SANGUIFERO, SISTEMA
Risulta dalle formazioni anatomiche che provvedono alla circolazione del sangue (v.).
Sommario. - Anatomia (p. 680); Anatomia patologica (p. 682); Fisiologia (p. 684); Fisiopatologia (p. 697); Chirurgia (p. 705); Radiologia (p. 708); Patologia veterinaria (p. 712).
Anatomia.
I liquidi nutritizî del nostro corpo circolano continuamente entro un complicato sistema di canali chiamati vasi, i quali a seconda della natura del liquido che contengono si distinguono in vasi sanguiferi e linfatici; il movimento è determinato dall'azione di un organo centrale propulsore detto cuore: questo funziona come una pompa aspirante e premente e per mezzo della contrazione della parte ventricolare spinge il sangue con direzione centrifuga entro quei vasi, che sono chiamati arterie; queste a mano a mano che si allontanano dal centro circolatorio si dividono e si suddividono in vasi sempre più piccoli, finché si sciolgono in una rete di canali esilissimi detti capillari: attraverso le pareti dei capillari avvengono gli scambi nutritizî tra il sangue e i tessuti, e questo sangue che, perdendo le sostanze atte alla nutrizione e raccogliendo i prodotti della metamorfosi regressiva, è divenuto venoso, viene raccolto da altri vasi, cioè dalle vene, che, confluendo tra loro e formando così vene sempre più grandi, lo portano con decorso centripeto alla porzione atriale del cuore. In tal modo il sangue in un tempo brevissimo (circa 27 secondi nell'uomo) fa il giro completo del nostro corpo, donde la parola circolazione del sangue; ma perché il sangue conservi quelle proprietà, che lo rendono adatto al suo ufficio, deve durante il suo cammino attraversare organi, i quali gli sottraggono i prodotti della metamorfosi regressiva e lo forniscono di nuove sostanze adatte alla nutrizione dei tessuti: a ciò provvedono la circolazione polmonare, la renale e l'intestinale.
Osservando la scala dei Vertebrati noi vediamo che il sistema circolatorio relativamente semplice nei Pesci diviene sempre più complicato nelle altre classi. Infatti nei Pesci il cuore possiede un atrio e un ventricolo; l'atrio raccoglie il sangue venoso di tutto il corpo e lo manda nel ventricolo; questo per mezzo di un tronco ventrale lo spinge nei capillari branchiali ove diviene arterioso e per mezzo dell'aorta dorsale è distribuito a tutto il corpo; negli Anfibî il cuore presenta due atrî e un solo ventricolo; nei Rettili s'inizia la divisione del ventricolo in due, ma questa divisione non si completa nemmeno nel coccodrillo, dove rimane un foro interventricolare scoperto dal Panizza; negli Uccelli e nei Mammiferi si ha la divisione completa anche nel ventricolo, per cui si può dire che vi sono due cuori, uno destro che provvede alla piccola circolazione o polmonare e un cuore sinistro, che provvede alla grande circolazione.
Nello sviluppo del sistema circolatorio dei Vertebrati più alti e quindi anche dell'uomo si osservano comportamenti, i quali riproducono quelli che si trovano allo stato definitivo nei vertebrati più bassi. Così il cuore si presenta dapprima come un semplice tubo contrattile: in questo si produce la divisione della porzione atriale in due camere; segue poi la divisione della porzione ventricolare. Ugualmente per quanto riguarda il sistema arterioso, nelle prime epoche dello sviluppo il bulbo aortico si continua con un tronco, che decorre sulla faccia ventrale della faringe; questo tronco ventrale manda da ciascun lato sei rami, detti archi aortici, i quali, scorrendo sui lati della faringe nello spessore degli archi viscerali, si portano dorsalmente e vengono a sboccare nell'aorta dorsale. Di questi archi aortici alcuni scompaiono, altri assumono un grande sviluppo; così dal quarto paio di archi aortici si origina a sinistra l'arco aortico definitivo, a destra l'arteria succlavia destra. Ugualmente il sistema venoso è dapprima formato da due paia di vene dette cardinali e distinte in anteriori e posteriori; le due vene cardinali di ciascun lato sboccano nel corrispondente dotto di Cuvier, il quale è diretto trasversalmente e si apre nel seno venoso. Questa disposizione somiglia a quella che si ha nei Pesci allo stato adulto. Nell'ulteriore sviluppo al sistema delle vene cardinali si sostituisce quello delle cave.
Nell'uomo, il circolo sanguigno avviene nel seguente modo: il sangue venoso di tutto il corpo, raccolto dalle due vene cave, è versato nell'atrio destro, che lo sospinge nel ventricolo corrispondente; questo, per mezzo dell'arteria polmonare, lo invia nei capillari polmonari, ove diviene arterioso; proseguendo il suo cammino, va nelle vene polmonari e quindi nell'atrio sinistro; donde passa nel ventricolo sinistro e per mezzo dell'aorta è distribuito a tutto il corpo. Dobbiamo perciò distinguere nel sistema sanguifero quattro parti: il cuore, le arterie, i capillari e le vene. Per il cuore, v. cuore, VII, p. 131 segg.
Arterie (arteriae). - Le arterie sono vasi robusti a pareti prevalentemente elastiche, specie nelle più grandi, che traggono la loro origine dai ventricoli e con decorso centrifugo portano il sangue a tutto il corpo; perciò i tronchi arteriosi a mano a mano che procedono nel loro cammino si dividono e si suddividono in rami sempre più piccoli, finché questi si continuano nei capillari. Durante il loro tragitto, le arterie possono contrarre anastomosi oppure comportarsi come arterie terminali (v. arteria). Quando le anastomosi sono molteplici e dànno origine a una rete, si parla di plessi arteriosi: questi plessi sono specialmente frequenti in corrispondenza delle articolazioni e formano circoli collaterali, che in determinati casi (allacciature) possono anche sostituire completamente il circolo principale. Le arterie terminali sono quelle i cui rami si dividono ripetutamente fino a sciogliersi in capillari senza contrarre anastomosi tra loro o con le arterie vicine, per cui se una di tali arterie si oblitera, il distretto da questa irrorato rimane privo dell'aflusso sanguigno e va in rovina; arterie terminali si trovano nel cervello, nella milza, ecc. Altre formazioni, alle quali possono dar luogo le arterie, sono le reti mirabili; queste si hanno quando un'arteria, che si dice afferente, si divide in un ciuffo di esilissimi rami, i quali poi confluendo tra loro dànno origine a una nuova arteria detta efferente; per es., glomeruli renali.
Avendo distinto due circolazioni, una piccola e una grande, possiamo distinguere due sistemi arteriosi, cioè quello dell'arteria polmonare appartenente alla prima, quello dell'aorta appartenente alla seconda.
Arteria polmonare. - L'arteria polmonare (a. puhonalis), che contiene sangue venoso, staccatasi dalla base del ventricolo destro si dirige verso l'alto e, dopo un percorso di 4 o 5 centimetri si divide in due rami, uno destro e uno sinistro. Il ramo destro più lungo passa dietro la parte ascendente dell'arco aortico e raggiunge l'ilo del polmone destro essendo accompagnata dal bronco e dalle vene polmonari corrispondenti. Il ramo sinistro passa avanti la parte discendente dell'arco aortico. Dalla biforcazione dell'arteria polmonare si origina un cordone fibroso, che si va a impiantare sulla concavità dell'arco aortico; questo è il legamento di Botallo (ligamentum arteriosum), residuo del canale di Botallo, che ha un importante ufficio durante la vita fetale.
Aorta. - L'aorta (aorta) è il tronco fondamentale arterioso, dal quale si staccano tutte le arterie, meno la polmonare (v. aorta); nata dalla base del ventricolo sinistro, si porta dapprima verso l'alto poi verso l'indietro e verso sinistra e successivamente verso il basso descrivendo un arco, arcus aortae, che sta a cavallo sulla biforcazione dell'arteria polmonare; successivamente scende lungo la cavità toracica prendendo il nome di aorta thoracalis, attraversa indi il foro aortico del diaframma e come aorta abdominalis scende fino a livello della quarta vertebra lombare, ove termina dividendosi nelle due iliache comuni e nella sacrale media. La prima porzione dell'arco, detta comunemente a. ascendens, dà origine alle arterie coronarie; dall'arco propriamente detto si origina il tronco arterioso brachiocefalico destro, la carotide primitiva sinistra e la succlavia sinistra.
I. Le arterie coronarie (a. coronaria dextra et sinistra), destinate all'irrorazione del cuore, si originano dalla parte iniziale dilatata dell'aorta, seni del Valsalva (bulbus aortae), e sono in numero di due, una destra e una sinistra; ciascuna di esse cammina nella corrispondente parte del solco coronario dando rami ascendenti per gli atrî, discendenti per i ventricoli.
II. Il tronco arterioso brachiocefalico destro (a. anonyma), si origina dalla parte destra della convessità dell'arco aortico e, dopo un percorso di circa 3 cm., arrivato al livello dell'articolazione sternoclavicolare destra, si divide in carotide primitiva e succlavia destra.
III. La carotide primitiva (a. carotis communis) presenta lo stesso comportamento nei due lati, fatta eccezione della parte iniziale a causa della diversa origine; ciascuna di esse cammina in compagnia della vena giugulare interna e del nervo vago sui lati dell'esofago e della trachea, coperta dal muscolo sternocleidomastoideo, finché, giunta a livello del margine superiore della cartilagine tiroidea, si divide in carotide interna e carotide esterna. a) La carotide esterna (a. carotis externa), destinata a irrorare le parti molli che rivestono la faccia esterna del cranio, e parte del collo, sale prima sui lati della faringe, indi nell'interno della loggia parotidea, finché, giunta a livello del collo del condilo mandibolare, si divide in due rami terminali: a. temporalis superficialis e a. maxillaris interna; la prima irrora gli strati superficiali della regione temporale e parietale; la seconda provvede all'irrorazione della cassa del timpano, della dura madre, dell'apparato masticatorio, del palato, della mucosa nasale; oltre a questi rami terminali, la carotide esterna fornisce sei rami collaterali, cioè tre anteriori: a. thyroidea superior, a. li11gualis, a. maxillaris externa, uno interno: a. pharyngea ascendens e due posteriori: a. occipitalis e a. auricularis posterior. b) La carotide interna (a. carotis interna) penetra entro la scatola cranica per il foro carotideo, fornisce un ramo collaterale, l'a. ophthalmica, destinata all'occhio e ai suoi annessi, e poi si divide in quattro rami terminali: a. cerebri anterior, a. cerebri media, a. communicans posterior ed a. chorioidea; le due cerebrali anteriori comunicano tra loro per mezzo dell'a. communicans anterior; le comunicanti posteriori vanno dalle carotidi interne alle a. cerebrali posteriori, rami del tronco basilare per cui si forma un anello arterioso detto poligono del Willis (circulus arteriosus).
IV. L'arteria succlavia, a. subclavia, è la parte iniziale del tronco destinato all'irrorazione dell'arto superiore: nasce a destra dal tronco anonimo, a sinistra dall'arco dell'aorta e giunge fino al margine inferiore della clavicola, ove si continua nell'arteria ascellare; ha un decorso curvilineo con la concavità rivolta in basso, che abbraccia l'apice pleurale; fornisce otto rami: a. vertebralis, a. mammaria interna, a. cervicalis profunda, a. intercostalis suprema, a. tyroidea ineferior, a. cervicalis ascendens, a. transversa scapulae, a. transversa colli. L'a. vertebrale, che è il ramo più grande, attraversa i canali trasversarî delle prime sei vertebre cervicali, penetra nel cranio per il foro occipitale e, riunendosi con la corrispondente dell'altro lato, forma l'a. basilaris, che alla sua volta si divide nelle due aa. cerebri posteriores. L'a. mammaria interna, poco più piccola della precedente, scende nel torace dietro le prime cinque cartilagini costali, poi come a. epigastrica superior procede lungo la parete addominale e si anastomizza con l'a. epigastrica inferiore.
L'arteria ascellare, a. axillaris, attraversa il cavo dell'ascella e giunta al margine inferiore del tendine del grande pettorale cambia nome e diviene arteria omerale; nel suo percorso fornisce cinque rami: a. thoracoacromialis, a. thoracalis laleralis, a. subscapularis, a. circumflexa humeri anterior et posterior.
L'a. omerale (a. brachialis) scende nel braccio lungo il solco bicipitale interno e, giunta alla piega del gomito, si divide in arteria ulnare e radiale; oltre a piccoli rami muscolari fornisce l'a. omerale profonda (a. profunda brachii) e due collaterali ulnari; queste tre arterie in corrispondenza del gomito si anastomizzano con le ricorrenti, che provengono dall'a. ulnare e radiale, formando un importante circolo collaterale. L'a. cubitale (a. ulnaris) decorre nella parte mediale della loggia anteriore dell'avambraccio e, pervenuta nella mano, anastomizzandosi con un esile ramo della radiale, forma l'arcata palmare superficiale: durante il suo percorso fornisce numerosi rami collaterali, tra i quali ricordiamo le due ricorrenti e l'interossea. L'a. radiale (a. radialis), più piccola della precedente, decorre nella parte laterale della regione anteriore dell'avambraccio e in corrispondenza dell'interstizio tra il tendine del m. brachioradiale e quello del grande palmare se ne può sentire il battito, polso della radiale; a livello dell'articolazione radiocarpica diviene dorsale, poi attraversa il primo spazio interosseo, ritorna palmare e forma l'arcata palmare profonda, anastomizzandosi col ramus volaris profundus della cubitale.
L'aorta toracica, a. thoracalis, fornisce rami numerosi ma piccoli, per cui il suo calibro non presenta una notevole diminuzione.
I suoi rami si dividono in parietali e viscerali. I parietali sono rappresentati dalle arterie intercostali (aa. intercostales), in numero di nove paia, destinate a nutrire tutti gli spazî intercostali meno i primi tre. I rami viscerali sono le aa. øsophageae, le aa. mediastinales posteriores, le aa. bronchiales (posteriores): queste ultime hanno una grande importanza perché forniscono il sangue arterioso ai polmoni.
L'aorta addominale, a. abdominalis, fornisce grossi rami collaterali divisi in parietali e viscerali.
I rami parietali sono rappresentati dalle aa. phrenicae inferiores per la faccia inferiore del diaframma e dalle aa. lumbales, che, in numero di quattro paia, irrorano le pareti dell'addome. I rami viscerali sono alcuni pari, cioè: l'a. suprarenalis media per le capsule surrenali, le aa. renales per i reni e le aa. spermaticae internae per le ghiandole genitali (a. testicularis nel maschio, a. ovarica nella femmina); altre impari, cioè: l'a. coeliaca, l'a. mesenterica superior e l'a. mesenterica inferior. L'a. celiaca è un grosso ma breve tronco, il quale si divide in tre rami, cioè nella a. coronaria stomachica (a. gastrica sinistra), che cammina lungo la piccola curvatura dello stomaco e si distribuisce principalmente a quest'organo, nell'a. splenica (a. lienalis), che cammina in un solco del margine superiore del pancreas, al quale dà rami e poi si distribuisce alla milza, contribuendo anche all'irrorazione dello stomaco e del grande omento, e nell'a. epatica (a. hepatica), che si distribuisce essenzialmente al fegato e alla cistifellea, ma contribuisce anche a irrorare lo stomaco, il grande omento, il pancreas e il duodeno. L'a. mesenterica superiore dà origine a numerosi rami, che, dopo essersi ripetutamente anastomizzati, si distribuiscono al digiuno, all'ileo, al cieco, all'appendice, al colon ascendente e alla parte destra del colon trasverso, contribuendo pure all'irrorazione del pancreas e del duodeno. L'a. mesenterica inferiore si distribuisce al resto del colon, al sigma colico e, con il ramo terminale detto a. haemorrhoidalis superior, al retto.
Dei tre rami terminali dell'aorta addominale l'a. sacralis media, che rappresenta la continuazione del tronco, è assai esile e fornisce un paio di arterie lombari e quattro paia di arterie sacrali mediali; invece le due iliache comuni (aa. iliacae communes), molto grandi, si portano in basso e all'esterno e giungono senza dare rami fino all'articolazione sacroiliaca corrispondente, ove si dividono in iliaca interna ed esterna.
L'arteria iliaca interna (a. hypogastrica) irrora gli organi intrapelvici, le pareti del bacino e i genitali.
Tra i numerosi rami che essa fornisee, i più importanti sono: l'a. umbilicalis, che durante la vita fetale porta il sangue venoso del feto alla placenta, l'a. glutaea, l'a. obturatoria, l'a. pudenda interna e inoltre l'a. deferentialis e l'a. prostatica nel maschio e l'a. uterina e l'a. vaginalis nella donna.
L'arteria iliaca esterna (a. iliaca externa), costeggiando il margine mediale del muscolo psoas, arriva all'arcata femorale e, dopo essere passata sotto questa, cambia nome e diventa arteria femorale.
Nel suo percorso fornisce due rami collaterali, l'a. epigastrica inferior e l'a. circumflexa ilium profunda.
L'a. femorale (a. femoralis) scende lungo la faccia anterointerna della coscia finché, attraversato l'anello del muscolo grande adduttore, passa nella regione posteriore e diventa arteria poplitea; irrora tutta la coscia e dà un ramo assai grande, l'a. profunda femoris.
L'a. poplitea, a. poplitea, scende profondamente nel cavo popliteo dando cinque rami articolari al ginocchio e, in corrispondenza dell'anello del muscolo soleo, si divide in arteria tibiale anteriore e tibiale posteriore. L'a. tibialis anterior irrora la regione anteriore della gamba e il dorso del piede. L'a. tibialis posterior irrora la regione posteriore della gamba e la pianta del piede per mezzo delle due aa. plantares lateralis e medialis. Poco dopo la sua origine la tibiale posteriore invia un ramo, l'a. peronaea; al breve tratto sovrastante all'origine della peronea molti dànno il nome di tronco tibioperoneo.
Capillari (vasa capillaria). - I capillari (v. capillari, vasi) sono vasi esilissimi interposti tra le ultime ramificazioni arteriose e le radici delle vene e permettono che attraverso le loro pareti avvengano gli scambî nutritizî tra il sangue e i tessuti.
A tal uopo essi presentano un calibro sottilissimo, in modo che venga enormemente aumentata la superficie di contatto con la massa sanguigna, e pareti esilissime e di struttura assai semplice, quindi atte a favorire gli scambî. Il calibro dei capillari è assai variabile; i più piccoli, come quelli dei nervi, dei muscoli, della retina possono avere un diametro di circa 5 μ; nei più grandi, come quelli dei villi placentari, il diametro può raggiungere i 40 μ. Bisogna però rilevare che lo stesso capillare può variare notevolmente il suo calibro a seconda dello stato funzionale dell'organo al quale appartiene. Ugualmente, a seconda dell'organo nel quale si trovano, i capillari formano reti, le cui maglie hanno forma e grandezza assai differenti. I capillari, almeno i più sottili, hanno le loro pareti formate da un unico strato, costituito da cellule endoteliali, i cui limiti però non sempre sono chiaramente dimostrabili.
Vene (venae). - Le vene (v. vena) sono vasi con pareti più sottili di quelle delle arterie, ma di calibro più grande, destinati a ricondurre il sangue dalla periferia negli atrî. Esse contengono sangue venoso, fatta eccezione per le vene polmonari e per l'ombelicale, che contengono sangue arterioso. Le vene ci presentano le valvole, che furono scoperte da Fabrizio di Acquapendente e sono costituite da ripiegature dell'intima in forma di tasche con la concavità rivolta verso il centro della circolazione, disposte a paia; le valvole permettono il passaggio del sangue in direzione centripeta, ma ne impediscono il riflusso; abbondantissime nelle prime epoche della vita fetale si vanno poi riducendo di numero fino all'età avanzata; quando sono situate presso lo sbocco di una vena si dicono ostiali. Nelle vene troviamo numerosissime le anastomosi e i plessi. Le vene sono molto più numerose delle arterie, poiché molte arterie sono accompagnate da due vene e le vene superficiali non hanno arterie satelliti. Le vene superficiali comunicano con le profonde per mezzo di vene perforanti. Dobbiamo distinguere le vene della piccola circolazione, che sono le polmonari, e le vene della grande circolazione, rappresentate dal seno coronario, dalla vena cava superiore e dalla cava inferiore.
Vene polmonari (venae pulmonales). - Le vene polmonari raccolgono il sangue che dopo aver attraversato i capillari polmonari è divenuto arterioso e lo portano nell'atrio sinistro; sono in numero di quattro, cioè due per ciascun polmone. Contrariamente a quanto avviene negli altri distretti circolatorî la somma delle loro sezioni è inferiore alla sezione dell'arteria polmonare.
Seno coronario (sinus coronarius). - Il seno coronario raccoglie la massima parte del sangue venoso delle pareti del cuore.
Vena cava superiore (vena cava superior). - La vena cava superiore, detta anche discendente, raccoglie il sangue venoso della porzione sopradiaframmatica del corpo e si forma a livello della prima cartilagine costale destra per la confluenza dei due tronchi venosi brachiocefalici destro e sinistro (vena anonyma dextra et sinistra). Ogni vena anonima è formata dalla riunione della vena succlavia con la giugulare interna corrispondente; riceve inoltre lo sbocco di alcune vene corrispondenti ai rami dati dall'arteria succlavia e il ductus thoracicus a sinistra, il ductus lymphaticus dexter a destra.
La vena succlavia (v. subclavia) è il tronco collettore di tutte le vene dell'arto superiore, le quali si dividono in profonde e superficiali; le profonde accompagnano le arterie avendo lo stesso nome e presentando lo stesso comportamento: le superficiali confluiscono in due vene, cioè nella v. cephalica e nella v. basilica; la prima sbocca nella parte prossimale, la seconda nella parte distale della v. ascellare.
La vena giugulare interna (v. iugularis interna) raccoglie tutto il sangue venoso intracraniale e molte vene della faccia e del collo: comincia in corrispondenza del foro lacero posteriore quale continuazione del seno laterale, scende lateralmente alla carotide interna e alla primitiva ricevendo le vene faringee, la facciale comune, la linguale, la tiroidea superiore e media. Il resto del sangue estracraniale è raccolto dalla vena giugulare esterna, che per solito sbocca nella succlavia.
Vena cava inferiore (v. cava inferior). - La vena cava inferiore raccoglie il sangue della parte sottodiaframmatica del corpo; comincia a livello del disco tra la 4ª e 5ª vertebra lombare per la riunione delle due vene iliache comuni, sale decorrendo a destra dell'aorta, attraversa il centro tendineo del diaframma e a livello della 9ª vertebra toracica sbocca nell'atrio destro. Oltre alle due vene iliache comuni, riceve molti altri rami, che sono distinti in parietali e viscerali. I parietali sono le venae lumbales e le venae phrenicae inferiores; i viscerali sono le venae renales, le venae suprarenales mediae, le venae spermaticae internae, le venae epaticae e la vena umbilicalis. La vena ombelicale ha una grande importanza durante la vita fetale, perché raccoglie il sangue arterioso dalla placenta e lo porta al feto: dopo la nascita si oblitera formando con la parte ventrale il legamento rotondo (ligamentum teres hepatis), con la parte dorsale il legamento venoso di Aranzio (ligamentum venosum). Le vene epatiche fanno parte di uno speciale circolo venoso, che si trova intercalato nel sistema della vena cava inferiore e che si dice circolo portale; la vena porta (vena portae) raccoglie tutto il sangue venoso proveniente dagli organi digestivi contenuti nella cavità addominale e lo porta al legato; questa vena risulta principalmente dalla confluenza di tre grossi tronchi, la v. lienalis, la v. mesenterica superior e la v. mesenterica inferior, sale verticalmente dietro la testa del pancreas e, raggiunto l'ilo del fegato, si divide a T in un ramo destro e in uno sinistro: questi rami penetrati nel fegato si dividono ripetutamente, finché si sciolgono in capillari, che attraversano radialmente i lobuli epatici e confluiscono nella vena centrale di questi; le vene centrali costituiscono le radici delle vene epatiche.
Le vene iliache comuni decorrono in compagnia delle arterie omonime e risultano ciascuna dalla confluenza della vena iliaca externa e della vena h5pogastrica, le quali raccolgono il sangue distribuito dalle corrispondenti arterie. Anche nell'arto inferiore, come nel superiore, dobbiamo distinguere una circolazione venosa profonda e una superficiale: la prima ha lo stesso comportamento della circolazione arteriosa; il sangue della seconda si raccoglie in due vene, cioe nella v. saphena parva, che sbocca nella v. poplitea, e nella v. saphena magna, che sbocca nella v. femorale.
Bisogna finalmente ricordare il sistema delle vene azigos, le quali stabiliscono una comunicazione tra il sistema della v. cava superiore e quello dell'inferiore. Abbiamo a sinistra la v. hemiazygos, a destra la v. azygos: quest'ultima riceve pure lo sbocco della hemiazygos e va a gettarsi nella cava superiore.
V. tavv. CXLI e CXLII e tav. a colori.
Per i vasi linfatici, i rapporti fra il sistema sanguifero e il linfatico, v. linfatico, sistema. Per la circolazione lacunare, v. lacunare, ststema.
Anatomia patologica.
Il "sistema sanguifero" o "sistema cardio-vascolare" è costituito dal cuore e dal grande e piccolo circolo, divisi questi in tre porzioni: arteriosa, capillare e venosa. Questo sistema con le sue ultime diramazioni compenetra tutti i tessuti dell'organismo per apportarvi il sangue arterioso necessario alla nutrizione e ai bisogni funzionali e per asportarne le scorie a mezzo del sangue venoso. Da questo intimo rapporto viene che qualunque alterazione colpisca il sistema o il suo contenuto, il sangue (che per essere in contatto con le pareti vascolari ne regola la nutrizione e lo stato anatomico), questa si ripercuoterà più o meno estesamente sull'organismo e così alterazioni che s'istituiscono su qualunque parte dell'organismo, si ripercuoteranno sul sistema e talora sul suo contenuto, il sangue.
Esistono così alterazioni primitive e secondarie del sistema, tutte aventi sempre una ripercussione sullo stato anatomico e funzionale dell'organismo, proporzionata alla loro estensione e alla loro gravità, e tanto più frequenti a osservarsi quanto più si prolunga la vita. Infatti con la senilità si fanno sempre più sentire sul sistema le comuni cause morbose di ordine fisico, meccanico, chimico, infettivo, ecc., che in grado maggiore o minore cimentano continuamente, nello svolgersi della vita, l'organismo e quindi anche il suo sistema sanguifero. È utile così descrivere le alterazioni che possono colpire il sistema, non più solo dal punto di vista anatomico, o anatomico e funzionale insieme (per cui v., p. es.: aneurisma; aorta; arteriosclerosi; flebite; vena), ma nella loro correlazione, nella loro ripercussione viscerale, per facilitare così la comprensione di manifestazioni morbose che talora sono di difficile interpretazione patogenetica.
Nelle varie porzioni del sistema sanguifero e specialmente nel cuore si possono avere malformazioni congenite; alcune così gravi da impedire che il circolo si compia, quindi incompatibili con la vita, altre pur gravi ammettono compensi che rendono la vita possibile generalmente fino alla pubertà. In questi casi il rallentamento del circolo è specialmente sensibile nelle parti distali, che per il sovrariempimento di sangue venoso si fanno cianotiche (morbo ceruleo), e negli organi molto vascolarizzati (milza, fegato, polmoni, reni, ecc.), che ne restano fortemente alterati.
Oltre a queste malformazioni circoscritte se ne ammettono oggi altre legate alla costituzione dell'individuo, più facilmente disposto, a seconda dell'alterazione costituzionale, a gruppi ben determinati di malattie, alle quali l'individuo può difficilmente sottrarsi.
Infatti dalla primitiva classificazione di R. Beneke che considerava come fondamentali due combinazioni anatomiche, l'una con tendenza ipoplastica (piccoli: il cuore, le arterie, il fegato; e grandi: i polmoni), l'altra con tendenze opposte, cioè uno sviluppo eccedente del cuore con arterie, fegato, intestino e polmoni, piccoli, e che portò A. De Giovanni a ritenere necessaria per la definizione dell'individualità la misurazione del cuore nel vivente nelle sue metà destra e sinistra, si arriva oggi a conoscere nell'indagine antropometrica la necessità della determinazione della grandezza e della forma del cuore, giacché ad alterazioni di forma e di grandezza corrisponde pure uno squilibrio anatomico proporzionale di formazione di tutto l'apparato vascolare, al quale si riconosce che ne corrisoonde uno funzionale che, clinicamente, si valuta determinando la frequenza e il ritmo del battito cardiaco, la pressione arteriosa e il modo di reagire del cuore allo sforzo. Così vediamo, seguendo G. Viola, che nel brachitipo megalosplancnico, nel quale si ha un cuore voluminoso con predominio della parte destra sulla sinistra con maggiore inclinazione dell'asse longitudinale, si ha una pressione e una frequenza maggiore del polso che nei longitipi e una maggiore resistenza allo sforzo e si ha una spiccata tendenza morbosa all'ipertrofia cardiaca, all'aterosclerosi per ipertensione (e da ciò epistassi, apoplessia), angioneurosi (claudicazione intermittente), crisi vascolari intestinali, emicrania angioplastica, asfissie alternanti, morbo di Raynaud, mentre nel sangue si ha spesso pletora, policitemia, ipertonia, eosinofilia, ipercolesterinemia; invece nel longitipo microsplancnico che ha un'ipoplasia del cuore e dei grossi vasi, (clorosi vascolare), una bassa pressione talora con tachicardia e frequenti soffî venosi al collo, si ha tendenza morbosa alla palpitazione, alla stenosi mitralica, all'ipertrofia del ventricolo sinistro, all'epistassi, al varicocele.
Oggi poi il concetto di costituzione va estendendosi dal campo puramente macroscopico anche al campo microscopico e cioè all'intima struttura delle pareti vascolari, e così s'intravvede la possibilità che deviazioni dalla struttura normale di queste (e specialmente nei rapporti che possono esistere fra elementi elastici ed elementi muscolari) e ricordanti filogeneticamente disposizioni strutturali presenti in animali a noi inferiori, possono predisporre a determinate alterazioni, cosa questa che s'è già dimostrata avvenire negli aneurismi dissecanti (A. Cesaris-Demel).
Il sistema sanguifero è un sistema canalicolare chiuso, nel quale possono avvenire soluzioni di continuità. Se queste sono piccole e dei piccoli vasi, sono prontamente riparate dalla formazione di trombi, che si formano pure per riparare ferite più estese o lacerazioni date da degenerazioni o infiammazioni delle pareti vascolari; successivamente le ferite alla parete si riparano per mezzo di un tessuto cicatriziale senza che le fibre muscolari lisce si riproducano. Negl'individui, invece, ereditariamente emofiliaci il trombo non si forma e ne possono venire emorragie continuate, talora mortali. Ferite, invece, estese di vasi cospicui dànno emorragie che, se non frenate, possono essere mortali, e ferite o degenerazioni a tutto spessore nelle pareti del cuore possono pure riuscire mortali, perché il sangue, raccogliendosi in grande quantità nel pericardio, impedisce la mobilità del cuore, il quale del resto può subire un arresto improvviso quando una ferita pur piccola interessi a tutto spessore quel fascio muscolare bene differenziato (fascio di conduzione atrioventricolare) o fascio di Paladino-His, che trasmette l'impulso motore dalle orecchiette ai ventricoli, regolandone il ritmo.
Se invece le pareti dei vasi o del cuore subiscono per causa patologica, in un punto più o meno esteso, una diminuzione nella loro resistenza, se la pressione del sangue aumenta, si sfiancano e si formano così gli aneurismi, i quali prendono nomi diversi a seconda della loro forma. Causa più frequente degli aneurismi è la sifilide che per i focolai infiammatorî che determina in tutta profondità della parete dei grossi vasi arteriosi, là dove elementi muscolari ed elastici insieme intrecciati dànno tonicità al vaso, li altera e il vaso finisce con lo sfiancarsi. Gli aneurismi, se piccoli hanno tendenza alla guarigione per obliterazione trombotica del sacco; se voluminosi, possono dare gravi danni per compressione di nervi o di organi vicini e, per la rottura, con emorragie mortali.
Il sistema sanguifero può presentare dilatazioni e restrizioni che possono essere in rapporto ad alterazioni quantitative del contenuto (sangue) o ad alterazioni anatomiche del contenente, cioè delle pareti del cuore e dei vasi.
La quantità in aumento del sangue, cui segue una modica dilatazione generale del sistema, può dipendere da un aumento della quantità totale del sangue che rimane normale nei suoi costituenti (pletora vera) o ad aumento della sola parte liquida (pletora idremica) o dei soli globuli rossi (poliglobulia). Una diminuzione della quantità del sangue (oligoemia, anemia), con leggiera restrizione del sistema, si può avere dopo perdite di sangue (che, se leggiere, sono presto riparate) o comunque di liquidi dall'organismo (diarree profuse, sudorazioni), che se eccessive rendono impossibile (come nel colera) la circolazione del sangue che s'ispessisce (anidremia), e si ha la morte per asfissia.
Dilatazione del cuore e dei vasi da causa anatomica possono prodursi in condizioni diverse. Il cuore può dilatarsi acutamente per un eccesso di lavoro quando le necessità funzionali superino le sue forze li riserva, e ciò avviene tanto più presto quando la muscolatura del cuore sia precedentemente alterata, e continuando la causa perturbatrice, alla dilatazione può seguire l'arresto del cuore. Se la richiesta di maggiore lavoro, pur ripetuta, non è eccessiva, il cuore lavorando di più s'ipertrofizza in toto e si forma il cosiddetto cuore bovino (frequente a prodursi negli atleti), che poi degenerando si dilata e si fa insufficiente alla funzione.
Altre volte le dilatazioni a seconda delle cause (generalmente sono vizî valvolari cardiaci) sono localizzate all'una o all'altra cavità, nelle quali corrispondentemente s'istituisce l'ipertrofia muscolare della parete, e fino a che non interviene la degenerazione, si ha il compenso nella funzione del cuore (vizî compensati).
Altre cause extracardiache dànno dilatazioni e stati ipertrofici totali o parziali, così l'enfisema polmonare, le polmoniti croniche, gli abbondanti essudati pleurici, l'aterosclerosi dei minuti rami dell'arteria renale.
Quando invece si abbia dilatazione dei vasi con sovrariempimento di sangue a seconda del territorio colpito, si ha l'iperemia, che può essere o arteriosa e attiva, o venosa e passiva, l'una e l'altra, tante volte, determinate unicamente per azione dei nervi vasodilatatori, che, irritati nel loro centro di origine o nel loro decorso, fanno perdere la tonicità alle fibrille muscolari lisce della parete vascolare.
L'iperemia attiva accompagna sempre il ridestarsi di ogni attività funzionale e persiste fino a che questa dura. Altre volte rappresenta il primo stadio del processo infiammatorio e per essa i tessuti si fanno turgidi e vivamente arrossati; nel secondo stadio poi le pareti vasali iperdistese lasciano fuoriuscire la parte liquida del sangue e, in varia proporzione, gli elementi corpuscolari e si parla allora di essudazione, che può assumere vario nome a seconda degli elementi dei quali è in prevalenza costituita: essudazione sierosa (detta anche edema acuto infiammatorio), fibrinosa, purulenta, emorragica, ecc. Nelle infiammazioni, sia da causa chimica, sia da agenti patogeni, le pareti vascolari possono erodersi e da ciò infiltrati emorragici perivascolari, o per lesioni profonde dell'intima si formano dei trombi che possono rompersi, e i frammenti portati in circolo s'incuneano nei vasi arrestandosi e rendendo anemica la zona alla quale il vaso occluso si distribuiva. Se il vaso è terminale, nella zona a cuneo priva di sangue e che ha la forma di cuneo (infarto) s'istituiscono fatti necrotici: la massa mortificata viene poi riassorbita e ne residua una cicatrice. Pericolosi sono gl'infarti quando nell'embolo si trovino (come avviene nell'endocardite ulcerosa) agenti patogeni, che là dove l'embolo si arresta dànno luogo a nuovi focolai infiammatorî. Emboli si possono avere anche per spappolamento di tessuto adiposo, contuso e ferito, e allora in circolo passano gocciole adipose che per la loro viscosità si soffermano in distretti capillari diversi (polmone, rene, cervello, nel quale ultimo ischemizzando centri importanti possono dare anche la morte). Si hanno anche embolismi di gas per penetrazione diretta di aria nelle vene, o quando nel sangue, per passaggio dell'individuo da una forte pressione alla pressione normale, o dalla pressione normale a una pressione più bassa, si liberino, a forma di bollicine gassose, i gas che nel sangue sono disciolti. Elementi cellulari diversi possono, penetrando nei vasi, costituirvi emboli e ciò avviene fisiologicamente per alcuni elementi del midollo, che, arrestati nei capillari polmonari, vi vengono distrutti; più grave è il passaggio di cellule provenienti da tumori maligni, che là dove si soffermano riproducono un nuovo nodo del tumore stesso. Ciò si avvera per il sarcoma, meno spesso per il carcinoma, che si diffonde preferibilmente per la via dei vasi linfatici.
L'iperemia venosa o passiva può interessare tutto il sistema, quando il cuore destro insufficiente si sfianca e rende difficile il ritorno del sangue venoso, il quale ristagna negli organi, con danni più sensibili in quelli, come il polmone, fegato, milza, che sono maggiormente vascolarizzati e che per l'insufficiente nutrizione cadono in preda a processi degenerativi con esito poi in indurimento (indurimento cianotico). In questi casi l'iperemia venosa si manifesta prima di tutto nelle estremità, che si fanno turgide, di un colore bluastro e nei grossi vasi superficiali della cute e delle mucose, vasi nei quali si formano ingrossamenti nodulari, varici, che possono rompersi e dare emorragie, e ulcerarsi ed essere punto d'ingresso di agenti patogeni.
Se l'iperemia venosa dura a lungo, dalle pareti vascolari dilatate e mal nutrite facilmente avviene una trasudazione di siero, si ha cioè l'edema. Questo compare nei vizî cardiaci prevalentemente agli arti inferiori e può gradatamente istituirsi in tutto il corpo e nelle cavità sierose (e in questo caso di edemi generalizzati si parla di anasarca); nel caso della cirrosi, si produce in rapporto ai vasi tributarî della vena porta (idropeascite). Specialmente grave è l'edema quando, producendosi nelle varie porzioni dell'apparato respiratorio, v'induce ostruzioni, impedimento all'entrata dell'aria e quindi asfissia.
Tossici di origine endogena od esogena, cause fisiche diverse agenti sul sangue possono determinare degenerazioni varie e nel cuore e nei vasi e nell'uno e negli altri colpendo a volta a volta con maggiore prevalenza o gli elementi connettivali, o i muscolari o gli elastici, dimostrandosi così che ogni causa morbosa presenta uno speciale tropismo non solo di organo ma anche di elemento. L'individuo però risente danno, più che dalle alterazioni per sé stesse, dai disturbi di circolo dei quali si è parlato e ciò in rapporto alle vasodilatazioni e vasocostrizioni che agli stati degenerativi sono legate, per cui molte volte è più grave l'alterazione dell'organo al quale il vaso alterato porta il sangue, che non quella del vaso stesso.
Una per una poi le alterazioni degenerative che prediligono il sistema possono iniziarsi dal cuore e diffondersi ai vasi, o inversamente; raro il caso che s'istituiscano contemporaneamente. L'atrofia del cuore è sempre in rapporto a un fatto involutivo (senilità, inanizione) ed è dato da un assottigliamento degli elementi muscolari, nei quali avviene anche un addensamento di pigmento (atrofia bruna). Si può avere atrofia anche per un'eccessiva infiltrazione di grasso in profondità del miocardio. All'atrofia è legato un rallentamento del circolo e un abbassamento della pressione. Nei vasi l'atrofia è fisiologica, se conduce alla distruzione di vasi non più necessarî, come i vasi ombelicali dopo la nascita, i vasi uterini dopo il parto; e patologica, se conduce alla riduzione numerica e all'assottigliamento degli elementi muscolari ed elastici della parete che si fa ectasica e talora sclerotica.
La degenerazione albuminosa, trascurabile nei vasi, è frequente nel miocardio e vi è prodotta da cause diverse tossiche o, per mancanza di ossigeno, da stasi. Indebolisce il cuore, ma levata la causa, si risolve. Se questa permane, segue la degenerazione grassa che può condurre alla morte e lo stesso si ha, come negli obesi, se il grasso in eccesso infiltra il miocardio. Alle volte la degenerazione grassa è visibile per un aspetto tigrato del muscolo, altre volte è diffusa. Meno grave è quando si presenta a forma di piccole isole giallastre, talora visibili sotto l'endocardio. Nei gravi stati tossici poi interessa, nella parete, esclusivamente endoteliale, i capillari e i precapillari e costituisce poi gran parte delle alterazioni che nei varî strati delle pareti vascolari s'istituiscono nell'aterosclerosi.
Nelle pareti dei vasi (raramente nel cuore) in infiammazioni croniche (tubercolari e suppurative associate) e in intossicazioni proteiche, compare la degenerazione amiloide, caratterizzata da una sostanza omogenea che ne riduce, fino ad abolirlo, il lume. All'ischemia che ne deriva gli organi reagiscono con fatti degenerativi varî (atrofia, degenerazione grassa), per cui la degenerazione amiloide non si presenta mai sola.
Simile a questa, perché conduce del pari a un'omogeneizzazione della parete con obliterazione del lume vascolare, è la degenerazione ialina che pure si osserva nelle infiammazioni croniche conducendo a profonde alterazioni degenerative e successivamente sclerotiche degli organi. La degenerazione o meglio la precipitazione calcarea (data da fosfati o carbonati di calcio o di magnesio) è pure frequente nei vasi e avviene in elementi nei quali per causa morbosa sia diminuita la resistenza vitale. Ciò avviene nelle fibre muscolari della media esaurite per un eccesso di contrazione (avvelenamento da adrenalina) o distrutte da fatti infiammatorî, e nell'intima successivamente alle degenerazioni che s'istituiscono nelle placche iperplastiche, proprie del processo aterosclerotico. Se il processo è esteso, si ha l'arteriolitiasi, e i vasi si fanno rigidi e fragili. Non nel cuore, ma nei vasi, fu vista comparire in alcune condizioni morbose una speciale sostanza a reazione metacromatica detta sostanza cromatropa o mucoide e da ciò il nome di degenerazione mucoide. Nome errato, giacché la sostanza mucoide oggi è considerata come una speciale varietà di connettivo sempre presente nei vasi, nella compagine della quale s'inizierebbero appunto la degenerazione grassa e la calcificazione, così frequente ed estesa nell'aterosclerosi. La necrosi delle pareti vascolari è spesso concomitante alla degenerazione grassa e alla calcificazione e si è dimostrata oggi frequente, nella media dell'aorta, nell'aterosclerosi, mentre un tempo si riteneva esclusivamente localizzata all'intima.
Nel sistema sanguifero non si conoscono infiltrazioni pigmentarie e sarebbe utile ricercare la glicogenica in quanto prove sperimentali (Michelazzi) hanno dimostrato un aumento di glicogeno nel cuore di animali castrati o per azione di adrenalina, mentre la tirotoxina lo fa scomparire. L'aterosclerosi è un processo degenerativo e iperplastico insieme, che è frequente nei vasi e da questi può scendere a interessare il cuore nelle valvole dell'aorta e nella mitrale. Si trova in tutte le età per quanto più frequente nei vecchi. Tossici varî ed esagerata funzione possono determinarla.
Nei grossi vasi s'inizia dall'intima che s'ispessisce; poi subentrano degenerazioni che colliquano le placche d'ispessimento, che si rammolliscono, le placche si ulcerano, i bordi si calcificano e si stabiliscono così condizioni propizie alla formazione di trombi. Nei medî vasi seguono alle degenerazioni le sclerosi e l'ectasia, nei piccoli l'obliterazione. Non esiste rapporto fra aterosclerosi superficiale e profonda. Se è localizzata, al suo istituirsi seguono alterazioni caratteristiche nell'organo irrorato (es.: rene e fegato arteriosclerotici) e nel cervello predispongono all'apoplessia e ai rammollimenti. Nelle coronarie cardiache talora determinano sindromi anginose, le quali però possono essere sostenute anche da spasmi vascolari di coronarie inalterate.
Le infiammazioni acute delle arterie, specifiche o meno, date da germi circolanti o presenti nei tessuti perivascolari interessano generalmente tutta la parete (panarteriti). Interessata l'intima si formano i trombi (tromboarterite). Alcune infezioni a virus ignoti (malattie esantematiche, encefalite reumatica, rabbia, reumatismo, ecc.) dànno infiltrati infiammatorî solo nei tessuti perivascolari. Per le mio-endo-pericarditi, v. cuore. Tra le manifestazioni più gravi della sifilide terziaria sono quelle localizzate ai vasi. Specialmente colpita è l'aorta ascendente (e di qui la facile diffusione alle coronarie cardiache con sintomi anginosi) nella sua tonaca media, dove s'istituiscono focolai multipli infiammatorî (mesoarterite) predisponenti alle dilatazioni aneurismatiche. Nelle piccole arterie si ha invece l'endoarterite obliterante (frequentissima nei vasi cerebrali) con facili ostruzioni vascolari, seguita dai ricordati disturbi gravi di circolo.
Rari sono i tumori primitivi del cuore e dei vasi (angiomi nelle loro varie forme). Più importante è la partecipazione che i vasi presentano nella diffusione dei tumori, con il trasporto embolico, che si può avere in essi a mezzo del sangue, di elementi staccatisi da neoplasmi e conducenti alla produzione metastatica di nuovi nodi del tumore stesso.
Fisiologia.
I. Il cuore. - Il cuore sospinge incessantemente il sangue in un sistema chiuso di vasi e lo fa circolare attraverso l'albero circolatorio in senso irreversibile. I vasi non si comportano passivamente come tubi rigidi, ma prendono parte attiva alla propulsione del sangue. L'arresto della circolazione non è compatibile con la vita, perché verrebbero a mancare con essa gli scambî gassosi tra l'individuo e l'ambiente esterno e gli scambî umorali tra organo e organo. Il cuore nell'uomo e negli animali superiori (fig. 1) è diviso in due sezioni da un setto verticale. In ciascuna di queste sezioni si può distinguere una parte superiore (l'atrio) e una parte inferiore (il ventricolo), comunicanti tra loro attraverso a una valvola che permette il flusso del sangue solamente dall'atrio al ventricolo. La parte sinistra del cuore riceve il sangue ossigenato dai polmoni e lo sospinge nell'aorta. Dall'aorta prosegue il suo corso nelle altre arterie che a mano a mano si riducono di diametro e si suddividono alla fine in esili capillari che penetrano nei tessuti e negli organi. Il sangue passa poi dai capillari nelle vene, che, confluendo in vene sempre più grosse, riportano il sangue all'atrio destro. Di qui il sangue passa nel ventricolo destro e viene spinto nell'apparecchio polmonare (fig. 2) dove, attraverso un nuovo sistema capillare ritorna all'atrio sinistro per ricominciare una nuova circolazione. Si distinguono così una grande circolazione che porta il sangue dal ventricolo sinistro all'atrio destro attraverso il circolo capillare periferico, e una piccola circolazione che porta il sangue dal ventricolo destro ai capillari del polmone e da questi all'atrio sinistro. Una parte del sangue che compie la grande circolazione deve attraversare due distinti distretti capillari. Il sangue che ha irrorato lo stomaco, l'intestino, il pancreas e la milza, anziché raggiungere direttamente l'atrio destro, sbocca nella vena porta, che si suddivide nel fegato in un nuovo sistema di capillari dal quale il sangue, attraverso le vene sopraepatiche, raggiunge il cuore. Anche nell'attraversare il rene il sangue passa per due distinte reti capillari: quella dei glomeruli e quella dei tubuli. La fig. 3 rivela i particolari della circolazione arteriosa e venosa addominale. La fig. 4 mette in evidenza come il fegato possegga due circolazioni; delf'arteria epatica che v'immette sangue arterioso, e della vena porta che vi immette il sangue venoso proveniente dall'intestino, carico dei prodotti della digestione. Le pareti muscolari del ventricolo sinistro sono notevolmente più sviluppate di quelle del ventricolo destro, e a ciò corrisponde il maggiore lavoro che spetta al primo per spingere il sangue nell'albero arterioso (fig. 5). La fig. 6 indica le aree di proiezione delle varie parti del cuore sulla parete anteriore del torace. La contrazione delle pareti del cuore si chiama sistole; la dilatazione delle cavità cardiache diastole. Si ha dunque una sistole e una diastole dei ventricoli e degli atrî. La sistole dei primi si alterna con la diastole dei secondi e così la diastole dei primi con la sistole dei secondi. Durante la sistole la base del cuore si sposta verso la punta e diminuisce il diametro trasverso, rimanendo quasi invariato il diametro antero-posteriore; tutto il cuore si sposta verso la linea mediana e, con perno sulla base, ruota da sinistra a destra. Durante la sistole il ventricolo sinistro si viene. così a trovare davanti al ventricolo destro.
Le valvole del cuore. - Il sangue sospinto dalla contrazione del miocardio circola in un unico senso, perché un doppio sistema valvolare non permette il deflusso in senso contrario. Le valvole atrio-ventricolari impediscono il reflusso del sangue dal ventricolo all'atrio durante la contrazione, mentre le valvole semilunari dell'aorta e dell'arteria polmonare impediscono il ritorno del sangue dai grossi vasi arteriosi al ventricolo durante la diastole (fig. 7). Non ci soffermeremo sulla descrizione anatomica delle valvole, limitandoci a rappresentare nella figura 8 la valvola mitrale come esempio di valvola atrioventricolare e nella fig. 9 le valvole semilunari aortiche come esempio di valvole ventricoloarteriose. Durante la diastole il sangue fluisce dagli atrî ai ventricoli, nei quali esiste una pressione bassissima, ma appena ha inizio la contrazione sistolica, le valvole atrio-ventricolari si chiudono e i margini liberi si accostano intimamente gli uni agli altri così da impedire il benché minimo reflusso dai ventricoli agli atrî. La chiusura di queste valvole è istantanea e così non si ha neppure traccia di reflusso, malgrado la notevole differenza di pressione che si forma durante la sistole ventricolare fra le cavità dei ventricoli e quelle degli atrî. Iniziandosi la diastole, con il rilasciarsi dei ventricoli la differenza di pressione fra atrî e ventricoli s'inverte. Negli atrî, durante la contrazione ventricolare s'era andato accumulando sangue, e così le valvole atrio-ventricolari si aprono permettendo l'afflusso al ventricolo. Nella prima fase della sistole si contraggono anche i muscoli papillari che, tirando i tendini inseriti sui margini delle valvole, impediscono il rovesciamento di queste (fig. 10). Le valvole atrio-ventricolari si chiudono un tempuscolo prima che s'inizi la sistole ventricolare, e, se così non fosse, un po' di sangue rischierebbe di refluire negli atrî. Durante la sistole degli atrî, mentre la spinta esercitata dal sangue mantiene aperte le valvole atrio-ventricolari, d'altra parte si forma un vortice di rigurgito che, diretto dall'apice alla base del ventricolo, sospinge i veli valvolari e tende chiudere le valvole. Sottoposte a queste due forze che agiscono in direzione contraria le valvole assumono, durante la sistole atriale, una posizione di semiapertura, mentre poi, cessata la contrazione degli atrî, prevale la pressione provocata dal reflusso sulla faccia ventricolare delle valvole stesse, e queste vengono chiuse. La chiusura delle valvole atrioventricolari si compie pertanto con il finire della contrazione atriale, e prima che s'inizi la sistole ventricolare il che, come dicemmo, ìmpedisce che il sangue refluisca negli atrî durante l'inizio della sistole ventricolare. Durante la prima fase di questa tutte le valvole del cuore sono chiuse e il sangue, compresso dalla contrazione del miocardio, rimane nei ventricoli fino a che la pressione ventricolare, superata la pressione nelle grosse arterie, non apra le valvole semilunari e spinga il sangue rispettivamente nell'aorta e nell'arteria polmonare. Il meccani2mo idraulico del funzionamento delle valvole semilunari non è dissimile da quello che si è descritto per le valvole atrio-ventricolari.
G. Ceradini ne ha dato la spiegazione. Durante la sistole ventricolare, poiché la pressione nel ventricolo supera quella che esiste nell'arteria, le valvole semilunari si aprono al passaggio del sangue, ma contemporaneamente si forma un vortice centripeto diretto verso il cuore che tende a ribattere le valvole. Sottoposte a queste due forze di contraria direzione, le valvole semilunari fluttuano in posizione di semiapertura, finché nel momento in cui il sangue cessa di uscire dal ventricolo, prevalendo la forza provocata dal vortice centripeto, le valvole si chiudono. La chiusura delle valvole semilunari avviene quindi nel momento in cui cessa la sistole ventricolare e prima che cominci la diastole. Viene in tal modo sicuramente impedito il reflusso del sangue che potrebbe aver luogo se la diastole s'iniziasse a valvole ancora aperte.
Il Ceradini ha potuto dare la dimostrazione del modo di funzionare delle valvole semilunari mediante lo speculum cordis (fig. 11).
I toni cardiaci. - Applicando l'orecchio alla parete toracica sulla regione cardiaca o ascoltandc per mezzo di uno stetoscopio o di un fonendoscopio si ode un complesso di suoni che si susseguono ritmicamente ed è formato da due diversi toni. Il primo tono è più lungo, più grave e oscuro, il secondo tono è breve, alto e chiaro. Il primo tono è separato dal secondo da un breve silenzio, mentre una pausa assai più lunga separa il secondo tono dal primo. Il primo tono coincide con la sistole del cuore e precisamente s'inizia con la contrazione delle fibre del miocardio e termina con la sistole. Il secondo tono coincide con il rilasciamento diastolico e corrisponde al momento in cui le valvole semilunari si mettono in tensione. I toni del cuore non sono suoni in senso musicale, ma piuttosto rumori; si suole tuttavia denominarli toni per distinguerli dai rumori che si generano in condizioni patologiche. Il primo tono è determinato dalla fusione di diversi suoni che si generano nel cuore durante la sistole. L'elemento fondamentale che concorre alla produzione del primo tono è la contrazione del muscolo cardiaco. D'altra parte la tensione delle valvole atrioventricolari durante la sistole e la vibrazione delle valvole semilunari durante il passaggio della colonna sanguigna nelle grosse arterie producono suoni che si sovrappongono al rumore generato dal miocardio e concorrono alla formazione del primo tono. Secondo il punto della regione precordiale che si sceglie per l'ascoltazione, si potrà percepire prevalentemente la manifestazione acustica valvolare o quella muscolare. Il secondo tono è prodotto dalle vibrazioni che accompagnano la distensione brusca delle valvole semilunari. Si ascolta più chiaro e più netto alla base del cuore. La simultaneità con la quale avvengono le diverse fasi della rivoluzione cardiaca del cuore destro e del cuore sinistro fa sì che si possano ascoltare solamente due toni, anziché quattro, come in realtà si producono. Vi sono particolari punti della parete toracica dove i toni prodotti dalle diverse valvole del cuore possono essere meglio ascoltati e ciò permette di apprezzare separatamente le eventuali alterazioni delle singole valvole. Alla trasmissione del fenomeno acustico prodotto da una valvola concorre anche l'orientamento della valvola stessa e della colonna liquida che attraversa. Perciò il focolaio di ascoltazione della valvola mitrale non corrisponde alla sede di proiezione della valvola stessa sulla parete toracica, che si trova all'inserzione della terza cartilagine sinistra sullo sterno, ma è spostato molto più in basso sulla sede dell'urto della punta. Per la stessa ragione, il primo tono destro viene ascoltato meglio sull'apofisi xifoide dello sterno che sull'inserzione sternale della quarta cartilagine costale sinistra, che corrisponde alla proiezione della tricuspide. Le valvole semilunari aortiche stanno press'a poco sotto la linea mediana dello sterno, all'altezza della terza cartilagine costale, ma il secondo tono sinistro si percepisce con maggiore intensità al secondo spazio destro vicino allo sterno. Per le valvole semilunari delle arterie polmonari il focolaio di ascoltazione si confonde col focolaio anatomico di proiezione che si trova sul margine sinistro dello sterno, nel secondo spazio intercostale. Per l'analisi più particolareggiata dei toni del cuore si è ricorso alla registrazione grafica, che permette di raffrontare i momenti della produzione dei diversi suoni alle diverse fasi della rivoluzione cardiaca e alle modificazioni di pressione che si generano nelle cavità durante la rivoluzione stessa. Questa registrazione venne attuata da W. Einthoven applicando al torace un microfono collegato a un circuito elettrico primario, che provoca la comparsa di un'extracorrente indotta in un circuito secondario, nel quale è inserito un galvanometro a corda (fig. 12). La fig. 13 mostra le fasi della rivoluzione cardiaca e come ad essa corrispondano i toni del cuore.
La misura della pressione nelle cavità del cuore si ottiene introducendo una sonda per la carotide e per l'aorta nel ventricolo sinistro (superando le valvole semilunari), oppure nel ventricolo destro attraverso una vena giugulare.
La sonda ideata da J.-B.-A. Chauveau e E.-J. Marey per indagare simultaneamente le variazioni di pressione nelle due cavità del cuore destro, è costituita da due tubicini semirigidi che terminano ciascuno a un'estremità con un'ampolla elastica (fig. 14). Le due ampolle vengono introdotte attraverso una vena giugulare nel cuore destro, in modo che una rimanga nella cavità dell'atrio e una discenda nella cavità del ventricolo. L'estremità libera di ciascuna delle due cannule è connessa a un tamburo registratore.
Una sonda ad ampolla unica è stata usata dagli stessi fisiologi per il ventricolo sinistro. Si deve tarare il sistema sonda-cardiografo registratore in modo da conoscere esattamente in mm. di mercurio o di acqua i valori corrispondenti ai diversi punti dei tracciati ottenuti contemporaneamente dal ventricolo sinistro e dalle due cavità del cuore destro (fig. 15).
Alla sistole delle orecchiette corrisponde un forte sollevamento della curva e le piccole oscillazioni successive sono dovute a modificazioni di pressione provocate dalla contrazione ventricolare. La lenta salita che precede la nuova sistole atriale è dovuta al graduale aumento di pressione che si produce nell'atrio durante la diastole a cagione dell'afflusso continuo di sangue delle vene. Il tracciato delle variazioni di pressione nei ventricoli segna un piccolo aumento di pressione che corrisponde alla sistole dell'orecchietta. Segue a breve distanza un aumento molto notevole della pressione endoventricolare, che corrisponde alla sistole dei ventricoli. La curva rimane per qualche tempo elevata seguendo una linea orizzontale lievemente ondulata, per poi ridiscendere bruscamente sotto ai valori iniziali. I valori assoluti delle pressioni endoventricolari, quali vengono forniti dalle sonde manometriche, variano notevolmente da un animale all'altro. La pressione massima del ventricolo sinistro è approssimativamente tripla di quella del ventricolo destro, ma un rapporto costante fra queste due pressioni non si può stabilire, perché alle ampie modificazioni che si possono artificialmente provocare nelle arterie nella grande circolazione corrispondono sempre modificazioni molto piccole della pressione nel piccolo circolo. La contrazione dell'orecchietta non ha grande efficacia sul riempimento sistolico dei ventricoli, e solamente riesce ad accelerare il fluire del sangue. Infatti anche durante la fibrillazione auricolare, che rende inefficace la contrazione dell'orecchietta, la pressione e la quantità di sangue che esce dall'aorta non diminuiscono che poco.
L'urto del cuore. - Appoggiando una mano sul quarto quinto spazio sinistro, lungo la linea emiclaveare, s'avverte un sollevamento ritmico della parete toracica che nei soggetti magri si può anche facilmente vedere. Mutando la posizione del corpo il cuore si sposta e perciò si sposta anche la sede dell'urto della punta. L'urto del cuore è provocato dall'irrigidirsi del miocardio durante la sistole ventricolare. Durante la diastole il cuore afflosciato mantiene la posizione che gli è imposta dalla forza di gravità e dai diversi organi che lo circondano, mentre durante la sistole oltre ad aumentare improvvisamente di consistenza, acquista la sua forma caratteristica allungata e piriforme. Per registrare l'urto del cuore nell'uomo (cardiogramma) s'applica al torace un imbuto di vetro connesso con un tamburino registratore di Marey (fig. 16). La fig. 17 rappresenta diverse forme di cardiogramma dell'uomo.
La forza e il lavoro del cuore. - La forza esplicata dalla contrazione sistolica del ventricolo viene misurata dalla pressione che le sue pareti esercitano sul sangue durante la sistole. Praticamente si suole valutare la forza esercitata da 1 cm. quadrato della superficie interna del ventricolo calcolando il peso in grammi della colonna di mercurio che corrisponde alla pressione massima. Il cuore per espellere a ogni sistole un certo volume di sangue impartendogli una certa velocità, deve vincere le resistenze offerte dal letto arterioso. Chiamando gettata sistolica la quantità G di sangue che viene espulsa dal cuore a ogni sistole, e moltiplicando il numero che la esprime per il valore della pressione, si conoscerà quella parte del lavoro cardiaco che è impiegata a vincere la pressione stessa. Se si vuol considerare anche il lavoro speso per conferire al sangue un incremento di velocità (forza viva), si deve calcolare il lavoro del cuore per ogni sistole e per ciascun ventricolo secondo la formula:
dove L è il lavoro espresso in grammetri, P la pressione media dinamica in ciascuna delle due arterie efferenti, V la velocità in metri al minuto secondo e g l'accelerazione di gravità (uguale a 9,81). Il lavoro speso per conferire velocità al sangue è una minima parte del lavoro totale del cuore. Se infatti la velocità media nell'aorta è di 0,1 m. al secondo, la gettata è di gr. 50 di sangue, e la pressione è di 10 cm. di mercurio, troveremo (essendo 13,6 il peso specifico del mercurio):
Il cuore sinistro compie dunque un lavoro di 68 grammetri per vincere la resistenza offerta dalla pressione arteriosa, e solamente di 0,025 grammetri per conferire al sangue l'incremento di velocità. Per valutare il lavoro totale del cuore dobbiamo sommare il lavoro di entrambi i ventricoli. La gettata è identica per i due ventricoli, mentre la pressione nei due circoli è molto diversa. Se, p. es., la pressione nell'arteria polmonare è di 20 mm. di mercurio, il lavoro del cuore destro, nell'esempio ora citato, sam di 13,625 grammetri. Per determinare nell'uomo la quantità di sangue espulsa dal cuore in un minuto (portata cardiaca), sono stati adoperati metodi indiretti. In un uomo adulto a riposo la gettata sistolica media è di circa 50-60 cmc., e perciò per una frequenza media di 75 pulsazioni, la portata sarà di 3,5-4, litri al minuto. Durante l'esercizio muscolare l'organismo richiede un notevole aumento di scambî gassosi e l'apparato circolatorio s'adatta immediatamente ai nuovi bisogni aumentando la portata del cuore fino a 10-15 e persino a 20 litri al minuto, obbligando quindi il sangue a circolare con un'altissima velocità. Un così forte aumento della portata circolatoria viene ottenuto soprattutto con un aumento del ritmo cardiaco, ma il solo aumento di frequenza non può dare un notevole aumento della portata del cuore se non è unito a un aumento dell'afflusso venoso e quindi della pressione venosa, che produce un maggiore riempimento del cuore con una distensione delle sue cavità e un maggiore allungamento delle fibre muscolari contrattili, allungamento a cui è proporzionale l'energia contrattile del miocardio.
La nutrizione del cuore. - La nutrizione del cuore viene fatta dal sangue che attraversa il sistema coronario. Le arterie coronarie hanno origine dall'aorta con un ramo destro e uno sinistro, a livello delle valvole semilunari. Esse si distribuiscono poi a tutto il miocardio atriale e ventricolare per raccogliersi in grosse vene confluenti nel seno coronario che sfocia nell'atrio destro. La circolazione coronaria in un cuore che pulsa procede nel modo seguente. Nella prima fase della contrazione del miocardio, quando il muscolo si mette in tensione, le valvole semilunari sono ancora chiuse, l'ostacolo all'afflusso delle coronarie è massimo, perché in questo momento la pressione aortica è minima e la contrazione del miocardio è molto intensa. Quando s'aprono le valvole semilunari, la pressione aortica s'innalza rapidamente e sospinge il sangue nel sistema coronario, malgrado la contrazione del miocardio; il massimo dell'afflusso ha luogo all'inizio della diastole, quando la pressione aortica è ancora elevata, mentre il rilasciamento completo del miocardio non oppone più alcun ostacolo alla pervietà dei suoi vasi.
Il cuore isolato. - Un cuore staccato dall'organismo può continuare a pulsare se viene posto in ambiente termicamente adatto e se è nutrito artificialmente. Il cuore di un animale pecilotermo, che non possiede un sistema coronario e si nutre per imbibizione, può sopravvivere se venga semplicemente immerso nella soluzíone salina di Ringer, isosmotica col sangue dell'animale. Meglio è portare la soluzione di Ringer nell'interno della cavità ventricolare con una cannula introdotta nell'aorta, secondo il metodo di Straub. Il lavoro che compie un cuore in queste condizioni sperimentali è fatto a spese di materiali immagazzinati. Se aggiungiamo alla soluzione di Ringer glucosio in proporzione dell'1% (soluzione di Ringer-Locke) il lavoro prodotto è molto maggiore e il cuore, consumando glucosio, economizza i proprî materiali di riserva. Secondo il metodo di Langendorf la perfusione di un cuore isolato di mammifero viene fatta mediante una cannula introdotta nell'aorta. La pressione con la quale vi giunge il liquido di perfusione chiude le valvole semilunari, e fa penetrare il liquido stesso nelle arterie coronarie. Esso circola poi per tutto il sistema coronario e defluisce liberamente dal seno delle coronarie.
F. Kuliabko e A. Cesaris-Demel riuscirono con questo metodo a far riprendere le pulsazioni a un cuore di un bambino morto da parecchie ore. La capacità di sopravvivenza è diversa per le diverse parti del cuore; abitualmente s'arresta prima il ventricolo sinistro poi il destro, mentre gli atrî possono continuare a pulsare ancora per molto tempo dopo la morte dei ventricoli. Quando si fermano gli atrî si può ancora osservare qualche ritmica contrazione del seno venoso.
La reviviscenza del cuore. - Quando un cuore s'arresta per cause extracardiache e senza aver consumato le proprie energie di riserva, può riprendere a pulsare se viene opportunamente stimolato. C. D'Alluin è riuscito, in animali asfissiati, a far riprendere l'attività ritmica del cuore e qualche volta a ristabilire completamente la vita dell'animale col massaggio del cuore. A. Herlitzka ha ottenuto la reviviscenza dei cani morti per soffocamento, facendo arrivare una debole soluzione di cloridrato di adrenalina nelle coronarie iniettandola con forte pressione attraverso un catetere introdotto per la carotide sinistra. L'adrenalina come rianimatore del cuore ha trovato una larga applicazione clinica e i casi di reviviscenza dell'uomo sono ormai numerosi. Nelle morti per asfissia, ma soprattutto negli arresti del cuore d'origine nervosa riflessa (morte da cloroformio), un'iniezione di adrenalina direttamente nel cuore attraverso il quarto spazio intercostale, seguita da una intensa e prolungata respirazione artificiale, può far riprendere rapidamente e definitivamente le contrazioni del cuore e con esse la vita. Perché l'adrenalina possa far rivivere un cuore bisogna che questo sia del tutto fermo e non presenti quel particolare tremolio fibrillare di tutti i suoi elementi muscolari che si suole denominare "fibrillazione del cuore".
Nessuno stimolo meccanico o farmacologico può riportare un ritmo normale in un cuore che fibrilli. Davanti a tale evenienza occorre prima di tutto arrestare la fibrillazione introducendo nel cuore una soluzione di cloruro di potassio, far seguire poi immediatamente una soluzione di cloruro di calcio che ripone il miocardio in condizioni di poter pulsare e quindi tentare con l'adrenalina di ripristinare le pulsazioni normali.
Automatismo del cuore. - Poiché il cuore, allontanato dall'organismo e quindi isolato da tutte le sue connessioni nervose, può continuare a pulsare per qualche tempo, esso deve possedere in sé stesso le condizioni necessarie per mantenere un'attività ritmica. Il cuore è dunque un organo automatico. La pulsazione del cuore trae origine da un punto ben determinato, che nella rana è il seno venoso, mentre nei Mammiferi e nell'uomo è localizzato in una piccola zona del miocardio dell'atrio destro in corrispondenza dell'angolo formato dall'inserzione della parete della vena cava superiore con l'atrio stesso. È questo il nodo seno-atriale di Keith-Flack. La trasmissione dello stimolo nato nel nodo di Keith-Flack avviene attraverso un sistema di fasci muscolari differenziati che passano dagli atrî ai ventricoli. Il sistema di conduzione fra gli atrî e il ventricolo è formato da fibre muscolari differenziate che prendono origine da una formazione nodale allargata a ventaglio verso l'alto (nodo di Tawara). Questo nodo è situato nel miocardio dell'atrio destro alla base del setto unteratriale, immediatamente al disopra del lembo mediale della tricuspide. Di qua le fibre decorrono parallele e discendono nel setto interventricolare (fascio di His), dove si suddividono in due fasci, destro e sinistro, che discendono lungo le facce del setto. Questi due fasci si suddividono ancora in numerose ramificazioni che si distribuiscono, immediatamente sotto l'endocardio, a tutta la muscolatura ventricolare e ai muscoli papillari. Il miocardio dell'orecchietta sinistra è l'unica porzione del cuore nella quale non si trova istologicamente traccia di tessuto specifico e che perciò non è capace di contrarsi con ritmo regolare. Qualunque altro frammento di miocardio invece può contrarsi ritmicamente per un tempo più o meno lungo in virtù del tessuto nodale che vi è presente. Il cuore si contrae normalmente sotto gli eccitamenti che gli provengono dal nodo di Keith-Flack e batte con una frequenza media di 75 al minuto; se si lede quel nodo, il cuore può pulsare sotto gli stimoli che provengono dal nodo di Tawara, ma con un ritmo di 55-60 al minuto. Se si lede anche questo centro, o s'interrompe il fascio di Hiss, i ventricoli possono ancora pulsare ma con una frequenza di 30-40 al minuto, perché tale è la frequenza degli stimoli che insorgono dal tessuto nodale che si trova sotto l'endocardio ventricolare. Ciò spiega il comportamento del cuore umano quando si abbiano lesioni funzionali e anatomiche del tessuto di conduzione (blocco completo di cuore). Allora gli atrî pulsano con la frequenza normale imposta dal nodo di Keith-Flack, mentre i ventricoli battono più lentamente col ritmo degli stimoli provenienti da un altro punto del tessuto nodale.
Sembra potersi accettare la dottrina secondo la quale il nodo di Keith-Flack comanda agli atrî, mentre il nodo di Tawara comanda ai ventricoli, ma le contrazioni atriali e ventricolari hanno la medesima frequenza perché lo stimolo partito dal nodo del seno, dopo aver raggiunto gli atrî, perviene al nodo di Tawara e vi promuove la liberazione dello stimolo per i ventricoli. Il ritmo tavarico autonomo ha invece, come s'è detto sopra, una frequenza più bassa.
Il ricchissimo sviluppo del complesso nervoso cardiaco formato dal vago e dal simpatico che, attraverso numerosissimi ganglî, si sfrangia nella compagine del cuore avvolgendone in ogni segmento le fibre muscolari, ha fatto pensare che l'automatismo del miocardio sia dovuto al sistema nervoso intracardiaco. Sembrò confermare questa ipotesi il fatto osservato da A. J. Carlson sul Limulus polyphemus. In questo animale i ganglî cardiaci sono separati dal tubo cardiaco pulsante formando una catena gangliare parallela a esso e a esso congiunta da molti nervi. Asportando i ganglî o tagliando quei nervi, il cuore cessa di pulsare. In questo invertebrato l'attività contrattile del cuore è dunque indissolubilmente legata a quella del sistema nervoso. T. W. Engelmann, W. H. Gaskell, G. Fano e F. Bottazzi portarono molti argomenti a dimostrare che l'automatismo del cuore è invece la manifestazione di un'attività specifica del sincizio muscolare, è, cioè di natura miogena. Non ad altro può essere attribuita la facoltà del cuore di riprendere a pulsare (se irrorato col metodo di Langendorff) parecchi giorni dopo la morte, quando gli elementi nervosi sono completamente degenerati. Il cuore dell'embrione di pollo pulsa prima che compaiano nella sua compagine le cellule gangliari, e parti di miocardio che non contengono cellule nervose, com'è la punta del cuore di rana, possono eseguire contrazioni automatiche.
Sulla discussione fra neurogenisti e miogenisti si venne innestando in questi ultimi anni una nuova serie di considerazioni, come conseguenza della scoperta del tessuto nodale e della sua funzione regolatrice sull'attività del miocardio. J. Demoor ha studiato molto da presso il fenomeno dell'origine e della trasmissione dell'onda di contrazione nel miocardio, isolando le varie parti del cuore e studiandone la sopravvivenza. L'orecchietta destra del cuore di coniglio può sopravvivere isolata in liquido di Ringer-Locke, continuando a pulsare ritmicamente. Per quante mutilazioni essa subisca, sempre continua a pulsare finché rimane intatta la regione che si trova sotto l'orifizio della vena cava superiore. Ma subito cessa di battere se il nodo di Keith-Flack viene asportato e allora non si osservano più che rare scosse irregolarissime per ampiezza, per forza e per ritmo. Molto diverso è il comportamento dell'orecchietta sinistra isolata; essa rimane ferma talvolta per oltre un'ora, poi manifesta scosse violente, aperiodiche, variabilissime d'intensità, lontane le une dalle altre. Queste scosse sono identiche a quelle dell'orecchietta destra privata del nodo di Keith-Flack. Ogni parte del tessuto auricolare è dunque dotata di un automatismo fondamentale che si manifesta come la facoltà di eseguire contrazioni isolate, e questo automatismo viene trasformato in lavoro ritmico dall'influenza del tessuto nodale. Il Demoor ha dimostrato che il tessuto nodale agisce sul miocardio elaborando una sostanza che ha la proprietà di regolarizzare la pulsazione.
La sostanza attiva aggiunta al liquido di Ringer-Locke, ove un'orecchietta sinistra isolata manifesti scarsa la sua attività automatica con scosse disordinate e irregolari, ne regolarizza il lavoro, provocando la comparsa di un ritmo identico a quello che esisteva prima che essa fosse isolata dall'orecchietta destra. Attribuita dal Demoor una funzione secretrice al nodo di Keith-Flack, il suo allievo P. Rijlant pensò che il nodo avrebbe dovuto conservare questa sua proprietà anche staccandolo dalla sua sede normale e trapiantandolo nella compagine del miocardio dell'orecchietta sinistra. Egli constatò che già poche ore dopo il trapianto, prima che il nodo avesse potuto contrarre connessioni anatomiche col tessuto circostante, esso incominciava a ridonare il ritmo all'automatismo cardiaco, e diveniva la sede da cui parte l'onda di contrazione, in virtù della sostanza da esso nodo elaborata. Il nodo trapiantato finisce poi con l'attecchire anatomicamente e il Rijlant lo vide funzionare dopo 7 mesi dal giorno dell'innesto. La sostanza che si può estrarre dal nodo di Keith-Flack è attivissima; l'estratto di 1/4 di nodo aggiunto a 100 cc. di liquido di Ringer-Locke agisce rapidamente e intensamente.
L'eccitabilità del miocardio. - È sufficiente a volte toccare leggermente un cuore da poco arrestato per provocare una o più pulsazioni. Uno stimolo elettrico, rappresentato da un unico shok di corrente indotta, provoca una contrazione del miocardio. Se la corrente non ha raggiunto un certo grado d'intensità, lo stimolo rimane del tutto inefficace. Aumentando a poco a poco l'intensità dello stimolo, si raggiunge la cosiddetta soglia di eccitamento, e allora il cuore compie una contrazione massimale unica, e se si continua ad aumentare l'intensità dello stimolo non aumenta la forza della contrazione. Questo fenomeno trovò la sua espressione nella legge del "tutto o nulla" di Bowditch. Il cuore si comporta come un'unica fibra muscolare perché i suoi elementi sono intimamente congiunti fra loro a formare un sincizio.
Se sopra un cuore di rana, che pulsa regolarmente e di cui si registrino le pulsazioni col metodo della sospensione, portiamo una serie ritmica di stimoli elettrici con una frequenza un poco diversa da quella del ritmo spontaneo, si osserva che alcuni di questi stimoli sono immediatamente seguiti da una sistole (extrasistole), mentre altri rimangono inefficaci. Rimangono inefficaci gli eccitamenti che colpiscono il cuore durante tutto il tempo della contrazione sistolica, il che dimostra che durante questo periodo il cuore è in fase di refrattarietà, perché appunto, secondo la legge del tutto o nulla, esso sta rispondendo con una contrazione massimale allo stimolo endogeno che non può essere utilmente accresciuto. Raggiunto il massimo dell'accorciamento sistolico, il miocardio ridiventa eccitabile e sino al nuovo periodo refrattario, in qualunque momento cada lo stimolo, troverà sempre il cuore pronto a rispondere con una extracontrazione (fig. 18).
L'elettrocardiogramma. - Ogni organo che lavora libera energia elettrica e le correnti che vi si producono si chiamano "correnti d'azione". Il muscolo cardiaco quando si contrae diviene sede di produzione di una corrente d'azione abbastanza intensa perché possa essere derivata anche da punti lontani dal cuore, nonostante l'alta resistenza elettrica dei tessuti interposti. I primi studî sull'attività elettrica del cuore furono fatti con l'elettrometro capillare di G. Lippmann, ma lo sviluppo maggiore degli studî elettrocardiografici fu reso possibile dopo che W. Einthoven costruì un galvanometro che, a una sufficiente sensibilità, accoppia la caratteristica di una minima inerzia, così da rendere possibile la registrazione di mutamenti di potenziale che si susseguono con ritmo frequente.
Lo studio delle correnti elettriche del cuore ha trovato una larghissima applicazione nella patologia di quest'organo. Per mezzo dell'elettrocardiografia (v.) s'è ricostruito il capitolo delle aritmie e quello dei disturbi della conduzione dello stimolo, e l'uso ormai abituale di questa tecnica permette oggi d'indagare le più delicate alterazioni funzionali del miocardio.
I nervi del cuore. - Mentre in virtù della propria attività automatica il cuore si può considerare funzionalmente indipendente, il suo lavoro è tuttavia regolato dal sistema nervoso attraverso ai nervi vaghi e al simpatico. Un'innervazione sensitiva centripeta interviene altresì regolando la funzione del cuore e dei vasi. Dopo il taglio di tutti i nervi del cuore l'animale ha gravissimi disturbi appena eseguisca un lavoro anche di modesta entità. I nervi vaghi e i rami del simpatico regolano le diverse funzioni dell'attività automatica; modificano l'eccitabilità del miocardio, che si misura dalla facilità con la quale si può provocare una extrasistole, la potenza delle contrazioni, la conduzione attraverso il tessuto specifico, la frequenza delle pulsazioni e il tono. Se si taglia al collo un nervo vago e se ne stimola elettricamente il moncone cardiaco, si provoca un rallentamento delle pulsazioni cardiache e un abbassamento della pressione arteriosa, e, se l'intensità della corrente è notevole, il cuore si arresta in diastole. I nervi vaghi, più fortemente il destro che il sinistro, agiscono dunque inibendo l'attività cardiaca. Il taglio dei due nervi vaghi al collo provoca, più o meno accentuato secondo la specie animale, un aumento della frequenza delle pulsazioni e un aumento della validità delle sistoli. Ciò prova che in condizioni normali il sistema nervoso esercita attraverso il vago un'azione inibitrice sul cuore (tono del vago). Questo tono non esiste durante la vita fetale e si viene sviluppando durante i primi anni di vita. Se si raccoglie il liquido di Ringer-Locke che ha perfuso un cuore isolato di rana durante l'inibizione prodotta dalla stimolazione del vago e con esso si perfonde un altro cuore di rana che pulsa regolarmente, si provoca in questo una bradicardia come se fosse soggetto esso stesso all'inibizione vagale (Otto Loewi). Queste ricerche che hanno avuto larga eco, e che furono ripetute con esito vario sul cuore dei Mammiferi, fanno ammettere che quando il vago è eccitato si liberi nella compagine del miocardio una sostanza capace essa stessa di provocare l'inibizione cardiaca. Pare si tratti di acetilcolina e perciò di una sostanza molto labile e che facilmente e rapidamente può venire scissa e perciò inattivata nel luogo stesso ove si produce, per opera di una esterasi presente nel sangue. Così si è spiegato come possa questa sostanza agire sul miocardio stesso per entro il quale si produce, senza provocare l'eccitamento del vago in altro territorio della innervazione vagale. La stimolazione dei rami diretti al cuore del sistema simpatico (fig. 19) provoca effetti opposti a quelli provocati dall'eccitamento vagale. Aumenta cioè la frequenza dei battiti cardiaci (effetto cronotropo positivo), aumenta la forza della contrazione sistolica (effetto inotropo positivo) e sembra pure che vengano esaltate l'eccitabilità e la conduttività del miocardio (effetto batmotropo e dromotropo positivi); il tono del cuore è abbassato e vengono abolite le sue oscillazioni (effetto tonotropo negativo). Come per il vago così pure per il simpatico del cuore, il Loewi ha dimostrato un meccanismo d'azione neuro-umorale, e cioè che la stimolazione del simpatico libera nella compagine del miocardio una sostanza che possiede le virtù contrarie a quella liberata dal vago, e che è probabilmente quella stessa alla quale W. B. Cannon diede il nome di simpatina.
II. - I vasi sanguiferi. - Come scorrono i liquidi nei tubi rigidi. - Si abbia un recipiente di forma cilindrica verticale e comunicante per la base con un tubo di vetro orizzontale di diametro uniforme, sul quale siano inseriti perpendicolarmente al suo asse, e cioè verticalmente, diversi tubi di vetro di piccolo calibro (fig. 20). Quando si mette acqua nel primo cilindro, se l'estremità libera del tubo orizzontale è chiusa, il liquido, secondo la legge dei vasi comunicanti, passerà immediatamente per il tubo orizzontale ai tubicini verticali nei quali raggiungerà la medesima altezza che ha nel cilindro. Se l'estremità libera del tubo orizzontale viene aperta, il liquido defluisce con una velocità che diminuirà progressivamente, diminuendo l'altezza della colonna liquida nel primo cilindro e perciò venendo a diminuire la pressione che spinge il liquido negli altri tubi. Poiché il calibro dal tubo orizzontale è uniforme, la velocità di deflusso e la portata, cioè la quantità di liquido che esce nell'unità di tempo, varieranno in modo inversamente proporzionale alle variazioni della pressione. La pressione esercitata dal liquido contenuto nel primo cilindro è impiegata in buona parte a vincere gli attriti, mentre una piccola frazione di essa viene spesa a conferire velocità alla massa liquida. Una piccolissima parte di pressione va anche perduta come energia cinetica all'imbocco del tubo orizzontale, dove si forma un vortice liquido. I tubi inseriti lateralmente sul tubo orizzontale o di deflusso (piezometri) dànno una misura della pressione nelle diverse sezioni di quel tubo. Il liquido salirà più alto nel piezometro inserito nelle immediate vicinanze del serbatoio, mentre la colonna liquida negli altri tubi verticali diminuirà proporzionalmente d'altezza a mano a mano che ci si avvicina all'estremità libera del tubo orizzontale. Il piezometro, anche se inserito vicinissimo al primo cilindro, indicherà sempre una caduta di pressione perché una parte di essa è impiegata a conferire velocità al liquido. Se il tubo laterale, anziché avere un diametro uniforme, è formato da tanti segmenti di diametro diverso, nell'unità di tempo passerà nei diversi segmenti un'eguale quantità di liquido. Affinché ciò avvenga bisogna che la velocità nei diversi tratti sia inversamente proporzionale alla sezione.
Lo scorrimento dei liquidi nei tubi elastici. - Se nel sistema ora descritto usiamo tubi elastici anziché tubi rigidi, tutto procede nello stesso modo. Ma se al posto del cilindro serbatoio poniamo una pompa che preme ritmicamente il liquido nel sistema, quando i tubi siano rigidi, a ogni compressione della pompa esce dall'estremità libera un getto di liquido che s'interrompe non appena la pompa cessi di agire. Se invece i tubi sono elastici, una parte della forza esercitata dalla pompa servirà a sospingere il liquido, mentre una parte andrà spesa a distendere la parete elastica delle condutture. Perciò, quando la pompa cessa di spingere il liquido, la parete elastica che era stata messa in tensione tenderà a ritornare alla posizione di riposo, esercitando una pressione sul liquido, e questo verrà sollecitato a scorrere anche durante la sosta della pompa. Se dunque le condutture sono rigide, il deflusso è intermittente, se invece esse sono elastiche, il deflusso è continuo e la quantità di liquido che defluisce nell'unità di tempo è maggiore.
La pressione arteriosa. - Le arterie, anche quelle che hanno una parete esile, possono sopportare pressioni molto alte, e se sono sane e normali non si rompono se non quando la pressione interna divenga 50 volte più alta di quella esercitata abitualmente dal sangue. Per misurare e registrare la pressione arteriosa nell'animale da esperimento ci si vale del metodo diretto del Ludwig. Si isola un'arteria, e dopo averla allacciata dalla parte distale, s'introduce nel suo moncone cardiaco una cannula di vetro piena di una soluzione che impedisca la coagulazione del sangue e raccordata a un manometro a mercurio. Sul menisco dell'estremità libera di questo poggia un galleggiante che regge un'asticciuola metallica recante una penna orizzontale che registra le oscillazioni del mercurio. Abitualmente sull'uomo ci si contenta di misurare con metodi indiretti i valori della massima e della minima pressione esistente nell'albero arterioso. Riva Rocci fu il primo a escogitare e ad applicare all'uomo un tale metodo d'indagine.
L'apparecchio che porta il suo nome (fig. 21) è costituito da un bracciale alto circa 10-12 cm. formato da una camera d'aria di gomma ricoperta all'esterno da un tessuto inestensibile e collegato mediante un tubo di gomma col tappo forato di una bottiglietta contenente mercurio. Attraverso il tappo, che deve essere a tenuta perfetta, passa un tubo di vetro di diametro uniforme che pesca nel mercurio e porta nella parte libera una scala graduata in mm. Attraverso il tappo della stessa bottiglia passa un tubo innestato alla gomma di una piccola pompa di Richardson, e con essa si può fare pressione sul mercurio. Per misurare la pressione arteriosa s'applica il manicotto al braccio e vi si preme aria con la pompetta fino a che non si percepisca più il polso alla radiale. Nel momento in cui il polso scompare, si legge l'altezza della colonna di mercurio nel manometro e questa indicherà il valore della pressione massima. Si apre allora la piccola valvola di uscita dell'aria così che la pressione nel sistema bracciale-manometro diminuisca gradualmente e il polso ricompaia. Continuando a palpare con attenzione il polso mentre la pressione dell'aria nel sistema diminuisce, avvertiremo a un certo punto una modificazione repentina del polso che darà una particolare sensazione tattile; leggeremo allora sul manometro il valore della pressione minima. Con l'ascoltazione possiamo più esattamente determinare i valori della pressione arteriosa.
Un fonendoscopio applicato alla piega del gomito sull'omerale o su una delle sue diramazioni (a. cubitale, a. radiale) non ci fa udire alcun rumore finché il bracciale è vuoto, ma non appena si sia fatta una certa contropressione nel sistema bracciale-manometro, si ascolta un tono scoccante sincrono col polso, che chiamiamo tono arterioso. Aumentando la pressione nel sistema si arriverà alla scomparsa del tono arterioso e in questo momento leggeremo sul manometro la pressione massima. Diminuendo la contropressione, il tono arterioso riappare dapprima più forte e scoccante, poi gradualmente meno intenso e cupo sinché bruscamente scompare. Nel momento del passaggio dal tono scoccante al tono cupo leggeremo la pressione minima.
Un altro metodo clinico per la misurazione della pressione arteriosa è quello oscillometrico di Pachon, e il principio sul quale si basa è fondamentalmente diverso da quello dello sfigmomanometro di Riva Rocci. Nell'oscillometro il bracciale porta due camere elastiche separate l'una dall'altra, e il manometro è metallico (fig. 22).
L'oscillometro è costituito da una camera a tenuta perfetta d'aria, nella quale è contenuta una capsula metallica fatta come un tamburo di Marey, alla cui membrana di gomma è attaccata una leva che ne segna, ingranditi, i più piccoli movimenti. Fra la camera e la capsula non v'è alcuna comunicazione. Per misurare la pressione arteriosa s'applica il doppio bracciale al braccio e si esercita nei due sistemi una contropressione superiore alla pressione massima, leggendone l'altezza sul manometro.
Fino a che nel sistena bracciale-camera e nel sistema bracciale-capsula esiste un'eguale pressione, la membrana elastica che li separa rimane immobile, ma, se si chiude con una piccola leva la comunicazione fra la camera e il rispettivo bracciale, la lancetta segnerà delle piccolissime oscillazioni dovute all'impulso arterioso sul margine libero del bracciale superiore, là dove l'arteria sta per venire occlusa dalla contropressione. Se ora togliamo l'interruzione fra camera e bracciale e lasciamo defluire l'aria dai due sistemi, arriveremo a un punto in cui le oscillazioni segnate dall'oscillometro si fanno improvvisamente più ampie. Leggeremo allora sul manometro il valore della pressione massima (= Mx). Continuando a diminuire la contropressione, le oscillazioni diminuiranno gradatamente fino a che diverranno appena percettibili; leggeremo allora sul manometro la pressione minima (= Mn). La differenza fra la pressione massima e la minima costituisce la cosiddetta pressione differenziale, che si considera come un importante elemento per valutare l'energia del cuore.
I valori della pressione massima e della minima variano seeondo la specie animale e nell'uomo adulto sano oscillano attorno a 120-130 mm. di mercurio per la Mx e 65-75 per la Mn. Notevoli sono le variazioni fisiologiche in rapporto all'età, al sesso e alle condizioni di riposo e di fatica. Nella donna la pressione arteriosa è abitualmente un poco più bassa che nell'uomo, nel bambino la Mx non giunge che a 60-90 mm. mentre nel vecchio, anche se non intervengono alterazioni sclerotiche dei vasi, la Mx tende ad aumentare. Gli stimoli emotivi, soprattutto in alcuni soggetti particolarmente sensibili, possono provocare notevoli oscillazioni della pressione. Il tracciato della pressione arteriosa, registrato col manometro di Ludwig, presenta diverse oscillazioni (fig. 23). Vi si osservano anzitutto le piccole onde del polso arterioso, onde di primo ordine. Queste s'inscrivono sopra oscillazioni più ampie provocate dalle due fasi del respiro. Queste a loro volta s'inscrivono sopra ampie ondulazioni del tracciato, ineguali e irregolari, che sono l'espressione di lenti movimenti dei vasi periferici. Le oscillazioni di secondo ordine sono dovute a un aumento della pressione endotoracica durante l'inspirazione e a una diminuizione durante l'espirazione. Un cane i cui muscoli siano stati immobilizzati dal curaro può essere mantenuto in vita con la respirazione artificiale. Insufflando ritmicamente aria in trachea con un soffietto si osservano periodiche oscillazioni della pressione arteriosa in rapporto con le due fasi del respiro, ma queste oscillazioni sono invertite rispetto a quelle che accompagnano il respiro spontaneo perché l'ingresso dell'aria nei polmoni non è determinato dalla diminuzione inspiratoria della pressione endopleurica, ma dalla pressione positiva che il soffietto determina nella trachea. Se si sospende la respirazione artificiale, il cane curarizzato muore asfittico e durante la prima fase dell'asfissia la pressione arteriosa si eleva e il tracciato emodinamico presenta alcune oscillazioni che presero il nome dai fisiologi che per i primi le descrissero: L. Traube e E. Hering. Queste oscillazioni vennero confuse con quelle vasomotorie di 3° ordine, ma C. Foà ne dimostrò la vera natura. Se al cane curarizzato si pratica la respirazione artificiale, non più ritmicamente col soffietto, ma con un'insufflazione polmonare continua con aria o con ossigeno mediante una sonda semirigida introdotta nella trachea sino alla biforcazione dei bronchi, secondo il metodo di Meltzer-Auer, essendo il torace e l'addome perfettamente immobili, ci si attenderebbe di vedere il tracciato della pressione svolgersi privo di oscillazioni di 2° ordine. Queste invece si manifestano regolarissime e con un ritmo molto prossimo a quello che avrebbe il respiro se i muscoli non fossero paralizzati (fig. 24). Le onde di 2° ordine osservate in queste condizioni sperimentali sono infatti di origine vasomotoria e rivelano un'attività periodica e automatica del centro vasomotore bulbare.
L. Traube ed E. Hering, avendole osservate durante l'immobilità che conduce all'asfissia del cane curarizzato, le credettero legate all'asfissia, ma poiché esse perdurano anche quando l'ematosi è perfettamente mantenuta con l'insuflazione secondo Meltzer-Auer, è da ritenere che nel tracciato emodinamico del cane normale esse siano mascherate dalle onde respiratorie, perché i mutamenti della pressione endotoracica esercitano sulla pressione arteriosa un'azione cosi energica da prevalere sulle influenze di origine vasomotoria. Anche la frequenza delle pulsazioni del cuore varia nelle due fasi del respiro, aumentando durante l'inspirazione e diminuendo durante l'espirazione. Questo fenomeno è dovuto a una periodica oscillazione dell'attività automatica del centro bulbare cardioinibitore (H. Fredericq e C. Foà) e scompare dopo il taglio dei vaghi (fig. 25). Le larghe oscillazioni di terzo ordine si possono facilmente dimostrare anche nell'uomo mediante il pletismografo (A. Fick, A. Mosso, A. Herlitzka; fig. 26). Importanti variazioni nel calibro dei vasi, e perciò nel complessivo letto vascolare dell'arto, possono essere provocate da variazioni di temperatura dell'acqua del bracciale (fig. 27), o in via riflessa da raffreddamento o da riscaldamento di altre regioni del corpo, o da stimolazioni dolorifiche, o da improvvise emozioni che agirebbero sui vasi sanguiferi con l'intervento dell'innervazione simpatica e, secondo W. B. Cannon, con un'improvvisa scarica di adrenalina.
La portata circolatoria. - Si definisce portata circolatoria la quantità di sangue che nell'unità di tempo attraversa una sezione dell'albero circolatorio. Il lavoro del cuore risulta dal prodotto della portata per la pressione. La portata è a sua volta funzione della pressione arteriosa, del diametro dei vasi e dell'attrito fra sangue e parete vasale. La portata e la pressione sono i fattori piu importanti dell'irrorazione dei tessuti e i reciproci scambî gassosi e umorali fra sangue e tessuti vengono favoriti dall'aumentare della massa liquida che circola nell'unità di tempo.
La velocità del circolo. - Conoscendo la portata di un vaso si può calcolare la velocità del sangue che lo attraversa dividendo questo valore per la sezione del vaso. Per lo studio della velocità media del sangue si usa l'emodromometro di Ludwig (fig. 28) che è formato da due ampolle di vetro di uguale capacità, comunicanti fra loro nella parte superiore. Le due ampolle terminano in basso con due tubi aperti su di un disco metallico che poggia sopra un altro disco pure metallico, sul quale può girare a perfetta tenuta. Il disco inferiore è pure munito di due fori che si mettono in comunicazione uno col manometro centrale, l'altro col moncone periferico di un'arteria. Facendo girare un disco sopra l'altro si può mettere in comunicazione ciascuna ampolla alternativamente con l'uno o con l'altro moncone del vaso in esame. Si riempie prima dell'uso una delle ampolle con olio e l'altra con soluzione fisiologica. Il sangue entra nell'ampolla piena di olio e lo spinge nell'altro, mentre la soluzione fisiologica passa nel moncone periferico. Quando tutto l'olio è passato nella seconda ampolla, rapidamente si gira l'apparecchio in modo che la parte piena d'olio comunichi ancora col moncone centrale e quella piena di sangue col moncone periferico. Ripetuta la manovra un certo numero di volte, conoscendo la capacità dell'ampolla, il numero dei giri compiuti e il tempo impiegato, si calcola la quantità di sangue passata nell'unità di tempo, e cioè la velocità media del sangue.
Il polso. - Quando con la sistole ventricolare il sangue viene lanciato nelle arterie, l'onda generata dalla pulsazione del cuore si trasmette alla colonna liquida e ai vasi, producendo quel fenomeno che viene chiamato il polso. Questo consiste in una dilatazione e in una modificazione di tensione delle arterie, che facilmente si può apprezzare con la palpazione. Varî sono i metodi per registrare il polso, e i tracciati che se ne ottengono ne riproducono più o meno fedelmente le caratteristiche e i particolari. Lo sfigmografo di Marey (fig. 29) è essenzialmente formato da una molla che, premuta dall'espansione dell'arteria sulla quale è appoggiata, ne trasmette i movimenti a una leva che li registra sopra una strisciolina di carta affumicata. L'idrosfigmografo di Mosso (fig. 30) può servire egualmente allo scopo, e così pure il guanto volumetrico di Patrizi (fig. 31) che ne è un'applicazione. Il tracciato del polso è caratterizzato dal sollevamento anacrotico che corrisponde alla sistole ventricolare, seguito dalla discesa diastolica della pressione endoarteriosa. Durante tale discesa si osservano nel tracciato diversi incidenti dovuti a contraccolpi del sangue sulle pareti dell'arteria. Il principale di essi è rappresentato dal sollevamento dicroto. Esso e generato da una spinta che il sangue dell'aorta riceve da parte delle valvole semilunari, quando esse, risucchiate entro il ventricolo durante la diastole, e poste così in tensione, riprendono poi la loro posizione normale. Altri ritiene che l'onda dicrota sia dovuta al fatto che l'onda sanguigna si riflette sulle estreme diramazioni arteriose periferiche e così, generandosi un'onda reflua, questa rimbalzerebbe sulle valvole semilunari chiuse. I tracciati 32, 33 e 34 rappresentano diversi tipi di sfigmogrammi. Il polso viene caratterizzato dai clinici per la frequenza, la grandezza, la celerità e la consistenza. La frequenza del polso corrisponde al ritmo delle pulsazioni cardiache. Nell'uomo adulto sano essa è in media di 70-80 al minuto.
Nella donna il polso abitualmente è più frequente che nell'uomo; nel bambino e soprattutto nel feto la frequenza è molto elevata (150-180). La posizione del corpo, il lavoro muscolare, le emozioni, le variazioni di temperatura, influiscono notevolmente sulla frequenza del polso. La propagazione dell'onda sfigmica dal cuore alla periferia avviene con la velocità di 7-9 metri al secondo. Tale velocità può venire facilmente calcolata registrando contemporaneamente il polso su due punti della stessa arteria e segnando il tempo che intercorre fra l'apparizione sui due tracciati del medesimo impulso sistolico. La lunghezza dell'onda sfigmica, calcolata dal rapporto fra la velocità di propagazione e il numero delle oscillazioni e di circa metri 1,6. Questa lunghezza corrisponde nell'uomo adulto alla distanza fra il cuore e l'arteria più lontana, e perciò soltanto nelle arterie più lunghe si può svolgere un'intera onda sfigmica.
La circolazione del sangue nei capillari. - Il principale scopo della circolazione sanguigna è quello di portare ai tessuti le sostanze utili e nutritizie e di asportarne le scorie, e lo scambio fra tessuti e sangue si compie appunto a livello dei capillari. I capillari sono vasi esilissimi la cui parete è formata da cellule endoteliali. Essi sono largamente anastomizzati fra loro.
La parete dei capillari è rinforzata dall'esterno da una membranella; F. Rouget ha descritto elementi cellulari applicati alle pareti dei capillari, e a queste cellule viene attribuita una funzione contrattile.
I capillari hanno la capacità di contrarsi per stimoli nervosi e umorali. La contrattilità dei capillari ha grande importanza nella regolazione, soprattutto perché essa può determinare un maggiore afflusso di sangue nei territorî ove ciò sia necessario. Il sistema simpatico governa il tono delle pareti dei capillari e ne determina la contrazione. Sembra che il sistema parasimpatico costituisca invece l'innervazione vasodilatatrice. Si può agevolmente studiare la circolazione capillare osservando al microscopio un tratto di mesentere di rana opportunamente disteso. Serve ugualmente bene la membrana interdigitale o il sottile tessuto del frenulo della lingua opportunamente estroflessa e distesa. Si scorgono così i capillari e lungo la loro superficie interna si vedono rotolare i globuli bianchi, mentre i globuli rossi sono trasportati più rapidamente dalla corrente assiale. Nei capillari più sottili la corrente è più lenta ed è continua, mentre in quelli di diametro maggiore la colonna liquida risente ancora degl'impulsi cardiaci ed è perciò ritmicamente oscillante. Al microscopio possono inoltre essere osservate le contrazioni e le dilatazioni dei capillari. Numerosi capillari possono per qualche tempo rimanere chiusi e divenire pervî soltanto quando le esigenze dei tessuti richiedano un maggior apporto di sangue. In un muscolo a riposo si possono contare secondo A. Krogh circa duecento capillari per mmq., mentre dopo una contrazione nello stesso muscolo se ne trovano aperti più di mille.
Anche nell'uomo si può studiare la forma e la disposizione dei capillari (v. capillari, vasi, VIII, 841) nel vallo ungueale delle dita della mano. Questo sistema di capillariscopia rivela la disposizione ad ansa o a forcina dei capillari normali, e ha permesso di mettere in evidenza molte forme anormali soprattutto in rapporto con alterazioni psichiche e deficienze endocrine (tiroide). Per la pressione del sangue nei capillari furono dati valori diversi a seconda del metodo usato e delle condizioni sperimentali. La pressione dei capillari nel vallo ungueale dell'uomo normale alla temperatura di 20° oscilla tra 15 e 25 mm. di mercurio. La pressione dei capillari è più bassa nei territorî situati a un livello superiore al cuore, e più alta nei territorî inferiori al livello del cuore.
La circolazione del sangue nelle vene. - Il sangue viene ricondotto dai capillari al cuore attraverso le vene. Questi vasi, che nell'avvicinarsi al cuore confluiscono fino a ridursi a due soli, portano al cuore altrettanto sangue quanto il cuore aveva immesso nel sistema arterioso. La pressione che esiste nelle vene gradatamente decresce dalla periferia, dov'è di pochi millimetri di mercurio, verso il cuore dove oscilla intorno a valori negativi. Nella circolazione venosa un'importante funzione spetta alle valvole venose che evitano ogni ristagno di sangue, soprattutto nelle vene delle parti declivi del corpo. Per effetto di queste valvole, essendo impedito il movimento retrogrado del sangue, se una pressione agisce dall'esterno sulla vena, il sangue in essa contenuto viene sospinto verso il cuore. Perciò la contrazione muscolare, comprimendo un tratto del sistema venoso, provoca un aumento della portata della vena corrispondente, e, determinando un maggior afflusso di sangue al cuore, accelera la circolazione. Le diverse fasi dell'attività cardiaca oppongono alla circolazione venosa ostacoli ritmici che si manifestano come oscillazìoni pulsatorie. Esse appaiono nel flebogramma raccolto da una grossa vena, e cioè nel tracciato del polso venoso di una giugulare esterna.
La circolazione polmonare. - La circolazione nel polmone è regolata dalla forza propulsiva del ventricolo destro, dalle resistenze nel distretto polmonare, dalla ritmica aspirazione del cuore sinistro. Tanto sangue passa nell'arteria polmonare nell'unità di tempo quanto ne lancia il ventricolo sinistro nell'aorta; se ciò non avviene, si ha un ristagno nel polmone. La resistenza opposta dai vasi arteriosi, capillari, venosi del polmone è molto piccola e perciò il ventricolo destro, per far circolare il sangue attraverso i polmoni, deve esercitare soltanto una pressione dì circa 30 mm. di mercurio, tanto piccola che solamente modificazioni molto notevoli del calibro vasale potrebbero influire sull'aflusso di sangue al cuore sinistro.
Centri e nervi vasomotori. - I nervi vasocostrittori traggono origine dal midollo dorsale e precisamente, nell'uomo, dal primo segmento toracico sino al secondo o terzo segmento lombare. Le fibre escono dal midollo con le radici anteriori dei nervi spinali; sono i rami comunicanti bianchi che vanno alla catena del simpatico e in parte ai ganglî prevertebrali. Ivi le fibre (pregangliari) s'interrompono e si dipartono altre fibre (postgangliari) che, per mezzo dei rami comunicanti grigi, vanno o ai nervi misti spinali, con cui decorrono verso gli organi periferici, o verso i vasi. I nervi vasodilatatori abbandonano come fibre pregangliari il sistema nervoso centrale in parte accompagnandosi con i nervi cranici, in parte con i nervi spinali, dal midollo toracico e lombare e anche dal midollo sacrale. Le cellule gangliari stanno per gli uni nei ganglî del capo (ganglio sfeno-palatino, otico, e sottomascellare); per gli altri nei ganglî simpatici del torace e dell'addome. Di qui essi vanno alla periferia decorrendo generalmente insieme con i nervi vasocostrittori.
I nervi vasodilatatori che si distribuiscono agli arti e all'intestino escono dal midollo, non solamente con le radici anteriori, come i vasocostrittori, ma in parte anche con le radici posteriori.
W. M. Bayliss dimostrò che, stimolando nel cane le radici posteriori nella regione lombare e sacrale, si ottiene un aumento di volume dell'arto posteriore, e che ciò dipende dalla dilatazione dei vasi cutanei. Le radici posteriori, per quanto riguarda le fibre vasodilatatrici, hanno dunque una conduzione centrifuga. Le fibre vasodilatatrici che decorrono nelle radici posteriori traggono origine dai ganglî spinali, e infatti al taglio della radice posteriore tra il midollo e il ganglio non consegue una degenerazione delle fibre dilatatrici, perché quel taglio non le separa dal loro centro trofico che è situato nel ganglio; se invece il taglio cade di là dal ganglio, le fibre dilatatrici vanno in degenerazione. Il centro dei nervi vasocostrittori si trova nel bulbo, e perciò la separazione del bulbo dal cervello mediano mediante un taglio che passi sotto le eminenze quadrigemine, non modifica il tono dei vasocostrittori. Un taglio che passi più basso determina vasodilatazione e abbassamento di pressione, che diventano tanto maggiori quanto più in basso si fa il taglio; e diventano massimi quando tutto il bulbo è separato dal midollo spinale. La sede dei centri vasocostrittori è nella formazione reticolare del bulbo, e di là scendono le fibre nei cordoni laterali. Perciò l'eccitamento dei cordoni laterali determina vasocostrizione, mentre al taglio di esse consegue una diminuzione omolaterale del tono vasale. Ricordiamo qui quanto dicemmo sull'attività automatica e periodica del centro vasomotore bulbare.
Nel midollo spinale esistono altri centri vasomotori che, dopo la loro separazione dal centro regolatore bulbare, riescono a poco a poco a far riacquistare ai vasi una certa tonicità. Dopo la sezione trasversa del midollo spinale praticata nella parte inferiore del segmento toracico, si manifesta una vasodilatazione negli arti posteriori, ma essa nel corso di pochi giorni scompare. Se allora si distrugge il midollo, appare subito una fortissima vasodilatazione negli arti e nell'addome, ed essa è così imponente che l'animale ne muore. Nel midollo spinale si trovano dunque importanti centri atti a mantenere il tono vasale. La loro sede è prevalentemente nel midollo toracico, ma se ne debbono trovare anche nel midollo lombare poiché la seconda e la terza radice lombare posseggono ancora fibre vasocostrittrici. È dubbio se esistano centri vasodilatatori nel bulbo. Pungendo il pavimento del quarto ventricolo in prossimità della linea mediana, si provoca la scomparsa dei riflessi vasodilatatorî, e, se la distruzione è vasta, ne consegue anche la scomparsa del riflessi vasocostrittorî. Centri vasodilatatori sono presenti nell'encefalo e nel midollo cervicale toracico e lombare. Il tono vasale dipende poi anche da centri nervosi periferici. Dopo qualche tempo dalla distruzione del midollo spinale il tono vasale può ristabilirsi in virtù di centri gangliari periferici. Il taglio del simpatico cervicale provoca nel coniglio una forte vasodilatazione e un conseguente aumento di temperatura nel padiglione dell'orecchio. Per contro, stimolando il moncone distale del simpatico cervicale sezionato, si provoca vasocostrizione e raffreddamento nel padiglione dell'orecchio. Taluno ha negato l'esistenza di una vasodilatazione attiva per stimoli nervosi e ha ammesso che i cosiddetti nervi vasodilatatori in realtà non provochino che l'inibizione delle influenze vasocostrittrici. Può essere che così sia in qualche caso, ma è pur vero che esistono fibre ad azione sicuramente vasodilatatrice. Il nervo linguale, p. es., non contiene fibre vasocostrittrici ma soltanto vasodilatatrici, e stimolandolo si determina una forte dilatazione delle arterie e dei capillari della lingua. Stimolando un nervo che contenga le due qualità di fibre si osserva spesso che prevale durante l'eccitamento l'azione delle fibre vasocostrittrici, e che soltanto quando l'eccitamento è cessato si manifesta la vasodilatazione. Tanto i nervi vasocostrittori quanto i vasodilatatori manifestano un tempo latente piuttosto lungo; da 0,6′′ a 1,5″. Poiché i nervi vasodilatatori hanno una soglia di eccitazione più bassa di quella dei nervi vasocostrittori, stimolando un nervo che contenga entrambe le qualità di fibre, si otterrà con stimoli deboli vasodilatazione e con stimoli più intensi vasocostrizione. Stimoli di bassa frequenza determinano vasodilatazione, mentre stimoli di frequenza più alta fanno prevalere l'azione delle fibre vasocostrittrici. Dopo il taglio di un nervo misto le fibre vasocostrittrici degenerano più rapidamente delle dilatatrici e perciò, stimolando il nervo quattro giorni dopo il taglio, si ottiene facilmente vasodilatazione. Sulla reazione dei vasi agli stimoli nervosi ha molta importanza lo stato in cui si trovano le loro pareti al momento dello stimolo. Se esse erano contratte lo stimolo facilmente le fa rilasciare e viceversa. Il tono vasale può del resto essere conservato anche in vasi completamente separati da raggruppamenti di cellule nervose. Ciò dipende forse dalle stesse giunzioni neuro-muscolari, cioè dalla zona ove le terminazioni ultime delle fibre simpatiche prendono intima connessione con le fibrocellule delle pareti vasali. Questa zona, che non subisce alterazioni neppure dopo il taglio del nervo, reagirebbe agli stimoli con la formazione di particolari sostanze (simpatina di Cannon) a cui sarebbe dovuto il tono e la contrazione delle fibrocellule. Queste reagirebbero poi, sempre in virtù di quella zona neuromuscolare, anche alla simpatina prodotta in altre zone, per virtù del simpatico che innerva altri distretti. A questo meccanismo neuroumorale, che si esplica per virtù di formazioni locali, deve la parete vasale la possibilità di mantenere tono e contrattilità anche se venga sottratta al diretto dominio di centri vasomotori.
Reazioni vasali a stimoli varî. - Aumenti di temperatura possono determinare rilasciamento delle fibre muscolari circolari e accorciamento delle fibre longitudinali, onde il calibro del vaso risulta aumentato; effetti opposti si ottengono con il raffreddamento. L'adrenalina è un potente vasocostrittore perché stimola il simpatico che fa contrarre le pareti vasali. Per mettere in evidenza la facoltà che hanno i vasi di contrarsi o di rilasciarsi sotto lo stimolo di farmachi o di ormoni diversi, si può usare il preparato vasale di rana secondo Laeven-Trendelemburg oppure quello dell'orecchia isolata di coniglio secondo Krawkow-Bissemski. In entrambi i casi si tratta di perfondere artificialmente sotto pressione costante con soluzione di Ringer-Locke un distretto vascolare, valutando il calibro dei vasi dalla velocità del deflusso. Questo può essere misurato dalla frequenza delle gocce che fuoriescono dalla vena emulgente del distretto. Se i vasi si costringono per azione, ad es., dell'adrenalina immessa nel liquido di Ringer-Locke, le gocce si fanno meno frequenti. Così accade iniettando la vasopressina, ormone retroipofisario, che agisce direttamente sulle fibrocellule senza l'intervento dell'innervazione simpatica. L'istamina provoca dilatazione dei capillari; l'acetilcolina, come farmaco parasimpaticomimetico, sembrerebbe dover provocare vasodilatazione. Per comprendere come l'acetilcolina agisca bisogna rifarsi alla struttura delle arteriole che precedono la finale suddivisione in capillari, che poi confluiscono a formare le venule. Orbene, l'acetilcolina dilata talora le arteriole, ma sempre fa contrarre i capillari, sicché è dubbia e incostante l'influenza che essa esercita sul complesso della circolazione di un distretto, e sulla pressione arteriosa. Non sempre l'acetilcolina aumenta la portata, come si vuole da chi preconizza l'uso di questo farmaco contro gli spasmi vasali di qualsiasi sede e natura.
Il dermografismo. - Strisciando sulla cute una punta smussa, si ottiene dapprima una linea pallida che è dovuta alla costrizione dei vasi provocata dallo stimolo meccanico. Ben presto succede una vasodilatazione che si manifesta con l'arrossarsi di quella stessa linea e che può permanere anche per qualche ora in taluni soggetti. In ciò consiste il dermografismo che è talora tanto evidente da provocare, non solamente un arrossamento, ma un sollevamento edematoso della linea stimolata (stereodermografismo).
Le zone vasosensibili regolatrici aella pressione arteriosa. - Nel 1868 K. F. W. Ludwig e E. von Cyon scopersero l'esistenza di un nervo centripeto, sensitivo, lungo il quale decorrono verso i centri bulbari gli stimoli generati nell'arco dell'aorta dalle variazioni della pressione arteriosa. Un eccesso di pressione produce per via riflessa, e cioè per la via centrifuga del vago, una moderazione delle pulsazioni cardiache, e dà luogo altresì a una generale vasodilatazione, sicché la pressione arteriosa rimane abbassata. Il contrario avviene, e cioè liberazione del cuore dalla cardioinibizione vagale e vasocostrizione, se la pressione nell'arco aortico si abbassa. Al nervo che conferisce questa sensibilità all'arco dell'aorta e che costituisce la via centripeta dei riflessi regolatori e compensatori della pressione arteriosa, Ludwig e von Cyon diedero il nome di nervo depressore.
Per molti anni non si conobbe altra zona vasale sensibile oltre all'arco dell'aorta, sinché, nel 1897, G. Pagano scoperse che un'altra zona vasosensibile si trova in un punto del sistema carotideo, che il Pagano stesso localizzò nella biforcazione della carotide primitiva in esterna e interna.
Riprendendo gli esperimenti eseguiti nel 1877 da F. Franck, secondo i quali un aumento o una diminuzione di pressione nel circolo carotideo-cefalico provocano rispettivamente un acceleramento o un rallentamento del cuore, il Pagano attribuì questo fenomeno a un riflesso sul vago determinato da una particolare sensibilità della carotide. Una trazione esercitata sulla carotide comune determina infatti inibizione cardiaca e ipotensione arteriosa. Nel 1923 E. H. Hering precisò che la zona vasosensibile risiede nel seno o bulbo carotideo (fig. 35) e che, stimolando meccanicamente o elettricamente quella zona, si produce bradicardia e caduta della pressione arteriosa. D. De Castro dimostrò che le pareti del seno carotideo sono riccamente innervate e che vi si trovano numerosissime terminazioni nervose ricettrici. E. Hering scoperse che queste sono le terminazioni nervose sensitive di un nervo centripeto che decorre fra le carotidi interna ed esterna, al quale egli diede il nome di nervo intercarotideo. Esso si unisce poi al glossofaringeo.
Basta chiudere temporaneamente la carotide comune con una lieve pressione così da sottrarre le pareti del seno carotideo allo stimolo esercitato su di esse dalla pressione del sangue, perché subito la pressione arteriosa generale s'innalzi, e basta poi ridare pervietà alla carotide comune perché l'urto del sangue contro le pareti del seno carotideo determini una temporanea bradicardia e abbassamento della pressione arteriosa generale. Un simile esperimento era stato eseguito sull'uomo, eomprimendo le carotidi comuni al collo, da J. Czermak e da L. Concato, nel 1866, ma s'era fatta confusione fra gli effetti dipendenti dalla compressione della carotide comune e quelli dovuti alla stimolazione meccanica del vago. Il riflesso è soprattutto pronto e talvolta pericolosamente intenso nei vecchi arteriosclerotici, ove basta esercitare una lieve compressione del seno carotideo per provocare intensa modificazione del circolo cerebrale, con svenimento. Hering accenna alla possibilità che il knock-out dei pugilatori sia dovuto al riflesso cardioinibitore provocato dal forte eccitamento che il colpo alla mandibola può esercitare sulla zona vasosensibile carotidea. Secondo C. Heymanns il seno carotideo funziona da zona riflessogena regolatrice della secrezione adrenalinica, e attraverso a questo meccanismo neuro-ormonico regolerebbe la funzione cardiaca e vasale e perciò la pressione arteriosa. Gli esperimenti di Heymanns dànno la prova sicura di questo meccanismo, ma non escludono che ne esista uno puramente nervoso, e cioè che gli stimoli recati ai centri dal nervo intercarotideo, come quelli recati dal depressore, scatenino direttamente i riflessi vagali e vasomotori che compensano gli squilibrî della pressione arteriosa. Era stato osservato da tempo che l'iniezione endovenosa di adrenalina provoca bensì anche una bradicardia talora intensa, che contrasta all'innalzamento della pressione (fig. 36). L'adrenalina rinforza e accelera le pulsazioni di un cuore isolato e perciò sottratto all'influenza dei vaghi; essa d'altra parte costringe i vasi, e ne dovrebbe derivare perciò null'altro che un aumento della pressione arteriosa. Ciò accade in realtà se l'iniezione di adrenalina è praticata dopo il taglio dei vaghi (fig. 37). A spiegare l'effetto bradicardiaco, quando sia integra l'innervazione vagale, soccorre quanto dicemmo sulle zone vasosensibili. L'aumento della pressione arteriosa generato dall'adrenalina in seguito al rinforzo delle pulsazioni cardiache e alla vasocostrizione scatena nelle zone vasosensibili i riflessi compensatori che descrivemmo: bradicardia e vasodilatazione, riflessi che scompaiono dopo il taglio dei vaghi o quando si enervino o si cocainizzino le zone vasosensibili. Tale è l'importanza fisiologica di queste zone che la loro enervazione completa nel cane (taglio del depressore e dei n. intercarotidei) provoca una grave ipertensione cronica, da cui derivano tardivamente alterazioni dei glomeruli malpighiani del rene. Questi esperimenti hanno permesso di dare nuove interpretazioni dell'ipertensione cosiddetta essenziale, degli sbalzi di pressione non compensati o non prontamente compensati in taluni soggetti nei quali la pressione per lievi cause meccaniche o emozionali compie sbalzi pericolosi, e anche delle alterazioni renali degli ipertesi, ponendosi il problema se le alterazioni glomerulari non siano l'effetto anziché la causa dell'ipertensione là dove si possa sospettare che questa derivi da un'insufficiente capacità regolatrice delle zone vasosensibili.
Faremo cenno da ultimo a un metodo introdotto nella fisiologia sperimentale da E. M. Starling. In luogo della pompa meccanica e dell'ossigenazione diretta che servì a molti fisiologi per la perfusione artificiale degli organi isolati, lo Starling escogitò di far funzionare da pompa il cuore d'un cane, e di ossigenare i suoi stessi polmoni. Con l'apparecchio cardio-polmonare, costituito come è schematicamente rappresentato nella fig. 38, si dispone di un sistema strettamente fisiologico per irrorare parti del corpo isolate e sopravviventi, e un tale metodo arricchì la fisiologia sperimentale di inestimabili nuove acquisizioni.
III. Circolazione fetale. - Quanto precede si riferisce esclusivamente alle condizioni di completo sviluppo del sistema sanguifero dell'uomo nella vita extrauterina. Riassumiamo ora schematicamente la circolazione nella vita intrauterina (v. figg. 39-42). Nei primissimi periodi di sviluppo, finché l'embrione manca di vasi proprî, si ha solo uno scambio di correnti plasmatiche fra la mucosa uterina e l'embrione stesso. Poi lo sviluppo della circolazione onfalomesenterica mette in rapporto l'embrione con la vescicola ombelicale dalla quale assume i materiali trofici in essa accumulati. Ma ben presto (2° mese) la circolazione allantoidea o coriale si sostituisce a quella onfalomesenterica e diviene circolazione placentare. Dalla placenta (v.) il sangue arricchitosi di ossigeno e di sostanze nutritive viene raccolto dalle radici della vena ombelicale la quale, decorrendo lungo il funicolo ombelicale, passa attraverso l'anello ombelicale e giunge in prossimità della faccia inferiore del fegato. Dopo avere inviato dei rami al seno longitudinale sinistro (che vanno al fegato direttamente in parte anastomizzati con la vena porta), la vena ombelicale si continua direttamente nel dotto venoso di Aranzio terminando nella vena cava inferiore. La vena cava inferiore sbocca nell'orecchietta destra e contiene il sangue addotto dalla vena ombelicale, il sangue venoso proveniente dalla metà inferiore del corpo, il sangue delle vene sopraepatiche, che si vuotano nella vena cava inferiore a poca distanza dal cuore. All'orecchietta destra arriva anche la vena cava discendente che porta il sangue venoso proveniente dalla metà superiore del corpo. Nel cuore fetale il setto interauricolare non è completo come nel cuore adulto, ma esiste il foro ovale che mette in comunicazione le due orecchiette. Inoltre in corrispondenza dello sbocco della vena cava inferiore nel cuore v'è la valvola di Eustachi la quale dirige il sangue proveniente dalla vena cava inferiore verso il foro ovale e quindi nell'orecchietta sinistra. Un'altra importante via di comunicazione, il dotto di Botallo, collega nell'embrione il tronco dell'arteria polmonare con l'inizio dell'aorta discendente. Nella diastole le orecchiette svuotano il loro sangue nei ventricoli, ma il ventricolo sinistro riceve il sangue prevalentemente arterioso della cava ascendente (attraverso il foro ovale e l'orecchietta sinistra) e il ventricolo destro il sangue venoso della cava discendente. Nella sistole i ventricoli spingono il sangue nelle arterie: il ventricolo sinistro invia sangue arterioso per l'aorta ascendente (e i grossi tronchi che se ne dipartono) alla metà superiore del corpo; il ventricolo destro spinge il sangue venoso nell'arteria polmonare le cui ramificazioni poco sviluppate (manca la funzione respiratoria del polmone) possono accogliere solo una piccola parte di sangue, mentre la parte più grande passa attraverso il dotto di Botallo nell'aorta discendente mescolandosi al sangue venoso proveniente dal ventricolo destro. Dalle arterie ipogastriahe, rami dell'aorta discendente, partono le due arterie ombelicali che decorrono lateralmente alla vescica, risalgono fino all'anello ombelicale e, lungo il funicolo ombelicale, raggiungono la placenta ove il sangue fetale si fornisce di ossigeno e di materiali nutritivi. Pertanto nell'embrione non esiste la netta differenziazione dell'adulto in cuore destro venoso e cuore sinistro arterioso; nelle migliori condizioni d'irrorazione arteriosa (per relativa minore mescolanza con sangue venoso) sono il fegato e la parte superiore del corpo, e questo spiega il più rapido accrescimento di dette parti nella prima metà della gestazione. Nell'adulto si chiude il setto interauricolare, si atrofizzano le arterie e le vene ombelicali, il dotto di Aranzio e di Botallo; il sangue venoso pervenuto dalle due vene cave nell'orecchietta destra passa nel ventricolo destro, di qui all'arteria polmonare, assume nel polmone il carattere di sangue arterioso, ritorna per le vene polmonari nell'orecchietta sinistra e di qui al ventricolo sinistro che, attraverso l'aorta, lo sospinge nella grande circolazione. La persistenza di alcune delle condizioni embrionali è causa dei cosiddetti vizi congeniti del cuore (v. sotto).
Fisiopatologia.
L'enorme importanza delle malattie del sistema sanguifero - uno dei più importanti dell'economia generale - spicca subito anche al profano quando consideri i seguenti dati statistici.
Nella relazione del direttore generale della Sanità pubblica al Consiglio superiore di sanità del 12 luglio 1934 è riferito che nell'anno 1932 morirono in Italia 66.405 individui per malattie di cuore e 14.157 per altre malattie dell'apparato circolatorio, con un totale quindi di 80.562; nello stesso anno i morti per tubercolosi polmonare furono 31.998 e quelli per cancro e altri tumori maligni furono 30.190. Si aggiunga che mentre la mortalità generale tende, sia pure di poco, a diminuire, quella per malattie di cuore è in continuo aumento. I due grafici (fig. 43) sintetizzano questi dati impressionanti. I quali non sono un triste privilegio dell'Italia; nel numero di febbraio del 1934 dell'American Heart Journal, A. Cohn fa rilevare la grande continua ascesa dal 1868 a oggi della mortalità per queste malattie, che ha raggiunto oramai circa un quarto di tutte le cause di morte. E ancora più importanti appaiono le malattie del cuore e dei vasi considerate, oltre che dal punto di vista della mortalita, da quello della morbilità, trattandosi per lo più di malattie a decorso assai lungo. Purtroppo la scienza e l'umanità sono scarsamente armate contro questo flagello. Mentre gli stati - e in prima linea l'Italia fascista - lottano accanitamente contro la tubercolosi e il cancro, pochi conoscono i dati sopra riferiti e quasi nulla si fa per cercare di combattere la causa di mortalità e di morbilità di gran lunga la più impressionante. Tuttavia non manca in proposito qualche tentativo, specie nei paesi anglo-sassoni con le cosiddette Heart clinics.
Manifestazioni di un alterato sistema sanguifero. - L'esame di un malato del circolo, come del resto di qualsiasi altro malato, consta essenzialmente di due parti la raccolta dei dati morbosi precedenti e dei disturbi subiettivi di cui il paziente si lagna (ciò che in linguaggio medico si chiama anamnesi) e l'esame obiettivo del malato stesso.
I. - Anamnesi. - Nell'anamnesi hanno importanza anzitutto i precedenti ereditarî; non è affatto dimostrata un'ereditarietà delle malattie di cuore, ma può ben ereditarsi una predisposizione, nonché una malattia che è tra le cause più frequenti delle cardiopatie, cioè la sifilide. Se consideriamo, poi, le malattie dei vasi, possono avere carattere familiare l'arteriosclerosi e l'ipertensione; non è affatto raro il caso nella stessa famiglia di parecchie morti piu o meno premature per emorragia cerebrale. In secondo luogo interessano malattie precedenti sofferte dal soggetto; in particolare vanno ricercate le due grandi cause delle malattie di cuore, il reumatismo articolare acuto e la sifilide, e inoltre le malattie infettive anche banali e le malattie di altri organi che possono ripercuotersi sulla funzione cardiaca, come le malattie renali così strettamente connesse all'ipertensione e le malattie polmonari specialmente croniche, come la bronchite e l'enfisema. Da ultimo hanno importanza, come cause adiuvanti, le abitudini di vita del soggetto (abuso di alcool e di tabacco, sforzi fisici, continue preoccupazioni, agitazioni, ecc.) e per le donne il numero delle gravidanze pregresse.
Nell'anamnesi rientrano poi, anzi ne costituiscono la parte più importante, i sintomi subiettivi, che sono quelli per i quali il malato s'accorge che le cose "non vanno bene" ed è spinto a chiedere l'opera del medico. Tali sintomi possono essere a carico del cuore e dei vasi oppure di altri apparati. Ricorderemo nella prima categoria le palpitazioni e i dolori, nella seconda l'affanno.
1. Per palpitazione s'intende la sensazione subiettiva del cuore che pulsa: sensazione che nel soggetto normale manca a riposo e compare, ma modica, dopo uno sforzo. Questo fenomeno non indica senz'altro la presenza di un cuore malato; si tratta di un disturbo funzionale nel senso che il cuore lavora più intensamente, ma la causa può risiedere o no in un'alterazione dell'organo. La palpitazione può essere continua, ma più spesso è ad attacchi, "parossistica"; e in quest'ultimo caso può insorgere dopo una causa occasionale, come uno sforzo, anche piccolo, o un'emozione, e può avere una durata assai variabile, da qualche minuto a qualche ora o a qualche giorno. Talvolta si tratta di un solo battito, brusco, forte (extrasistole). Altre volte è lo scatenarsi istantaneo di una pulsazione cardiaca assai forte e assai frequente, e il cui termine avviene pure d'un tratto (tachicardia parossistica). Infine il battito cardiaco più forte e più frequente può essere regolare e può essere irregolare (per ulteriori particolari v. aritmia). Alla palpitazione cardiaca non raramente s'associa (più raramente è invece isolata) la sensazione subiettiva del battito delle arterie periferiche, ai lati del collo, alle tempie, alle orecchie (qui per lo più sotto forma di ronzio intermittente), ai polpastrelli delle dita.
2. Più importante è un altro eventuale sintoma subiettivo a carico del cuore, il dolore. Si dice comunemente che il cuore non duole, e ciò risponde al vero se si considerano le comuni cause del dolore. In alcuni casi eccezionali in cui il cuore era messo allo scoperto, come anche in esperienze sugli animali, s'è visto che questo, come del resto gli altri visceri, può essere stirato, tagliato, bruciato senza provocare dolore. Ma esistono in circostanze speciali, e hanno grande importanza, veri e proprî dolori del cuore che tuttavia vanno bene riconosciuti, perché non di rado ciò che il malato interpreta come dolore cardiaco è da riferire ai tessuti muscolari, ossei, nervosi, che si trovano soprastanti o nelle vicinanze dell'organo. Può esistere anzitutto un dolore lieve, un senso di peso, di oppressione, che è per lo più in rapporto con l'ingrandimento o col cattivo funzionamento del viscere. Dolori vivi e forti sono prodotti dall'infiammazione delle membrane sierose che rivestono il cuore, cioè dalla pericardite (v.). Ma il dolore di gran lunga più importante è quello dovuto per lo più ad alterazione delle arterie coronarie e quindi a difettosa nutrizione o ischemia del miocardio; esso costituisce il sintoma fondamentale, tanto che le ha dato il nome, di quella grave malattia che è conosciuta come angina di petto (v. angina pectoris).
Esistono anche dolori delle arterie o meglio in rapporto con malattie delle arterie. Citiamo le aortalgie toraciche e addominali, i dolori in rapporto con gli aneurismi e i dolori delle estremità dovuti a trombosi arteriose.
3. Ancora più importante, quale sintoma indicatore di un'alterata circolazione è l'affanno, che peraltro non è esclusivamente legato a un'affezione circolatoria. Ritorneremo su questo sintoma parlando dell'insufficienza circolatoria (v. sotto); per ora diremo soltanto che questo sintoma va analizzato accuratamente: se insorge a riposo o dopo uno sforzo e dopo quale sforzo, se è diurno o notturno (al punto talvolta da impedire il sonno), se è continuo o transitorio, e di quale durata, ecc.
II. - Esame fisico. - Raccolta l'anamnesi e precisati i sintomi subiettivi, il medico passa all'esame fisico del paziente:
a) Anzitutto è necessario un esame generale. Tenuto conto del cosiddetto abito costituzionale (v. costituzione, XI, p. 653 segg.), che può avere una notevole importanza (basta ricordare i cosiddetti "pletorici", candidati all'apoplessia), del modo di decombere del malato e di altri numerosi segni minori, che non debbono sfuggire all'occhio indagatore, tre punti hanno particolare importanza: il colorito della cute e delle mucose, l'eventuale presenza di edemi, il modo del respiro.
Riguardo alla cute e alle mucose, oltre al pallore di esse e alla possibile presenza di piccole macchie emorragiche (petecchie), interessa specialmente la presenza di uno speciale fenomeno che va sotto il nome di cianosi (v.). Come dice il nome, si tratta del colorito bluastro della cute nei punti in cui essa è più sottile (zigomi, lobuli delle orecchie, polpastrelli delle dita) e specialmente delle mucose (labbra). La causa essenziale di questo fenomeno, che del resto non è esclusivo delle cardiopatie, risiede nella presenza di una quantità abnormemente grande di emoglobina ridotta nel circolo periferico.
Normalmente il sangue arterioso è saturo di ossigeno al 95-100%: se lo è solo all'80-85% esso contiene 3 o 4 volumi per cento di emoglobina ridotta e ne risulta la cianosi. D'altra parte il sangue capillare contiene normalmente 3 volumi e mezzo per cento di emoglobina ridotta: se ne contiene 5% diviene dello stesso colore del sangue venoso e ne risulta cianosi. A sua volta questo eccesso di emoglobina ridotta può dipendere o da un eccessivo consumo di ossigeno alla periferia o da un insufficiente rifornimento al centro per difetto cardiaco o polmonare; il caso più tipico si ha in alcuni vizî congeniti in cui, per un parziale passaggio diretto dal cuore destro al cuore sinistro, parte del sangue venoso si mesce al sangue arterioso senza passare nei polmoni a rifornirsi di ossigeno (v. ceruleo, morbo).
Altre volte, ma assai più raramente, i cardiopatici possono avere una colorazione leggermente gialla (itterica) della cute.
Anche gli edemi, pur non essendo esclusivi delle cardiopatie, ne costituiscono uno dei segni più comuni e talvolta rivelatori. Per i caratteri clinici degli edemi e il meccanismo patogenetico v. edema.
Riguardo al modo di respiro già s'è detto nell'anamnesi che è molto importante domandare al soggetto se si affanna facilmente. A ciò si aggiunge l'osservazione diretta, sia che si esamini il malato ambulatoriamente, notando se e quanto uno sforzo anche piccolo provochi affanno, sia che lo si esamini in letto, osservando il suo modo di respirare, e se questo è reso difficile, ciò che costituisce la dispnea (v.).
b) Anche nello studio delle malattie del cuore e dei vasi l'esame fisico si serve dei quattro metodi fondamentali della semeiotica: l'ispezione, la palpazione, la percussione e l'ascoltazione; particolarmente importanti nello studio delle malattie del cuore e dei vasi sono gli ultimi metodi. La percussione, giovandosi del fatto che il cuore e il suo peduncolo vascolare (specialmente l'aorta) si trovano vicino alla parete anteriore del torace, che essi non contengono aria, e che sono invece circondati da un organo che contiene aria, il polmone, riesce a precisare il confine tra questi due diversi tessuti e cioè a "delimitare" il cuore. Si comprende subito quanto sia importante questa ricerca perché essa ci può dire se, rispetto alla grandezza e alla forma di un cuore normale, un cuore che si sospetta malato presenti delle alterazioni. Come vedremo nella patologia, il cuore malato assai spesso aumenta di grandezza. Similmente anche l'aorta nel suo tratto iniziale può aumentare nel diametro trasverso e questo fatto può tradursi in un ampliamento della corrispondente zona di ottusità rilevabile con la percussione. Infine la forma che assume il contorno dell'ottusità cardiaca indicando se e quale speciale parte dell'organo abbia subito un ingrandimento prevalente o isolato, può avere un grande valore nella diagnosi. Questi reperti vengono confermati dall'esame radiologico (v. sotto).
Assai più delicata e più difficile a intendersi è l'ascoltazione, la quale però è la più feconda di risultati. Per i fenomeni acustici che si svolgono nel cuore in rapporto con il giuoco delle valvole cardiache, non ripeteremo quanto sopra s'è detto, parlando della fisiologia normale del cuore. Per la chiarezza della nostra esposizione rammenteremo soltanto che per il modificarsi della pressione intraventricolare in seguito alla sistole dei ventricoli, si chiudono le valvole atrioventricolari e si aprono l'aortica e la polmonare; l'inverso avviene durante la diastole ventricolare; cioè si chiudono le semilunari (aortica e polmonare) e si aprono le atrioventricolari. La fisiologia insegna che alla chiusura delle valvole corrispondono suoni detti erroneamente "toni": alla chiusura delle valvole atrioventricolari si ha il primo tono o tono sistolico: alla chiusura delle valvole semilunari si ha il secondo tono o tono diastolico.
I caratteri normali dei toni cardiaci possono modificarsi in condizioni patologiche per svariate alterazioni delle valvole o delle pressioni intraventricolari o intravasali. Tali variazioni possono interessare l'intensità (dalla scomparsa all'accentuazione di uno dei due toni), il timbro, il numero e il ritmo. Ricorderemo solo le variazioni di numero; per circostanze speciali può accadere che qualche tono appaia sdoppiato; e può anche comparire un tono aggiunto, sicché si ascoltano tre toni invece di due: in tal caso sì produce quel curioso fenomeno che è stato chiamato ritmo di galoppo perché ricorda il rumore che fa il galoppo di un cavallo.
Molto più importante è la comparsa di rumori anormali. Essi acusticamente assumono la caratteristica di soffî e si producono tutte le volte che il funzionamento delle valvole è irregolare. Ricordiamo qui dall'anatomia patologica che come conseguenza per lo più d'infiammazione e successiva formazione di cicatrici le valvole del cuore possono modificarsi in due modi: o si retraggono, si coartano, le loro estremità sono usurate e allora non sono più capaci di chiudere, diventano insufficienti; ovvero i varî pizzi di cui esse sono composte si saldano fra loro, s'irrigidiscono, s'ispessiscono e allora non sono più capaci di aprirsi completamente, diventano cioè stenotiche. Tanto nell'un caso quanto nell'altro, il risultato è lo stesso ai fini dell'acustica: si alterano i rapporti di grandezza che esistevano tra cavità precedente e passaggio successivo obbligato. Per questo fatto (analogamente a quanto avviene in un tubo di condotta d'acqua nel quale sia stato prodotto uno strozzamento) si determinano delle vibrazioni speciali del liquido che passa e delle pareti circostanti nella cavità a valle del punto ristretto, secondo alcune teorie dei vortici, fatti tutti che dànno origine a un fenomeno acustico prima non esistente: il rumore di soffio. Ora s'intende che se l'alterazione valvolare, il "vizio" è costituita da una stenosi, il rumore si produrrà nel momento in cui il sangue dovrebbe passare liberamente per la valvola (che invece non è completamente aperta) e quindi durante la sistole ventricolare, se le valvole affette sono l'aortica e la polmonare, e durante la diastole, se si tratta delle valvole atrioventricolari. Se invece il vizio è rappresentato da una insufficienza, cioè da un'incapacità a chiudersi, il rumore si produrrà nel momento in cui le valvole dovrebbero esser chiuse (e invece non lo sono) e cioè durante la sistole ventricolare, se la valvola affetta è una delle due atrioventricolari e durante la diastole, se la valvola interessata è l'aortica o la polmonare. Ora, poiché l'osservatore, in base a numerosi accorgimenti, è in grado di sapere in quale momento avviene la sistole e in quale la diastole ventricolare, egli è capace di riconoscere se il soffio è sistolico o diastolico; e poiché, ascoltando in varî punti del cuore si possono percepire meglio i fenomeni di una valvola rispetto alle altre, è possibile localizzare sull'una o sull'altra il difetto sopravvenuto e porre quindi la diagnosi di stenosi o d'insufficienza dell'uno o dell'altro di questi delicati meccanismi. Dobbiamo aggiungere, per concludere, che talvolta questi vizî si sommano fra loro, il che naturalmente porta a un reperto ascoltatorio più complesso; e che - fatto assai importante - non sempre l'esistenza di un soffio implica l'esistenza di un vizio valvolare. Quasi mai da un solo sintoma si può, in semeiotica, porre una diagnosi assoluta.
Infine, l'ascoltazione può far rilevare un fenomeno affatto diverso per i suoi caratteri, per il suo significato, per la sua produzione. È noto dall'anatomia che il cuore si muove in una cavità tappezzata da una membrana liscia: il pericardio; se per un'infiammazione questa diventa irregolare e rugosa, il movimento che fa il cuore nella sua contrazione determina un rumore speciale (rumore di sfregamento) che si può rassomigliare a quello che fa il cuoio quando si piega.
c) Come abbiamo detto in principio, essendo la circolazione essenziale per il funzionamento di tutti gli altri organi, un'alterazione di quella può ripercuotersi in altre funzioni dell'organismo. Abbiamo già citato il disturbo del respiro che, data la sua importanza, assurge addirittura al valore di un sintoma circolatorio. Un'altra funzione che notevolmente risente dei disturbi del circolo è quella urinaria; in un malato di cuore anzitutto può diminuire la quantità di urina emessa fino a diventare scarsissima, comparire albumina e cilindri e altri segni di alterata funzione renale, che sono assai simili a quelli di una vera e propria malattia dei reni. Parimenti il fegato risente tra i primi di un cattivo funzionamento del cuore ingrossandosi e adempiendo male ai suoi molteplici compiti; abbiamo già citato la possibile comparsa di ittero nei cardiopazienti. E, da ultimo, anche il sistema digerente e il sistema nervoso possono presentarsi alterati quando la circolazione è cattiva, quando cioè il motore centrale funziona male (v. anche claudicazione: Claudicazione intermittente).
Oltre a quanto abbiamo detto, l'esame del cardiopaziente può giovarsi di una serie di ricerche sussidiarie che però sono basate in gran parte su uno strumentario talvolta complicato e costoso. È quindi assai opportuno, per quanto è possibile, arrivare alla diagnosi con i mezzi semplici fin qui riferiti, riservando gli altri metodi ai casi da analizzare con maggiore precisione scientifica o a quelli nei quali l'indagine sia particolarmente complessa.
1. Forse il più importante sussidio strumentale ci è dato dall'esame radiologico del quale si parla diffusamente sotto.
2. Di più facile applicazione e quindi più usata è la misura della pressione arteriosa. Come sappiamo dalla fisiologia (v. sopra) la determinante essenziale della pressione arteriosa sta nel cuore e tale pressione sarà tanto più alta quanto più vicino è il vaso al cuore, al punto che all'inizio dell'aorta, la pressione equivale a quella intracardiaca al momento della sistole, circostanza per la quale la valvola aortica si apre. Andando verso la periferia, per la diminuzione della forza a mano a mano che ci si allontana dalla sua origine, la pompa cardiaca, e per l'aumentare della resistenza, costituita essenzialmente dalla diminuzione del diametro del tubo, la pressione diminuisce; questa circostanza permette appunto il progredire del sangue nell'albero artetioso. Nel momento in cui la valvola aortica si chiude, la pressione nell'albero arterioso discende mantenendosi però sempre a una certa altezza per il fatto che le pareti arteriose, essendo elastiche ed essendo state prima dilatate dall'impulso impresso dalla contrazione cardiaca, vengono poi a restringersi e cedono quindi quella forza che avevano immagazzinata. Esistono dunque nelle arterie due gradi di pressione corrispondenti l'uno alla sistole e l'altro alla diastole ventricolare: onde queste due pressioni si chiamano rispettivamente sistolica e diastolica ovvero, con termini aritmetici, massima e minima. La differenza fra la pressione sistolica o massima e diastolica o minima costituisce la pressione differenziale, meglio detta pressione del polso. Nella grandissima maggioranza dei casi la pressione arteriosa si misura al braccio: cioè si misura la pressione esistente nell'arteria omerale che, continuazione com'è della succlavia, ramo a sua volta dell'aorta, ci dà un indice della pressione laterale esistente nell'arco aortico. È merito di un italiano, S. Riva Rocci, l'avere introdotto un tipo pratico di strumento per misurare questa pressione, lo sfigmomanometro, strumento oggi adottato in tutti i paesi (v. sfigmomanometria). Recentemente s'è voluta introdurre un'altra misura, quella della pressione media, cioè di quella pressione che dominerebbe costantemente nell'albero arterioso e assicurerebbe il funzionamento della circolazione supponendo che la pressione stessa invece di oscillare tra un minimo e un massimo, a causa dell'intermittente contrazione cardiaca, fosse uniforme. Tale metodo ha suscitato però numerose controversie per il valore che si può attribuire ai suoi risultati. La cifra normale della pressione varia a seconda dell'età, del sesso, del periodo della giornata. In un uomo adulto essa, misurata al braccio, è di 130-140 mm. di Hg la sistolica e di 75-80 mm. di Hg la diastolica.
3. Non è difficile misurare la pressione venosa, ma essa implica la puntura della vena nella quale s'introduce un ago collegato a un manometro. Per tale ragione, e perché basta in genere vedere le vene turgide (fatta eccezione di lesioni locali, come le varici) per dedurre che la pressione in esse è aumentata, si ricorre di rado alla sua misurazione. Si comprende facilmente che essa è aumentata tutte le volte che il vuotamento del cuore è difettoso per una ragione qualsiasi e quindi il sangue ristagna nell'orecchietta'destra.
4. La terza sezione dell'apparato circolatorio perilerico, i capillari, può essere studiata per mezzo di un apposito strumento, il capillariscopio, costituito da un microscopio opportunamente adattato. Si possono così vedere le anse capillari eventualmente ingrandite e deformate. Ma sinora tale metodo di studio è stato di scarsa utilità pratica (v. capillari, vasi).
5. Una messe assai più ricca di risultati ci ha fornito lo studio del ritmo cardiaco (v. aritmia), al quale si è potuto giungere per mezzo d'ingegnosi strumenti che registrano le pulsazioni del cuore o dei vasi, arterie e vene, e per mezzo di quell'altro meraviglioso strumento che è l'elettrocardiografo (v. elettrocardiografia).
6. Tra gli esami collaterali che ci possono fornire informazioni assai utili sul funzionamento della circolazione, ha grande importanza quello delle urine, dati i rapporti già accennati tra rene e circolo. Anzitutto interessa conoscere la quantità delle urine nelle 24 ore (normalmente 1200-1500 cc.); nello scompenso circolatorio l'urina è assai scarsa e un miglioramento è spesso accennato da un accentuarsi della diuresi. Segue l'esame chimico e microscopico delle urine stesse. E, infine, uno studio della funzionalità renale con le prove di concentrazione e diluizione, la ricerca di un'eventuale ritenzione azotata e le altre a questa connesse.
7. Minore interesse ha l'esame dell'espettorato. Accenniamo soltanto che questo nelle malattie di cuore è talvolta striato di sangue o francamente emorragico, o per stasi sanguigna nei polmoni, o per infarto polmonare, e altre volte assume un aspetto fisico di aereazione e di colorito più o meno caratteristici.
8. Un gruppo di utili informazioni si possono trarre dalle svariatissime ricerche cui può essere sottoposto il sangue. L'esame quantitativo dei suoi componenti ci può far rilevare, da un lato l'esistenza di un'anemia, con una diminuzione percentuale che incide più sull'emoglobina che sui globuli rossi, quale si riscontra nelle cardiopatie reumatiche e nelle endocarditi infettive, e, dall'altro, la presenza di un numero eccessivo di leucociti - leucocitosi - che si ha pure nelle endocarditi batteriche e negl'infarti del miocardio. Prelevando sterilmente un campione di sangue e seminandolo in adatti terreni di coltura, si può ottenere lo sviluppo di batterî che sono causa di un'eventuale malattia in atto e che, circolando nel sangue, hanno specialmente attaccato l'endocardio. Opportune ricerche sierologiche hanno importanza per scoprire la positività di una reazione di Wassermann, la quale indica la presenza di sifilide, causa tra le più comuni di alcune malattie cardiache e aortiche. Infine si possono eseguire sul sangue analisi chimiche. Oltre a determinarne il tasso in azoto, cui già abbiamo accennato, e che ci indica più specialmente il funzionamento dei reni, in questi ultimi tempi ha acquistato importanza, particolarmente dal punto di vista fisiopatologico, l'analisi dei gas del sangue. Apparecchi alquanto complicati, ma portati oggi a un notevole grado di perfezione, permettono di calcolare la quantità di ossigeno e di CO2 esistente nel sangue, sia arterioso sia venoso, la qual cosa, come si comprende, ci può dare informazioni assai utili sul modo come si compie la circolazione e la funzione di essa più importante, cioè gli scambî gassosi sia al centro, nel polmone, sia alla periferia, tra capillari e tessuti.
9. Varî esami collaterali concorrono a fornire alla scienza altri dati per lo studio della funzione circolatoria.
Comune alle ricerche ultime citate, perché si svolge pure sul sangue, è la determinazione della massa del sangue. Tale indagine è di grande interesse scientifico; una diminuzione della velocità di corrente sanguigna, di cui parleremo appresso, può aver valore solo se non si modifica il letto circolatorio e la migliore misura che abbiamo di questo ci è offerta dalla massa del sangue; e mentre un aumento di questa implica, com'è ovvio, un eccesso di lavoro per il cuore, una sua diminuzione significa un minore riempimento di quell'organo durante la diastole e quindi una diminuzione del successivo efflusso a ogni sistole; infine un aumento o una diminuzione della massa del sangue possono essere considerati come meccanismi di compenso. Tra i varî metodi adottati quello più in uso e più semplice consiste nell'introduzione nelle vene di una esatta quantità di una sostanza colorante e nella successiva determinazione del grado di diluizione in cui questa viene a trovarsi nel sangue circolante.
Il valore medio della massa di sangue circolante, secondo le ricerche di varî autori, è intorno ai 75 centimetri cubi per kg. di peso del corpo.
Una ricerca semplice, ma che s'è rivelata di grande valore per apprezzare la funzione circolatoria è quella della cosiddetta capacità vitale, cioè della massima quantità di aria che un soggetto può emettere con un'espirazione la più forzata possibile: quantità che si ottiene facendo compiere questa espirazione, a naso cnuso, in un semplice strumento misuratore o spirometro (v. spirometria).
Per quanto meno intimamente connesso con la funzione circolatoria, pur in casi particolari può avere valore la determinazione del metabolismo basale (v. metabolismo), cioè della quantità d'ossigeno che l'organismo consuma dopo 12 ore di digiuno e da mezza a un'ora di completo riposo. È noto che in definitiva l'ultima espressione dell'attività vitale dell'organismo, la quale è certamente legata al modo come si compie la circolazione, consiste nel consumo di ossigeno: con un apposito apparecchio in cui s'introduce una determinata quantità di ossigeno e al quale è connessa la bocca del soggetto mentre il naso viene chiuso, si può vedere, dopo un periodo di tempo esattamente misurato (6 o 10 minuti), quanto ossigeno viene consumato (v. ricambio).
Più importante è la determinazione della velocità della corrente sanguigna, per la quale esistono metodi assai numerosi che ci hanno fornito larga messe di risultati. Uno dei metodi più semplici, sebbene abbia il difetto di dipendere dall'osservazione del soggetto, consiste nell'introdurre nelle vene una sostanza la quale dia una sensazione speciale, come il cloruro di calcio che dà un senso di calore diffuso o la decolina che dà un senso di amaro in bocca. Con altre sostanze si può ottenere anche un fenomeno obiettivabile: il cianuro di sodio provoca un brusco aumento della frequenza del respiro, la fluorescina una fluorescenza delle labbra che può osservarsi con la luce ultravioletta, e, infine, metodo il più esatto finora escogitato, una sostanza radioattiva di cui si può sorprendere con uno speciale strumentario il passaggio in un altro punto del circolo. Si prende come tempo di circolazione quello che passa tra l'introduzione delle sostanze estranee e la comparsa della reazione. S'intende che non si tratta di dati assoluti che indicano velocità in unità di lunghezza (metri) per unità di tempo (secondo), ma valori relativi ottenuti, in soggetti patologici in confronto a soggetti normali, usando rigorosamente le stesse modalità del metodo.
Da ultimo l'indagine che di recente ha grandemente interessato gli scienziati è la determinazione della quantità di sangue che il cuore emette a ogni sua contrazione, cioè la cosiddetta gettata sistolica (débit systolique, cardiac outpout, Schlagvolumen).
Non è possibile dare qui anche un semplice accenno ai numerosi metodi, spesso complicati, che sono stati proposti per questa ricerca; ma, per dare un'idea del modo con cui si può arrivare a questo dato, ricorderemo con un esempio in cifre il principio di Fick su cui è fondata una gran parte dei metodi suddetti. Supponiamo che il sangue venoso che va al polmone contenga il 12% di ossigeno, ciò che val quanto dire 120 cc. in un litro, e che il sangue arterioso che dai polmoni ritorna al cuore ne contenga il 20%, ossia 200 cc. in un litro; la differenza (200 − 120 = 80 cc.), differenza arterioso-venosa, è stata per ogni litro di sangue assorbita nei polmoni. Ma noi possiamo facilmente sapere quanto ossigeno viene ritenuto nei polmoni con la respirazione; baffia determinare la quantità di ossigeno nell'aria inspirata e quella nell'aria espirata e farne la differenza. Supponiamo che questa sia di 480 cc. in un minuto. Ora se in un minuto i polmoni, e quindi il sangue che in essi ha circolato, hanno assorbito 480 cc. di ossigeno, se questo sangue per ogni litro se ne è portato via 80 cc., è chiaro che in un minuto sono passati nel polmone, cioè sono stati espulsi dal ventricolo destro, 480 diviso 80 cioè 7 litri di sangue. Ed esattamente la stessa quantità deve essere stata espulsa in un minuto dal ventricolo sinistro, perché non è ammissibile che non sia la stessa quantità a essere espulsa dai due ventricoli nell'unità di tempo, altrimenti non si saprebbe dove l'eccesso andrebbe ad accantonarsi. La maggior parte dei metodi oggi più usati, pur essendo una derivazione di quanto abbiamo esposto, si servono dell'introduzione (per le vene o per i polmoni) di un gas estraneo di cui poi determinano del pari la differenza arteriosovenosa.
10. In possesso dei dati precedenti, si è cercato di calcolare il lavoro compiuto dal cuore e dal polso in un dato soggetto; ottenendo peraltro risultati di scarso interesse clinico, perché le formule escogitate sono o troppo grossolane o troppo complicate e basate su dati ottenibili solo negli animali.
Per darne un'idea diremo che il lavoro del ventricolo sinistro può esser calcolato grossolanamente quando si conosca la gettata sistolica, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa media; se il ventricolo sinistro espelle 100 cc. a ogni pulsazione, a una frequenza di 60 al m′ a una pressione arteriosa media di 100 mm. di Hg, ciò significa che in un minuto solleva 60 × 100 = 6000 cc. di sangue a un'altezza di 10 cm. di Hg; e poiché 10 cm. di Hg equivalgono in peso di sangue a circa 130 cm., il lavoro compiuto da questo ventricolo sinistro sarà di 130 × 6000 = 780.000 grammicentimetri cioè di 7,8 chilogrammetri al minuto.
Lo stesso si può dire per i tentativi di misurare la forza del polso. Per questa ricerca hanno suscitato un certo interesse la sfigmobolometria e l'energometria che hanno avuto però scarsa applicazione pratica. Tali ricerche in linea generale si basano sulla misura della pressione arteriosa media moltiplicata per l'effettivo movimento in centimetri della parete arteriosa quando viene distesa dal polso e si compiono con speciali strumenti, rispettivamente lo sfigmobolometro e l'energometro.
Come s'è visto, la grande maggioranza dei metodi sopra riferiti converge su un unico problema, la misura del grado di funzionalità cardiaca, la capacità di un dato sistema circolatorio a compiere il suo lavoro. E poiché è ben noto dalla fisiologia che il cuore normale non lavora mai al massimo delle sue forze e cerca di adattarsi al compito che gli viene richiesto, una ricerca analoga alle precedenti è fondamentalmente quella della forza di riserva cardiaca. A tale scopo si può giungere con molti dei metodi precedenti (per es., capacità vitale, metabolismo basale, velocità di corrente, gettata sistolica, ecc.), determinandoli prima nel soggetto a riposo e poi dopo un determinato sforzo. Però i metodi suddetti sono in gran parte di applicazione complicata, alcuni non sicuri nei risultati, comunque non utilizzabili nel lavoro clinico abituale. Se ne sono ideati molti altri basati su ricerche semplici e rapide. Il più elementare è quello della frequenza del polso, misurando a quante pulsazioni si arriva dopo un dato sforzo (per es., un certo numero di flessioni) e dopo quanto tempo si ritorna al punto di partenza. È noto che uno dei modi con cui il cuore cerca di rispondere alla maggiore richiesta di lavoro è l'aumento del numero dei suoi battiti per poter muovere nel circolo una maggiore quantità di sangue. Un altro metodo tiene conto dell'elevazione della pressione dopo lo sforzo, ovvero dopo che con l'applicazione di un bracciale elastico si è escluso dal circolo un arto. Con la stessa manovra si è cercato di vedere se radioscopicamente il cuore presentava modificazioni della sua grandezza e dell'ampiezza delle sue pulsazioni. Resta come metodo più semplice e più pratico contare il numero delle pulsazioni a riposo o dopo minimi sforzi (quali lo spogliarsi, o al massimo, il salire più volte su un banchetto e discenderne) notando nello stesso tempo se il soggetto si affanna e come si affanna. Su quest'ultimo dato abbiamo già insistito parlando dell'anamnesi dell'esame obiettivo.
Premessi i cenni generali dell'esame di un malato del circolo, riassumiamo i punti fondamentali della patologia cardiaca.
Malattie del cuore e dei vasi in rapporto con lesioni di questi organi. - Il cuore, com'è noto, è costituito nelle sue pareti da tre strati, l'endocardio, il miocardio e il pericardio; tutti e tre, se colpiti da un agente morboso, possono ammalarsi e a tali malattie s'è dato, con una terminologia non assolutamente esatta, il suffisso -ite che indica infiammazione. Si conoscono così l'endocardite, la miocardite e la pericardite; non è raro che le tre forme vengano a combinarsi in una pancardite, nome non troppo usato.
Dal punto di vista della frequenza e da quello delle conseguenze e postumi la più importante delle malattie sopracitate è l'endocardite. Di questa malattia, nella sua forma acuta, si parla nella voce corrispondente. Dobbiamo qui trattenerci sulla forma cronica.
Endocardite cronica. Vizî valvolari. - La denominazione endocardite cronica è solo giustificata dal fatto che si tratta di un danno dell'endocardio ormai stabile, che non può più regredire, quindi cronico, ma non è in realtà un processo in atto, un'infiammazione progrediente, è solo l'esito della forma precedente. Tuttavia con l'andare degli anni avviene un progressivo aggravamento nelle condizioni del soggetto, non perché si modifica la lesione valvolare, ma per le conseguenze da essa prodotte nel circolo e nel cuore stesso.
L'esito delle endocarditi acute e subacute sulle valvole cardiache, attraverso cicatrici, usure, saldamenti, ispessimenti può essere di due specie: o il restringimento dell'orifizio valvolare, sicché questo non riesce completamente ad aprirsi quando è necessario, ciò che costìtuisce la stenosi, ovvero l'incapacità a chiudersi completamente, quando deve opporsi alla corrente sanguigna, ciò che costituisce l'insufficienza. Dobbiamo aggiungere che sulle valvole aortiche e polmonari gli stessi risultati possono essere conseguenza non di un processo infiammatorio dell'endocardio (endocardite), ma di un processo che interessa i vasi arteriosi, propagandosi fino alla loro estremità centrale rappresentata appunto dalle valvole, e cioè l'arteriosclerosi e specialmente la sifilide. Queste due cause presentano poi un particolare aggravante e cioè che mentre il vizio da endocardite è un esito di un processo ormai spento, che al massimo potrà peggiorare lentissimamente e di poco per il retrarsi dei tessuti cicatriziali, qui si tratta di malattia in atto, per quanto ad andamento anch'esso assai cronico.
Infine, dobbiamo ricordare che i vizî valvolari nell'adulto interessano quasi esclusivamente le valvole del cuore sinistro cioè la mitrale e l'aortica. Non è escluso poi che una stessa valvola sia a un tempo stenotica e insufficiente e che siano interessate a un tempo tutte e due le valvole (talvolta anche una valvola del cuore destro), nei cosiddetti vizî multipli.
Dato il fatto che i vizî del cuore destro costituiscono una rarità (a meno che non si tratti di vizî congeniti di cui tratteremo appresso), ci limiteremo ai cenni fondamentali di fisiopatologia per comprendere la stenosi e l'insufficienza della valvola aortica e la stenosi e l'insufficienza della valvola mitrale.
Possiamo far precedere alcuni concetti generali, giacché tanto la stenosi quanto l'insufficienza funzionano rispetto al circolo in un modo analogo: come un ostacolo. Ora qui giova il classico paragone, adottato da molti autori, con un fiume. Se in questo si erige un ostacolo, una diga, a monte di questa si produrrà un bacino di piena, una stasi fino a che il livello riesce a sormontare la diga; e inoltre sulle pareti di questo bacino e sulla diga stessa (cosa di cui debbono tener ben conto gl'ingegneri) si eserciterà una forte pressione; comunque, fintanto che la diga e le pareti del bacino resistono a questa pressione, la corrente, superata la diga, si porta a valle, quasi come se l'ostacolo non esistesse; ma quando diga e parete del bacino non reggono più si ha un'inondazione. Riportandoci alle condizioni del cuore, nel primo caso si tratta di un vizio compensato, nel secondo di un vìzio scompensato.
Ma altre particolarità si hanno nel cuore che deve lottare contro un ostacolo. A causa del maggior riempimento che in esso si produce, le sue fibre si allungano, il che permette un lavoro migliore. Infatti, come gli altri muscoli del corpo umano, tanto meglio si contraggono e si raccorciano quanto più erano stati prima distesi, così il muscolo cardiaco, quanto più all'iniziarsi della sua contrazione, della sistole, era stato disteso, tanto meglio poi si contrae; è questa la cosiddetta legge del cuore formulata da E. H. Starling, ma già prima riconosciuta dall'italiano D. Maestrini. Tuttavia, come il muscolo scheletrico si contrae meno efficacemente quanto più grande è l'ostacolo al suo accorciamento, così il muscolo cardiaco ha una sistole più debole se l'ostacolo da vincere è più grande. E qui giova un altro paragone che è formulato da K. F. Wenckebach. Il cuore lavora come un arco: il sangue che vi affluisce lo tende, non appena il tiro è scoccato l'arco torna alla posizione di partenza. La forza del tiro è dipendente dall'ampiezza della tensione, quanto più è teso l'arco, tanto più lontano va il dardo. Naturalmente con la presenza di un ostacolo più grande (vento contrario) la lunghezza del tiro sarà minore. Se a tutto ciò aggiungiamo che il muscolo cardiaco, come gli altri muscoli, più lavora più s'ipertrofizza (limitatamente alle sue possibilità), avremo fissati i principî generali della fisiopatologia dei vizî valvolari. Applichiamoli ora alle singole deformazioni valvolari.
Nella stenosi aortica (fig. 44) il sangue non può defluire come normalmente e s'accumula nel ventricolo sinistro nel quale la pressione aumenta e la cavità si dilata; nello stesso tempo, trovandosi a compiere un maggior lavoro per cercare di vincere l'ostacolo, la parete del ventricolo s'ingrossa, s'ipertrofizza, ciò che costituisce un compenso al pericolo di una gettata sistolica troppo piccola. Semeioticamente avremo i segni di un ingrandimento del ventricolo sinistro e un rumore di soffio che si produce nel momento in cui la valvola dovrebbe essere completamente aperta e non lo è, cioè nella sistole ventricolare. Poiché il ventricolo sinistro è dotato di una spessa parete muscolare il compenso dura a lungo e questo vizio è tra i meglio sopportati, sebbene possano esistere segni di una circolazione periferica non perfettamente adeguata e sia in esso abituale il polso radiale piccolo. È questo il caso che meglio s'avvicina all'esempio sopra citato della diga nel fiume. Quando poi in seguito al sopralavoro compiuto o per altre complicazioni il ventricolo sinistro non è più in grado di assolvere il compito, si cade nello scompenso cardiaco (v. sotto).
Anche nell'insufficienza aortica (fig. 45) l'ostacolo risiede nello stesso punto del vizio precedente, ma le condizioni sono alquanto differenti. A ogni diastole refluisce del sangue per la valvola, che non chiude bene, nel ventricolo sinistro a causa della maggior pressione esistente nell'aorta; quindi, come neìla stenosi, il ventricolo viene a riempirsi di una quantità di sangue maggiore del normale e nella sistole successiva, per vuotarsi e per assicurare una buona gettata sistolica, deve compiere un maggior lavoro. Ne segue anche qui aumento di pressione, dilatazione e ipertrofia del ventricolo sinistro. Le conseguenze si fanno risentire anche nel sistema arterioso perché per la "fuga" di sangue che nella diastole torna indietro nel ventricolo (sangue che non è utilizzato per la circolazione e quindi le forze compensatrici vanno in parte inutilizzate) la pressione diastolica nelle arterie è più bassa, quindi più ampia la differenza con la sistolica (che spesso è anche dal canto suo innalzata) cioè la pressione del polso, e quindi il polso stesso appare scoccante. Semeioticamente, oltre a questo carattere del polso, l'insufficienza aortica è caratterizzata dai segni d'ingrandimento del ventricolo sinistro e da un rumore di soffio che si produce quando la valvola dovrebbe esser chiusa e non lo è, vale a dire nella diastole. Clinicamente anche qui il vizio è sopportato bene per lungo tempo, dato che il compenso è affidato a una buona muscolatura qual è quella del ventricolo sinistro; e specialmente ciò si verifica se il vizio si produce in età ancora giovane quando l'organismo è capace di sforzi riparatori da parte dei suoi tessuti e quindi anche del miocardio. Ma quando a un certo punto il ventricolo sinistro cede, è per lo più caratteristico un tracollo rapido e non facilmente riparabile come nei vizî mitralici.
Condizioni analoghe a quelle della stenosi aortica ma con differenti conseguenze si hanno nella stenosi mitralica (fig. 46). Qui, dato l'ostacolo esistente al passaggio tra orecchietta e ventricolo sinistro, aumenta la pressione, si dilata la cavità, s'ipertrofizza la parete nell'orecchietta sinistra, cioè nella cavità immediatamente a monte dell'ostacolo; come accade per il ventricolo sinistro nella stenosi aortica. Ma ben diversi sono i poteri di adattamento e di compensazione di queste due parti del cuore e, data la povertà della muscolatura atriale e l'assenza di valvole allo sbocco in questa cavità delle vene polmonari, l'aumento di pressione e la stasi si ripercuotono sul circolo polmonare. Consecutivamente il ventricolo destro si dilata e s'ipertrofizza e la dilatazione è talora così accentuata che si dilata l'ostio di comunicazione tra orecchietta e ventricolo destro sicché la tricuspide non riesce più a chiudere e, pur non essendo malata la valvola stessa, si ha un'insufficienza tricuspidale. Del resto la situazione è qui più grave che nei vizî precedenti, perché il compenso è affidato essenzialmente al ventricolo destro assai più povero in muscolatura che il ventricolo sinistro; perché rapidamente si stabilisce una stasi polmonare e viene quindi disturbato lo scambio respiratorio; perché spesso si associa a questo vizio l'aritmia completa che è manifestazione, come vedremo, della fibrillazione auricolare; perché anche la circolazione periferica ne viene a soffrire in quanto le è sottratto il sangue ristagnante nel circolo polmonare, e il ventricolo sinistro, ricevendo troppo poco sangue, rimane piccolo e lavora poco e male. Piuttosto precoce per tutte queste ragioni è in questo vizio l'insorgenza dell'insufficienza cardiaca, con lo stabilirsi di una stasi sempre più a monte, nell'orecchietta destra, nel fegato e nelle vene periferiche (edemi, versamento). Semeioticamente esso si manifesta con un ingrandimento del ventricolo destro e con un rumore di soffio che si produce sulla valvola mitrale quando questa dovrebbe aprirsi bene per far passare il sangue dall'orecchietta al ventricolo, cioè nella diastole.
Più complessa nel suo meccanismo, più ricca di conseguenze sul cuore, ma non più grave nell'andamento clinico è l'insufficienza mitralica (fig. 47). Anche qui, come nel caso precedente, l'ostacolo si trova all'ingresso e non all'uscita del ventricolo sinistro; e siccome a ogni sistole parte del sangue refluisce attraverso la valvola mitrale, che non chiude, nell'orecchietta soprastante, questa si dilata; ma poiché la sua muscolatura non è in grado di compensare l'eccesso di lavoro dovuto all'aumentata pressione, la stasi deve rivolgersi più a monte nel circolo polmonare e poi nel ventricolo destro, il quale, come avviene nella stenosi mitralica, si dilata e s'ipertrofizza.
Ma a tutto ciò, che ripete, mutatis mutandis, quanto abbiamo visto nei vizî precedenti, si aggiunge il fatto che anche il ventricolo sinistro partecipa al processo, in quanto esso nella diastole riceve una maggiore quantità di sangue perché l'orecchietta sinistra vi scarica, oltre a quello normale giuntole dalle vene polmonari, anche quello in essa refluito dal ventricolo sinistro stesso durante la sistole precedente. A questo "movimento pendolare del sangue" si aggiunge per il ventricolo sinistro la necessità di compiere un maggior lavoro per mantenere sufficiente l'eflusso sistolico attraverso l'aorta nonostante la "fuga" che avviene nello stesso momento attraverso la valvola mitrale. Il ventricolo sinistro, come sappiamo, è un buon lavoratore, e non si rifiuta; e il decorso clinico di questo vizio è piuttosto benigno, appunto perché il compenso è in parte affidato al ventricolo sinistro capace di mantenere la necessaria gettata sistolica. Semeioticamente esso si manifesta con un ingrandimento di tutto il cuore, sia a destra sia a sinistra, e con un rumore di soffio che si produce nella mitrale nel momento in cui questa valvola dovrebbe esser chiusa e non lo è a causa della sua insufficienza, cioè con un soffio sistolico.
Vizî congeniti. - Molto più rari dei precedenti, sono costituiti da lesioni del cuore che esistono già fin dalla nascita. La maggior parte di essi dipende da un difetto di formazione, alcuni probabilmente da un'endocardite intrauterina.
Nei primi stadî di sviluppo, il cuore non è costituito da quattro cavità ma solo da due, un'orecchietta e un ventricolo; soltanto in prosieguo di sviluppo si formano i due setti divisorî interauricolare e interventricolare; se questo sviluppo non è completo, resta una comunicazione interauricolare o una comunicazione interventricolare; ciò costituisce due dei più importanti vizî congeniti. Ancora: nel feto non funzionano i polmoni e questi sono quindi scarsamente irrorati di sangue, ma la corrente che passa nell'arteria polmonare viene poi deviata da questa nell'aorta per mezzo di una speciale comunicazione tra questo vaso poco dopo la sua origine e l'aorta, il dotto di Botallo; con la nascita e con l'entrata in funzione della respirazione questo canale si oblitera e si chiude; la sua persistenza, invece, costituisce un difetto di sviluppo e quindi un vizio congenito. Nei casi fin qui considerati, esiste dunque una comunicazione, tra sistema venoso e sistema arterioso. Un altro vizio congenito è rappresentato da un insufficiente sviluppo dell'imboccatura dell'arteria polmonare cioè da una stenosi di questa.
La sintomatologia dei vizî sopra citati è dominata da un fenomeno per lo più spiccato e che si comprende bene data l'essenza della malformazione: la cianosi. Esiste poi necessariamente un ingrandimento del ventricolo destro, e si ascoltano intensi rumori di soffio là dove esiste questa comunicazione abnorme. I pazienti hanno in genere un difficoltoso sviluppo somatico e una vita breve, quando essa non sia assolutamente impossibile per la gravità del vizio. Il quale poi è spesso combinato, costituito cioè da più malformazioni.
Prescindendo da altre alterazioni più rare o meno importanti, ricorderemo da ultimo la possibilità della posizione del cuore a destra invece che a sinistra o destrocardia, la quale può essere fenomeno isolato o associarsi a inversioni di tutti i visceri (fegato a sinistra, milza a destra, ecc., v. situs inversus viscerum).
Miocardite e pericardite. - Anche per queste malattie rimandiamo alle voci corrispondenti.
Effetti sul cuore delle malattie degli altri organi. - Sul circolo e quindi sul cuore possono influire notevolmente le malattie di altri sistemi. Citiamo alcuni esempî. Un enfisema polmonare, un'asma bronchiale, una bronchite cronica, per alterazioni strutturali e funzionali del polmone, determinano un disturbo del circolo polmonare, che si estrinseca specialmente in un aumento di pressione; per far fronte a questa aumentata resistenza, il cuore destro - così come il cuore sinistro nell'ipertensione generalizzata - si dilata e s'ipertrofizza e può arrivare sino allo scompenso. È questo ciò che costituisce il cor pulmonale. Nelle malattie dei reni, per un meccanismo non ancora ben precisato, ma che in parte si esplica attraverso l'ipertensione, il cuore s'ipertrofizza e da ultimo anche per fatti tossici vien meno al suo compito. Importante e sempre meglio studiata è l'influenza sul cuore della ghiandola tiroide; nelle malattie di questa compaiono numerosi disturbi del funzionamento cardiaco, ciò che in parte già gli antichi conoscevano sotto il nome di cuore da gozzo.
Le malattie dei vasi. - Delle tre parti del sistema vascolare - arterie, vene e capillari - la prima interessa di più la patologia per la maggiore importanza delle affezioni che possono colpirla.
Una malattia oggi ben conosciuta, certamente più diffusa di un tempo, è l'arteriosclerosi, per la quale si rimanda alla voce corrispondente.
Un'altra grave affezione che può colpire le arterie è la sifilide (v.). Qui ci interessa specialmente quando colpisce l'aorta, perché la sifilide dei piccoli vasi, specialmente del sistema nervoso, rientra piuttosto nel campo della neuropatologia.
L'aortite luetica appartiene al periodo terziario della malattia in quanto si sviluppa ed è lentamente progrediente a distanza di anni (10-20) dal sifiloma iniziale. È un processo che interessa specialmente lo strato medio della parete e, pur manifestandosi sulla superficie interna con sporgenze e con retrazioni cicatriziali, non arriva all'ulcerazione. Piuttosto accade che la parete arteriosa alterata perda la sua consistenza e ceda dando luogo alla formazione di aneurismi (v.). Ma un'altra grave complicazione dell'aortite luetica è che spesso si diffonde in basso fino alle valvole; come abbiamo avuto occasione di dire, l'insufficienza delle valvole aortiche, in molti casi è di origine luetica. Questo tipo d'insufficienza aortica è nel suo andamento e nelle sue conseguenze dinamiche del tutto simile a quella di origine endocardica; ma qui al processo valvolare e quindi cardiale s'aggiunge il processo aortico con tutto un suo proprio corteo sintomatico.
La terza importante malattia dell'aorta è l'aneurisma (v.).
Ricordiamo che anche l'arteria polmonare può ammalarsi sia per arteriosclerosi, sia per sifilide, sia per endocardite obliterante. Se questa attacca parecchi rami, costituisce la sindrome di Ayerza (v.) che alcuni vogliono riportare alla sifilide. Per l'endoarterite obliterante, v. buerger, malattia di.
Assai meno importanti sono le malattie delle vene, delle quali citiamo la flebite, cioè l'infiammazione dello strato interno della parete vasale, che ha per conseguenza la trombosi e talvolta il distacco di emboli, con tutti gli eventuali gravi effetti, e le varici che consistono in dilatazioni non uniformi del vaso, il quale, se superficiale, può anche aprisi all'esterno senza peraltro conseguenze gravi (v. anche embolia; flebite; infarto; trombosi).
Alterato funzionamento del circolo. - A un periodo della scienza medica basato sull'anatomia patologica e che è stato fecondo di risultati è succeduto oggi un altro orientamento, quello verso la fisiopatologia; siamo oggi rivolti a "pensare fisiologicamente". Non interessa tanto la fine diagnosi di una lesione del cuore o dei vasi quanto sapere come il cuore e il sistema circolatorio rispondano al loro compito in un dato paziente. È vero che tale alterato funzionamento è spesso in rapporto con una lesione strutturale, come sopra s'è detto, ma talvolta questa lesione manca o non si rivela con segni fisici, mentre la funzione è più o meno gravemente alterata. Questo modo di vedere ci permette inoltre di considerare sinteticamente le malattie di cuore, perché esse portano tutte, per varie vie, a una sindrome unica, sebbene varia nelle sue manifestazioni: l'insufficienza circolatoria, che costituisce, secondo Th. Lewis, il "problema centrale". I disturbi di funzione del circolo possono essere di grado assai vario; alcuni, come abbiamo visto, sono in rapporto con lesioni organiche difficilmente riparabili e perciò di prognosi generalmente più grave; altri, invece, sono di lieve entità, sine materia, e trascurabili. Cominciamo da questi ultimi.
1. I disturbi funzionali minori. - Questi sono anzitutto in rapporto a una disturbata innervazione del cuore. La fisiologia c'insegna che il cuore ha in sé stesso i meccanismi che assicurano il ripetersi ritmico delle sue contrazioni, ma nella frequenza di queste possono agire due nervi: il vago, che ha azione frenatrice, inibitrice, e il simpatico che ha azione acceleratrice. Quest'ultimo in realtà sembra essere essenzialmente una via di conduzione, della quale il centro si trova in una piccola formazione il "seno carotideo", situato alla biforcazione della carotide. Per l'accentuarsi dell'attività dell'uno o dell'altro nervo sono possibili due speciali alterazioni: il vagotonismo e il simpaticotonismo, le quali, oltre ad altre manifestazioni (v. parasimpaticotonia; simpaticotonia), si rivelano rispettivamente con una bradicardia e con una tachicardia, cioè con una diminuzione o con una frequenza del numero delle pulsazioni. Specie la tachicardia si può manifestare in forma transitoria, di breve durata, per lo più in rapporto con emozioni o coti lievi sforzi. In una forma accentuata questa tachicardia, accompagnandosi anche a palpitazione, a senso di debolezza prodotto da una causa minima, costituisce la "neurosi cardiaca".
Specialmente nella guerra mondiale è stata studiata la fenomenologia di quelle sindromi neurotiche che vanno sotto il nome di cuore del soldato.
Come per il cuore, così per i vasi esistono disturbi funzionali, specialmente per le arterie, che sono dotate di una ricca innervazione vasomotoria. Una stimolazione e un'eccessiva reazione di questi vasomotori produce una vasocostrizione con pallore della cute, cefalea, ecc.; sono fenomeni che si verificano, p. es., in seguito all'esposizione al freddo. Una paresi dei vasomotori produce vasodilatazione con arrossamento cutaneo. Tali fenomeni funzionali vascolari possono essere localizzati, come nella malattia di Raynaud o possono essere generalizzati; tra questi ultimi ha specialmente importanza la vasodilatazione dei vasi splancnici prodotta da varie cause e che può avere per effetto uno shock o collasso.
2. I disturbi del ritmo cardiaco. - Di tali disturbi, che interessano una delle più importanti funzioni del cuore, quella di battere ritmicamente, per lo più non si riesce a trovare una causa anatomica. Non ripeteremo qui quanto è detto ampiamente nella voce aritmia; basterà ricordare alcune nozioni essenziali. Alcuni di essi non presentano nessuna gravità: si tratta di battiti isolati, prematuri che dànno fastidio al soggetto e preoccupazione, in quanto li avverte come un colpo al cuore, e per lo più s'accompagnano con un'apparente intermittenza del polso: sono le cosiddette extrasistoli. Esse sono dovute all'insorgenza in sede abnorme dello stimolo alla contrazione; quando si ripetono in serie si ha la tachicardia parossistica. Questo attacco di aumentata frequenza cardiaca, che inizia e termina bruscamente, può durare minuti, ore, giorni; se breve, è di scarsa importanza, se prolungato, può anche accompagnarsi a fenomeni di insufficienza cardiaca. Gli attacchi possono riuscire fastidiosi e preoccupanti se si ripetono con grande frequenza. Poiché lo stimolo alla contrazione passa nel cuore dalle orecchiette ai ventricoli attraverso una speciale formazione, il fascio di His, può accadere che per alterazione di questo (ecco il caso in cui al disturbo del ritmo può essere di base una lesione organica) tale conduzione venga interrotta. Si ha allora un "blocco" intracardiaco con il risultato che se il ventricolo non assume rapidamente un ritmo suo proprio, sempre più lento del normale (bradicardia), la circolazione viene momentaneamente interrotta con tutte le conseguenze che si possono facilmente comprendere, specialmente a carico della circolazione cerebrale (v. adams-stokes, morbo di).
Infine alcune volte, per cause non ancora precisate, l'orecchietta si mette a battere rapidamente seguita o no (e talvolta solo parzialmente) dal ventricolo: ciò che costituisce il flutter auricolare. Ovvero l'orecchietta stessa cade sotto il dominio di stimoli frequentissimi e disordinati, essa praticamente non si contrae più e manda disordinatamente solo alcuni impulsi al ventricolo, il quale quindi pulsa anch'esso disordinatamente. Si parla allora di fibrillazione auricolare alla quale si deve l'aritmia completa, il delirium cordis che è tra i più importanti disturbi del ritmo, per le conseguenze che possono essere assai gravi e che contribuiscono notevolmente all'insufficienza cardiaca, per la sua frequenza (una metà o due terzi degli scompensati sono fibrillatori), per la possibilità di una terapia tra le più efficaci, come vedremo.
3. L'ipertensione. - Dopo essere stata a lungo ritenuta come esclusiva conseguenza di una preesistente lesione renale o di arteriosclerosi, con l'introduzione e la larga applicazione dello sfigmomanometro s'è venuto affermando il concetto che l'ipertensione è l'espressione di una malattia a sé: l'iperpiesi, la malattia cardiovascolare ipertensiva, l'ipertensione essenziale.
Sebbene siano state invocate le più svariate cause, siamo in proposito ancora molto all'oscuro; si tende ad ammettere un fattore costituzionale, forse ereditario, associato ad alterazioni endocrine e ad abitudini di vita antigieniche, specialmente errori dietetici. Tra le varie ipotesi sul meccanismo patogenetico dell'ipertensione, la più probabile sembra quella che ammette la presenza di uno spasmo permanente dei piccoli vasi come il fattore più importante dell'aumento di pressione, in base alla nota legge di Poiseuille che in un sistema chiuso la pressione varia in ragione diretta dell'efflusso al minuto, della prima potenza della viscosità e inversamente alla quarta potenza del raggio del tubo.
Esiste tuttavia anche una lesione anatomica fondamentale che è a base di questa malattia: l'arteriolosclerosi cioè un'alterazione somigliante all'arteriosclerosi che interessa le "arteriole", vale a dire le ultime terminazioni delle arterie prima dei capillari.
Non è però accertato - la questione è ancora discussa dagli studiosi - se questa lesione sia causa o conseguenza dello spasmo vasale.
Il quadro clinico della malattia è svariatissimo, ma vogliamo particolarmente insistere sul fatto che la cifra della pressione non ne costituisce che uno dei sintomi, quello che generalmente è causa di una grande apprensione ai pazienti. Sta di fatto che alcuni soggetti vivono benissimo ignorando di avere una pressione di 240, mentre altri stanno male già per una pressione di 160 mm. dì Hg. Oltre all'innalzamento della pressione, che può raggiungere anche i 300 mm. di Hg, si hanno altri sintomi: a carico del cuore, in cui domina l'ipertrofia e che può poi ricadere nella fase di scompenso; a carico delle coronarie, per le quali si possono avere sindromi anginose; a carico del sistema nervoso, con cefalea, vertigini, irritabilità, con quel particolare quadro di encefalopatia ipertensiva che corrisponde alla pseudouremia di Volhard (convulsioni e paralisi transitorie) e, associato all'arteriosclerosi, con il quadro gravissimo dell'emorragia cerebrale; a carico dei reni, con poliuria, albuminuria, cilindruria, fino al quadro dell'insufficienza renale; a carico degli occhi, con la retinite ipertensiva, erroneamente detta albuminurica.
Nonostante l'abbondantissimo armamentario farmaceutico indirizzato a questo scopo - il che è diretta conseguenza della grande diffusione della malattia - non abbiamo un mezzo sicuro per abbassare permanentemente la pressione e quindi per arrestare o far regredire definitivamente la malattia. Tuttavia nei casi in cui la pressione sia molto alta e il quadro clinico fastidioso o allarmante, in particolare nelle sindromi anginose e nelle encefalopatie ipertensive, possiamo ricorrere ad alcuni mezzi terapeutici che riescono ipotensivi ma solo in via transitoria. Tra questi va messo in prima linea il riposo più o meno assoluto e un regime dietetico rigoroso, specialmente basato sulla limitazione dei cibi e delle bevande; non ha importanza la qualità ma la quantità. Nelle crisi acute e, talvolta anche come metodo di trattamento, può riuscire utile il salasso. E tra i mezzi terapeutici citiamo solo i nitriti, i derivati purinici (teobromina, ecc.) e gli estratti d'organi (fegato, muscoli, arterie, pancreas disinsulinizzato).
4. L'angina di petto. - Di questo temuto accidente, basato principalmente su malattia delle coronarie, ma talvolta semplice fatto funzionale in rapporto con l'ipertensione e a ogni modo "grido di dolore" del miocardio, che non bene nutrito funziona male, si parla nella voce corrispondente (v. angina pectoris).
5. L'insufficienza circolatoria. - Il cardiopaziente si manifesta realmente un malato quando in esso il sistema circolatorio non è più sufficiente al suo compito, qualunque ne sia la causa. Infatti tutte le varie malattie che abbiamo sinora ricordate, portano in definitiva a uno stesso quadro, il quale può variare di grado e di manifestazioni. Tali cause dell'insufficienza cardiaca possono riunirsi in due grandi gruppi: le più comuni e le più rare. Le prime comprendono l'ipertensione, l'arteriosclerosi e - spesso attraverso i vizî valvolari - il reumatismo e la sifilide. In percentuale anche inferiore al 10% sono, come cause meno comuni, le malattie croniche dei polmoni, i vizî congeniti, l'ipertiroidismo, l'endocardite batterica. Una disturbata funzione del circolo si può estrinsecare attraverso due grandi sindromi: l'angina di petto, e il cosiddetto scompenso cardiaco (taluni vorrebbero respingere quest'ultima denominazione, ormai entrata nell'uso comune per indicare che gli organi della circolazione, dapprima in grado di "compensare" il disturbo esistente, a un certo momento non lo sono più e pertanto si "scompensano").
È possibile stabilire un certo grado progressivo nello svilupparsi dell'insufficienza circolatoria, ciò che è servito di base alla classificazione funzionale delle cardiopatie stabilita dalla American Heart Association:
I. Cardiopatia possibile: malati in cui la diagnosi di cardiopatia è incerta, ma che presentano sintomi anormali riferibili al cuore.
II. Cardiopatia accertata. Capacità funzionale: Classe I - Attività fisica ordinaria sopportata senza disturbo. Classe II - L'attività fisica ordinaria è accompagnata da disturbi: a) attività leggermente limitata; b) attività moderatamente limitata; c) attività fortemente limitata. Classe III - Sintomi di cardiopatia a riposo; incapacità a sopportare senza disturbo qualsiasi attività fisica.
Le cause determinanti che portano all'insufficienza circolatoria sono quanto mai varie, spesso insieme combinate, forse ancora più spesso non identificabili. Possiamo citare: le infezioni intercorrenti (speciale importanza hanno quelle dell'apparato polmonare), lo sforzo fisico, le emozioni e l'eccessivo lavoro mentale, le modificazioni del ritmo, gli eccessi del mangiare e del bere e l'obesità. Senza dimenticare poi che alcune malattie del circolo come l'arteriosclerosi, l'ipertensione, la sifilide, sono fatalmente progressive per sé stesse.
Ma ciò che ha più affaticato i fisiopatologi è il meccanismo con il quale si produce l'insufficienza del circolo, problema molto difficile a riassumere in poche parole.
Recentemente alcuni autori hanno voluto negare sotto tale riguardo ogni importanza al cuore: M. Mendelsohn pubblicava un piccolo lavoro col titolo. Das Herz, ein sekundares Organ (Berlino 1928). In base a queste vedute, per un accumulo di acido lattico alla periferia avverrebbe un accaparramento da parte di questa dei cosiddetti "sali tamponi" e quindi non ne rimarrebbero disponibili per il CO2 del sangue periferico. Da ciò una cattiva utilizzazione di ossigeno sempre alla periferia e un'aumentata velocità di corrente. Ne deriverebbe un aumentato riempimento del cuore; da questo, a sua volta, insieme con la maggiore acidificazione, una diminuzione del tono del cuore. Conseguenza finale sarebbe un rallentamento della circolazione periferica con gli effetti ben noti: scompenso, cianosi, edema. Seiondo questi concetti la dottrina dell'insufficienza cardiaca diventa una parte della patologia del ricambio (H. Eppinger). Ma in realtà tutta questa costruzione teorica, sebbene qua e là appoggiata ad alcuni dati di fatto (come la cattiva utilizzazione di ossigeno alla periferia, l'aumento del metabolismo basale, l'aumento dell'acido lattico) non regge alla prova dei fatti e non serve che a dimostrare che le condizioni del ricambio periferico concorrono sì alla produzione dell'insufficienza circolatoria, ma non ne costituiscono la causa essenziale. Questa, come tutte le osservazioni cliniche tendono a dimostrare, deve risiedere nel venir meno del cuore. Ma sul come questo avvenga le opinioni sono discordi, e si trovano di fronte due teorie. L'una ammette che l'insufficienza circolatoria dipenda da un diminuito afflusso di sangue ai varî organi. secondo J. Mackenzie i primi disturbi si estrinsecano a carico del sistema che precocemente venga a soffrire di un difficoltato afflusso sanguigno. Questo è appunto il sistema respiratorio e la difficoltà del respiro è di solito il primissimo segno del venir meno del cuore. Ma per ammettere questa "insufficienza centrifuga o anteriore" (forward failure) occorre dimostrare che negli scompensati l'efflusso dal cuore al minuto è diminuito. Ora le ricerche sulla gettata sistolica, fatte con i metodi più moderni (v. sopra) hanno dimostrato che nei cardiopatici il volume-minuto è talvolta normale (H. Eppinger l'avrebbe trovato addirittura aumentato), per lo più diminuito, ma a un grado uguale a quello di altri soggetti non cardiopazienti e - ciò che più importa - che i malati d'insufficienza cardiaca con stasi presentano una diminuzione della gettata dello stesso grado che i cardiopatici non scompensati.
La teoria opposta è quella dell'insufficienza da stasi, dell'insufficienza a posteriori (backward failure). Tale dottrina ammette che i sintomi dello scompenso sono da attribuirsi a un aumento di pressione a monte della sezione cardiaca che è venuta meno. Il sopralavoro del cuore (vizio valvolare, ipertensione, ecc.) porta a ipertrofia e dilatazione delle sezioni sottoposte a quel sopralavoro. Se la dilatazione diventa estrema, aumenta la pressione nelle vene affluenti a quella sezione, donde la congestione degli organi che da quelle vene sono drenati.
Questa teoria spiega bene i fenomeni che si producono nei varî vizî valvolari, secondo l'esempio che abbiamo più sopra citato del fiume interrotto da una diga.
Se la teoria dell'aumento di pressione a monte è corretta, la spiegazione delle manifestazioni cliniche dell'insufficienza cardiaca non deve ricercarsi nella gettata sistolica, ma piuttosto nelle altre funzioni, come la pressione venosa, la massa del sangue e la velocità di corrente. Queste ricerche (v. sopra) dimostrano: 1. la velocità della corrente sanguigna è diminuita negli scompensati; 2. la massa del sangue è aumentata nella maggior parte dei casi d'insufficienza (le plus de compensation di E. Wolheim); 3. la pressione venosa (nel circolo generale, perché non è stato finora possibile misurare quella del piccolo circolo) è nettamente aumentata. Questi dati pertanto confermano l'ipotesi dell'aumento di pressione a monte come causa dei sintomi dello scompenso.
Ma pur dando il maggior valore all'aumentata pressione per stasi, non si può escludere l'importanza del diminuito afflusso sanguigno e cioè della diminuita gettata sistolica, come non vanno trascurati i fenomeni periferici del ricambio.
I fenomeni dell'insufficienza cardiaca si possono distinguere in quelli dipendenti principalmente da un'insufficienza o del ventricolo sinistro o del ventricolo destro; spesso però le due serie di fatti si combinano tra loro e non di rado agli uni col progredire del male si aggiungono gli altri.
La deficiente funzione del ventricolo sinistro porta a un cattivo svuotamento di questo e, in accordo con la teoria della stasi a monte, i fenomeni si fanno sentire essenzialmente nel circolo polmonare. Questa insufficienza ventricolare sinistra può avvenire acutamente e si ha allora l'edema polmonare acuto. Anche per questo la patogenesi è stata molto discussa e certo vi concorrono fattori chimici, tossici, ormonici; ma una delle teorie più accettate è che, spesso per un brusco aumento della pressione intraaortica, il ventricolo sinistro malato non è più capace di spingere efficacemente il sangue e quindi questo aumento di pressione si ripercuote sul circolo polmonare che non può svuotarsi; ne segue la trasudazione di liquido negli alveoli. La situazione è maggiormente aggravata quando il ventricolo destro, essendo ancora valido, continua a spingere nel piccolo circolo del sangue che non trova facile esito. L'edema polmonare acuto è quindi l'esempio più tipico dell'insufficienza sinistra. Esso si manifesta con lo scoppiare brusco di affanno e di senso di soffocazione, con espettorazione rossastra, con senso di oppressione e di morte imminente; e all'esito letale si può effettivamente giungere.
Uno dei migliori mezzi di cura consiste nel salasso, che diminuisce, sia pure temporaneamente, la quantità di sangue affluente al cuore destro e in genere sottrae lavoro al circolo e quindi anche al cuore sinistro.
Un'altra manifestazione dell'insufficienza del cuore sinistro è rappresentata dall'affanno o dispnea. Anche questo sintoma che, come abbiamo più volte detto, è uno dei primi segni di una cardiopatia, è stato molto studiato e se ne è invocata un'origine cardiale un'origine chimica, in base ad alterato ricambio respiratorio e dei rispettivi gas del sangue, e un'origine cerebrale, per cattiva nutrizione del centro respiratorio.
Normalmente nell'attività corporea è richiesta dall'organismo una maggiore quantità di ossigeno e viene emessa una maggiore quantità di acido carbonico: a ciò si arriva con un'aumentata ventilazione polmonare e con un'accelerata corrente sanguigna entro i capillari polmonari. Questo fenomeno normalmente, se contenuto entro certi limiti, non è avvertito dal soggetto; se accentuato, dà invece una sensazione non piacevole ma transitoria, l'affanno. In condizioni patologiche l'affanno insorge per cause molto più lievi che nel soggetto normale. Precisamente quando l'organismo non è capace di rispondere alle richieste anche leggiere ed entra in campo il fattore cosciente dello sforzo fatto, si parla di dispnea (v.). Essa può insorgere per diverse cause; qui ci riferiamo esclusivamente alla dispnea da insufficienza cardiaca. Seguendo T. R. Harrison possiamo distinguere le forme seguenti:
II. Dispnea dovuta a complicazioni (polmonite, infarto polmonare, idrotorace, ecc.).
Secondo gli studî del Harrison e della sua scuola la dispnea da sforzo è dovuta a diminuita capacità di aumentare l'efflusso cardiaco ed è provocata da una stimolazione riflessa del respiro ad opera di movimenti muscolari e di aumento di pressione venosa e, nei gravi sforzi, anche da acidosi. La dispnea a riposo ha per causa fondamentale una dilatazione del lato sinistro del cuore, per sopralavoro o per malattia, che porta a un aumento di pressione a monte e a congestione dei polmoni, con conseguente diminuzione della riserva respiratoria a causa di diminuita capacità vitale e di stimolazione riflessa del respiro. Come si vede, dunque, si tratta anche qui essenzialmente di un venire meno del ventricolo sinistro.
D'altra parte la deficiente funzione del ventricolo destro si estrinseca pure con un aumento di pressione a monte di questo; non essendo più in grado d'inoltrare bene il sangue nella sua direzione. Questa stasi "avanti alla porta del cuore" si estrinseca anzitutto con un ingrossamento del fegato che ne costituisce uno dei primi sintomi ed è facilmente rilevabile alla palpazione e alla percussione. Ciò si comprende facilmente quando si pensi alla vicinanza del fegato allo sbocco della cava inferiore nell'orecchietta destra e alla ricca vascolarizzazione dell'organo. Contemporaneamente si ha un aumento della pressione venosa. E prima o poi si manifestano gli edemi nelle parti declivi del corpo, in base alla forza di gravità, ma che possono a mano a mano salire fino al tronco e agli arti superiori. Per il meccanismo dell'edema e per le sue caratteristiche v. questa voce.
Fino a un certo punto si può tracciare un certo ordine nella progressione dei fenomeni dell'insufficienza cardiaca, che trova la sua corrispondenza nella classificazione funzionale che abbiamo sopra esposto e la sua spiegazione nei meccanismi patogenetici a cui abbiamo accennato.
Il primo sintoma dell'insufficienza cardiaca è l'affanno eccessivo durante lo sforzo muscolare. Poiché il potere di riserva del cuore consiste nella sua capacità di dilatarsi, un cuore che già a riposo sia leggermente dilatato, ha perduto un poco della sua riserva. Col progredire della malattia aumenta la stasi e insieme l'incapacità a mantenere un efflusso ventricolare corrispondente e si arriva allora all'ingorgo venoso che, se avviene nel piccolo circolo, dà luogo alle varie forme di dispnea; se nel grande circolo, ai fenomeni di stasi periferica. Ma accade facilmente anche che dal primo tipo si passi al secondo, che cioè dopo un periodo caratterizzato dai fenomeni di affanno, mentre il cuore destro è ancora efficiente, poi proprio per questo sforzo cui è sottoposto, ceda anche il ventricolo destro; compaiono allora il tumore di fegato e gli edemi che segnano il quadro completo dello scompenso cardiaco. A tutto questo bisogna aggiungere che assai spesso viene a complicare e ad aggravare il quadro quel disturbo del ritmo di cui abbiamo già fatto cenno e che dipende dalla fibrillazione dell'orecchietta, l'aritmia completa. Si comprende che un ventricolo che batte disordinatamente e per di più con grande frequenza, non ha la possibilità di un adeguato riposo nel periodo diastolico e inoltre non ha in questo periodo la possibilità di un sufficiente riempimento, onde il successivo efflusso sistolico e quiudi la circolazione in genere sarà assai difettosa. Altri numerosi sintomi arricchiscono il quadro della insufficienza cardiaca: l'ingrandimento del cuore, rilevabile alla palpazione, alla percussione, ai raggi X, la deficiente funzione renale che si manifesta principalmente con oliguria, il versamento eventuale di trasudato nelle cavità sierose, uno stato di anemia disturbi cerebrali sotto forma d'insonnia, agitazione e delirio o anche di sopore e sonnolenza, segni d'insufficienza epatica con ittero, e altri meno importanti.
Mentre da tutto quanto precede risulta che nella grande maggioranza le malattie della circolazione sono incurabili, noi non siamo assolutamente disarmati di fronte all'insufficienza cardiaca, anzi talvolta possiamo ottenere risultati ottimi, sebbene esista sempre il pericolo di una recidiva. La prima cura è il riposo, che sarà proporzionato al grado d'insufficienza esistente nel singolo caso; e che arriverà fino al riposo assoluto a letto per molti giorni. A questo s'aggiungerà la dieta ristrettissima: anche qui ha valore più la quantità che la qualità, sia nei cibi sia nelle bevande, e spesso gioveranno ventiquattro ore di digiuno assoluto; è in fondo anche questa una terapia di riposo per sottrarre la circolazione al lavoro imposto dalla digestione. Un medicamento sovrano in alcuni casi, e specialmente in quelli accompagnati da fibrillazione auricolare, è costituito dalla digitale, la quale agisce specialmente attraverso un rallentamento della frequenza. La digitale va usata bene, senza paura del cosiddetto "accumulo", ma evitando dosi per il singolo caso troppo forti. Analogamente alla digitale, agiscono lo strofanto e la scilla. In rari casi, specialmente quando la fibrillazione è recente e naturalmente con le opportune indicazioni fissate dal medico, s'ottiene un risultato brillante con la chinidina. Una terapia coadiuvante, che, per così dire, gira la posizione, è diretta a togliere lavoro al cuore. Qui rientra in prima linea il salasso e poi tutta la lunga serie di diuretici che comprendono, oltre ai derivati purinici (teobromina, diuretina), la caffeina, la stessa digitale e i potentissimi diuretici mercuriali (novasurolo, neptal, tachidrolo), da poco introdotti. Di scarso effetto, invece, nell'insufficienza circolatoria cronica, mentre può essere di qualche utilità nel collasso acuto, è la canfora di cui oggi si usa a preferenza la soluzione oleosa (il famoso olio canforato che ha acquistato tanta popolarità) e quella acquosa, che pure da poco si è riusciti a ottenere. Da ultimo accenniamo che recentemente si è proposto e si è attuato con qualche successo un intervento chirurgico, l'asportazione della tiroide, con lo scopo di abbassare il metabolismo e diminuire le richieste al cuore. Questa questione è però ancora allo studio.
Chirurgia.
La chirurgia del sistema circolatorio, nella forma del tentativo di arrestare l'emorragia, costituisce forse il più antico esempio di atto chirurgico.
Anche quando le cognizioni di fisiologia erano ancora tanto ristrette da ammettere che nelle arterie circolasse l'aria, la necessità di dominare una perdita di sangue induceva a praticare atti chirurgici che ottenessero quello scopo. Tentativi di cure, diretti non soltanto contro le emorragie, ma anche contro le altre lesioni del sistema vasale, come gli aneurismi, si ritrovano nei documenti egiziani, greci, arabi e romani. Precisamente per quel che riguarda gli aneurismi, per es., risale al secolo III quel metodo di cura che porta il nome di Antillo. E Galeno, parlando del materiale per le legature vasali, ricorda anche l'uso di parti di pareti intestinali. Anche in questo campo il momento della diffusione pratica è stato dato dall'affermazione delle dottrine dell'infiammazione e dei metodi dell'antisepsi e dell'asepsi. Questi hanno tolto o ridotto a proporzioni ragionevoli il rischio dell'infezione che costituiva la proibizione di ogni atto chirurgico che non fosse di necessità immediata.
Però le possibilità della chirurgia vasale sono rimaste limitate, fino ai tempi moderni, dalle difficoltà di ordine tecnico che quasi sempre ne rendono l'esito molto incerto. Tali difficoltà tecniche consistono principalmente nella necessità di ricostruire le pareti dei vasi in modo che nell'interno il rivestimento endoteliale torni integro e la presenza di corpi estranei, come quelli del materiale di sutura, e l'irregolarità della linea di sutura non debbano essere causa di formazione di coaguli in primo tempo e di cicatrici più tardi che possano stenosare od obliterare il lume vasale.
Per quanto riguarda il materiale di sutura e in genere il materiale strumentario di tale chirurgia, si può riparare in qualche modo alle eventualità sfavorevoli immediate usando materiale imbevuto o rivestito di sostanze, come la paraffina e simili, con le quali il sangue può venire a contatto senza coagulare.
Ma più difficile è di evitare che l'atto chirurgico crei nelle pareti e quindi nel lume vasale delle irregolarità che provocano, nella corrente sanguigna che vi passa sopra, momenti meccanici particolarmente favorevoli all'insorgenza del processo di coagulazione.
Si deve poi considerare il fatto che, a parte le suture longitudinali, nel senso dell'asse vasale, certamente stenosanti, anche ogni sutura circolare sulle pareti elastiche dei vasi crea una cicatrice che, non essendo elastica, forma un cercine di retrazione concentrica e quindi una stenosi. Tali fatti naturalmente acquistano importanza sempre maggiore in ragione inversa del calibro del vaso che deve essere suturato, sicché si può dire che i vasi di piccolo calibro restano praticamente al di fuori di qualunque possibilità chirurgica.
Nella chirurgia dei vasi di maggiore calibro, per i quali certamente sono meno considerevoli gl'inconvenienti dovuti alla variazione del lume vasale, resta l'incertezza dell'esito per la possibilità della formazione, nel tratto vasale operato, di un trombo parietale, che poi, trascinato dalla corrente sanguigna, può diventare un embolo.
Il giorno in cui la chirurgia vasale potesse offrire certezza di successo s'aprirebbe alla pratica tutto il campo degl'innesti di organi e di parti intere dell'organismo, che fino a oggi non ha potuto estendersi di là dai limiti del tentativo puramente sperimentale.
In ogni modo però, anche prendendo nella dovuta e opportuna considerazione il quoziente d'incertezza che la chirurgia vasale fino a oggi porta con sé, bisogna riconoscere che tale chirurgia ha una reale importanza pratica che tende a diventare sempre maggiore. Specialmente nei casi di necessità o di urgenza il tentativo chirurgico riparatore, conservativo, basato sulla sutura vasale, può sempre essere giustificato, perché l'esito sfavorevole di esso, come potrebbe essere l'obliterazione del lume vasale, non può andare generalmente oltre i limiti che la lesione vasale, che si vuol curare, già presenta per sé: si può dire cioè che tale tentativo, anche se non raggiunge lo scopo, non può aggravare l'entità della malattia.
L'atto chirurgico più semplice che si possa compiere su un vaso sanguigno è la legatura. Questa si può fare con materiale destinato a riassorbirsi, come i tessuti animali opportunamente preparati, o con materiale destinato a rimanere in posto indefinitamente, come la seta o i fili metallici. La scelta dell'uno o dell'altro materiale è in relazione principalmente con il calibro del vaso, con lo stato delle pareti vasali e con la pressione sanguigna che la legatura è destinata a sopportare. Così, p. es., nei casi di allacciature di vasi molto grossi a breve distanza del cuore, perché la legatura possa avere effetti permanenti, è stato usato materiale metallico. Bisogna ricordare però che il materiale metallico porta con sé il rischio che lo sforzo della pressione sanguigna pulsante provochi il taglio delle pareti vasali contro la chiusura metallica. Con il procedimento della legatura si viene a impedire l'afflusso del sangue attraverso il vaso chiuso, in senso centrifugo, nel territorio periferico, se si tratta di un'arteria, e in senso centripeto, nel territorio centrale, se si tratta di una vena. Però, per apprezzare nella giusta realtà il significato di questa affermazione è necessario ricordare che il sistema circolatorio è una rete le cui maglie sono tutte in collegamento e che ogni territorio vasale è in comunicazione con quelli vicini. Per tale stato di cose, dopo la chiusura di un vaso, si verifica quel complesso di fatti che si usa chiamare "circolo collaterale" e che fu illustrato mirabilmente dagli studî di L. Porta. In virtù del circolo collaterale accade che quando, per qualunque ragione, viene chiuso il lume di un vaso, il territorio nel quale giungeva il sangue attraverso quel vaso viene a essere ugualmente irrorato di sangue proveniente dalla rete sanguigna dei territorî vicini. Questo meccanismo di compenso, come s'intuisce facilmente, ha varia importanza: può essere di utilità quando, costretti a chiudere un vaso sanguigno, possiamo pensare che il territorio vasale privato della irrorazione rimarrà sufficientemente nutrito per mezzo del circolo collaterale, può essere considerato sfavorevole quando il ripristino dell'irrorazione sanguigna può significare la ripresa di un'emorragia. Però il circolo collaterale può non offrire un compenso sufficiente a eliminare le deficienze circolatorie dovute alla chiusura di un vaso. In molti casi il territorio di distribuzione di un vaso sanguigno, quando questo viene chiuso, non riceve dai territorî vasali vicini una quantità di sangue sufficiente ai bisogni della vita cellulare e si verifica la morte delle zone di tessuti e di organi rimasti insufficientemente nutriti. Precisamente da questa circostanza è nata la chirurgia vasale conservatrice, tendente a riparare alla lesione o alla malattia di un ramo vasale con mezzi che non ne provochino la chiusura, come invece fa la legatura.
Per raggiungere lo scopo che si prefigge e cioè per mantenere l'irrorazione sanguigna in un territorio vasale, la chirurgia vasale conservatrice dispone di mezzi varî che vanno dalla semplice sutura parietale del vaso leso alle suture circolari capo a capo, alle anastomosi e anche agl'innesti. Gli innesti consistono nella sostituzione di un segmento vasale con il segmento di un altro vaso (generalmente una vena) tolto allo stesso individuo o tolto ad altro individuo della stessa specie o di altra specie e mantenuto in speciali mezzi conservativi. Per le difficoltà tecniche generali che sono state esposte e per le complicazioni operatorie, immediate e tardive, tale chirurgia non è ancora in condizioni di promettere molto né di promettere con sicurezza e per molta parte è rimasta nel campo sperimentale.
Nel campo clinico le suture vasali, laterali o circolari, trovano la principale indicazione nelle lesioni traumatiche di quei vasi di cui si sa che l'allacciatura non può essere compensata nelle sue conseguenze dal circolo collaterale.
In questi casi, quando ci si possa considerare al riparo dai rischi immediati, si può sempre tentare la riparazione della parete vasale perché, anche se il tentativo fallisse, non si creano mai condizioni più svantaggiose di quelle che avrebbe prodotto la legatura vasale fatta subito. La buona riuscita della sutura resta sempre come condizione preliminare ed essenziale di tutti i tentativi di chirurgia vasale elettiva, quando l'atto chirurgico deve poter dare promessa precisa; purtroppo la necessaria riserva che ancora bisogna porre circa l'esito di ogni sutura di vasi è la ragione che limita la diffusione larga di tale chirurgia.
Considerando tali osservazioni d'indole generale, le indicazioni della chirurgia vasale possono essere distinte in due campi a seconda che si tratti di riparare una lesione traumatica dei vasi, oppure di curarne una malattia; tale distinzione nella realtà viene a identificarsi con quelle che sono le indicazioni di urgenza e quelle di elezione. Nel campo delle lesioni traumatiche dei vasi, che è poi la cura delle emorragie, la possibilità che più frequentemente si verifica è quella della legatura del vaso leso, sanguinante. Varietà di tale trattamento si veríficano a seconda che la chiusura del vaso si deve compiere nel punto della lesione o lontano da esso. La legatura ha maggiore o minore importanza a seconda della possibilità o meno della costituzione di un circolo collaterale; ove si tratti di lesioni di arterie a un livello al disotto del quale è impossibile prevedere con certezza il ripristino dell'irrorazione sanguigna, è necessario ricordare che i tessuti del territorio al disotto della legatura cadranno in necrosi. Per cercare di evitare questo rischio quando lo si crede probabile, in generale, specie nei tronchi arteriosi nutritizî degli arti, si preferisce di andare a chiudere il vaso nel punto della lesione, lasciando così aperte tutte le possibili vie collaterali, a monte e a valle di essa; naturalmente, quando si può presumere invece che il circolo collaterale si stabilisca rapidamente e completamente, è necessario chiudere il vaso al disopra e al disotto della lesione per evitare che riprenda l'emorragia. L'estirpazione del tratto di vaso leso (resezione del segmento compreso fra le legature) è un mezzo atto, più della legatura, ad assicurare il circolo collaterale in grazia della simpatectomia periarteriosa che viene effettuata con la resezione (R. Leriche, M. Donati). Molto differente, nei riguardi del circolo collaterale, è il comportamento della rete arteriosa e della rete venosa; nella rete venosa le comunicazioni dei territorî sono assai ampie, e, se non si tratta di allacciature che chiudano grossi tronchi a un livello molto alto, si può sempre presumere che la stasi sanguigna che si stabilisce al disotto della chiusura sarà facilmente eliminata con lo scarico nelle vene collaterali; nella rete arteriosa, invece, è necessario conoscere bene quali sono i vasi o i tratti di vasi nel territorio dei quali non esistono ramificazioni di altre arterie sufficienti ad assumerne l'irrorazione compensatrice nel caso di chiusura. Perciò la pratica di andare a chiudere l'arteria nel luogo della lesione, quando è possibile, è tanto più indicata perché permette di precisarne l'entità e quindi esaminare la possibilità del tentativo di riparazione invece della chiusura. In questa eventualità la sutura laterale di una lesione incompleta offre naturalmente possibilità di successo ben più grande che la sutura circolare, che si potrebbe chiamare anastomosi vasale, di una lesione completa. Una lesione vasale, oltre che all'emorragia iniziale, può dare luogo all'insorgenza di fatti secondarî dovuti alla formazione di aneurismi o di raccolte ematiche comunicanti con il lume dei vasi lesi. Le dilatazioni arteriose che sono chiamate aneurismi possono verificarsi anche all'infuori dei traumi, per speciali condizioni morbose delle pareti delle arterie e possono interessare anche tronchi venosi vicini, come negli aneurismi artero-venosi. I metodi di cura sono numerosissimi e si possono dividere in due gruppi a seconda che tendano all'obliterazione, pura e semplice, della sacca aneurismatica, oppure anche al ripristino della via sanguigna connessa con l'aneurisma.
Appartiene al primo gruppo il metodo dell'allacciatura del vaso che ha dato origine alla bozza aneurismatica. Esso è stato ed è usato con varie modalità che consistono nell'allacciatura dell'arteria a monte dell'aneurisma, accompagnata o no dall'allacciatura dei rami collaterali partenti dalla sacca e dall'allacciatura a valle. L'uno o l'altro di questi procedimenti è stato adottato a seconda della probabilità di salvaguardare, con l'uno più che con l'altro, la possibilità del circolo collaterale nel territorio dell'arteria aneurismatica. Il meccanismo di guarigione della sacca aneurismatica dopo le allacciature è ben chiaro quando si proceda alla chiusura del vaso principale e di tutti i vasi affluenti alla sacca; è più discusso quando, appunto per le ragioni anatomofisiologiche del circolo collaterale, si proceda alla legatura dell'arteria a valle dell'aneurisma. In questo caso si pensa che il rallentamento e la modificazione meccanica della corrente circolatoria che si verificano nella sacca dopo l'allacciatura a valle creino condizioni favorevoli alla coagulazione del sangue contenuto nell'aneurisma e quindi alla trasformazione di esso in una massa di tessuto connettivale. L'allacciatura dei vasi dell'aneurisma può talvolta essere accompagnata dall'asportazione della sacca aneurismatica. L'opportunità dell'obliterazione della sacca per raggiungere più sicuramente la guarigione e la possibilità di unire questa con la conservazione del lume vasale sono la base degli altri metodi tendenti al più perfetto ripristino dell'integrità vasale oltre alla guarigione dell'aneurisma.
Fra tali metodi quello che appare come capace di raggiungere lo scopo nel modo più completo con il procedimento più semplice e meno rischioso è quello della endoaneurismorrafia. Dopo aver aperto la sacca aneurismatica e averla vuotata del suo contenuto, naturalmente avendo provveduto prima all'emostasi temporanea, se ne ottiene la obliterazione mediante l'accollamento delle pareti con sutura fatta dall'interno, in modo tale da ripristinare, nel calibro più possibilmente normale, il lume del vaso. Fra i metodi, che si potrebbero dire demolitivi, delle allacciature e quelli conservativi del tipo della endoaneurismorrafia si può ricordare un altro gruppo di metodi tendenti all'obliterazione della sacca aneurismatica, provocandone la trasformazione in una massa cicatriziale o per tamponamento della cavità o per coagulazione della massa sanguigna ottenuta con l'immissione nell'interno dell'aneurisma di corpi estranei (fili d'argento - molle da orologio, ecc.).
Quello che s'è detto per gli aneurismi traumatici vale anche per gli aneurismi che si formano per speciali condizioni morbose delle pareti arteriose, tenendo presente che, in questi casi, la cura conservativa deve considerare l'aliquota maggiore delle incertezze connessa con il fatto che le suture si fanno su pareti vasali malate.
Per quanto riguarda gli ematomi pulsanti, clinicamente quasi identici agli aneurismi, basta ricordare che la differenza anatomopatologica consiste principalmente nel fatto che tali ematomi non hanno parete propria, rivestita da endotelio, come gli aneurismi, e quindi per essi si può fare a meno di considerare in modo particolare le pareti della sacca. Gli aneurismi artero-venosi, interessando arterie e vene, portano con loro la necessità di procedere all'allacciatura o alla ricostituzione dei vasi arteriosi e di quelli venosi interessati.
Passando dagli aneurismi, entità clinica che per la sua patogenesi può essere riportata sia alle lesioni traumatiche sia a particolari condizioni morbose, alle malattie vere e proprie dei vasi, bisogna ricordare quelle che oggi appaiono suscettibili di cure o di tentativi di cure chirurgiche.
Per quanto riguarda le lesioni delle arterie date dalle infiammazioni acute e croniche che possono interessarne le pareti, la chirurgia può avere indicazioni più per tentare di curare le conseguenze di tali malattie che per curare le malattie vere e proprie.
Le conseguenze principali delle malattie delle arterie, avendo già considerato a parte gli aneurismi, sono quelle dovute alla diminuzione del lume vasale e quindi alla deficiente o irregolare irrorazione sanguigna del territorio sottostante al tratto arterioso malato. La diminuzione del lume vasale alcune volte è dovuta a ispessimento reale delle pareti, altre volte a speciali stati di contrazione spastica, che possono essere permanenti o transitorî. La cura chirurgica di tali lesioni tende ad aumentare l'irrorazione sanguigna dei territorî interessati, agendo o direttamente sui vasi o sulla rete nervosa intrinseca delle pareti vasali. I metodi che agiscono sui vasi consistono principalmente nelle anastomosi vasali, fra le quali si deve ricordare il tentativo d'invertire la corrente sanguigna riunendo il moncone centrale di un tronco arterioso sezionato al moncone periferico di un tronco venoso vicino, pure sezionato, e nella sostituzione, mediante innesti, dei tratti vasali malati. Tali metodi, anche nelle applicazioni cliniche che sono state fatte, si possono considerare ancora solo come tentativi, autorizzati dal fatto che, anche riuscendo vani, generalmente non possono aggravare l'entità della lesione iniziale.
La cura chirurgica degli stati spastici arteriosi ha avuto grande diffusione negli ultimi anni, costituendo la parte principale di quel complesso che è stato chiamato "chirurgia del simpatico" (v. nervoso, sistema: Chirurgia del sistema nervoso vegetativo, XXIV, p. 653). Ammettendo che il tono vasale e quindi lo stato delle pareti arteriose è nel dominio del sistema nervoso autonomo e che lo stato spastico è l'espressione di un fatto, per così dire, irritativo di tale sistema nervoso, la chirurgia ha tentato di curare le malattie attribuite agli stati spastici vasali con l'intervento su quel sistema nervoso, dirigendosi alle terminazioni periferiche, ai ganglî, alle vie di connessione, con interventi tendenti all'abolizione di quell'innervazione; tali sono: la simpatectomia arteriosa, tentata con la decorticazione dei vasi, destinata ad asportare la rete nervosa periferica intrinseca, o con l'uso di sostanze destinate a distruggerla chimicamente; la gangliectomia, che asporta i ganglî simpatici che si presumono presiedere alla zona malata, e la ramisezione, che ha lo scopo d'interrompere le vie di connessione fra l'innervazione autonoma periferica e i centri. Di questi atti chirurgici non si può affermare con sicurezza l'utilità pratica; talvolta sono stati ottenuti risultati favorevoli transitorî; spesso è impossibile apprezzare la realtà di miglioramenti, trattandosi di malattie oscure, di patogenesi incerta, con decorso variabile. Forse nel prossimo avvenire si potrà parlare su tale argomento con maggiore precisione e maggiore decisione.
Dev'essere, invece, considerata come una conquista della chirurgia moderna la cura delle embolie. La formazione di un embolo può essere la conseguenza della malattia di un qualunque tratto del sistema circolatorio (flebite, endocardite, arterite). La conseguenza dell'entrata in circolo di un embolo è la chiusura del ramo arterioso dove esso s'arresta e naturalmente l'importanza di questo fatto è varia a seconda del calibro e della sede del ramo che viene chiuso. Fino a poco tempo fa la chirurgia era chiamata a curare gli esiti delle embolie e cioè le cancrene emboliche degli arti, gli ascessi embolici del polmone o del cervello e così via; negli ultimi anni la chirurgia s'è diretta con successo a curare l'embolia vera e propria allontanando l'embolo che era venuto a chiudere il lume vasale e ripristinando così l'irrorazione sanguigna nel territorio colpito. Questo intervento chiamato embolectomia consiste nell'incisione dell'arteria a monte della sede dell'embolo, nell'estrazione di questo mediante speciali strumenti o con apparecchi di aspirazione e nella sutura successiva della ferita arteriosa. Naturalmente la riuscita dell'operazione è in relazione con la precocità di essa, in modo che l'irrorazione sanguigna possa ripristinarsi prima che i tessuti del territorio rimasto privo di sangue siano morti, e con il buon esito della sutura vasale. L'embolectomia è stata praticata con successo in molti casi di embolia delle arterie degli arti e anche in qualche caso di embolia dell'arteria polmonare (v. polmone: Chirurgia; respiratorio, apparato: Chirurgia).
Per quanto riguarda le malattie delle vene, lasciando da parte le varici, che costituiscono un'entità morbosa da considerare particolarmente (v. varici), bisogna ricordare i casi di tromboflebite, nei quali la chirurgia può fare opera utile aprendo la vena e asportando il trombo settico che la chiude. Questo è stato fatto più volte per le vene degli arti e della pelvi e ha particolari indicazioni nelle tromboflebiti dei seni meningei o delle grosse vene del collo che possono seguire a processi infettivi del collo, del capo o delle fauci.
Tra gli atti chirurgici che si compiono sul sistema circolatorio è necessario ricordare anche una pratica diagnostica come l'arteriografia e una pratica terapeutica come la trasfusione del sangue.
L'arteriografia consiste nell'iniezione nel lume arterioso di liquidi opachi ai raggi X che permettano, riempiendo il territorio dell'arteria, di avere l'immagine radiografica esatta delle eventuali alterazioni subite dai rami di essa per processi neoplastici (tumori cerebrali) o morbosi (arteriti obliteranti, aneurismi, embolie).
Accanto all'arteriografia può essere ricordata anche l'anestesia regionale per via arteriosa che consiste nell'iniettare nell'arteria liquido anestetico, facendo la stasi nel territorio di essa con un laccio, in modo che il liquido non passi immediatamente in circolo.
Un'altra pratica chirurgica è la trasfusione del sangue (v. sangue: Trasfusione del sangue) per riparare perdite sanguigne gravi o per cura di malattie varie. Si può verificare anche l'opportunità o la necessità d'immettere nel torrente circolatorio sostanze medicamentose: l'atto chirurgico che serve a tale scopo è l'iniezione intravenosa (v. fleboclisi).
L'altro atto chirurgico che si può compiere sul sistema circolatorio, noto e usato fin dalla più remota antichità, è il salasso, destinato a sottrarre all'organismo una parte del sangue circolante (v. flebotomia).
Parte essenziale e centro del sistema circolatorio è il cuore, che con il ritmo della sua funzione assicura precisamente il meccanismo della circolazione sanguigna. La chirurgia si è diretta recentemente anche verso la cura di alcune malattie del cuore che possono essere suscettibili di miglioramento in seguito a interventi che riescano a correggere lesioni organiche particolarmente sfavorevoli alla meccanica circolatoria. La chirurgia delle malattie del cuore è nata dopo che gl'interventi proposti ed eseguiti negli ultimi decennî per riparare alle lesioni traumatiche del cuore avevano dimostrato la possibilità di agire chirurgicamente con successo anche su questo organo. La chirurgia delle lesioni traumatiche del cuore (v.) ha la possibilità di arrestare l'emorragia imponente che quelle lesioni spesso causano e di riparare a quello speciale meccanismo che è stato chiamato autotamponamento del cuore, che si verifica quando dalla ferita cardiaca il sangue viene spinto nella cavità pericardica in quantità superiore a quella che può uscire dalla ferita pericardica. In tali casi si crea nella cavità pericardica una pressione sempre più alta che finisce con l'ostacolare gravemente prima e poì con l'impedire in modo assoluto la ritmica contrazione cardiaca. Esiste una speciale malattia, l'infiammazione della sierosa pericardica, la pericardite, che può riprodurre condizioni meccaniche analoghe a quelle ricordate per il caso di autotamponamento del cuore. La produzione di essudato infiammatorio molto abbondante nella cavità pericardica può ostacolare gravemente, per pressione, la funzione meccanica del cuore; e quando, come esito di un processo infiammatorio, il foglietto viscerale della sierosa pericardica si fonde con quello parietale, quasi completamente rigido, si verificano alterazioni gravi della funzione cardiaca. In questi casi la chirurgia può fare opera utile aprendo una via d'uscita al liquido pericardico, nella pericardite acuta, e liberando in vario modo il meccanismo del cuore nella pericardite adesiva, mediante resezioni costali e sezione e asportazione di tratti della sierosa pericardica.
Ma i tentativi chirurgici diretti a curare le alterazioni della meccanica circolatoria dovute alle malattie del cuore non si sono arrestati, per dir così, all'esterno del cuore ed è nata anche una chirurgia dei vizî valvolari del cuore che può contare al suo attivo anche qualche indiscutibile successo. II vizio valvolare verso cui si è diretta la chirurgia è quello che più gravemente e irrimediabilmente si ripercuote sulla circolazione sanguigna e cioè la stenosi mitralica. La possibilità di rimediare alla stenosi aumentando il calibro dell'ostio valvolare mediante sezione o asportazione di un tratto di valvola è stata tradotta in pratica in casi gravi, da poter qualificare come disperati. È stato anche ideato e usato uno speciale strumento, il cardiovalvulotomo, e sono stati riferiti casi operati con esito favorevole.
Tali tentativi chirurgici sulle malattie del centro meccanico della circolazione dimostrano bene quali mete lontane possa oggi prefiggersi anche in questo campo la chirurgia, guidata dalle accortezze del pensiero clinico e servita dalla precisione della tecnica sempre più sicura.
Radiologia.
Come in molti altri campi della medicina, anche in questo le applicazioni della radiologia sono d'ordine diagnostico e d'ordine terapeutico.
Radiodiagnostica del sistema sanguifero. - L'indagine radiologica, effettuata mediante i raggi X, è rivolta sia allo studio del centro circolatorio, sia a quello dei varî distretti vascolari periferici. Un particolare interesse si è rivolto in questi ultimi tempi allo studio radiologico della milza.
Centro circolatorio. - Ci riferiamo al cuore e ai grossi vasi, i quali si rendono visibili direttamente, sia alla radioscopia sia alla radiografia, senz'alcun artificio speciale, a causa del contrasto notevole esistente fra la relativa trasparenza dei polmoni, dovuta al loro contenuto aereo, e l'opacità degli organi circolatorî. Si deve subito osservare, non di meno, che questa visibilità differisce sostanzialmente dalla visibilità anatomica; infatti, in rapporto alle leggi fondamentali dei raggì X, noi non riusciamo a vedere radiologicamente che un'ombra pressoché omogenea del centro circolatorio. Nello studio radiologico del cuore e dei grossi vasi si può dunque tener conto soltanto, in linea di massima, dei contorni delle loro ombre; e così si comprende come, in questo studio, non possano essere considerate se non le parti dei predetti organi che sono sfiorate dai raggi tangenziali, quelle parti che potremo definire come marginali (randbildend, negli scritti di lingua tedesca). Si comprende come, allo scopo di rendere visibili i contorni delle diverse parti, il centro circolatorio debba essere osservato radiologicamente sotto varî punti di vista, ossia (nella nomenclatura tecnica) in diverse proiezioni, le quali si attuano facendo rotare il tronco del paziente sul proprio asse ideale (diretto in senso cranio-caudale). Valendosi della particolare visibilità radiologica del cuore e dei grossi vasi, è possibile studiare di essi, con questo mezzo, la forma e la grandezza, la sede, la mobilità attiva e passiva; e tutto questo in condizioni sia normali, siȧ patologiche.
Allo scopo di determinare, con i mezzi radiologici, la forma e la grandezza reale del cuore e dei grossi vasi, i tecnici hanno escogitato artifici varî, che qui si possono solo accennare: la teleradiografia (A. Koehler), l'ortodiagrafia (F. Moritz), la radioplastica (G. G. Palmieri). Con i primi due artifici il cuore è proiettato ortogonalmente (o quasi) sul piano della lastra radiografica o dello schermo fluorescente, e ne risulta un'immagine del centro circolatorio secondo due dimensioni; immagine che, secondo il caso, prende il nome di teleradiogramma o di ortodiagramma. Con la radioplastica, si ottiene la rappresentazione tridimensionale dei predetti visceri, a mezzo di modelli d'argilla o di gesso, a tutto rilievo. Non è possibile scendere qui a particolari di carattere tecnico, i quali non possono interessare se non gli specialisti. Il volume del cuore può essere misurato direttamente sul modello radioplastico, oppure può essere valutato indirettamente, per via di calcolo, dalle misure dell'ortodiagramma o dell'ombra cardiaca del teleradiogramma; valgono per questo fine soprattutto le formule proposte dagli autori italiani A. Salotti, P. Benedetti e V. Bollini. Più correntemente si misurano, sull'ortodiagramma, l'area e alcuni diametri opportunamente tracciati (F. Moritz, H. Vaquez e E. Bordet, A. Postiglione, L. Siciliano, P. Benedetti e V. Bollini). Per la valutazione clinica di questi dati è necessario ricorrere a tabelle, contenenti paradigmi normali, eventualmente elaborati secondo le leggi del calcolo statistico (V. Bollini, V. Sabena). Queste diverse misure si modificano in condizioni patologiche, per lo più nel senso di un aumento; e dall'eventuale sproporzione che ne può derivare, è anche possibile dedurre in molti casi la sede e la qualità dell'affezione dalla quale l'organo è stato colpito.
A prescindere da uno studio accurato delle dimensioni, studio che interessa molto anche dal punto di vista antropometrico, ha un grande valore, particolarmente clinico, lo studio complessivo della forma del cuore e del fascio vascolare (specialmente dell'aorta), perché le deformità delle ombre riproducono le alterazioni di forma del viscere, in rapporto alla deformazione e all'ingrandimento preponderante di singole parti di esso. E indispensabile per questo ricorrere alle già ricordate varie proiezioni e conoscere anzitutto il significato dei diversi tratti del contorno dell'ombra cardiovascolare, in base a un raffronto sistematico fra i dati della radiologia e quelli dell'anatomia.
Quando il soggetto sia esaminato di fronte, e i raggi X penetrino dal lato del dorso e vengano a colpire la lastra sensibile o lo schermo fluorescente, uscendo dal lato ventrale del torace, si ha la cosiddetta proiezione dorso-ventrale, che è la più comunemente usata ed equivale in certo modo alla figura ottenuta, in semeiotica fisica, mercé la percussione. I contorni dell'ombra corrispondono in queste condizioni a quelli delle parti marginali, come sarebbero viste nello stesso soggetto, che fosse sezionato mettendo allo scoperto la faccia anteriore del cuore. E così, a destra, il contorno è determinato successivamente, dall'alto al basso, dal tronco venoso anonimo e dalla vena cava discendente, e quindi dall'atrio destro; qualche volta, più in basso, da parte del ventricolo destro e perfino dalla vena cava ascendente. A sinistra, invece, si distinguono tre successive curve, di cui la superiore corrisponde all'arco aortico, l'inferiore al ventricolo sinistro e quella media, detta anche curva auricolo-polmonare, corrisponde al tronco dell'arteria polmonare e all'auricola sinistra ed è talvolta suddivisa in due curve minori, corrispondenti a queste due diverse parti.
Nelle proiezioni oblique, si mettono meglio di tutto in rilievo le parti posteriori del cuore e cioè i due atrî, specie l'atrio sinistro.
In condizioni patologiche, questi aspetti si modificano e l'ombra cardiaca assume configurazioni per lo più tipiche, nei diversi vizî valvolari, nella miocardite, nell'ipertensione arteriosa, nel versamento pericardico, ecc., per modo da renderne possibile il riconoscimento al radiologo esperto (v. tavv. CXLI e CXLII).
Così, p. es., nella stenosi mitralica si rende riconoscibile quasi sempre un aumento della curva auricolo-polmonare, dovuto alla dilatazione sia dell'auricola sia del tronco e del cono dell'arteria polmonare; mentre le proiezioni oblique dimostrano una bozza più o meno sporgente nel tratto del contorno posteriore dell'ombra cardiaca, che corrisponde all'atrio sinistro, il quale in quest'affezione è abnormemente ingrandito. Nelle viziature che colpiscono l'orifizio e l'apparato valvolare dell'aorta, sarà riconoscibile un aumento più o meno marcato del ventricolo sinistro e quindi della curva corrispondente; e così pure, benché generalmente in misura minore, nell'insufficienza della valvola mitrale.
Un ingrandimento dell'ombra cardiaca in toto si avrà nelle insufficienze miocardiche gravi, nel cosiddetto cor bovinum, e anche nel versamento del pericardio; nel quale ultimo caso l'aumento è in grandissima parte dovuto al liquido che si raccoglie entro il sacco del pericardio.
Anche la forma e le dimensioni dell'aorta possono essere studiate radiologicamente, e meglio di tutto col metodo ortodiagrafico. L'aorta, infatti, in condizioni patologiche può allungarsi e aumentare il proprio calibro; in particolare si possono rendere riconoscibili, come ombre variamente foggiate e di dimensioni pure variabili, talora pulsanti, gli aneurismi di questo vaso. Meno utilizzati sono i reperti radiologici a carico degli altri vasi del peduncolo e specialmente di quelli venosi. Di recente l'attenzione è stata richiamata sull'immagine della vena azigos, nel suo tragitto anteroposteriore, cioè a dire in prossimità del suo sbocco nella vena cava superiore; questo studio si è iniziato in casi in cui coesisteva il lobo polmonare accessorio della vena azigos ed è stato completato di recente con la dimostrazione dell'immagine dell'azigos in sede normale (A. Busi e P. Ottonello), con un tentativo di applicazione al campo patologico (Gino e Gastone Meldolesi).
La dilatazione del tronco dell'arteria polmonare e del suo cono arterioso sono pure visibili, come abbiamo ricordato, nelle immagini radiologiche e ciò può corrispondere, oltre che alla presenza di una stenosi mitralica, a condizioni patologiche varie (stenosi dell'ostio polmonare, sclerosi della polmonare, persistenza del dotto di Botallo).
La determinazione della sede del cuore e del fascio vascolare è fatta mediante la definizione dei rapporti che intercedono fra i predetti visceri, le parti scheletriche e il diaframma; i primi rapporti possono essere determinati proiettando opportunamente, durante la radioscopia, con un semplice artificio che non vale descrivere, i punti principali del contorno cardiaco sulla cute della faccia anteriore del torace. Così possono essere apprezzate le anomalie congenite di posizione del cuore (ptosi cardiaca, destrocardia isolata o associata a situazione inversa di tutti i visceri) e quelle acquisite (spostamenti da trazione o da pulsione, legati a cause diverse, per lo più a sede extracardiaca: versamento pleurico, pleurite adesiva, pneumotorace, collasso polmonare, ecc.).
La mobilità attiva del cuore e dei grossi vasi può essere studiata in modo superficiale e sintetico, mediante la semplice radioscopia, durante la quale si vedono i margini dell'ombra cardiaca pulsare, secondo il ritmo e secondo la fase proprî del singolo caso e delle diverse parti. Ma un'analisi più minuziosa si fa ricorrendo alla röntgenchimografia.
Ideato da Th. Gott e J. Rosenthal, rimesso in onore da P. Stumpf e in Italia da P. Cignolini, questo metodo consiste sostanzialmente nel fare scorrere una pellicola radiografica davanti a una fessura praticata in una lastra di piombo, con moto diretto in senso trasversale rispetto alla fessura stessa, mentre i raggi X, colpendo il soggetto che è interposto fra l'ampolla röntgen e la lastra di piombo, possono raggiungere la pellicola radiografica solo attraverso la predetta fessura. Questa deve a sua volta essere disposta trasversalmente rispetto a un tratto di contorno cardiaco pulsante, cosicché questa pulsazione attiva è proiettata e registrata dalla pellicola in movimento. Le fessure possono essere multiple e diversamente disposte, a seconda degli scopi, per colpire parti diverse del cuore, dei vasi e delle altre parti del torace soggette a movimento.
Le applicazioni scientifiche e pratiche di questo metodo si dimostrano ogni giorno di sempre maggiore importanza, sia per lo studio dei movimenti del cuore normale, sia infine per rivelare le alterazioni patologiche di questi movimenti; e non soltanto nelle cosiddette aritmie, ma anche nelle varie altre affezioni del cuore, e in particolare nei processi aderenziali (mediastino-pericardite adesiva o callosa), per effetto dei quali le pulsazioni dei margini cardiaci possono essere impedite in tutto oppure in parte.
La röntgenchimografia può, in questi casi, dimostrare la sede delle adesioni, identificabile con i punti fissi o dotati di scarso movimento.
La mobilità passiva del cuore e dei grossi vasi si riferisce agli spostamenti di questi visceri, per effetto degli atti respiratorî o dei mutamenti di posizione; essi sono riconoscibili dagli spostamenti dell'ombra dei visceri stessi, riguardo alla linea mediana, al diaframma, a punti di repere cutanei o dello scheletro, ecc. Lo studio di questi fenomeni ha importanza, non solo per approfondire le nozioni della fisiologia del circolo, ma anche in clinica, poiché le anomalie di questi spostamenti sono legate ad affezioni dell'apparecchio respiratorio (sclerosi pleuro-polmonare, sinfisi diaframmatica, ecc.) oppure ai processi adesivi del pericardio, ai quali abbiamo precedentemente accennato. Questo studio si compie a mezzo di semplici artifici, usufruendo della radioscopia o della radiografia, ed eventualmente dell'ortodiagrafia o della teleradiografia; ma anche per questo, e particolarmente per la determinazione degli spostamenti d'origine respiratoria, ci si può oggi valere ancora della röntgenchimografia, con una particolare modalità proposta da P. Stumpf (chimografia in superficie).
Vasi periferici. - La visibilità diretta di questi era, fino a poco tempo addietro, limitata a quei soli casi nei quali esistessero estese o meglio diffuse infiltrazioni calcaree della loro parete; il che accade nell'arteriosclerosi e per lo più solo in età avanzata. In questi casi, il reperto non vale che per dimostrare l'esistenza del processo arteriosclerotico, nei varî distretti colpiti, tra cui di speciale interesse (per quanto il reperto sia raro) quelli endocranici. In corrispondenza di reticoli venosi, particolarmente entro il piccolo bacino, non è raro vedere radiograficamente le immagini opache di fleboliti, cioè di calcoli venosi.
Ma un progresso è stato fatto con l'introduzione di mezzi di contrasto direttamente entro i vasi. I primi tentativi sono di J. A. Sicard e J. Forestier (1923) con l'olio iodato; seguirono poi via via esperimenti con mezzi più fluidi e perciò meno pericolosi; cosicché oggi si è già usciti dalla fase iniziale di esperimento sugli animali e si è passati ad applicazioni pratiche sull'uomo, soprattutto per opera di E. Moniz, che ha rese visibili le arterie cerebrali (encefalografia) mediante l'iniezione nella carotide di ioduro di sodio ad alta concentrazione, e più recentemente di torotrasto (biossido di torio colloidale); nonché per opera di R. Dos Santos, che ha iniettato con abrodil (preparato organico stabile di iodio) l'aorta addominale e i territorî addominali dipendenti. Non mancano neppure tentativi di angiopneumografia e cioè dimostrazione dei vasi polmonari (S. Zanetti e altri) più semplici, di arteriografia negli arti (O. Catalano e altri). S'intende che la dimostrazione del reticolo arterioso negli arti o nei visceri non dà solo nozione delle eventuali alterazioni del circolo, ma indirettamente di molte alterazioni delle strutture viscerali, e particolarmente della presenza di tumori. E così si è tentato di dimostrare, mediante l'angiografia, il territorio vascolare non obliterato, fino al limite dell'obliterazione, in casi di cancrena degli arti, prima di amputare, allo scopo di conoscere l'altezza alla quale doveva avvenire la mutilazione; ma più specialmente si è giunti a localizzare, mediante l'encefalografia di E. Moniz, dei tumori cerebrali a sede non altrimenti precisabile (E. Moniz, G. Sai e altri). Il metodo, pur avendo già dato promettenti risultati, non è ancora entrato nella pratica corrente.
Questi risultati clinici, ottenuti mercé lo studio sul vivente, non debbono far perdere di vista l'importante campo di applicazione del metodo arterografico e flebografico sul cadavere; e ciò sia per ottenere la soluzione d'importanti problemi relativi all'anatomia normale, ed eventualmente patologica, del sistema vasale, come quelli relativi alla distribuzione dei vasi in certi organi e alle loro connessioni; sia per chiarire certe immagini radiologiche, già prima sospette di origine vascolare, come per es. le ombre che formano, nei radiogrammi dell'apparato respiratorio, il cosiddetto disegno polmonare e ilare.
In questi ultimi tempi l'attenzione dei radiologi è stata fissata su peculiari aspetti del tubo digerente, legati alla presenza di vene varicose situate al di sotto della mucosa. Questa condizione assume una speciale importanza clinica, in corrispondenza del tratto inferiore dell'esofago, dello stomaco, del duodeno, perché la predetta dilatazione varicosa delle vene si produce in casi in cui vi sia un ostacolo allo scarico nel sistema venoso portale, e più facilmente quindi nei casi di cirrosi epatica volgare. Il giudizio radiologico di queste anormalità vascolari, reso oggi relativamente facile dai progressi della tecnica, adottata per la dimostrazione della mucosa dell'apparato digerente (il che si ottiene mediante la somministrazione di minime quantità di pasto opaco vischioso, capace d'intonacare per così dire, la mucosa stessa), può essere precoce e costituire talvolta il primo sintomo rilevabile della grave affezione epatica ricordata.
Il quadro radiologico sembra essere abbastanza caratteristico per l'esofago (G. Wolf, R. Schatzki, E. Greppi e V. Dall'Acqua, G. Lenarduzzi, V. Bollini e altri), un po' meno per lo stomaco e per il duodeno, ad onta di quadri abbastanza probativi, già pubblicati, anche di questi organi (W. Alberti, M. Lapenna). Si tratta per lo più d'immagini negative, riproducenti l'impronta delle anse venose abnormi e delle loro dilatazioni varicose, che, nei quadri più tipici, si differenziano bene dagli aspetti normali, detemminati dalle pieghe mucose.
Milza. - Quest'organo annesso al sistema sanguifero, la cui importanza nella fisiologia e nella patologia è messa ogni giorno in maggior luce, è di rado esplorabile in modo diretto con i raggi X, perché esso presenta un'opacità radiologica analoga a quella degli altri visceri e delle pareti addominali, a meno che non contenga calcificazioni di per sé visibili, cosicché non può dare risalto. Esso può esser posto in evidenza, insieme col fegato, iniettando del gas entro il cavo peritoneale (pneumoperitoneo artificiale), di guisa che il gas, molto trasparente ai raggi, creando come un'atmosfera gassosa intorno a codesti visceri, li renda visibili radiologicamente per contrasto; oppure, com'è stato effettuato di recente, per opera di M. Oka e di P. Radt, mediante l'iniezione in circolo di un colloide elettronegativo, costituito di un metallo pesante, rappresentato dal già ricordato torostrato (biossido di torio), il quale ha la proprietà di essere captato in modo elettivo, per flocculazione, dagli elementi mesenchimali meno differenziati, ossia dai cosiddetti reticoli-endotelî, di cui sono ricchissimi in modo particolare il fegato e la milza. Questi organi, impregnati del mezzo opaco (che praticamente s'introduce per via endovenosa con un ago-cannula), si rendono per tal modo artificialmente visibili alla radioscopia e alla radiografia, e così dimostrano le proprie alterazioni eventuali di forma, dimensioni, sede e struttura.
Radioterapia del sistema sanguifero. - Le applicazioni terapeutiche a mezzo delle radiazioni nelle affezioni del sistema sanguifero debbono essere separatamente considerate, a seconda che la sede fondamentale del morbo sia nell'apparecchio circolatorio oppure nell'apparecchio emopoietico. Nell'uno e nell'altro caso le applicazioni terapeutiche debbono essere fondate sui dati della radiobiologia sperimentale e sull'osservazione clinica.
Affezioni del circolo. - Delle affezioni del circolo, due meritano, dal punto di vista pratico, per l'efficacia esercitata su di esse dalla radioterapia, una speciale menzione: l'angina di petto e l'ipertensione arteriosa. Nella prima di queste, le applicazioni di raggi X a dosi medie, sulla regione precordiale, possono, sia pure attraverso un meccanismo tuttora ignorato, dar luogo anche per molti mesi a una remissione delle crisi di dolore; l'irradiazione non influisce sulla malattia fondamentale che produce il dolore, la quale dev'essere curata a parte, ma agisce in modo sintomatico e con una certa costanza, anche quando, dopo alcuni mesi da una precedente applicazione radioterapica, sopraggiunga la recidiva (R. Lenk). Nell'ipertensione arteriosa, affezione spesse volte grave e resistente a mezzì di cura, sovente molto costosi, l'irradiazione, già prima tentata con scarsi risultati sulle surrenali (A. Zimmern e P. Cottenot), sull'ipofisi (M. Fraenkel e Geller), sui testicoli dei vecchi (B. Bellucci), sembra oggi dare ottimi e talora durevoli risultati, anche e soprattutto nei casi d'ipertensione più grave, con l'attenuazione o la scomparsa anche dei disturbi subiettivi, quando l'irradiazione stessa sia indirizzata, secondo il metodo proposto da Queraltò, Riera e Gonzales, sul seno carotideo (particolare formazione all'origine della carotide interna, circondata da un ricco plesso nervoso che si riunisce nel cosiddetto nervo di Hering).
Affezioni del sangue. - Più antiche e di uso ormai comune sono le applicazioni radioterapiche nelle malattie del sangue o emopatie. Il sistema emopoietico e i singoli elementi figurati del sangue circolante sono variamente sensibili alle radiazioni, anche in condizioni normali; così pure le proprietà chimico-biologiche del sangue, e in particolare la sua coagulabilità, risentono più o meno l'influenza delle irradiazioni.
I dati di fatto dimostrano che, in seguito a irradiazioni di una certa durata e qualunque sia la sede irradiata, si ha dopo un certo tempo una diminuzione più o meno notevole di tutti gli elementi figurati del sangue, e principalmente della serie bianca, con prevalente diminuzione dei linfociti. Più accentuati sono i fenomeni se s'irradiano direttamente organi emopoietici e massime poi quando questi sono in condizioni patologiche. Non va neppure dimenticato che, in condizioni particolari (certe anemie) e per piccole dosi, si può anzi osservare un aumento degli elementi del sangue circolante e in specie degli eritrociti.
Certo che, mentre gli studî sperimentali e clinici sono in questo campo numerosi e assai progrediti, manca tuttora, ad onta di quanto precede, una nozione sicura sul meccanismo intimo d'azione dei raggi sul sangue e sugli organi emopoietici, tali da spiegarci il modo come si producono gli effetti terapeutici; cosicché non sappiamo neppure con sicurezza se i raggi influiscano sul sangue e sugli organi fabbricatori e distruttori del sangue in modo diretto oppure per via indiretta. Non di meno, da un punto di vista pratico, si può affermare che, nelle affezioni del sistema sanguifero, i raggi X e i corpi radioattivi opportunamente applicati rappresentano uno dei mezzi più potenti, per quanto, appunto per questa potenza, essi richiedano di essere impiegati dal medico con la massima oculatezza.
Considerando le cose da un punto di vista tecnico, noi dobbiamo distinguere anzitutto la röntgenterapia dalla radiumterapia (curieterap ia).
La röntgenterapia si effettua con due modalità tecniche fondamentali: l'irradiazione locale, portata cioè sui focolai principali di alterazione morbosa (milza, linfoghiandole, midollo osseo, talora anche il fegato, a seconda dei casi); e l'irradiazione totale (teleröntgenterapia, secondo W. Teschendorf; telepanirradiazione, secondo A. Heublein; superteleröntgenterapia, secondo G. G. Palmieri). Le dosi varieranno a seconda dei casi; in linea di massima è da dire che esse non saranno mai troppo elevate, e saranno tanto più basse quanto più acuta è la forma morbosa, oppure se s'intende di ottenere un effetto stimolante sui tessuti emopoietici, come appunto nelle ricordate forme di anemia, di tipo aplastico. Una particolare prudenza si richiede nel fissare il momento per la ripresa della cura; è da ritenere che quanto meno di frequente s'irradia, tanto migliori saranno i successi e tanto maggiore la durata della vita, anche in quelle forme che sono destinate a un esito fatale. In genere è da lamentare, invece, che i radiologi tendano a somministrare dosi di raggi troppo alte e troppo ravvicinate (G. Viola).
La radiumterapia, o più esattamente la curieterapia (giacché qui il radium non è il solo corpo radioattivo impiegato), si effettua sia mediante applicazioni esterne, a mezzo di apparecchi modellati o con la telecurieterapia; sia mediante applicazioni interne, a mezzo d'iniezioni di torium-X in soluzione oppure mediante pozioni di acque radioattive o radioattivate artificialmente (v. radiumterapia). Su quest'ultimo mezzo è da fare ampia riserva circa la sua innocuità.
In tutte le malattie del sistema sanguifero, le radiazioni possono trovare un impiego terapeutico; ma in alcune affezioni esse sono in particolar modo indicate.
Dobbiamo distinguere i processi che colpiscono sostanzialmente i parenchimi del sistema emopoietico (leucemia mieloide, leucemia linfatica, poliglobulia, ecc.) da quelli che colpiscono sostanzialmente lo stroma mesenchimale (linfogranuloma maligno, ecc.), soprattutto perché i primi, e particolarmente le leucemie, richiedono una maggior parsimonia nella somministrazione del mezzo terapeutico.
Un'altra distinzione va pure fatta tra le forme acute, nelle quali l'esito dei tentativi radioterapici anche molto oculato è spesso cattivo, e le forme croniche, nelle quali un uso prudente della radioterapia porta spesso a guarigioni cliniche di notevole durata, con una ripresa della capacità lavorativa e un allungamento della durata media della vita in rapporto alla singola malattia. Le recidive sono in molte di queste forme la regola, per quanto non manchi qualche raro caso che può ritenersi clinicamente guarito in modo stabile; a ogni modo, in quasi tutte le forme, anche le recidive possono essere trattate di nuovo con successo, e questo fatto si ripete sovente per molte volte. Quando un metodo radioterapico ha fallito oppure cessa di essere attivo, un altro metodo può invece rendersi ancora efficace; e così si può alternare la röntgenterapia con la curieterapia; e anche nell'ambito della prima, si può alternare l'applicazione locale con quella generale, oppure (seguendo la proposta di A. Possati) cambiare la qualità dei raggi, e cioè far uso della filtrazione variabile, secondo il metodo di F. Ghilarducci.
In conclusione, tenuto conto anche della vasta letteratura, si può ritenere che la radioterapia rappresenti oggi la cura di elezione nelle forme leucemiche croniche, nel linfogranuloma maligno, nella poliglobulia. Anche nelle forme tumorali del sistema emopoietico, come nel linfosarcoma, essa può dare risultati molto notevoli; ed altrettanto si dica di forme di splenomegalie primitive a sindrome emolitica, come pure delle sindromi emorragiche essenziali, tipo Werlhof. Ciò che ha importanza fondamentale per il risultato è che la radioterapia sia effettuata non secondo uno schema rigido, esclusivamente imperniato su uno sterile tecnicismo, ma sulle solide basi della biologia e della clinica, e sull'osservazione scrupolosa e continua del singolo malato, controllandone la formula sanguigna, il ricambio materiale (specialmente il metabolismo basale: A. Dalla Volta), e tenendo in considerazione innanzi tutto lo stato fisico generale di lui, la sua resistenza allo sforzo e le sue condizioni soggettive, siano pure d'ordine psicologico o morale; sulle quali ultime troppo spesso si sorvola nell'esercizio pratico della medicina, trascurando l'influenza talvolta notevolissima che la psiche esercita sull'andamento delle malattie, e in particolare su quelle che colpiscono il sistema sanguifero.
Bibl.: G. G. Palmieri, La ricostruzione plastica del cuore dal vivente, in Atti II Congr. it. di rad. med., Genova 1919; H. Dietlen, Herz u. Gefässe im Röntgenbild, Lipsia 1923; F. Perussia, La radiologia dell'apparato circolatorio, in Trattato di diagnostica radiologica, Ferrara 1924; P. Cignolini, Lo stato attuale della röntgenchimografia cardiaca, in Nuntius radiologicus, I, vi (1933), G. G. Palmieri, Semeiotica radiologica dell'apparato cardiovascolare, in G. Viola, Trattato di semeiotica, Milano 1933; F. Perussia ed E. Pugno-Vanoni, Trattato di röntgen- e di curieterapia, ivi 1934; G. Fratini, L'irradiazione del seno carotideo nella cura dell'ipertensione, in Radiolog. e fis. med., n. s., II (1935).
Patologia veterinaria.
Insufficienza cardiaca. - Può essere sostenuta da cause organiche cardiache (miocarditi acute e croniche, lesioni valvolari, pericarditi, degenerazione granulosa e grassa delle fibre cardiache, ecc.) e organiche extracardiache (arteriosclerosi, nefrite cronica, malattie acute e croniche del polmone, ecc.). L'insufficienza cardiaca si può manifestare sotto tre aspetti diversi di gravità progressiva e chiamati: dissistolia (anormale tachicardia o tachipnea da lavoro), iposistolia (palpitazione, battiti disordinati, aritmia, intermittenza falsa, dilatazione cardiaca, stasi venosa), asistolia (alle manifestazioni precedenti si sovrappongono edemi nelle regioni declivi e idropisie cavitarie). La prognosi è generalmente grave. Il trattamento dev'essere igienico e curativo. La digitale è il medicamento di scelta se non vi sia nefrite; gli edemi e le idropisie si combattono con i purganti, i diuretici, la medicazione calcica.
Miocardite. - Forma acuta. - È caratterizzata da un'infiammazione semplice con degenerazione delle fibre del miocardio o da un'infiammazione purulenta con formazione di focolai ascessuali nel miocardio stesso. Insorge in forma secondaria a malattie infettive acute per l'azione diretta dei microbî o delle loro tossine, e ad avvelenamenti. L'inizio della malattia è denotato da una rapida fase di eretismo cardiaco, seguito da uno stato di depressione caratterizzato da diminuzione dell'intensità delle contrazioni cardiache, da una loro maggiore frequenza e celerità, da alterazione del loro normale ritmo. La stasi sanguigna che ne deriva determina specialmente turbe respiratorie e nervose. Le forme lievi di miocardite acuta in generale guariscono; quelle gravi possono evolvere verso lo stato cronico. La prognosi è anche subordinata alla malattia causale. L'eretismo cardiaco si combatte con il riposo e con gl'impacchi freddi in corrispondenza della regione cardiaca; nella fase di depressione si fa ricorso ai tonici cardiaci.
Forma cronica. - Può seguire a quella acuta o può insorgere in modo primitivo per trombosi parassitaria o sclerosi delle arterie polmonari; per eccessivo e protratto lavoro. Il volume del cuore può essere aumentato o diminuito per atrofia da sclerosi. La superficie di sezione mette in rilievo strati o isole (focolai) di tessuto biancastro di natura connettivale. Le manifestazioni della miocardite cronica sono quelle dell'insufficienza cardiaca, che può esprimersi con i più diversi gradi d'intensità, dalla semplice dispnea di origine cardiaca all'asistolia. La miocardite cronica non guarisce. Si deve ridurre al minimo il lavoro del cuore con il riposo, con un'alimentazione appropriata; per la cura medicamentosa si ricorre ai tonici cardiaci e ai preparati iodici.
Ipertrofia del cuore. - Generalmente è considerata come una reazione benefica del miocardio per soddisfare alle maggiori esigenze del sopralavoro muscolare e per sormontare le difficoltà offerte da ostacoli circolatorî. Essa può essere quindi idiopatica o fisiologica (da lavoro) e sintomatica o patologica. In quest'ultimo caso è condizionata all'esistenza di un ostacolo circolatorio: lesioni valvolari, polmonari, vascolari, renali, ecc. L'ipertrofia idiopatica interessa fin da principio la totalità del cuore, quella sintomatica è inizialmente localizzata a quella parte del cuore che precede il punto ove risiede il disturbo circolatorio; in seguito si generalizza alla totalità dell'organo. Il cuore ipertrofico si presenta aumentato di peso e di volume, alterato nella forma, a seconda della localizzazione dell'ipertrofia, ispessito nelle pareti. Clinicamente l'ipertrofia si manifesta con aumento dell'area cardiaca, intensificazione del battito e dei toni, con polso forte e teso. Nell'ipertrofia sintomatica sopraggiungendo, come avviene generalmente, la fase di scompenso, si presenta il quadro della insufficienza cardiaca.
Dilatazione del cuore. - Riconosce generalmente le stesse cause meccaniche che determinano l'ipertrofia. Può essere primitiva o secondaria a ipertrofia compensatrice; nel primo caso esiste un assottigliamento, nel secondo un ispessimento delle pareti cardiache. Sono generalmente primitive quelle dilatazioni riguardanti le orecchiette e il ventricolo destro. Le tossi-infezioni, le intossicazioni, possono determinare una dilatazione cardiaca generale. La malattia è resa palese da ingrandimento dell'area cardiaca, da indebolimento del battito, dei toni cardiaci e del polso, da rumori cardiaci anormali, da manifestazioni di stasi in diversi apparati. La dilatazione che compare nel decorso di malattie acute, retrocede generalmente con la loro guarigione; quella secondaria a ipertrofia compensatrice sta a rappresentare la fase di scompenso. Sono di prognosi infausta le dilatazioni secondarie a cause meccaniche indelebili e quelle totali, in quanto le facili crisi di asistolia a cui conducono, determinano spesso la morte per sincope. In assenza di crisi di asistolia, il trattamento è puramente igienico; in presenza di manifestazioni d'insufficienza cardiaca si fa ricorso ai tonici cardiaci.
Rottura del cuore. - Tale evenienza s'istituisce in corrispondenza di una preesistente lesione del miocardio (degenerazione grassa, sclerosi, ascesso, aneurisma della base dell'aorta, ecc.) sotto l'azione di un aumento repentino della pressione intracardiaca. La morte sopravviene rapidamente per emopericardio.
Tumori e parassiti. - Raramente il cuore è sede di tumori (mixomi, miomi, sarcomi, epiteliomi), più di frequente di parassiti (cisticerchi, trichina, echinococchi, filarie).
Bradicardia. - È caratterizzata da un'anormale lentezza del polso e dei battiti cardiaci. È distinta in bradicardia intracardiaca ed extracardiaca, a seconda che è sostenuta da alterazioni intracardiache o extracardiache. Nella bradicardia intracardiaca (dissociazione auricoloventricolare, blocco cardiaco) per un'interruzione del fascio di His, la riduzione delle contrazioni riguarda solo i ventricoli, mentre le orecchiette si contraggono normalmente. Le lesioni del fascio di His possono essere congenite o acquisite per pregresse malattie infettive o intossicazioni. Le turbe funzionali legate alla bradicardia intracardiaca si sintetizzano nella sindrome di Adams-Stokes. Nella bradicardia extracardiaca, invece, il rallentamento delle pulsazioni riguarda anche le orecchiette. Essa dipende generalmente da un'eccitazione del vago, ed è la forma più comune negli animali domestici. Il numero delle pulsazioni può scendere fino a 9 nel cavallo, a 30 nel cane. Questa forma di bradicardia, bene studiata da G. Finzi, è un sintomo costante dell'idrocefalo cronico idiopatico del cavallo. La prima forma di bradicardia richiede l'uso di tonici cardiaci, la seconda mira al trattamento eziologico e a quello sintomatico a base di atropina.
Tachicardia. - Anormale aumento delle pulsazioni cardiache che può dipendere da simpaticotonia di origine endocrina (morbo di Basedow) o da ipovagotonia (saturnismo). Potrebbe essere alle dipendenze di una notevole eccitazione dei nervi del simpatico, dei ganglî cardiaci automatici o del miocardio stesso. Possono dare buoni risultati i moderatori del simpatico (bromuri, valeriana, chinino, ecc.).
Endocardite acuta. - Insorge per lo più come localizzazione secondaria a malattie setticemiche o localizzate in varî organi; di rado l'affezione si sviluppa indipendentemente da altri processi morbosi. Essa può essere causata da germi specifici agenti di forme specifiche (reumatismo, setticemie emorragiche, tubercolosi, adenite e influenza equina, pleuropolmonite dei bovini, mal rossino, ecc.), oppure da germi banali, agenti d'infezioni non specifiche. Il processo infiammatorio si sviluppa quasi sempre sulle valvole e può presentarsi sotto l'aspetto di endocardite valvolare verrucosa o ulcerativa. L'inizio della malattia è accompagnato da un'esacerbazione dei sintomi della malattia causale. A carico del cuore si rileva aumento anche notevole delle pulsazioni, battiti rinforzati o anche martellanti, toni deboli, poco distinti, talora congiunti a soffî endocardici; il polso è celere, aritmico, per intermittenze extrasistoliche. Nella forma ulcerativa, possono insorgere manifestazioni metastatiche in varî organi. La guarigione completa delle endocarditi acute è rara. Il trattamento della perturbata funzione cardiaca si deve basare sull'uso d'impacchi freddi, di cardiotonici, di eccitanti.
Cardiopatie valvolari (endocardite cronica). - Sono specialmente frequenti nel cane e nel cavallo; possono rappresentare reliquati di endocardite acuta o possono evolvere come tali nel decorso di malattie croniche (morva, tubercolosi, endoarterite cronica, arteriosclerosi), d'intossicazioni, per causa di tumori, di localizzazioni parassitarie (cisti da echinococco nei bovini, strongili e filarie nel cane), per dilatazione dei ventricoli, ecc. L'endocardite cronica assume dal lato anatomopatologico, l'aspetto proliferante (endocardite verrucosa). La malattia si manifesta con sintomi comuni alle altre cardiopatie (aumento o diminuzione della forza del battito, ingrandimento dell'ottusità cardiaca, alterazioni relative al numero, all'intensità, al suono, al ritmo dei rumori normali, comparsa di soffî cardiaci, manifestazioni d'insufficienza cardiaca) e con sintomi speciali culminanti nella comparsa dei cosiddetti soffî cardiaci, di suono, d'intensità, di sede variabili in rapporto al carattere anatomico, alla sede della lesione. A seconda del momento in cui nella rivoluzione cardiaca il soffio si manifesta, a seconda della sua localizzazione, è possibile fare una diagnosi topografica della lesione. Le cardiopatie valvolari rappresentano, specialmente negli animali da lavoro, entità morbose gravi, a evoluzione progressiva, caratterizzata da un periodo di compensazione, seguito da una fase d'insufficienza, passante per diversi gradi di gravità. Le lesioni valvolari del cuore destro sono in generale più gravi di quelle del sinistro, perché poco compensate dal corrispondente ventricolo. Nella fase di compenso il trattamento è soltanto igienico; comparendo i sintomi d'insufficienza cardiaca, si ricorre ai cardiotonici, ai diuretici.
Pericardite (v.).
Arteriti. - Possono essere acute (traumatiche, parassitarie, infettive, tossiche) o croniche. Le prime rappresentano un reperto di necroscopia, le seconde conducono a due tipi di lesioni abbastanza frequenti negli equini e cani, all'arteriosclerosi e all'ateroma.
Aneurismi (v. aneurisma). - Si sviluppano in seguito ad arterite, arteriosclerosi, ateroma, infezioni, localizzazioni parassitarie, sforzi muscolari. Si riscontrano specialmente nel cane e nel cavallo. Risiedono generalmente sull'aorta, sulle arterie iliache e mesenteriche.
Trombosi. - Si sviluppano nel decorso delle arteriti acute e croniche, si riscontrano specialmente nel cavallo in relazione alla frequenza in questa specie, delle arteriti parassitarie. Le trombosi più frequenti sono quelle dell'aorta e delle sue branche terminali, dell'arteria ascellare e omerale. Esse dànno luogo a fenomeni di paralisi nel territorio di distribuzione dell'arteria trombosata, manifestantisi soltanto con l'esercizio; tali fenomeni scompaiono dopo un certo periodo di riposo.
Flebiti. - Sono di natura infettiva; possono originarsi in seguito a salasso, per infezione di vicinanza o per localizzazione metastatica nel decorso di malattie infettive (adenite e influenza equina, infezioni uterine, ecc.). La flebite conduce alla formazione di un trombo obliterante che può organizzarsi o suppurare. Le flebiti più frequenti sono localizzate alle giugulari, alla vena ombelicale, alle vene utero-ovariche. Si ricorre ad applicazioni risolventi; per evitare la disseminazione di emboli, quando è possibile, si procede all'asportazione della parte malata.