in misura minore, dalle imposte indirette.
Il periodo più recente mostra qualche debole segno di inversione di tendenza. Già a partire dalla seconda metà degli anni novanta molti paesi hanno adottato politiche di riduzione delle aliquote fiscali delle imposte sui redditi personali e sui profitti societari, politiche che tuttavia non si sono tradotte in una significativa decelerazione nella crescita del prelievo a causa della sostenuta crescita economica. Solo la recente congiuntura negativa ha frenato la corsa del prelievo fiscale, che ha registrato tra il 2000 e il 2001 una contrazione in gran parte dei paesi dell'OCSE.
Questi andamenti generali sottendono tuttavia situazioni fortemente differenziate a livello nazionale, che riflettono i diversi atteggiamenti riguardo all'ampiezza dell'intervento pubblico, le diverse caratteristiche strutturali delle economie e le specificità delle politiche tributarie condotte nei vari paesi. Negli Stati Uniti il prelievo complessivo si è mantenuto pressoché invariato ai livelli assai bassi di 20 anni fa (25% contro 32% della media OCSE), con qualche segno di crescita più marcata soltanto nell'ultimo scorcio degli anni novanta. In Giappone la pressione fiscale è cresciuta negli anni ottanta a partire da livelli ancor più bassi di quelli statunitensi, per poi contrarsi nuovamente nel decennio successivo in conseguenza delle politiche di detassazione adottate dal governo per sostenere il rilancio dell'economia nazionale. L'Italia, infine, tra i paesi dell'OCSE (insieme al gruppo dei paesi mediterranei, Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo) è quello che ha sperimentato nel corso del ventennio 1980-2000 la più rapida crescita della pressione fiscale (quasi 12 punti percentuali), determinata soprattutto dalle esigenze di consolidamento fiscale imposte dalla scelta dell'integrazione europea.
Anche la composizione del prelievo complessivo per grandi tipologie di imposte è in qualche misura mutata nel corso del periodo. Nell'area OCSE, la quota delle imposte personali sul reddito, dopo essere cresciuta fortemente fino a metà degli anni settanta, è andata via via contraendosi, mentre è aumentato il peso relativo delle imposte sulle imprese e dei contributi sociali. Stabile è rimasta invece la quota attribuibile alle imposte sui consumi. L'Europa dei 15 registra analoghi andamenti, ma la forte dipendenza dai contributi sociali ha condotto a una riduzione del loro peso negli anni più recenti.
Le (poche) tendenze comuni evidenziate dai sistemi fiscali nazionali negli ultimi vent'anni non comportano necessariamente una convergenza di tali sistemi verso una comune struttura fiscale in termini di livello e composizione del prelievo. Ciò che infatti rileva per la convergenza tra paesi non è soltanto l'emergere di trends comuni, ma anche i differenti punti di partenza e le diverse velocità di evoluzione delle singole forme di prelievo. In questo senso, la crescente globalizzazione dei mercati e le pressioni della Commissione Europea per l'armonizzazione dei sistemi fiscali quale requisito essenziale per il rafforzamento del mercato unico (in particolare per il libero movimento di persone, merci e capitali) hanno effettivamente portato, a partire dagli anni ottanta, a una riduzione della dispersione dei livelli di pressione fiscale complessiva che caratterizzano i paesi europei (v. Messere, 2000). Pur in un quadro di generale aumento della pressione fiscale, questa tendenza alla convergenza trova in gran parte spiegazione nella vistosa crescita del carico fiscale registrata in questi anni dai paesi europei dell'area mediterranea (Italia, Spagna, Grecia), che ha fortemente avvicinato questi sistemi fiscali ai modelli a elevata tassazione prevalenti nell'Europa settentrionale.
A questa tendenza alla convergenza tra i vari paesi non corrisponde tuttavia un'analoga evoluzione della composizione del prelievo per tipologie di imposte. Tra i paesi dell'OCSE la dispersione delle quote delle imposte sui redditi personali sul totale del gettito sembra essere leggermente aumentata (ma diminuita tra i paesi dell'UE), così come non vi sono chiare evidenze di una riduzione delle distan-ze tra paesi nel peso relativo della tassazione dei consumi e dei contributi sociali. Al contrario, sotto la spinta della crescente mobilità internazionale delle società, che impone ai sistemi nazionali di uniformare i livelli di prelievo, dalla seconda metà degli anni ottanta si è assistito a una progressiva convergenza tra Stati Uniti (a partire da valori più elevati) e paesi europei (tra i quali anche l'Italia, a partire da valori più bassi), nella quota relativa della tassazione societaria sul prelievo complessivo, verso valori attorno al 9%.
Nel complesso, i sistemi fiscali nazionali presentano ancor oggi una grande varietà di configurazioni per livello e soprattutto per composizione del prelievo. Molti paesi dell'UE (Francia, Germania, Italia) si affidano maggiormente, rispetto alla media OCSE, ai contributi sociali e meno alle imposte personali sul reddito e alle imposte sui consumi. Al contrario, gli Stati Uniti fanno ricorso più alle imposte personali sul reddito e alle imposte patrimoniali che ai contributi sociali e alle imposte sui consumi. Il Giappone segue l'esempio statunitense per quanto riguarda le basse imposte sui consumi, ma si distingue anche per imposte personali sul reddito poco gravose, compensando i gettiti richiesti con contributi sociali e imposte sulle imprese relativamente più onerose rispetto alla media OCSE.
Va da sé che anche nell'ambito dei paesi dell'UE la pressione della concorrenza fiscale e gli sforzi di armonizzazione delle strutture di prelievo esercitati dalla Commissione Europea non sono stati finora in grado di realizzare le fondamenta di un 'sistema fiscale europeo' coerente con il funzionamento efficiente del mercato unico. In particolare, tra i sistemi fiscali europei sono ancor oggi chiaramente identificabili quattro gruppi distinti già evidenziati all'inizio degli anni ottanta (v. Bernardi, 2003): i paesi nordici, dove la pressione fiscale è elevata e sostenuta soprattutto dalle imposte sui redditi; i paesi dell'area renana (Francia e Germania), caratterizzati da un elevato prelievo fiscale che ricorre in misura peculiare ai contributi sociali; i paesi anglosassoni, dove il carico fiscale complessivo è al di sotto della media europea e particolarmente limitato è il ricorso ai contributi sociali; infine, il gruppo dei paesi mediterranei, che dopo la rilevantissima crescita della pressione fiscale sperimentata negli ultimi trent'anni già sopra richiamata, si sono avvicinati al modello renano, pur mantenendo un peso dei contributi sociali e della tassazione indiretta relativamente più contenuto.
I sistemi fiscali nazionali differiscono profondamente anche nella loro articolazione tra i diversi livelli di governo. Anche sotto questo profilo non sembra vada affermandosi un modello comune di decentramento fiscale né tra gli Stati federali né tra quelli unitari. Da un lato, a dispetto delle pressioni politiche per un maggiore decentramento, nel corso degli ultimi due decenni non si è assistito nella generalità dei paesi dell'OCSE a una significativa riattribuzione di risorse fiscali dal centro a favore dei governi subnazionali (un'eccezione rilevante è rappresentata, a partire dall'inizio dagli anni novanta, proprio dall'Italia). Dall'altro, le differenze tra paesi erano e permangono estremamente ampie, anche se in quelli a costituzione federale la quota di entrate fiscali attribuite ai governi subnazionali è in generale maggiore di quella che si registra tra i paesi unitari. Non mancano peraltro casi esattamente opposti, come il basso grado di decentramento dei poteri impositivi in Australia (Stato federale) rispetto a quello realizzato nei paesi scandinavi (Stati unitari).
Le statistiche consentono tuttavia di cogliere soltanto gli aspetti più generali dei processi di devoluzione fiscale in atto: non misurano l'effettivo grado di autonomia fiscale a livello decentrato, che dipende dal reale potere di determinazione e di amministrazione delle imposte attribuito ai governi locali (v. OECD, Taxing powers…, 1999). In molti paesi un'elevata quota di entrate fiscali assegnate ai governi subnazionali è infatti assicurata da compartecipazioni a tributi erariali su cui sono gli Stati centrali a esercitare pieno controllo.
3. Le riforme dei sistemi fiscali negli anni ottanta e novanta: caratteri comuni e giustificazioni teoriche
Gli indicatori sintetici esaminati nel capitolo precedente permettono di cogliere solo parzialmente la complessità dell'evoluzione recente dei sistemi fiscali. Al di sotto delle tendenze quantitative, nei due ultimi decenni i sistemi fiscali dei maggiori paesi sono stati investiti da processi di riforma talvolta radicali e innovativi, in altri casi di mero aggiustamento rispetto ai mutamenti della struttura economica. Le scelte di politica tributaria che hanno ispirato queste riforme e gli elementi strutturali esterni che ne hanno sollecitato l'adozione e condizionato i risultati sono stati molteplici e spesso tra loro confliggenti. Possiamo identificare almeno due fondamentali fattori di cambiamento. Innanzitutto i processi di globalizzazione, di integrazione internazionale dei mercati e di liberalizzazione valutaria, che hanno favorito una maggiore mobilità dei fattori produttivi e delle merci con connessi guadagni in termini di allocazione efficiente delle risorse. Nello stesso tempo, tuttavia, tali processi hanno incentivato i singoli paesi a utilizzare in modo strategico e non coordinato le proprie variabili fiscali attraverso la continua e generalizzata riduzione delle aliquote sui redditi dotati di elevata mobilità internazionale, attivando in tal modo forme di concorrenza fiscale dannosa tra paesi (v. Keen, 1999; v. Wilson, 1999) che hanno effetti negativi sul benessere della collettività nel suo complesso e impongono adeguate forme di coordinamento a livello internazionale.
Un secondo fattore di cambiamento è stata, a partire dalla metà degli anni settanta, la priorità attribuita nel dibattito politico e teorico agli obiettivi di efficienza, neutralità e semplificazione dei sistemi tributari rispetto a quelli di equità e ridistribuzione dei redditi fino a quel momento prevalenti. Questo ribaltamento di priorità è collegato innanzitutto al rafforzamento, nell'ambito del dibattito accademico, delle posizioni della nuova macroeconomia classica (in particolare di Robert E. Lucas e Thomas J. Sargent) con l'accento posto sul ruolo dell'offerta aggregata, e alla contemporanea difficoltà delle tradizionali politiche di controllo della domanda aggregata di ispirazione keynesiana nel risollevare le economie dalla stagflazione (inflazione accoppiata a depressione nei tassi di crescita economica) prevalente tra la fine degli anni settanta e l'inizio del decennio successivo. La necessità di disegnare una struttura fiscale più favorevole alla crescita economica si è poi riproposta con forza in tempi più recenti, con riferimento soprattutto ai sistemi di tassazione europei: l'insoddisfacente performance delle economie europee negli anni novanta rispetto a quella registrata negli Stati Uniti è stata in parte ricondotta ai modi di operare dei sistemi fiscali europei e, nello specifico, alla crescita del carico fiscale complessivo insieme con le forti interferenze prodotte sulla formazione del risparmio, sulle decisioni di investimento e sull'offerta di lavoro (v. Leibfritz e altri, 1997). L'esigenza di una maggiore neutralità nel sistema tributario è stata tuttavia interpretata anche nel senso di costruire strutture fiscali più robuste per contrastare i fenomeni di elusione fiscale, soprattutto nell'ambito della tassazione delle attività finanziarie e dei redditi di impresa. Imprese e investitori professionali pongono in essere operazioni di arbitraggio per sfruttare i trattamenti fiscali differenziati previsti per attività o redditi di natura analoga, con conseguenti costi per l'erario in termini di mancato gettito e per la collettività più in generale in termini di effetti ridistributivi indesiderati e alterazioni delle condizioni di concorrenza. Da qui l'esigenza di disegnare sistemi fiscali più generali e omogenei al fine di contrastare le pratiche elusive sempre più diffuse a causa della sofisticazione dei mercati dei capitali e della crescente integrazione internazionale dei mercati.
Globalizzazione dei mercati e richieste di maggiore neutralità della tassazione si sono poi combinate nell'esperienza recente dei sistemi tributari europei con due ulteriori fattori, in parte contrastanti con quelli precedenti. Da un lato, il percorso di consolidamento fiscale imposto per l'adesione alla moneta unica prima dal Trattato di Maastricht e poi dal Patto di stabilità e crescita hanno richiesto e continueranno a richiedere nel futuro un'elevata pressione fiscale, stante la restrittività delle regole fiscali europee e le difficoltà strutturali di soddisfarle mediante il contenimento della spesa sociale. Dall'altro lato, le spinte verso il federalismo fiscale hanno imposto - e ancor più imporranno nel futuro - un ridisegno dei sistemi fiscali coerente con le nuove esigenze di finanziamento dei diversi livelli di governo. E ciò in relazione sia alle riforme già attuate in molti paesi negli anni novanta, volte a rafforzare le competenze dei governi locali, sia alle riflessioni in atto a livello istituzionale e teorico sull'opportunità di una più generale riattribuzione delle funzioni pubbliche tra Comunità Europea, Stati-nazione e governi locali sotto l'influsso congiunto della crescente integrazione internazionale e della valorizzazione delle preferenze locali (v. European Commission, 1993; v. Bertola e altri, 2000; v. Tabellini, 2002).
L'impatto di questi fattori generali di cambiamento sulle singole tipologie di prelievo è stato tuttavia assai differenziato in termini di portata degli effetti esercitati e di ampiezza delle riforme adottate. I paragrafi successivi saranno dedicati all'analisi delle maggiori macrocategorie di imposte.
a) L'imposta personale sul reddito
Fino alla metà degli anni settanta sia tra policy makers (si veda il noto rapporto della Canadian Royal Commission on Taxation del 1966), sia tra gli osservatori accademici (ad esempio Richard Goode, Joseph Pechman e il già citato Musgrave) era prevalente l'opinione che la modalità più equa di tassazione consistesse nell'affidarsi a un'imposta progressiva sul reddito personale su base onnicomprensiva, cioè definita in termini di incremento delle potenzialità di spesa del contribuente nel periodo di riferimento secondo la tradizionale definizione di Robert M. Haig e Henry Simons. Il fatto che un'unica imposta progressiva sia applicata alla somma di tutti i redditi prodotti, qualunque sia la loro fonte, comporta tra l'altro, per quanto riguarda la disponibilità di redditi prodotti all'estero, l'applicazione del principio della residenza, cioè della riconduzione di tali redditi, qualunque sia il paese in cui siano stati prodotti, al sistema fiscale del paese di residenza del loro percettore (tassazione secondo il worldwide system; v. sotto, § c).
A partire da quegli anni, tuttavia, intorno al modello della tassazione progressiva sul reddito onnicomprensivo cominciavano ad addensarsi insoddisfazioni e critiche (v. Cnossen e Bird, 1990). Sul piano empirico, le difficoltà applicative del concetto di reddito onnicomprensivo avevano a che fare con distorsioni economiche, complessità amministrative, iniquità orizzontali (ad esempio, in relazione alla proliferazione dei regimi speciali e alla tassazione delle plusvalenze realizzate al posto di quelle maturate), insieme con l'accentuata progressività che, in tempi di forte stagflazione, erodeva pesantemente i redditi reali. Sul piano teorico, gli esponenti della supply side economics sottolineavano come la progressività dell'imposta personale indebolisse gli incentivi economici all'offerta dei fattori produttivi, con gravi effetti negativi sulla crescita economica. In aggiunta, molti osservatori, riprendendo un filone di pensiero che si rifaceva a Nicholas Kaldor e ancor prima a Thomas Hobbes, evidenziavano i meriti della tassazione sul reddito-consumo (o reddito-spesa) rispetto a quella sul reddito onnicomprensivo, in quanto la prima, esentando il risparmio, avrebbe consentito di evitare la 'doppia tassazione del risparmio' o quanto meno avrebbe ridotto le esistenti distorsioni fiscali tra differenti forme di risparmio, alcune fiscalmente agevolate e altre no.
La conclusione di questo dibattito fu segnata nel 1986 dall'adozione negli Stati Uniti della riforma promossa da Ronald Reagan. Al centro della riforma si poneva una radicale revisione della struttura degli scaglioni e delle corrispondenti aliquote marginali. La nuova imposta personale sui redditi prevedeva infatti una riduzione del numero degli scaglioni, una flessione generalizzata delle aliquote marginali accompagnata da un appiattimento della curva di progressività realizzato mediante un taglio deciso all'aliquota marginale sullo scaglione più elevato (ben 22 punti percentuali). Sotto il profilo dell'equità, la compressione delle aliquote marginali veniva almeno parzialmente compensata da un innalzamento dei limiti di reddito esente da tassazione, mentre, per evitare cadute di gettito, la riforma affiancava alla diminuzione delle aliquote misure di allargamento della base imponibile realizzate attraverso la cancellazione di esenzioni e regimi speciali (veniva, ad esempio, fortemente aggravato il prelievo sulle plusvalenze realizzate).
Pur nell'ambito di valutazioni non sempre univoche, gli effetti della riforma Reagan sembrano essere stati relativamente modesti. In particolare, sul piano dell'efficienza, la risposta in termini di incremento dell'offerta complessiva di lavoro e risparmio è stata limitata, anche se è incerto se tale risultato sia il riflesso di una bassa elasticità di sostituzione rispetto al livello assoluto del prelievo (come evidenziato, per esempio, da Leibfritz e altri, 1997) o piuttosto del fatto che la riforma non è stata in grado di indurre una riduzione sufficientemente ampia dei prezzi relativi rilevanti (v. Auerbach e Slemrod, 1997).
La riforma americana del 1986, e gli interventi che in molti paesi (Australia, Austria, Canada, Italia, Olanda) negli anni immediatamente successivi si ispirarono alla formula 'riduzione delle aliquote più elevate-allargamento della base imponibile-semplificazione degli scaglioni', hanno certamente rappresentato un momento di indebolimento del modello della tassazione progressiva sul reddito onnicomprensivo (v. Slemrod, 1990). Una rottura ben più radicale con quel paradigma è stata invece segnata dalle riforme che portarono in alcuni paesi scandinavi (in ordine di tempo, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia) tra il 1987 e il 1993 all'introduzione di forme di Dual Income Taxation (DIT: v. Sørensen, 1994; v. Cnossen, 1999). Pur nella diversità delle applicazioni concrete, il modello della DIT prevede l'applicazione di un'imposta proporzionale uniforme (flat rate tax) su tutte le forme di redditi da capitali (interessi, dividendi, plusvalenze), mentre i redditi derivanti da altre fonti (essenzialmente redditi da lavoro) rimangono assoggettati all'imposta progressiva. In generale, l'aliquota unica di prelievo sui redditi da capitale è posta pari all'aliquota base della tassazione progressiva.
La motivazione fondamentale dell'adozione di forme di tassazione duale del reddito sta nel fatto che si tenta in tal modo di conservare una qualche forma di prelievo sui redditi da capitale, pur in un quadro di elevata e crescente mobilità internazionale dei capitali stessi, e insieme di raggiungere l'obiettivo di assicurare una maggiore neutralità nel trattamento fiscale dei redditi da capitale in generale, contrastando così anche diffuse pratiche di elusione fiscale rese possibili dai trattamenti differenziati delle varie attività finanziarie. Su un piano più teorico, la DIT sarebbe giustificata sia da una maggiore equità, in quanto detassando i rendimenti dei redditi da capitale ci si avvicina al concetto di reddito-consumo e quindi si evita la doppia tassazione del risparmio, sia da una maggiore efficienza, perché tassa maggiormente il lavoro che è caratterizzato da una offerta più rigida rispetto al proprio prezzo di quanto non sia quella del capitale, in coerenza con quanto prescritto dalla teoria della tassazione ottimale. D'altra parte, la DIT comporta problemi di iniquità orizzontale in quanto, abbandonando il riferimento al criterio della capacità contributiva e costruendo di fatto un insieme di imposte reali con aliquote differenziate, riserva trattamenti fiscali differenziati a contribuenti con eguale reddito complessivo ma con differente composizione delle fonti tra lavoro e capitale. Inoltre, incoraggia operazioni di elusione fiscale, in particolare da parte delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi, per i quali la distinzione tra redditi da lavoro e da capitale non è sempre immediata da tracciare (v. Strand, 1999; v. Van den Noord, 2000).
Pur non adottando un sistema puro di tassazione duale, molti paesi dell'area UE (per esempio Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia e Spagna) hanno approvato negli anni recenti riforme fiscali che prevedono per interessi e plusvalenze forme di tassazione cedolare ad aliquote uniformi (pur non estendendo questo trattamento agevolato a tutti i redditi da capitale, come nel caso della DIT nordica), generalmente inferiori alle aliquote marginali che gravano sui redditi da lavoro nell'ambito dell'imposta personale e progressiva. L'orientamento verso imposte basse e proporzionali sui redditi da capitale (anche se non estese necessariamente a tutte le forme di rendimento del capitale, come invece è il caso della DIT nordica) riflette le preoccupazioni dei sistemi nazionali tanto di tutelare la propria competitività su un mercato dei capitali internazionale sempre più integrato, anche in relazione all'avvento della moneta unica, quanto di ridurre le possibilità di manovre elusive che traggono alimento proprio dalla differenziazione dei trattamenti fiscali.
Queste riforme, e le pressioni a esse sottostanti, concorrono a spiegare una delle linee evolutive che più chiaramente emerge dall'esperienza recente dei sistemi fiscali europei: la forte crescita della tassazione sul lavoro rispetto a quella su fattori più mobili, come il capitale. Nei paesi dell'UE, tra il 1970 e il 1999, l'aliquota media effettiva (ex post) sul lavoro è aumentata del 47% (circa 12 punti di aliquota), mentre quella corrispondente sul capitale soltanto del 24% (meno di 5 punti d'aliquota). Il risultato è che oggi, nella media UE, mentre il capitale sconta un prelievo medio effettivo del 24%, il lavoro è gravato da un'aliquota media effettiva pari a quasi il 38%, di circa 15 punti d'aliquota superiore a quella di Stati Uniti e Giappone (v. EUROSTAT, 2000; v. Cnossen, 2002; per i profili metodologici, v. Mendoza e altri, 1994; v. Martinez-Mongay, 2000). Anche se il calcolo delle aliquote effettive non è privo di problemi metodologici, non c'è dubbio che un livello di tassazione così elevato si rifletta sul funzionamento dei mercati del lavoro: nella misura in cui il prelievo sul lavoro viene traslato sul costo del lavoro a carico delle imprese, si generano incentivi alla sostituzione del lavoro (soprattutto quello a bassa specializzazione) con altri fattori produttivi o alla delocalizzazione delle produzioni in paesi a più basso costo del lavoro; nella misura in cui rimane a carico del salario, si scoraggia la ricerca di occupazione e lo sforzo lavorativo. Ciò ha indotto le organizzazioni internazionali (v., ad esempio, OECD, Implementing…, 1999) a raccomandare, e singoli paesi ad adottare a partire dalla seconda metà degli anni novanta, misure di taglio dei contributi sociali per incentivare la domanda di lavoro soprattutto nelle fasce di occupazione a più bassa specializzazione, interventi di traslazione del peso fiscale dal lavoro agli altri fattori produttivi (è il caso della sostituzione, in Italia, dei contributi sanitari con un'imposta ad ampia base imponibile denominata IRAP, Imposta Regionale sulle Attività Produttive) o alle attività fortemente inquinanti (il cosiddetto double dividend approach), crediti di imposta per rendere più attraente la partecipazione al lavoro delle donne e dei lavoratori poco specializzati.
b) La tassazione delle imprese
Integrazione dei mercati e richieste di maggiore neutralità nel prelievo fiscale hanno segnato l'evoluzione recente anche dei sistemi di tassazione delle imprese. La strategia 'riduzione delle aliquote-allargamento della base imponibile', già discussa a proposito dell'imposta personale sui redditi, è stata il segno distintivo anche delle riforme attuate a partire dalla metà degli anni ottanta in quasi tutti i paesi dell'OCSE sulla scia del Tax reform act statunitense. Sotto la pressione della competizione fiscale internazionale (v. OECD, 1991; v. Bretschger e Hettich, 2002; v. Devereux e altri, 2002), le aliquote legali (nazionali e locali) sui redditi societari sono state quasi ovunque nettamente ridotte (ma con l'Italia in controtendenza fino alla riforma del 1998), in molti paesi anche di più di 15 punti di aliquota (ad esempio, Francia, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito); nella media dell'UE la caduta è stata dal 47% al 32% tra il 1980 e il 2003 (aliquota prevista sulla base della legislazione vigente: v. Gorter e de Mooij, 2001; v. Giannini, 2002). Benché le aliquote legali risultino ancor oggi in qualche misura differenziate tra i paesi dell'UE, l'evoluzione recente indica una tendenza alla convergenza verso una media europea attorno al 32%. Parallelamente, per evitare insostenibili cadute di gettito, le basi imponibili sono state ampliate mediante una grande varietà di interventi, tra cui innanzitutto la cancellazione di agevolazioni speciali, la previsione di regole di ammortamento e di valutazione delle scorte meno favorevoli, la riduzione di sgravi fiscali sugli investimenti.
Gli anni ottanta e novanta sono stati anche segnati dal dibattito, in ambito sia accademico che governativo, sulla non neutralità del modello tradizionale di tassazione societaria e sulle riforme, rimaste in parte solo allo stadio di proposta, volte a ridurre le distorsioni fiscali rispetto alle scelte delle imprese. In termini generali, in un approccio marginalista che pone esclusiva attenzione agli effetti che il sistema tributario esercita sui nuovi investimenti e non al livello di prelievo complessivo realizzato in capo all'impresa, due differenti modalità di tassazione neutrale sono concepibili. Da un lato, la cash flow tax che tassa i flussi di cassa senza deducibilità dei costi finanziari dell'investimento (qualunque sia la fonte), ma con immediata deducibilità dei costi sostenuti per l'acquisto dei beni strumentali (v. Meade Committee, 1978; v. Sinn, 1987); dall'altro lato, la tassazione dei profitti di impresa con deducibilità del costo del finanziamento (qualunque sia la fonte), ma con deducibilità delle spese di investimento limitata al solo vero ammortamento economico.
Pur essendo stata ampiamente dibattuta anche in termini operativi (Regno Unito, Irlanda, Svezia, Stati Uniti), la cash flow tax non ha mai trovato effettiva realizzazione. Al contrario, nei sistemi fiscali concreti la tassazione del reddito di impresa si applica generalmente secondo modalità che la rendono non neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese. La deducibilità nella determinazione della base imponibile degli interessi passivi corrispondenti al finanziamento mediante capitale di debito (emissioni di obbligazioni o credito bancario), ma non del costo sostenuto in caso di finanziamento mediante capitale di rischio (emissioni azionarie o profitti ritenuti), genera un forte incentivo a favore del finanziamento con debito. E questa discriminazione si rafforza quando si consideri, accanto alla tassazione di impresa, anche la tassazione dei capitali a livello personale, che in generale riserva un trattamento fiscale più gravoso ai dividendi percepiti dal socio rispetto agli interessi attivi ricevuti dal prestatore di capitale di debito. Questa distorsione fiscale può spingere le imprese a sottocapitalizzarsi (il che le espone maggiormente al rischio dell'insolvenza, discrimina le nuove imprese che hanno maggiori difficoltà di accesso al credito, e può esacerbare, a livello macroeconomico, le fluttuazioni del ciclo) e incentiva pratiche elusive quali la thin capitalization (trasformazione degli utili di impresa in interessi passivi, in quanto tali deducibili ai fini della tassazione societaria, mediante l'emissione di obbligazioni sottoscritte dai soci stessi; il differenziale tra l'aliquota dell'imposta societaria sugli utili e quella dell'imposta personale sugli interessi attivi percepiti dai soci misura la convenienza dell'operazione elusiva).
Accanto alla discussione sulla concreta applicabilità della cash flow tax, il dibattito sulle possibili configurazioni di un'imposta societaria neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese ha portato a una varietà di proposte (per una discussione, v. Cnossen, 1996). Qui se ne ricordano due. Da un lato, la tassazione secondo il sistema CBIT (Comprehensive Business Income Tax) proposto dal Tesoro americano (v. US Department of the Treasury, 1992), che consiste nel tassare l'intero flusso di reddito generato dall'investimento prima del pagamento di interessi passivi e/o di dividendi. Non è inoltre prevista alcuna tassazione di tali interessi o dividendi a livello personale per i soci o per i sottoscrittori del debito. Dall'altro, il modello di tassazione ACE (Allowance for Corporate Equity; v. IFS, 1991), che prevede la separazione, all'interno dei profitti di impresa, di due componenti: la prima rappresentata dalla remunerazione ordinaria del capitale proprio investito, che viene interamente dedotta e quindi totalmente esclusa dalla tassazione; la seconda, residuale rispetto al totale dei profitti, che invece assume natura di extra profitto o di rendita e che è assoggetta alla normale aliquota dell'imposta societaria. Benché il modello ACE nella sua configurazione pura non abbia trovato concreta attuazione, ha certamente influenzato l'adozione di forme di tassazione duale dei redditi di impresa in Italia tra il 1997 e il 2000 e in Austria a partire dal 2000.
Come detto, la discriminazione ai danni del finanziamento mediante ricorso a capitale proprio e a favore dell'indebitamento può derivare sia dalla tassazione degli utili in capo alla società, sia dall'esistenza di un trattamento differenziato dei profitti distribuiti e non distribuiti e degli interessi in sede di imposta personale. Perciò la neutralità delle scelte finanziarie e di investimento delle imprese richiede anche un sistema di prelievo omogeneo dei redditi finanziari ottenuti dagli individui che finanziano l'impresa. In particolare, per essere neutrale, un sistema fiscale che a livello di impresa ammetta la piena deducibilità dei soli interessi passivi, come è nel modello tradizionale, deve da un lato garantire che le imposte versate dalla società sugli utili distribuiti (dividendi) e non (plusvalenze) siano rimborsati al socio (cioè vi sia integrazione tra tassazione societaria e tassazione personale) e, dall'altro, assoggettare a un prelievo omogeneo a livello personale dividendi, plusvalenze e interessi.
Queste considerazioni richiamano uno degli aspetti più controversi nella discussione sui sistemi di imposizione societaria: quello della tassazione dei dividendi. Il punto centrale riguarda la questione se sia opportuno integrare e, in caso di risposta affermativa, secondo quali modalità, la tassazione societaria degli utili di impresa (che tassa indistintamente tutti i profitti) e la tassazione personale dei dividendi che colpisce nuovamente in capo al socio gli utili, al netto della tassazione societaria, che vengono distribuiti. L'idea che la società di capitali sia un soggetto distinto dai propri soci conduce a escludere l'opportunità di una qualche forma di integrazione tra i due livelli di tassazione: è il caso della doppia tassazione dei dividendi o classical system. Se si ritiene invece opportuno evitare il doppio prelievo sui dividendi, l'integrazione tra tassazione societaria e tassazione personale può essere realizzata riducendo o cancellando l'imposta personale sui dividendi ricevuti dal socio, oppure l'imposta societaria sui profitti distribuiti. La prima possibilità di integrazione può assumere modalità diverse. Da un lato si possono prevedere sgravi fiscali di vario tipo sulle imposte personali del socio (quali anche l'assoggettamento ad aliquote proporzionali e relativamente basse), il cui ammontare non è tuttavia direttamente connesso con l'importo dell'imposta societaria pagata a monte sui profitti distribuiti (shareholder dividend relief schemes). L'altra possibilità è quella di rendere il credito fiscale riconosciuto al socio sulla propria tassazione personale funzione diretta dell'imposta pagata dalla società sugli utili distribuiti (imputation system, proposto originariamente dalla Commissione Carter). In particolare, si parla di full imputation quando il credito a favore del socio rispecchia interamente quanto pagato dalla società. Anche la seconda possibilità di integrazione, quella che riequilibra il trattamento fiscale complessivo tra utili distribuiti e ritenuti intervenendo a livello societario, può assumere dal punto di vista operativo forme differenti: si può applicare ai soli utili distribuiti un'aliquota societaria agevolata (split-rate system) o addirittura un'aliquota nulla (zero rate method); oppure si può dedurre una quota dei profitti distribuiti dalla base imponibile della tassazione societaria (dividend deduction system).
Il panorama delle modalità di tassazione dei dividendi applicate nei paesi dell'OCSE (a favore dei residenti) è quanto mai vario (a titolo di esempio, classical system negli Stati Uniti e in Olanda, full imputation in Australia e Francia, partial imputation nel Regno Unito, shareholder dividend relief in Giappone, Svezia e Belgio), e per di più nel corso degli ultimi due decenni alcuni paesi hanno introdotto riforme che modificano il regime precedentemente adottato. Se qualche elemento di convergenza nelle riforme più recenti può essere riconosciuto, questo sta nel ripensamento in corso in vari paesi sull'ottimalità dell'imputation system e nella tendenza a un ritorno al classical system. In un quadro di crescente integrazione internazionale dei capitali, infatti, l'imputation system da un lato appare sempre meno efficace nel correggere la distorsione dei sistemi fiscali nazionali a danno del capitale proprio nel finanziamento delle imprese e, dall'altro, discrimina gli investimenti stranieri. Se le imprese possono finanziare i loro investimenti sul mercato internazionale dei capitali e il capitale è in grado di spostarsi liberamente, interventi unilaterali di riforma della tassazione personale dei dividendi decisi a livello nazionale influenzeranno solo marginalmente le loro scelte finanziarie. Inoltre, in assenza di una rete adeguata di trattati fiscali bilaterali, l'imputation system può discriminare le imprese e gli azionisti stranieri. Infatti, gli imputation systems nazionali non riconoscono generalmente alcuna agevolazione a favore dei propri residenti che siano soci di società costituite all'estero sulle imposte societarie pagate in altri paesi (outward investments); così come, specularmente, non estendono a soci non residenti il credito fiscale sulle imposte societarie pagate in sede nazionale (inward investments). Ne deriva un doppio incentivo, da un lato per i risparmiatori a sottoscrivere azioni nazionali, dall'altro per le società a generare i propri profitti in ambito nazionale piuttosto che su base internazionale, cioè a scoraggiare tanto gli outward investments quanto gli inward investments. Le difficoltà evidenziate dall'imputation system, insieme con gli spazi offerti a pratiche elusive, hanno spinto molti paesi, come accennato, a riconsiderare le soluzioni adottate per il trattamento fiscale dei dividendi. Ad esempio, la Germania nel 2002 ha abbandonato il full imputation system per passare a un sistema di integrazione parziale in cui solo metà dei dividendi ricevuti da investimenti sia interni che stranieri è assoggettata all'imposta personale progressiva (per una visione critica, v. Keen, 2002). L'Italia ha previsto nel 1997 la scelta tra full imputation e un sistema di shareholder dividend relief in relazione a specifici casi, mentre con la riforma fiscale di prossima attuazione verrà adottato un sistema simile a quello tedesco.
L'interrogativo se la maggiore mobilità dei capitali abbia effettivamente portato a una riduzione del carico fiscale complessivo sulle imprese richiede la considerazione congiunta di queste due linee di riforma (il taglio delle aliquote da un lato e l'allargamento della base imponibile dall'altro).
Gli effetti che gli interventi di riforma descritti in questo paragrafo hanno avuto sul carico fiscale complessivo sulle imprese, e in particolare sugli incentivi/disincentivi determinati dai sistemi fiscali sulle scelte di investimento e finanziarie delle imprese, possono essere valutati facendo ricorso a un indicatore ampiamente utilizzato in questo tipo di valutazioni, ossia le aliquote effettive marginali di imposta (di tipo forward-looking, cioè calcolate sulla base della normativa fiscale: v. King e Fuellerton, 1984; v. European Commission, 1992 e 2002). In particolare, le aliquote effettive marginali di imposta misurano la differenza in termini percentuali tra i tassi di rendimento pre- e post-imposta richiesti dal risparmiatore sui progetti marginali di investimento, sintetizzando in un unico indice tutti gli elementi costitutivi della tassazione societaria e di quella personale (in termini sia di aliquota che di base imponibile) che hanno effetto sulle decisioni di investimento. Al di là della restrittività delle assunzioni sottostanti alla loro determinazione (scelte di investimento ottimizzanti, competizione perfetta, rendimenti di scala decrescenti del capitale impiegato, investimenti infinitamente divisibili, ecc.), le aliquote effettive marginali, sebbene differiscano in misura consistente tra paesi, sembrano mostrare nel corso degli anni novanta una sostanziale stabilità. Il medesimo risultato si ritrova considerando altri indicatori proposti per la misura delle aliquote effettive: le aliquote medie effettive forward-looking, sviluppate da Michael Devereux e Rachel Griffith (v., 1998) e da Otto H. Jacobs e Christoph Spengel (v., 1999), le aliquote effettive backward-looking basate su dati micro a livello di impresa (v. Nicodème, 2001). Benché vadano accolte con cautela, queste indicazioni evidenziano dunque una discordanza tra riduzione delle aliquote legali e sostanziale invarianza delle aliquote effettive che può trovare spiegazione nel contemporaneo ampliamento della base imponibile della tassazione societaria (v. Gorter e de Mooij, 2001). Nel contempo, tuttavia, in molti paesi si sono in qualche misura ridotte le differenze di aliquote effettive tra investimenti finanziati con debito e investimenti finanziati con nuove azioni o profitti reinvestiti. A questa minore convenienza al ricorso al capitale di debito hanno contribuito sia il venir meno della forte inflazione degli anni ottanta (che è uno degli incentivi fondamentali al finanziamento con debito), sia ancora la contrazione delle aliquote legali sulle società. In conclusione, le riforme della tassazione societaria degli anni novanta sembrano non aver prodotto una riduzione significativa del peso fiscale effettivo sulle imprese, non fornendo per questa via adeguati incentivi agli investimenti, ma nel contempo sembrano aver segnato qualche progresso in termini di maggiore neutralità nelle scelte finanziarie delle imprese.
c) La tassazione del capitale finanziario
Negli anni novanta anche la tassazione del capitale finanziario ha registrato nei paesi europei una netta riduzione delle aliquote legali applicate a livello personale, sia sugli interessi (dal 46% al 37%) che sulle plusvalenze (dal 39% al 27%; v. Gorter e de Mooij, 2001). Questa caduta del prelievo sulle rendite finanziarie si è realizzata in alcuni paesi attraverso riforme che hanno sottratto le rendite finanziarie alla tassazione personale e progressiva e le hanno assoggettate a forme di imposizione separata di tipo proporzionale, generalmente ad aliquota contenuta, spesso tendenzialmente omogenee per tutte le forme di rendite finanziarie (questa tendenza all'omogeneità nei trattamenti finanziari si è manifestata anche in Italia con la riforma del 1997, pur partendo già da un sistema generalizzato di imposte sostitutive ma fortemente differenziate). Come discusso ampiamente nel cap. 3, § a, la crescente cedolarizzazione dei redditi da capitale ha trovato la sua realizzazione più compiuta nelle forme di Dual Income Taxation adottate in alcuni paesi scandinavi tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta. Attualmente, più in generale, nell'area UE ben 8 paesi tassano gli interessi (sulle obbligazioni) percepiti da non residenti con forme di ritenuta definitiva (in taluni casi per opzione), peraltro adottando aliquote relativamente diversificate.
L'orientamento verso questo assetto fiscale nella tassazione dei capitali è riconducibile a due elementi già più volte richiamati. Da un lato, l'integrazione dei mercati dei capitali a livello internazionale - a seguito della liberalizzazione valutaria avviata in Europa a partire dalla direttiva comunitaria del 1988 e della diffusione degli strumenti informatici a supporto alle transazioni finanziarie - rende difficile accertare da parte delle autorità fiscali nazionali i redditi da capitale realizzati all'estero dai propri residenti e, al contempo, spinge ad attrarre i capitali degli investitori non residenti. Dall'altro lato, si rafforza l'esigenza di omogeneizzare all'interno dei sistemi fiscali nazionali i trattamenti previsti per le varie attività finanziarie, allo scopo di ridurre gli spazi per operazioni di arbitraggio fiscale e prevenire possibili comportamenti di natura elusiva, anche a seguito degli ampi processi di innovazione finanziaria in atto e, in particolare, della crescente diffusione dei cosiddetti contratti derivati (swap, futures, options). Va evidenziato, infatti, come mediante i nuovi strumenti finanziari sia possibile replicare le caratteristiche sostanziali degli strumenti finanziari tradizionali senza per questo ricadere nelle categorie formali previste dalla normativa fiscale, con conseguente difficoltà per le autorità a ricondurre questi proventi a tassazione (v. Alworth, 1998).
L'ovvia controindicazione a questa tendenza alla tassazione del capitale finanziario secondo aliquote proporzionali e relativamente contenute sta nell'indebolimento della portata ridistributiva del sistema fiscale nel suo complesso, tenuto conto che i redditi da capitale assumono un peso relativo maggiore nei livelli più elevati di reddito. Inoltre rimangono ancora, seppur indebolite secondo quanto discusso nel precedente paragrafo, le discriminazioni fiscali tra investimenti finanziati con debito e investimenti finanziati con nuove azioni o profitti reinvestiti.
Queste considerazioni generali vanno tuttavia meglio specificate, soprattutto con riferimento ai profili internazionali della tassazione delle rendite finanziarie. In un mondo in cui le autorità fiscali nazionali disponessero di una perfetta informazione circa i redditi prodotti all'estero dai propri residenti e in cui la mobilità internazionale dei capitali fosse limitata (prescindendo dall'elasticità nell'offerta del risparmio), ciascun paese avrebbe convenienza a imporre aliquote elevate sia sui redditi da capitale percepiti all'estero dai propri residenti, sia su quelli prodotti nel paese considerato dai non residenti.
Tuttavia, mancando questi due presupposti, ciascun paese avrà un incentivo a ridurre entrambe le aliquote in questione. Da un lato, se con la liberalizzazione valutaria le autorità fiscali non disporranno di adeguate informazioni sui redditi prodotti all'estero da parte dei propri residenti, tenderanno a frenare le fughe di capitali nazionali verso l'estero sottoponendo i residenti ad aliquote basse. Dall'altro lato, se la mobilità dei capitali è elevata, gli investitori stranieri localizzeranno i propri capitali nei paesi che sottopongono i rendimenti corrispondenti ad aliquote relativamente basse. Si avvia perciò un processo di competizione fiscale tra paesi che, in assenza di un loro coordinamento, porta a un'esenzione completa del fattore mobile (il capitale), ponendo tutto l'onere delle imposte sul fattore immobile (il lavoro; v. Razin e Sadka, 1991). Questo è ciò che in qualche misura è accaduto nei paesi europei: a seguito della liberalizzazione valutaria si sono diffusi, come sopra richiamato, regimi sostitutivi e agevolati sui redditi da capitale percepiti dai residenti e sono state progressivamente introdotte misure di esenzione totale o parziale dei redditi da capitale corrisposti a cittadini non residenti, con il conseguente aprirsi di una forbice sempre più ampia tra tassazione sul lavoro e tassazione sul capitale (v. sopra, cap. 3, § a).
La strategia per evitare la progressiva scomparsa di ogni tassazione sui redditi da capitale in ambito internazionale è ovviamente quella del coordinamento fiscale tra paesi. Nell'ambito del dibattito sulla materia in corso da tempo nell'UE sono state proposte due differenti modalità di coordinamento. La prima consiste nel promuovere uno scambio automatico di informazioni tra paesi sui redditi percepiti da non residenti (in termini di identità dell'investitore e ammontare dell'investimento). In questo modo sarebbe possibile superare il problema della non perfetta controllabilità da parte delle autorità nazionali e realizzare per tale via una tassazione dei redditi finanziari secondo il cosiddetto principio della residenza, cioè tassare il reddito da capitale esclusivamente nel paese di residenza dell'investitore (anche con aliquote differenziate tra paesi), esentandolo completamente nel paese dove è prodotto, o gravandolo di una ritenuta a solo titolo di acconto da scontare poi nel paese di residenza (principio della residenza mista). In alternativa, le diverse autorità nazionali possono concordare l'introduzione di una tassazione alla fonte minima e uniforme sui rendimenti da capitale percepiti dai non residenti. Questa seconda modalità realizzerebbe una tassazione coerente con il cosiddetto principio della fonte (cioè prelievo esclusivamente nel paese dove il reddito è prodotto, con esenzione nel paese di residenza dell'investitore) nel caso in cui la ritenuta alla fonte fosse considerata definitiva, con l'impegno dei paesi di residenza a non sottoporre i redditi a ulteriori tassazioni. La scelta dell'una o dell'altra modalità di coordinamento consente peraltro di evitare la doppia tassazione dei redditi percepiti da non residenti, una prima volta nel paese-fonte e successivamente nel paese di residenza dell'investitore. Una doppia tassazione determinerebbe, infatti, un disincentivo alla mobilità internazionale dei capitali, da un lato favorendo nella tassazione dei redditi prodotti in un dato paese gli investitori residenti rispetto ai non residenti, e dall'altro disincentivando i residenti dall'investire al di fuori del proprio paese di residenza.
La scelta tra tassazione secondo il principio della residenza o secondo il principio della fonte (e quindi la scelta tra le due modalità di coordinamento) può essere valutata con riferimento a una molteplicità di criteri: l'efficienza allocativa, la ripartizione del gettito tra paesi, l'effettiva implementabilità. Sul piano dell'efficienza vi è consenso tra gli economisti nel riconoscere la superiorità del principio della residenza (che comporta la cosiddetta capital export neutrality) sul principio della fonte (che invece implica la capital import neutrality: per una discussione, v. Keen, 1993; v. Sørensen, 1993). Tra le molte considerazioni possibili, va infatti rilevato che l'evidenza empirica mostra come le distorsioni dell'allocazione del capitale tra paesi (che sarebbero evitate dall'applicazione del principio della residenza) comporterebbero un costo in termini di benessere collettivo più elevato rispetto alle distorsioni del risparmio nel tempo (che sarebbero invece minimizzate dal principio della fonte). Quanto poi alla ripartizione del gettito, il principio della residenza nella sua forma mista consente accettabili attribuzioni del gettito complessivo tra i paesi coinvolti nell'operazione di investimento, mentre con il principio della fonte l'intero gettito viene necessariamente attribuito al solo paese in cui il reddito di capitale è prodotto. Sul piano teorico emerge dunque un vantaggio della residenza rispetto alla fonte; l'implementazione concreta del primo principio di tassazione richiede, come sopra discusso, maggiori costi in termini amministrativi e di accordo politico, comportando, diversamente dalla tassazione secondo la ritenuta alla fonte, la rinuncia all'anonimato nel prelievo.
Sul piano istituzionale, dopo quindici anni di sterili tentativi, nel gennaio del 2003 i ministri finanziari dei paesi dell'UE hanno raggiunto un accordo politico per la tassazione degli interessi percepiti da cittadini non residenti che configura una soluzione mista rispetto alle due modalità di coordinamento sopra discusse. L'accordo prevede infatti che 12 paesi dell'UE attivino a partire dal 2004 un sistema di scambio automatico di informazioni circa l'identità del percettore di interessi e l'ammontare degli stessi. Lussemburgo, Austria e Belgio si riservano invece di applicare il modello della ritenuta alla fonte (del 15% nei primi 3 anni e poi via via crescente negli anni successivi), corretto tuttavia per assicurare una ripartizione accettabile del gettito tra paese-fonte e paese di residenza (25% al primo, 75% al secondo). Tale ritenuta può essere considerata dal paese di residenza a titolo definitivo (comportando quindi, per questo ristretto nucleo di paesi, l'applicazione del principio della fonte), oppure a titolo di acconto (con realizzazione quindi del principio della residenza, ma con le evidenziate difficoltà applicative derivanti dalle carenze informative di cui soffrirebbe il paese di residenza). La compresenza dei due sistemi nell'ambito dei paesi dell'UE verrà poi meno se e quando troverà soluzione la questione critica dell'accordo con i paesi extracomunitari allo scopo di evitare fughe di capitali europei verso paesi terzi che garantiscono anonimato e bassa tassazione. È infatti evidente che i benefici finanziari dello scambio di informazioni, e quindi gli incentivi a implementarlo effettivamente, dipendono dalle informazioni ricevute dagli altri paesi e dalla conseguente possibilità di ridurre anche su questo fronte l'evasione fiscale. In particolare, tutti i paesi dell'UE passeranno al sistema dello scambio automatico di informazioni solo condizionatamente al raggiungimento di un accordo con un nucleo limitato di centri finanziari extra-UE (tra cui Svizzera e Stati Uniti, oltre a vari paradisi fiscali), in virtù del quale tali paesi siano disposti a uno scambio di informazioni su richiesta e a introdurre livelli di tassazione alla fonte simili a quelli applicati in Lussemburgo, Austria e Belgio. Va rilevato che la disciplina descritta riguarda soltanto il trattamento fiscale degli interessi. Questioni ancor più complesse si pongono quando si considerino i profili internazionali delle imposte sulle plusvalenze e sui dividendi, in quanto questi richiedono di considerare congiuntamente sia il livello della tassazione personale dei redditi da capitale, sia quello della tassazione dei profitti societari.
d) La tassazione indiretta
Pur presentando generalmente un elevato grado di eterogeneità nella sua articolazione interna, il comparto delle imposte indirette è dominato in tutti i paesi dell'OCSE da una Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) che da sola garantisce più del 60% del gettito complessivo (fanno eccezione soltanto gli Stati Uniti, dove non esiste, a livello di governo federale, un'imposta generale sui consumi). Diversamente da quanto registrato nell'ambito della tassazione delle rendite finanziarie e dei profitti societari, nella media dei paesi appartenenti all'UE l'aliquota legale normale dell'IVA ha segnato nell'ultimo decennio una crescita, seppure contenuta (da 17,5% a 19,4%; v. Joumard, 2001).
Questa tendenza all'aumento delle aliquote normali si è tuttavia solo in parte tradotta in una riduzione della dispersione dei livelli di tassazione tra i paesi europei. Le pressioni verso la convergenza, che si sono concentrate sul finire degli anni ottanta ma sembrano essersi successivamente indebolite, riflettono le alterne fortune degli sforzi comunitari verso l'armonizzazione delle aliquote dell'IVA. I paesi membri hanno adeguato le proprie imposte sul valore aggiunto a un regime comune che prevede vincoli relativamente poco stringenti (fissazione di un'aliquota normale pari o superiore al 15%; possibilità di adozione di una o due aliquote ridotte comprese tra il 5% e il 15%; mantenimento di un'aliquota inferiore al 5%, purché già esistente). Molti paesi dell'UE hanno di conseguenza mantenuto aliquote ridotte, esenzioni o regimi speciali, spesso giustificati da considerazioni di natura distributiva, di politica industriale o da obiettivi di semplificazione, che fanno sì che i divari nel livello effettivo di prelievo tra sistemi nazionali europei siano attualmente ancora molto rilevanti (le aliquote normali variano da un minimo del 15% in Lussemburgo a un massimo del 25% in Svezia e Danimarca).
Le differenziazioni tra paesi rispetto all'IVA, anche se non sembrano distorcere più di tanto le scelte di consumo in generale, hanno effetti marcati sugli acquisti transfrontalieri nelle aree di confine e su specifiche tipologie di consumi (ad esempio i servizi turistici), aumentano la complessità del sistema di prelievo ed erodono fortemente la base imponibile. L'effetto complessivo di queste forme agevolative può essere misurato per ciascun paese dall'aliquota effettiva, calcolata come rapporto tra il gettito dell'IVA e la sua base potenziale. Con riferimento al 1998, nella media dei paesi dell'UE l'aliquota effettiva risultava inferiore all'aliquota normale di ben 10 punti (10,5% contro 19,4%, con divari particolarmente rilevanti nel caso di Italia, Belgio, Spagna e Svezia: v. Joumard, 2001; v. Van den Noord e Heady, 2001; v. Cnossen, 2002). Viene quindi confermata sia l'esistenza di spazi per un generale incremento della tassazione sul consumo, sia l'opportunità di ridurre le attuali non neutralità del prelievo. Una tassazione più pesante e neutrale del consumo potrebbe del resto offrire i margini di gettito per rendere effettivamente attuabile, nell'ambito dei vincoli stringenti imposti dalla disciplina fiscale europea, la riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro (v. sopra, cap. 3, § a) da molte parti invocata (v. Tanzi, 2003).
Anche nella tassazione del consumo, come nelle imposte sui redditi da capitale finanziario e sui profitti societari, sono i profili internazionali a rappresentare gli elementi di innovazione più significativi. Due fenomeni hanno in particolare posto in discussione le modalità tradizionali di tassazione degli scambi di merci e costretto a ricercare nuove soluzioni: da un lato, la costituzione nel gennaio 1993 del Mercato Unico Europeo, che ha reso possibile la libera circolazione delle merci nell'area comunitaria; dall'altro, la sempre maggiore diffusione del commercio elettronico attraverso Internet.
La creazione del Mercato Unico Europeo ha comportato, quale requisito essenziale per garantire la libera circolazione delle merci, l'abolizione delle barriere doganali tra paesi comunitari. Questa innovazione ha generato un lungo e ampio dibattito tra studiosi e policy-makers su quali siano le modalità più opportune di tassazione degli scambi di merci all'interno di un mercato unico. Analogamente a quanto discusso nel caso della tassazione dei capitali, è possibile evitare la doppia tassazione delle merci oggetto di scambi internazionali - e i disincentivi ai commerci internazionali a essa connessi - applicando il prelievo esclusivamente nel paese dove si svolge il consumo (il cosiddetto principio di destinazione), oppure nel paese dove si realizza la produzione (principio di origine). Il principio di destinazione è generalmente preferito sia sul piano della neutralità (rispetto alla situazione in assenza di imposte non distorce i prezzi relativi di due beni omogenei scambiati su uno stesso mercato ma provenienti da paesi differenti, pur in presenza di aliquote nazionali differenti), sia su quello della ripartizione del gettito tra paesi (attribuisce il gettito dell'IVA al paese in cui effettivamente si svolge il consumo). L'applicazione della tassazione secondo il principio di destinazione richiede tuttavia, in generale, l'esistenza delle barriere doganali, cioè di un luogo fisico dove accertare l'effettiva destinazione delle merci all'esportazione. In assenza di tali possibilità di accertamento, emergerebbe un incentivo per i produttori nazionali a dichiarare come destinate all'esportazione anche merci da commercializzare sul mercato interno, in quanto esse sarebbero in tal modo sgravate dall'IVA.
Queste considerazioni avevano indotto i paesi europei ad adottare, prima dell'avvio del Mercato Unico, il principio di destinazione quale criterio di tassazione dei commerci intracomunitari, e nel contempo ad avviare, in vista dell'abolizione delle barriere doganali, la riflessione sul passaggio dal principio di destinazione a quello di origine per gli scambi intracomunitari (Libro Bianco del 1985, Rapporto Cockfield del 1987). Tuttavia, come sopra discusso, la tassazione secondo il principio di origine avrebbe comportato esiti non desiderabili se, come auspicato nei documenti comunitari, non si fossero attivate opportune misure di correzione in termini sia di armonizzazione delle aliquote (per impedire distorsioni nei prezzi relativi), sia di ridistribuzione del gettito tra paesi (per evitare la completa attribuzione del prelievo ai soli paesi di origine con conseguente vantaggio per i paesi esportatori netti). Ma le resistenze politiche all'attuazione di questi interventi (come dimostrano, da un lato, le timidezze nel perseguire la strada dell'armonizzazione delle aliquote e, dall'altro, le difficoltà, anche di natura tecnica, a istituire una camera di compensazione per riattribuire i gettiti raccolti dai paesi di origine ai paesi di destinazione) hanno per ora consigliato un percorso meno ambizioso di riforma (il cosiddetto regime transitorio): il definitivo passaggio dal principio di destinazione a quello di origine, fissato originariamente per il 1996, è stato rimandato dapprima al 2000 e poi ulteriormente posticipato. Il mantenimento della tassazione secondo il principio di destinazione, nonostante l'abolizione delle barriere doganali, pone tuttavia rilevanti problemi di accertamento. La soluzione adottata nel regime transitorio si fonda essenzialmente sugli scambi di informazioni tra soggetti coinvolti: il fornitore comunica alla propria amministrazione finanziaria gli estremi dell'operazione di esportazione così come fa specularmente l'acquirente, e le due amministrazioni fiscali dovrebbero poter incrociare queste informazioni allo scopo di individuare casi di evasione. Questo regime ha tuttavia comportato difficoltà di applicazione pratica, accompagnate da un probabile aumento dell'evasione dell'imposta sugli acquisti intracomunitari, con il risultato di spingere la Commissione Europea a valutare possibili strategie di intervento (v. European Commission, 2000).
La rapida diffusione del commercio elettronico pone ulteriori problemi alla tassazione degli scambi internazionali di beni e servizi in termini di adattamento dei principî fondamentali, di effettività della tassazione e infine di eguale trattamento fiscale rispetto al commercio tradizionale (v. OECD, E-commerce…, 2000). Le difficoltà maggiori riguardano le cosiddette forme di commercio diretto, quelle cioè in cui l'oggetto della transazione elettronica è esso stesso un prodotto digitalizzato che può essere fornito direttamente via rete (ad esempio, software, informazioni, ecc.). Quando l'acquirente è un consumatore finale (non soggetto a IVA) la regola generale adottata in sede comunitaria per il commercio elettronico diretto, cioè la tassazione dello scambio secondo la normativa propria del paese dove avviene il consumo del servizio, risulta di dubbia applicazione e di difficile accertamento (il consumatore finale, che comunque non ha alcun interesse a denunciare l'operazione ai fini della tassazione, potrebbe risiedere nel paese A, inviare l'ordine di acquisto attraverso un sito ubicato nel paese B, chiedendo che il servizio gli venga recapitato presso un sito localizzato nel paese C). La soluzione delineata da una recente proposta di direttiva prevede che i fornitori non appartenenti a paesi dell'UE siano in questo caso obbligati a registrarsi presso un paese dell'UE, e che tassino le proprie operazione di commercio elettronico secondo le regole relative all'IVA di tale paese. Va tuttavia sottolineato che, in assenza di un adeguato coordinamento tra autorità fiscali nazionali, a oggi l'effettività della tassazione sulle transazioni elettroniche fa fondamentalmente affidamento sull'obbedienza volontaria dei fornitori non appartenenti all'UE che, quando non abbiano alcuna presenza fisica sul territorio europeo, sono come tali difficilmente accertabili.
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