Sistema tecnico e osservazione della natura nell'antico Egitto
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli Egizi hanno sempre percepito la loro terra, povera di piogge e tuttavia assai fertile, come un dono del Nilo. La precisione delle inondazioni ha infatti costituito un vero e proprio orologio, a scandire ogni attività economica delle comunità. La necessità di tenere sotto controllo le acque con argini, dighe e chiuse ha creato i presupposti per lo sviluppo di saperi tecnici notevolissimi, non solo nel campo dell’idraulica e dell’agricoltura che da queste opere hanno tratto immediato beneficio. Le numerose cave di pietra hanno favorito la nascita dell’architettura monumentale, le cui opere sono state edificate per durare nel tempo.
Le prime notizie storiche risalgono al 3200 a.C. ca., ma gli insediamenti umani lungo il corso del Nilo sono assai precedenti. Lo stato egizio nasce dall’unione tra questi gruppi, scaturita dalla necessità di affrontare e risolvere insieme i complessi problemi originati dalle inondazioni annue del fiume con un’efficiente canalizzazione delle acque, così da rendere fertile e abitabile quella lunga striscia di terra. Stabilitesi in quelle regioni per vincere le frequenti siccità, le comunità nomadi passano ad attività stanziali favorite dal clima, dal terreno e dall’abbondante fauna, mentre la piena annuale del Nilo crea le condizioni naturali migliori per le piante antenate di orzo e frumento. È attraverso la figura del faraone che gli dèi rendono fecondo il paese e l’acqua del Nilo è il mezzo attraverso il quale essi si esprimono. La periodicità dell’evento, unitamente alla regolarità dei fenomeni astronomici, determina la concezione ciclica del tempo e la nascita del calendario di 365 giorni connesso alla piena del fiume e alla levata eliaca di Sirio. Nelle tre stagioni dell’anno appare evidente il legame col Nilo: la prima coincide con la piena, la seconda col ritiro delle acque, periodo in cui si seminano le messi, la terza col raccolto e la nuova siccità.
Come in Mesopotamia, gli abitanti stanziali delle regioni lungo il corso del fiume pongono i preupposti per una civiltà urbana legata ai prodotti dell’agricoltura, ma non esclusivamente dipendente da essa. Nello spazio urbano prende, infatti, piede una raffinata produzione artigianale, portata avanti da lavoratori che non sono impegnati nel lavoro dei campi. Del resto, la maestria tecnica non è estranea alla cultura egizia, che va sviluppando specializzazioni in ambiti diversi, dallo sfruttamento delle miniere di rame nella penisola del Sinai alla lavorazione di vetro e maiolica, dalla produzione ceramica alla tintoria, fino a tecniche agricole e idrauliche accompagnate da un sistema di nozioni di geometria e calcolo.
Testimonianze pittoriche e architettoniche dell’Antico Regno (2778-2443 a.C.) offrono l’immagine di una società in cui i saperi tecnici sono decisamente avanzati. Sebbene riservati esclusivamente ai personaggi appartenenti alla fascia più elevata della società, rilievi e dipinti tombali sono ricchi di immagini di utensili e strumenti di precisione impiegati nello svolgimento di attività artigianali, edili e agricole. Distribuiti in varie zone lungo il corso del Nilo, i villaggi fanno dell’agricoltura una pratica essenziale di cui resta conferma nelle pitture tombali, che frequentemente raffigurano scene di lavoro dei campi. L’organizzazione agricola si incrocia con le opere di gestione e controllo delle acque, rese necessarie anche dall’addensarsi della popolazione, che va accalcandosi sempre più numerosa nei villaggi. La necessità di tenere costantemente sotto controllo le acque del Nilo stimola l’acquisizione di specifiche conoscenze che giustificano la definizione di una nuova figura professionale, quella del tecnico idraulico specializzato: ad Abido verso il 2500 a.C., è attivo un “sovrintendente delle terre irrigate”; di nome Uni, questo personaggio deve guadagnarsi la totale fiducia da parte dei sovrani dal momento che in un’iscrizione relativa al re Mernere leggiamo che viene incaricato di aprire passaggi per le imbarcazioni presso la prima cateratta del Nilo.
Perché un nuovo ordine possa emergere dal caos conseguente a un’inondazione la civiltà egizia ha dovuto approntare importanti opere di ingegneria idraulica: drenare le terre troppo umide e irrigare quelle aride, in poche parole dominare i flussi di acqua incanalandola per gli usi necessari. Per mantenere costante il livello del fiume gli Egizi hanno realizzato un sistema di canali regolato da chiuse al fine di rendere la distribuzione delle acque più o meno uniforme, innalzando anche argini di terra per creare bacini artificiali.
Da qui l’acqua è sollevata e incanalata per giardini, orti e vigneti non raggiunti dall’allagamento naturale. L’irrigazione non è comunque legata esclusivamente all’efficace sistema di canali che va creandosi sin dall’epoca della costruzione delle piramidi; documenti iconografici e letterari attestano infatti la presenza di macchinari più o meno complessi progettati e costruiti per sollevare e indirizzare l’acqua. L’iconografia ci mostra questi mezzi di sollevamento delle acque: dalle coppie di giare di terracotta sospese alle estremità di un giogo di legno impiegate nell’Antico e Medio Regno allo shaduf, che compare nel Nuovo Regno. Nella sua versione più semplice lo shaduf è un sostegno verticale al quale è vincolato un elemento orizzontale libero di oscillare, con un recipiente all’estremità e un contrappeso a equilibrare il tutto: posizionato nei pressi di un corso d’acqua, per immersione del contenitore riesce a recuperare una certa quantità di liquido. Ovviamente è necessaria la presenza di un addetto, cosa da cui non è possibile prescindere anche per il funzionamento dell’altro dispositivo idraulico attestato in Egitto, la “vite di Archimede”. Così definita in quanto già da alcuni autori antichi attribuita allo scienziato siracusano nel III secolo a.C., questa macchina viene probabilmente ideata e ampiamente impiegata già in epoche precedenti in Egitto. In età tolemaica, infine, si diffonde la saqiya, una ruota idraulica che consente un innaffiamento continuo tutto l’anno. Importanti sono i “nilometri”, strutture formate da scale, pozzi o moli nei templi: vi sono segni per tenere sotto controllo il livello della piena, al fine di misurarne la portata e prevedere l’andamento dell’attività agricola. L’effetto benefico fondamentale del limo, che rende il suolo fertile e pronto per la semina, avrebbe potuto essere vanificato se tale sostanza non fosse stata ripartita in modo omogeneo, né in eccesso né in difetto.
L’attrezzatura di base per l’attività agricola può contare anche su un aratro semplice, leggero e adatto ai terreni della regione. Alle operazioni di immagazzinamento e verifica dei prodotti della terra si lega l’invenzione della scrittura, inizialmente per registrare quanto ricevuto e consegnato. È il cambiamento di dimensioni a innescare la ricerca di mezzi nuovi per comunicare, registrare, tenere l’amministrazione dei beni.
Le conseguenze di questa nuova situazione sono immediate anche nell’attività costruttiva, che deve concentrarsi non solo sugli edifici per il culto, ma anche sugli spazi per immagazzinare i prodotti della terra. Il buon andamento delle vicende terrene è tenuto sotto controllo e raccontato dagli astrologi, che nel cielo individuano i segni che garantiscono che tutto proceda regolarmente. Conto dei giorni, calcolo dei mesi lunari e previsione di piene e straripamenti del Nilo sono compiti dei sacerdoti, che interagiscono con il re e il popolo. Dall’osservazione costante della volta celeste scaturisce il calendario fissato verso il III millennio a.C.: misurare con precisione i fenomeni celesti offre l’immagine di un mondo ordinato nel quale il sovrano è il solo intermediario tra il popolo e la divinità. Rappresentante delle forze cosmiche, il re può instaurare il suo ordine terreno e mantenerlo.
Le attività costruttive hanno profondamente segnato il territorio, lasciando tracce che ancora oggi suscitano stupore e ammirazione. Come in Mesopotamia, anche in Egitto dobbiamo vedere nell’istituzione della regalità la spinta che determina un considerevole avanzamento della tecnologia del costruire. Assai impegnativi, i lavori edili hanno richiesto notevole manodopera e grande organizzazione. Con la comparsa dei metalli, il bronzo nel Regno Medio (2160-1580 a.C.) e il ferro all’epoca della XXV dinastia (712-663 a.C.), gli utensili divengono sempre più efficaci e perfezionati; ritrovamenti archeologici e testimonianze pittoriche attestano la presenza tra gli attrezzi da lavoro del martello e del piccone, che offrono due modi completamente differenti di percuotere. Alla mancanza di legname gli Egizi sopperiscono sfruttando le cave di pietra che la natura del luogo mette a disposizione: calcare, arenaria, quarzite, granito e basalto offrono una diversa durezza e resistenza al taglio e alla lavorazione, richiedendo di volta in volta un approccio diverso. La sfida imposta dai materiali lapidei viene comunque risolta con successo, dato che ben presto la pietra sostituisce nell’edilizia pubblica e monumentale i primitivi mattoni di terra cruda seccati al sole. Mentre l’architettura civile e ordinaria in mattoni crudi è pressoché interamente perduta, monumentali resti archeologici gettano luce sugli edifici pubblici: tuttavia, ancora oggi si discute vivacemente sui mezzi impiegati per sollevare ad altezze notevoli blocchi lapidei pesanti diverse tonnellate.
È difficile raccontare le conoscenze e le aspettative di coloro che hanno portato a compimento questi ambiziosi e rivoluzionari progetti. L’epoca delle piramidi dura circa 500 anni, dal 3000 al 2500 a.C.: questi impressionanti monumenti affondano le radici nell’organizzazione sociale dell’antico Egitto, con il re quale massima autorità dello stato, a beneficio del quale si portano a compimento opere memorabili, fatte per durare nel tempo e destinate a preservare nei secoli il ricordo del sovrano e dei dignitari di corte. In una società fortemente gerarchica, ingegneri e architetti occupano posti importanti. Geroglifici risalenti all’epoca dell’unificazione tra Alto e Basso Egitto illustrano l’importanza del “responsabile dei lavori”, raffigurato in prossimità di un muro in costruzione. È all’inizio del III millennio a.C. che risalgono le informazioni su Imhotep, maestro costruttore la cui perizia gli vale l’eterna memoria presso i posteri. Progettista, architetto e direttore dei lavori, medico e astrologo, Imhotep si dedica con successo a opere murarie lasciando da parte i mattoni e concentrandosi sulla pietra. Nel 2980 a.C. progetta e costruisce per il re Djeser la piramide a gradoni di Saqqara. Le misure rendono conto della complessità dell’operazione: 107x122 metri la base, 60 l’altezza. È opinione corrente che si sia arrivati alle piramidi attraverso la mastaba, la torre a tronco di piramide in muratura con gli alzati inclinati, ideata per contenere in profondità la sepoltura del defunto.
Si è sempre detto che gli architetti e gli ingegneri egizi abbiano avuto a disposizione una manodopera illimitata, ma questo non è sufficiente a spiegare la soluzione di problemi rilevanti, non ultimo il rispettare i tempi perché i committenti potessero vedere ultimate le opere. Se davvero gli Egizi non hanno conosciuto i vantaggi derivanti dall’impiego di macchine da sollevamento, dobbiamo pensare che essi si affidarono esclusivamente al piano inclinato. Le slitte devono quindi attraversare il deserto con i loro carichi immensi: la sola lastra che copre la camera interna della Grande Piramide in cui riposa il faraone pesa circa 50 tonnellate. Del resto, gli ampi spazi desertici sono propizi per la costruzione di rampe su cui effettuare il trascinamento dei blocchi; le ruote dei carri che vediamo attraverso le pitture sono troppo esili per far pensare a un trasporto di materiali pesanti, né vi è traccia dell’uso delle altre macchine semplici, carrucola, argano e vite.
I blocchi sono dunque trascinati per mezzo di slitte lignee che camminano su rulli o traversine, a seconda del peso del tutto. In molte storie della tecnologia è frequente leggere che il trasporto dei blocchi più pesanti avveniva su tappeti di rulli di legno. In realtà, anche senza ricorrere a prove pratiche, è facile intuire che i rulli cilindrici di legno interposti tra un carico particolarmente pesante e il piano, per svolgere le loro funzioni, non devono deformarsi, né il percorso deve cedere. Due condizioni che, nel caso di carichi anche meno eccezionali, non potevano verificarsi a causa dell’enorme peso per cm². In Egitto, nella tomba di Tenuti Hetep ad El Bersheh, vi è, tra le decorazioni dipinte a parete, la scena del trasporto su slitta di una grande statua di un personaggio seduto. Il pittore ha anche raffigurato, in una fascia al di sotto della scena principale, tre operai che portano a spalla una traversina destinata a essere messa sotto la slitta. Con notevole cura dei dettagli è rappresentato il profilo superiore irregolare della traversa, riconoscibile dal disegno non rettilineo, che esclude possa trattarsi di un rullo. La possibilità di effettuare positivamente con i rulli cilindrici questo tipo di operazione dipende dal peso totale del carico, dal tipo di percorso e dalla slitta che è il dispositivo interposto tra peso da muovere e piano di scorrimento che oppone una resistenza che si concretizza in termini di attrito e quindi deformabilità dei materiali impiegati.
Tipico problema tecnico, il trasporto su rulli sarà affrontato nel paragrafo numero XI della Meccanica pseudo aristotelica, dove l’autore domanda al lettore il motivo per cui un peso da muovere sia più facilmente gestibile in questo modo piuttosto che su un carro. La spiegazione verte sull’osservazione che, mentre il blocco adagiato su un carro vi insiste con tutta la sua superficie e quindi con tutto il suo peso, il trasporto su rulli offre il vantaggio di svolgersi attraverso due soli punti di contatto, quello del carico sul rullo e quello del medesimo sul terreno. Sono osservazioni corrette, ma che non chiariscono al lettore i limiti del trasporto su rulli, ben noti ai costruttori egizi. Non a caso all’inizio del terzo libro della Meccanica Erone descrive la “tartaruga”, la slitta di legno che gli Egizi ben conoscevano e che, azionata da un argano oppure trascinata a mano tramite funi, consente di spostare pesi considerevoli: “Al momento di iniziare il traino con la slitta, se il peso è leggero, conviene utilizzare i rulli cilindrici; ma se il peso è considerevole, è meglio adoperare le assi, perché il movimento è allora meno rapido; i rulli cilindrici, ruotando sotto il peso, rischieranno di restare schiacciati per effetto di un movimento troppo rapido”. Erone è conscio del fatto che rulli e assi di legno non offrono il medesimo servizio e indica al lettore una differenza di impiego che dipende, a suo dire, dal peso del carico trasportato.
Tra l’altro, la slitta lignea offre un ulteriore vantaggio del quale vi è traccia nella medesima pittura da El Bersheh. Infatti, la slitta ha un profilo obliquo in corrispondenza dell’estremità inferiore, secondo un disegno che si definisce “a sguincio”, soluzione fondamentale per facilitare le operazioni di trasporto. Dopo aver posizionato il blocco sulla slitta, si comincia infatti con l’inserire un robusto palo che agisce come leva sotto il profilo pretagliato della slitta; si tratta di una specie di catena cinematica tra leva e cuneo, laddove quest’ultimo è rappresentato dal profilo a sguincio. L’immagine dalla tomba di Tenuti Hetep a el-Berscheh mostra che l’importanza di dare alle slitte questo particolare profilo non è sfuggita agli Egizi, che prendono analoghe precauzioni anche direttamente sui blocchi lapidei di grandi e medie dimensioni.
Per quanto riguarda invece il sollevamento dei blocchi, un brano di Erodoto sulla costruzione della piramide di Cheope ha dato origine ad un dibattito assai vivace sui sistemi eventualmente impiegati dagli Egizi. Erodoto (Storie, 2, 124) descrive con meraviglia il numero di uomini al lavoro per costruire la strada che il faraone Cheope ha ordinato di tracciare per trasportare dalle cave le pietre che serviranno per l’edificazione della sua grande piramide; dopo aver ricordato le dimensioni dei blocchi adoperati, ognuno non inferiore ai trenta piedi, afferma che “sollevarono le pietre restanti con macchine fatte di legni corti, ponendole sulla prima serie di gradini. Quando la pietra era messa su questa prima serie, veniva messa su un’altra macchina che si trovava in quel punto e quindi trascinata sulla seconda serie e poi su un’altra macchina. C’erano infatti tante macchine quante erano le serie di gradini, oppure spostavano la stessa macchina che era una sola e facile da muoversi, su ciascuna serie, ogni volta che toglievano la pietra”. Le parole di Erodoto non sono così chiare da consentire di comprendere la tecnologia impiegata e, tra l’altro, si pongono in contrasto con il passo in cui Diodoro Siculo (Biblioteca storica, I, 63, 6-7), proprio riguardo alla costruzione della piramide di Cheope, afferma che gli Egizi a quei tempi non conoscevano le macchine e dunque avrebbero lavorato solo tramite la preparazione di colline artificiali. È tuttavia possibile che questi due brani non siano in contraddizione; infatti, il passo di Erodoto sembra essere attendibile se pensiamo che la mechanè cui egli si sta riferendo sia una delle slitte di cui abbiamo precedentemente parlato. Una gru avrebbe dovuto infatti sollevare i notevoli massi di granito superando una pendenza che, allo stato attuale dell’edificio, risulta essere stata pari al 2 per cento. La definizione di “legni corti” potrebbe invece addirsi alle traverse lignee di cui si è detto, che costituiscono il tappeto sul quale viene mossa la slitta. Questa interpretazione è confermata anche dal sensazionale ritrovamento di una slitta di granito, scoperta nelle vicinanze di questa piramide nel 1974, a voler conservare e “musealizzare” la macchina che aveva reso possibile la costruzione.
Un modellino ligneo di una slitta, in buono stato di conservazione, è stato rinvenuto anche nei depositi di fondazione del tempio della regina Hothsepsowet, a el-Deir el Bahari. È quindi possibile che la descrizione di Diodoro Siculo delle colline artificiali, ovvero dei piani inclinati, si combini molto bene con il ritrovamento della slitta e con le traversine, cioè i “legni corti”, di cui parla Erodoto. Il problema del piano inclinato, giustamente sottolineato da Diodoro, è che occorre un grande lavoro per creare la rampa ed altrettanto per rimuoverla, operazione che richiede manodopera e organizzazione. Del resto il tema della costruzione delle piramidi attirerà anche l’attenzione di Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXXVI, 17, 81), il quale dichiara, nonostante i numerosi testi consultati, di non essere riuscito a trovare risposte precise. La nostra difficoltà nel comprendere le fasi della costruzione delle piramidi non riguarda solo i mezzi tecnici a disposizione per superare i problemi pratici, ma anche le conoscenze che permisero di effettuare l’inclinazione delle facce in modo così perfetto: un piccolo errore sarebbe stato infatti sufficiente a provocare un difetto evidente al vertice degli spigoli. La forma geometrica è elementare, le misure esattamente rigorose, la quantità di pietre impiegate davvero notevole. È possibile che la perfezione che ancora oggi ammiriamo sia stata raggiunta a tavolino, applicando formule matematiche complesse come nel caso della piramide di Cheope dove l’altezza è eguale al rapporto tra perimetro della base e 2П.
È difficile inquadrare questo enorme cambiamento di dimensioni all’interno della storia delle tecniche che, fino a questo momento, avevano seguito uno sviluppo lineare sostanzialmente teso a garantire all’uomo il necessario. La piramide è probabilmente l’impresa più notevole tra quelle portate a termine dalla grande “macchina umana” di cui si serviva il faraone per celebrare la propria immagine. Anche per la civiltà egizia, come per quella mesopotamica, è fondamentale un’organizzazione umana impeccabile con una rigida e funzionale suddivisione dei compiti. Perché l’operazione vada a buon fine occorrono minuziosa precisione e perfezione meccanica assoluta, prerogative che oggi ci aspettiamo dalla macchina, che qui non esiste. Se davvero vi ha lavorato un numero compreso tra i 25 mila e i 100 mila uomini, allora l’energia prodotta è calcolata pari a quella di 2500 cavalli. Un tale numero di uomini, divisi in squadre e con funzioni diverse si comporta, nel complesso, come ingranaggi di un’enorme macchina ben collaudata che agisce come un corpo di scavatrici e gru. Del resto, la spartizione meticolosa delle attività si trova anche in campo minerario, dove i lavoranti sono divisi in squadre con compiti diversi: vi è chi esplora il terreno, chi saggia le caratteristiche delle rocce, chi si occupa dell’estrazione, e nei registri delle operazioni minerarie figurano fino a 50 gradi di specializzazione.
Naturalmente, se ci atteniamo al concetto di macchina come tecnologia che consente il risparmio di manodopera, qui siamo all’opposto, vi è cioè dispendio di manodopera che viene impiegata e sfruttata in ogni sua possibilità; tuttavia, il risultato finale è il medesimo, perché in entrambi i casi si svolgono con precisione, costanza e potenza compiti che non sarebbero stati altrimenti portati a termine. È quindi nell’organizzazione umana quasi meccanica che dobbiamo vedere gli incredibili successi tecnici di questa civiltà, accompagnata da un repertorio di osservazioni volte a contestualizzare il tutto alla luce dell’accordo tra movimenti dei pianeti ed eventi terrestri. Nella felice combinazione di questi elementi è la perfezione del sistema tecnico egizio e il corpo del faraone, conservato all’interno della piramide imbalsamato perché potesse prolungare la sua esistenza nell’aldilà, è un fortissimo messaggio relativo all’ordine cosmico che quel sovrano ha garantito sulla terra.
Occorre capire questo scenario per spiegare come l’uomo abbia potuto, in un contesto di tipo ancora “neolitico”, concepire città, templi, piramidi e obelischi.