SISTEMA SOLARE.
– Sole. Mercurio. Venere. Terra. Marte. Asteroidi. Giove. Saturno. Urano e Nettuno. Oggetti transnettuniani. Comete. Sitografia
Sole. – Uno degli argomenti più dibattuti negli ultimi anni riguardo alle caratteristiche della nostra stella è la grande differenza di temperatura tra la corona solare, ossia lo strato più esterno dell’atmosfera del Sole, e la fotosfera, la regione visibile della sua superficie. La corona supera nettamente il milione di kelvin, mentre la fotosfera si attesta attorno a 5800 kelvin, dunque è circa 20 volte più fredda. Alcuni gruppi di ricercatori hanno indicato le spicole – getti di plasma del diametro di alcune centinaia di chilometri che si propagano dalla fotosfera alla corona – quali principali responsabili del riscaldamento coronale. Più recentemente è stato osservato come le oscillazioni magnetiche che trasferiscono energia dalla superficie del Sole verso la corona, le onde di Alfvén, possiedono caratteristiche dinamiche sufficienti a riscaldare la corona fino alle temperature osservate e ad alimentare il flusso continuo di particelle e plasma noto come vento solare. Un ulteriore meccanismo accreditato con sempre maggiori evidenze osservative di trasmettere energia in modo significativo alla corona e contribuire, almeno in parte, al suo riscaldamento, è quello dei nanoflares, vale a dire brillamenti solari su piccola scala. Seppure molto meno intensi dei brillamenti ordinari che si registrano sul Sole, i nanoflares sono molto più frequenti e comunque in grado di accelerare elettroni ad alte energie. Sarebbero poi questi elettroni veloci a rilasciare parte dell’energia accumulata nella corona e quindi a riscaldarla.
L’entrata in funzione di osservatori spaziali di nuova generazione destinati allo stu-600 dio del Sole e della sua attività, come la missione Solar terrestrial relations observatory (STEREO), composta da due sonde gemelle lanciate nel 2006, e il Solar dynamics observatory (SDO), lanciato nel 2010, entrambi della NASA, stanno restituendoci una visione della nostra stella e della sua atmosfera con un livello di dettaglio senza precedenti. In particolare, sono state ricostruite la struttura e l’evoluzione in tre dimensioni dei brillamenti e delle emissioni di massa coronale.
Da ricordare anche i risultati ottenuti dalla missione SoHo (Solar and Heliospheric Observatory) dell’Agenzia spaziale europea (ESA), in particolar modo i suoi studi di eliosismologia, che hanno permesso di mettere in evidenza il fenomeno della cosiddetta doppia convezione all’interno del Sole.
Mercurio. – A quasi trent’anni di distanza dalla visita della missione Mariner 10, Mercurio ha visto arrivare nel 2011 la sonda MESSENGER (MErcury Surface, SpaceENvironment, GEochemistry and Ranging) della NASA, lanciata nel 2004. Le nuove immagini raccontano un passato meno placido di quanto si pensasse per il pianeta: anche Mercurio è stato travagliato da eruzioni vulcaniche e travolto da tempeste magnetiche. Con i dati raccolti dagli strumenti di bordo di MESSENGER è stato ottenuto il primo modello del campo gravitazionale e della struttura interna di Mercurio, rivelando la possibile presenza di uno strato solido di solfuro ferroso sopra il nucleo, che avrebbe un importante impatto sulla storia termica del pianeta e sull’evoluzione tettonica, quindi riferita alle grandi strutture che osserviamo sulla superficie. È stata poi pubblicata la prima analisi topografica del pianeta, utilizzando i dati del laser altimetro, però solo dell’emisfero Nord, osservando quanto la variazione di altezza delle varie strutture sia inferiore a quello che vediamo su Marte e sulla Luna. Le due misure riportano anche un differente spessore della crosta di Mercurio al variare della latitudine: maggiore vicino all’equatore (50-80 km) e minore al Polo Nord (20-40 km).
Venere. – Tra i tanti primati di Venere, pianeta considerato per le sue caratteristiche il gemello bollente della Terra, c’è quello della velocità con cui si spostano le sue nubi, che impiegano circa quattro giorni per compiere un giro completo, ben 60 volte più rapidamente di quanto il corpo solido del pianeta impiega per compiere una rotazione: si tratta di un vero e proprio record nel Sistema solare. Questo fenomeno, chiamato superrotazione, è stato indagato grazie ai dati dello spettrometro italiano VIRTIS (Visible and InfraRed Thermal Imaging Spectrometer) a bordo della sonda Venus express dell’ESA, che hanno messo in evidenza come l’enorme vortice del diametro di circa 2000 km che staziona al di sopra del Polo Sud venusiano cambi la sua forma in modo significativo nell’arco di alcune ore e non sia esattamente centrato sopra di esso, ma si trovi leggermente defilato, anche se solo di pochi chilometri, circa 300. Questa condizione, unita a movimenti su scala globale di tutte le nubi nell’atmosfera del pianeta determina una rotazione d’insieme del vortice intorno al polo.
Ed è stato ancora grazie a VIRTIS che sono stati rilevati per la prima volta evidenti segni di colate laviche ‘recenti’ – avvenute cioè non più di due milioni e mezzo di anni fa, ma verosimilmente molto più recenti di vulcani ancora oggi attivi – sulla superficie di Venere, che ora può essere annoverato con certezza come uno dei pochissimi mondi del S. s. geologicamente attivo.
Terra. – L’ambiente spaziale che circonda la Terra viene studiato approfonditamente anche grazie a missioni spaziali dedicate, come Van Allen radiation belt storm probes della NASA, composta da due sonde gemelle che orbitano attorno al nostro pianeta. Questa missione è dedicata allo studio delle caratteristiche e delle dinamiche delle fasce di Van Allen, due regioni di forma toroidale al cui interno sono intrappolate particelle cariche. In particolare, è stato recentemente osservato come l’accelerazione, ovvero l’aumento di energia di queste particelle nella seconda fascia, la più esterna (che si attesta tra 10.000 e 65.000 km di altitudine), avvenga all’interno della fascia stessa. Il processo sarebbe sostenuto da particolari strutture a doppio strato che compaiono e scompaiono nel plasma all’interno della seconda fascia. Ciascuna di queste strutture è costituita da una coppia di strati paralleli di plasma con carica opposta posizionata lungo le linee di campo magnetico. Doppi strati di questo tipo possono generare forti campi elettrici e la combinazione dei campi elettrici creati da un alto numero di doppi strati sarebbe abbastanza potente da accelerare gli elettroni a velocità relativistiche, prossime cioè a quella della luce.
Marte. – Uno dei più accesi dibattiti scientifici su Marte riguarda la presenza di metano. Il composto è stato individuato nel 2003, ma la sua origine è ancora tutt’altro che nota. Inizialmente tra gli addetti ai lavori si era affacciata l’affascinante ipotesi che la presenza del gas fosse un’evidente indicazione di attività biologica sul pianeta, in analogia a quanto avviene sulla Terra. Altri, più cauti, proposero l’ipotesi che a generare metano fossero stati in passato processi geologici, come le eruzioni vulcaniche. Ora però si prospetta una terza possibilità, cioè che la presenza dell’idrocarburo nell’atmosfera marziana sarebbe dovuta a intense radiazioni ultraviolette, che producono metano dai materiali organici trasportati dai meteoriti. Questo risultato deriva da uno studio su un campione del meteorite Murchison (rinvenuto in Australia nel 1969 e considerato proveniente dal pianeta rosso), che ha mostrato la capacità di emettere molecole di metano se investito da un intenso fascio di luce ultravioletta.
Studi in situ della superficie marziana, condotti con sonde e rover, ci stanno fornendo una visione del passato geologico del pianeta e del ruolo determinante dell’acqua allo stato liquido nel modellarne il profilo, come nel caso del cratere McLaughlin, con dimensioni di 92 km di diametro e 2,2 km di profondità. La profondità del cratere ha permesso all’acqua sotterranea di fluire al suo interno, lasciando così tracce della presenza di ambienti umidi nel sottosuolo marziano, scoperte grazie all’analisi dei dati provenienti dallo spettrometro a bordo del Mars reconnaissance orbiter (MRO) della NASA. Un altro fondamentale contributo agli ultimi studi su Marte e alla sua storia evolutiva lo sta fornendo anche Curiosity, il robot semovente della NASA sbarcato sul pianeta nel 2012. Già nel suo primo anno di missione ha inviato a Terra 36.700 immagini ad alta risoluzione e analizzato vari campioni di due diverse rocce, permettendo di rilevare la presenza di antichi fiumi che scorrevano in passato sul pianeta e, dall’analisi chimica dei campioni raccolti, mostrare l’esistenza degli elementi chimici basilari per l’esistenza della vita.
A fine 2014 hanno iniziato la loro attività scientifica altri due orbiter marziani: MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile EvolutioN) della NASA e Mars orbiter mission (MOM), la prima missione dell’agenzia spaziale indiana dedicata allo studio del pianeta rosso. A breve poi prenderà il via l’ambizioso programma europeo ExoMars, congiunto tra l’ESA e Roscosmos, l’agenzia spaziale russa. ExoMars si compone di due missioni, la prima fissata per il 2016 e la seconda per il 2018. L’Italia ha un ruolo guida e attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI) rappresenta il maggior contribuente europeo al programma. Il Trace gas orbiter e il lander Schiaparelli comporranno la missione del 2016, mentre il rover ExoMars, con il suo vettore e la piattaforma di superficie, sarà lanciato nel 2018. Lavorando insieme, l’orbiter e il rover cercheranno segni di vita, passati e presenti, sul pianeta rosso.
Asteroidi. – La missione Dawn della NASA è il primo veicolo spaziale ad aver orbitato intorno a un oggetto della fascia principale degli asteroidi (situata tra Marte e Giove), Vesta. Le sue accurate indagini, ottenute anche grazie allo spettrometro a immagine italiano VIR (Visual and Infra-Red spectrometer), hanno permesso di rivelare che questo corpo celeste è molto più simile a un pianeta che a un asteroide: Vesta ha una struttura interna stratificata e un nucleo ferroso. Nel passato dell’asteroide devono esserci state però delle fasi in cui il suo interno non era roccioso ma completamente fuso, per poi solidificarsi nella struttura attuale. L’analisi della superficie di Vesta ha inoltre rivelato una struttura molto irregolare, con una montagna alta tre volte l’Everest e due impressionanti crateri nell’emisfero Sud, Veneneia e Rheasilvia (fig. 3). Con i suoi quasi 500 km di diametro, Rheasilvia è uno dei più grandi crateri di tutto il Sistema solare. Queste strutture sono collegate alla storia evolutiva dell’asteroide e del S. s. stesso, essendo state causate da due catastrofici impatti avvenuti, rispettivamente, circa 2 miliardi e 1 miliardo di anni fa.
Giove. – Sempre maggiore è l’attenzione riposta negli ultimi anni verso lo studio di Giove, e in particolar modo del suo ricco sistema di lune. Io è stata osservata anche dalla missione New Horizons, diretta verso i confini del S. s., ad appena 4 milioni di chilometri, mettendo in evidenza una potente eruzione che si estende per 330 km sopra la superficie del corpo celeste e solo una parte della nuvola di fumo e detriti generata dal vulcano Tvashtar. La forsennata attività vulcanica di questa luna è dovuta alla sua vicinanza al pianeta. Io è sconquassata da forze che la tirano in direzioni opposte: il campo gravitazionale del vicino Giove e l’attrazione delle due lune Europa e Ganimede, che le passano accanto con periodi cadenzati (cioè con orbite in risonanza). Anche un altro satellite naturale, Europa, ha sorpreso gli scienziati per la presenza di pennacchi d’acqua che si stagliano sopra la sua superficie, letteralmente sparati verso l’alto fino ad altezze di 200 km e fuoriusciti da qualche frattura nella spessa calotta ghiacciata che avvolge il corpo celeste. Le riprese sono state ottenute nella banda di radiazione ultravioletta dal telescopio spaziale Hubble con il suo spettrografo STIS (Space Telescope Imaging Spectrometer) nel corso di alcune osservazioni effettuate tra novembre e dicembre del 2012.
Saturno. – Da oltre 10 anni la missione Cassini-Huygens, frutto di una collaborazione tra NASA ed ESA, raccoglie preziosi dati su Saturno e il suo sistema di lune. Anche in questo caso, uno spettrometro italiano, VIMS (Visible and Infrared Mapping Spectrometer), ha contribuito in modo decisivo ai successi scientifici della missione. Questo strumento e la camera ad alta risoluzione a bordo di Cassini hanno permesso uno studio dei vortici che caratterizzano l’atmosfera del pianeta, in particolare quello dalla marcata forma esagonale presente sopra il Polo Nord. Gli strumenti di Cassini si sono poi concentrati sugli anelli, mettendo in risalto come questi siano delle strutture dinamiche e in evoluzione, percorse da onde di densità radiali e verticali, instabilità e altre perturbazioni, causate principalmente dalle interazioni gravitazionali e dalle risonanze con le lune, ma anche dall’interazione dei grani con il campo magnetico del pianeta. Tutte queste strutture sono state osservate ad alta risoluzione, con un dettaglio prima inimmaginabile. Alcune sono state scoperte per la prima volta: in particolare, correlando i dati di VIMS con quelli da altri strumenti di Cassini – UVIS (UltraViolet Imaging Spectrograph) e CIRS (Composite InfraRed Spectrometer), rispettivamente gli spettrometri nell’ultravioletto e nel termico –, gli scienziati hanno realizzato diversi studi per dedurre dimensioni dei grani, composizione, temperatura e presenza di materiali organici misti al ghiaccio.
Importanti sono anche i risultati della missione nello studio dei satelliti di Saturno, grazie all’osservazione con numerosi flyby (passaggi ravvicinati) di questo ‘zoo’ di corpi celesti strani e misteriosi, tra loro molto diversi. Per alcuni di essi, con VIMS è stato possibile realizzare una mappatura parziale o totale della superficie, producendo delle vere mappe geologiche e composizionali di mondi finora sconosciuti, come Dione o Rea. Tra i risultati più famosi, quelli relativi a Encelado e le sue tiger stripes, i caratteristici graffi di tigre che ne coprono la superficie e da cui fuoriescono i plumes, i getti osservati per la prima volta da Cassini nel 2005 e oggi associati all’esistenza su Encelado di oceani sotterranei. C’è poi Titano, il più grande satellite di Saturno e il secondo nell’intero S. s., più piccolo solo di Ganimede, luna di Giove. Nell’infrarosso, usando le finestre di trasmissione dell’atmosfera, è stato possibile osservare in dettaglio la grande diversificazione della superficie di questa luna. Si è evidenziata una superficie estremamente variegata, coperta di laghi, oceani, isole e dal terreno ricoperto da montagne e dune e sorprendenti criovulcani, la cui presenza è stata osservata direttamente dagli strumenti a partecipazione italiana. I laghi sono stati studiati in grandissimo dettaglio: correlando i dati di VIMS con il radar è stato anche possibile osservare come queste strutture evolvano al passare delle stagioni, identificando un ciclo molto simile a quello terrestre, in cui il metano sostituisce l’acqua.
Urano e Nettuno. – I due pianeti giganti gassosi ai confini del S. s., non essendo stati visitati da missioni dedicate negli ultimi anni, sono stati studiati principalmente da strumenti a terra o dal telescopio spaziale Hubble della NASA. Osservazioni ottenute anche con il grande telescopio Keck sulle isole Hawaii hanno evidenziato come su Urano siano in corso da alcuni anni violente ed estese tempeste nell’atmosfera. Le immagini più recenti di Nettuno sono state invece ottenute da Hubble: il tipico colore azzurro-blu è dato dal metano, componente principale del gas che lo costituisce. Sono inoltre evidenti le nubi, messe in evidenza da un colore rosa, costituite da cristalli ghiacciati di metano. Rispetto a immagini precedenti, le nubi nell’emisfero settentrionale sono aumentate, segno che l’attività atmosferica sta mutando per effetto di un cambio di stagione, con la differenza che, mentre sulla Terra le stagioni durano pochi mesi, su Nettuno cambiano ogni 40 anni.
Oggetti transnettuniani. – Quello che c’è oltre l’orbita di Nettuno, ora denominata regione transnettuniana, invece della vecchia denominazione fascia di Kuiper, è una zona simile alla fascia degli asteroidi, ma che occupa una regione molto più grande e con una densità di materia molto più bassa, i cui oggetti sono composti essenzialmente di ghiacci, visto che a quelle distanze non è solo l’acqua a cristallizzare ma anche l’ammoniaca e i composti del carbonio, come il monossido e il biossido di carbonio. In questa regione si trova anche Plutone, declassato a pianeta nano nel 2006 dall’Unione astronomica internazionale poiché, a differenza degli altri pianeti del S. s. esterno, in realtà non occupa una zona vuota, a eccezione dei suoi satelliti, ma invece popolata di tutti questi oggetti di dimensioni più o meno piccole. In più ci sono anche altri oggetti celesti che possiedono orbite in risonanza con esso, che per questa proprietà sono stati ribattezzati ufficiosamente Plutini.
A questi oggetti, che si trovano a distanze comprese tra circa 30 e 50 UA (ossia tra circa 4,5 e 7,5 miliardi di chilometri), si sono aggiunti nel 2003 Sedna e, dal 2014, 2012 VP113, che possiedono traiettorie ancora più allungate, con il semiasse maggiore delle loro orbite dell’ordine delle 75 UA e con elevata eccentricità. La natura di questi oggetti, che si trovano in una zona intermedia tra la regione transnettuniana e la nube di Oort (ancora più lontana, a migliaia di unità astronomiche) è ancora poco chiara: per superare queste incertezze, gli scienziati attendono i dati della missione New Horizons della NASA che, dopo aver esplorato Plutone e le sue lune, si sta dirigendo verso altri corpi minori della fascia transnettuniana e poi uscirà dal S. s. verso lo spazio interstellare. Dopo il passaggio del 14 luglio 2015 a poche migliaia di chilometri dalla superficie del nanopianeta, New Horizons ha iniziato a mandare foto della superficie: arrivano lentamente, data la grande distanza, ma sono entusiasmanti. Per la prima volta vediamo su Plutone montagne alte quanto le Alpi, ma fatte di ghiaccio, e zone stranamente lisce, prive di crateri. E dalle prossime immagini in arrivo avremo certamente continue sorprese.
Comete. – La missione Rosetta, dell’ESA, è entrata nella storia: il suo lander, Philae, è stato il primo oggetto costruito dall’uomo a posarsi, il 12 novembre 2014, sulla superficie di una cometa, la 67/P Churyumov-Gerasimenko.
I primissimi dati che arrivano dagli strumenti dell’orbiter, e in particolar modo da ROSINA (Rosetta Orbiter Spectrometer for Ion and Neutral Analysis), mostrano come la chimica rilevata nella chioma della cometa sia sorprendentemente ricca: acido solfidrico, ammoniaca, formaldeide, acido cianidrico, ma anche metanolo, anidride solforosa e solfuro di carbonio; tutte molecole diluite nella componente principale della chioma cometaria (molecole di acqua e anidri de carbonica mescolate a monossido di carbonio). Sempre ROSINA ha misurato l’abbondanza del deuterio nelle molecole d’acqua nel vapore emesso dalla cometa: il rapporto deuterio/idrogeno ottenuto è pari a circa 0,00053, grosso modo un atomo di deuterio ogni 2000 atomi d’idrogeno.
Già le prime analisi dell’abbondanza isotopica del deuterio sulla cometa di Halley, eseguite negli anni Ottanta del secolo scorso dalla sonda europea Giotto, avevano evidenziato valori incompatibili con quelli terrestri, suggerendo dunque che non fossero state le comete – perlomeno, non quelle provenienti dalla remota nube di Oort, come appunto la cometa di Halley – a rifornire d’acqua il nostro pianeta. Nel 2011, però, le analisi spettrali effettuate dal telescopio spaziale Herschel dell’ESA su Hartley 2, una cometa ritenuta fra quelle della fascia di Kuiper, sono sembrate aprire un nuovo spiraglio: in questo caso il rapporto fra deuterio e idrogeno è assai più compatibile con quello riscontrato sulla Terra. Ma la scoperta ottenuta grazie a Rosetta analizzando il vapore acqueo di 67/P, anch’essa appartenente alla famiglia delle comete gioviane come Hartley 2, torna a far pendere l’ago della bilancia a favore di un’altra origine per la sorgente d’acqua del nostro pianeta: gli asteroidi.
Sitografia: Sulla missione Solar dynamics observatory: http://sdo.gsfc.nasa.gov/mission/publications.php. Sulla missione MESSENGER: http://messenger.jhuapl.edu/the_mission/publications.html. Sui risultati della missione Venus express: http://sci.esa.int/jump.cfm?oid=54062. Sulla missione Van Allen: http://rbspgway.jhuapl.edu/biblio?s=year&o=desc&f[keyword]=10. Su Marte e la presenza di metano: http://www.nature.com/nature/journal/v486/n7401/full/nature11203. html?WT.ec_id=NATURE-20120607. Sulla missione Mars reconnaissance orbiter: http://mars.jpl.nasa.gov/mro/news/whatsnew/. Sulla missione DAWN: http://dawn.jpl.nasa.gov/science/ dawn_discoveries.asp. Sui vulcani di Io: http://solarsystem. nasa.gov/news/display.cfm?News_ID=43204. Sulla missione Cassini-Huygens: http://www.nasaspaceflight.com/2014/06/nasaesas-cassini-spacecraft-10-years-saturn/. Sulla missione Rosetta: http://sci.esa.int/rosetta/54456-highlights-from-the-rosettamission-thus-far/.