LINFATICO, SISTEMA (dal lat. lympha "acqua")
È una parte dell'apparato vascolare (v. sanguifero, sistema) ed è costituito da canali o vasi e da altre formazioni cave (sacchi, cisterne, seni, cuori linfatici) in cui circola la linfa. Vi sono annesse linfoghiandole (v.) o linfonodi. L'apparecchio linfatico è relativamente indipendente dal sistema vascolare sanguigno; con questo comunica soltanto in alcuni determinati punto e mediante dispositivi che, mentre permettono, anzi favoriscono, il deflusso della linfa nell'apparecchio venoso e quindi la sua mescolanza col sangue, si oppongono invece al passaggio del sangue nell'apparecchio linfatico. Questi dispositivi nei Mammiferi sono semplici apparecchi valvolari; in alcuni Uccelli, ma specialmente in altri Vertebrati, sono anche organi propulsori della linfa.
Sommario: Storia (p. 184); Anatomia comparata (p. 184); Anatomia umana (p. 186); Embriologia (p. 187); Anatomia patologica (p. 187); Fisiologia (p. 188): Fisiopatologia (p. 191); Patologia (p. 192); Patologia veterinaria (p. 194).
storia. - Gaspare Aselli nel 1622 scoprì i vasi linfatici nel mesenterio di animali domestici umisi poco dopo il pasto e ne intuì la funzione. J. Pecquet nel 1651 diede una buona descrizione del dotto toracico e della cisterna che porta il suo nome, sebbene queste formazioni fossero già state viste da B. Eustacchi nel 1563 e indicate col nome di vena alba thoracis. Bartholinus nel 1652 dimostrò la presenza dei linfatici in tutto il corpo e, nel secolo successivo, P. Mascagni accrebbe notevolmente le nostre conoscenze sopra questo argomento, illustrandolo con artistiche tavole. Il metodo di Gerota (1896) e quello di Magnus (1922) hanno messo in evidenza numerose particolarità.
Anatomia comparata. - In tutti i Vertebrati i vasi linfatici s'iniziano in seno al connettivo di quasi tutti gli organi con reti di capillari o con lacune; si continuano coi collettori di vario ordine, per lo più plessiformi, fino ai condotti principali che s'aprono nell'apparecchio venoso. I linfatici dei Pesci non sono molto ben conosciuti, perché pare che abbiano disposizioni molto variabili da specie a specie e perché non sono così ben differenziati dai vasi venosi, come si verifica invece negli altri Vertebrati. Sono note, tanto nei Teleostei che nei Selaci, reti linfatiche cutanee, viscerali, branchiali, e collettori comunicanti in modo vario con le vene. Per alcuni, però, di questi collettori è discussa la natura linfatica o venosa. In alcuni Teleostei (Murenoidi, Scopelini) all'apparecchio linfatico è connesso un cuore caudale che raccoglie la linfa e con le sue contrazioni l'immette nel sistema sanguifero (G. Favaro). Negli Anfibî i capillari linfatici cutanei confluiscono in grandi sacchi interposti fra la cute e la muscolatura; quelli intestinali si raccolgono in un sacco periesofageo e in uno spazio mesenterico triangolare. Il confluente principale di tutto l'apparecchio è la grande cisterna retroperitoneale o prevertebrale, che è una cospicua borsa che avvolge l'aorta e i suoi due archi di origine. Sono annesse al sistema linfatico degli anfibi due paia di cuori linfatici interposti fra apparecchio linfatico e venoso (B. Panizza, J. Müller). Il paio anteriore, o cervico-ascellare, è in comunicazione, da una parte, coi sacchi cutanei e con la cisterna prevertebrale, dall'altra con le vene giugulari. Il paio posteriore, o ischiatico, mette in comunicazione l'estremità caudale dei sacchi cutanei e della cisterna prevertebrale con le vene ischiatiche. I cuori, pulsando, favoriscono il passaggio della linfa nel sistema venoso. In alcune specie di Urodeli (tritone, salamandra) i cuori linfatici caudali sono multipli, possono arrivare a otto paia, e sono situati ai lati della radice della coda; sono in rapporto da una parte col linfatico longitudinale laterale e col sistema linfatico emale, dall'altra con le vene. Negli Urodeli la cisterna retroperitoneale o prevertebrale che avvolge l'aorta non è uniforme come negli Anuri, soltanto la parte caudale che avvolge l'aorta dalla regione cloacale alla pilorica ha anche negli Urodeli i caratteri di cisterna (cisterna chili); la parte più craniale invece ha assunto l'aspetto di un tubo assai più ristretto o dotto toracico, che inguaina l'aorta e si biforca anteriormente in corrispondenza dei due archi aortici. Questo duplice condotto si apre a entrambi i lati, coi plessi linfatici ascellari, nelle vene succlavie. Anche nei Rettili i collettori centrali della linfa mantengono fondamentalmente lo stesso carattere, e cioè di tubi inguainanti l'aorta e le sue radici; sono connessi internamente con la parete dell'aorta per mezzo di lamine che sepimentano così la cavità dei tubi stessi. I cuori linfatici sono ridotti al solo paio caudale, ma sono costanti. Negli Uccelli la cisterna chili è sostituita da un plesso di vasi nel quale confluiscono i vasi linfatici che accompagnano l'aorta addominale, il tronco linfatico proveniente dallo stomaco e quello proveniente dall'intestino. Il dotto toracico è quasi sempre doppio; quello di destra s'apre nella vena cava superiore di destra e quello di sinistra nella vena cava di sinistra. I cuori linfatici non si trovano che in alcune specie, oppure fanno soltanto la loro comparsa nell'embrione, per poi regredire. Quando esistono, si tratta solo dei caudali. Negli Uccelli e nei Mammiferi il dotto toracico non ha più il carattere di guaina avvolgente l'aorta, ma ha assunto il carattere di un vaso individualizzato e avente con l'aorta soltanto rapporto di vicinanza. Nei Mammiferi la cisterna chili (Pecquet) è, si può dire, costante in tutte le specie; rappresenta la porzione iniziale del condotto toracico. Questo è unilaterale, decorre in parte a destra e in parte a sinistra dell'aorta per aprirsi nella vena anonima sinistra. I capillari e le reti linfatiche, che rappresentano le radichette d'origine dell'apparecchio linfatico in seno al connettivo, sono completamente chiuse a fondo cieco; la loro parete è una tonaca assai simile a quella dei capillari sanguigni ed è formata da un endotelio, all'esterno del quale è applicato uno straterello di connettivo di natura reticolare. Passando ai collettori di calibro maggiore, la parete dei vasi linfatici si complica e vi si differenzia una tonaca intima col suo rivestimento interno endoteliale, una media, con fibrocellule muscolari lisce, e una avventizia puramente connettivale. Le tonache però, anche nei collettori principali, sono meno differenziate l'una dall'altra di quanto si verifica per le vene; la tonaca media è poco ricca di elementi muscolari e anche le fibre elastiche non sono abbondanti. I vasi linfatici minori, ampiamente ramificati e anastomizzati, formano reti fittissime; quelli di calibro medio hanno piuttosto disposizione a plesso. Le valvole, mancanti nei capillari, sono frequenti invece nei collettori minori, diminuiscono di numero passando a quelli di calibro medio e ancora più scarse sono nei collettori maggiori. Sono del tipo semilunare, appaiate; la loro superficie concava è rivolta a monte del vaso e quindi in modo da opporsi al riflusso della linfa dal centro alla periferia. I vasi linfatici intestinali, e in particolare quelli della mucosa, hanno una funzione speciale che è quella di assorbire il prodotto della digestione e cioè il chilo, sono perciò detti chiliferi (v.). Mentre la caratteristica dell'apparecchio linfatico dei Pesci, degli Anfibî e anche dei Rettili è quello di essere fornito di organi propulsori della linfa, con pareti muscolari e contrattili, e cioè di cuori linfatici, negli Uccelli i cuori linfatici sono ridotti, incostanti e, per lo più, fanno soltanto una temporanea apparizione nella vita embrionale; s'incomincia invece a notare in alcune specie di Uccelli, e precisamente in Palmipedi, la presenza di linfoghiandole; appunto soltanto negli Uccelli s'incominciano a trovare organi che hanno veramente tale significato. Nei Vertebrati inferiori si trovano soltanto o accumuli irregolari di elementi linfoidi, oppure organi di carattere linfoide, come quello pericardiaco dello storione (O. Hertwig) oppure quello mesenterico del coccodrillo (R. Owen), ma la loro presenza non è sistematica e i loro rapporti coll'apparecchio linfatico non precisati. Le linfoghiandole degli Uccelli, quali sono particolarmente identificabili nell'oca, sono due paia; un paio cervico-toracali, e un paio lombari. Le linfoghiandole cervico-toracali (di Hewson) sono situate alla radice del collo, in rapporto con il tratto terminale del condotto toracico, del tronco linfatico giugulare e del tronco linfatico succlavio, dove questi grandi collettori linfatici sboccano nelle vene cave superiori. Le linfoghiandole lombari (di Panizza) si trovano lungo il decorso dei vasi linfatici satelliti dell'aorta, nella porzione lombare di questa; vi confluiscono anche i vasi linfatici dell'arto inferiore. La struttura di queste linfoghiandole degli Uccelli è assomigliante a quella delle linfoghiandole dei Mammiferi con qualche differenza non sostanziale. Nei Mammiferi, invece, le linfoghiandole o linfonodi sono largamente rappresentati; si trovano sparse o a gruppi in varî territorî linfatici, lungo il decorso dei vasi linfatici. Quei vasi che apportano loro la linfa sono detti afferenti; e quelli che la raccolgono dal loro apparato lacunare (i seni) sono detti efferenti. Le linfoghiandole sono quindi stazioni interposte lungo il decorso delle vie linfatiche. In esse si compie la formazione di alcuni degli elementi morfologici del sangue e della linfa e precisamente i linfociti. In esse poi vi sono elementi importanti (istiociti) che hanno proprietà fagocitarie e distruttive di sostanze che essi possono inglobare e digerire. Tali sostanze possono essere rappresentate anche da materiali estranei pervenuti in circolo, da elementi cellulari che devono essere eliminati, da microrganismi patogeni. Gli istiociti hanno anche la facoltà di elaborare sostanze immunizzanti contro le infezioni e alcune intossicazioni. Si capisce quindi l'importanza delle linfoghiandole nell'ematopoiesi e nella difesa dell'organismo (v. appresso).
Anatomia umana. - I vasi linfatici, tenendo conto del percorso della linfa in essi racchiusa, che avviene dalla periferia al centro, convergono dalle parti più periferiche del corpo ai punti di sbocco dei collettori maggiori nell'apparecchio venoso e cioè al punto dove le vene giugulari interne e succlavie confluiscono per formare la vena anonima di destra e di sinistra. La descrizione riassuntiva, che segue, della distribuzione dei vasi linfatici e dei principali territorî di linfoghiandole, è quella che si riferisce all'uomo; non molto dissimile del resto da quanto è noto per gli altri Mammiferi. Negli arti addominali i vasi linfatici si suddividono in superficiali e in profondi. I primi sono quelli che provengono specialmente dalla cute; i secondi quelli che provengono dalle masse muscolari e dalle articolazioni. I vasi superficiali si dividono in due gruppi, dei quali il principale o mediale, seguendo il decorso della vena safena interna, fa capo al complesso notevole di linfoghiandole che trovansi sotto la cute dell'inguine, e che sono dette linfoghiandole inguinali superficiali; l'altro gruppo più modesto che accompagna la piccola vena safena raggiunge un piccolo gruppetto di linfoghiandole poplitee. Alle linfoghiandole inguinali superficiali giungono anche vasi linfatici provenienti dal pudendo, dalla cute della natica e dalla porzione sotto-ombelicale della cute dell'addome. I vasi linfatici profondi dell'arto addominale seguono il percorso delle arterie e, dopo una parziale interruzione nelle linfoghiandole poplitee, a livello delle quali raccolgono anche la linfa dei vasi superficiali posteriori, raggiungono le linfoghiandole inguinali profonde che, a differenza delle superficiali, sono sotto-fasciali. I vasi efferenti dei due sistemi di linfoghiandole inguinali, attraversano, coi vasi femorali, l'anello crurale e, lungo le arterie iliache, costituiscono i vasi linfatici iliaci esterni. Questi si uniscono ai vasi linfatici ipogastrici per formare i vasi linfatici iliaci comuni, satelliti delle arterie omonime. Lungo il percorso di tutti i vasi iliaci e ipogastrici si trovano linfoghiandole. Tutto questo territorio linfatico, oltre che rappresentare la continuazione di quello dell'arto addominale, raccoglie anche vasi provenienti dalla parete interna del bacino e soprattutto dalla maggior parte dei visceri pelvici. I vasi iliaci comuni risalendo raggiungono l'aorta. Vi si congiungono vasi satelliti delle arterie lombari, vasi provenienti dai reni, dalle capsule surrenali, dai genitali interni, vasi satelliti delle arterie mesenteriche e del tronco celiaco, ecc., provenienti quindi dall'intestino, stomaco, fegato, pancreas, milza. Da tutto questo complesso risulta formato il plesso lomboaortico. Questo plesso è provveduto di linfoghiandole grosse e numerose o lomboaortiche. Da queste derivano le tre radici del condotto toracico e cioè i due tronchi lombari destro e sinistro e il tronco intestinale. Nel tronco linfatico intestinale proseguono i vasi chiliferi (v. Chiliferi, vasi). Il condotto toracico, che alla sua radice presenta la cisterna del Pecquet, risale nel mediastino posteriore lungo l'aorta per sboccare al punto di confluenza fra vena giugulare interna e succlavia di sinistra. Nel condotto toracico si raccolgono anche i vasi linfatici provenienti dalla parete toracica e precisamente gl'intercostali e i vasi efferenti delle linfoghiandole mediastiniche posteriori.
I vasi provenienti dai visceri toracici, attraversando le linfoghiandole mediastiniche anteriori e le bronchiali, e parte di quelli della parete toracica anteriore, attraversando le linfoghiandole sternali, costituiscono i tronchi bronco-mediastinici che sboccano a destra o a sinistra, o separatamente o unendosi ad altri collettori, al punto di confluenza fra vena giugulare interna e succlavia. I vasi linfatici dell'arto toracico suddivisi, come all'arto addominale, in due sistemi, quello dei superficiali e quello dei profondi, si raccolgono nel complesso territorio delle linfoghiandole ascellari, alle quali giungono anche linfatici della cute del torace e della mammella. I vasi efferenti delle linfoghiandole ascellari si raccolgono a formare il tronco succlavio. Questo, a destra, si apre di solito isolatamente nel punto di confluenza fra vena giugulare e succlavia, a sinistra, unendosi talvolta col bronco-mediastinico e con lo stesso condotto toracico. I vasi linfatici della testa e del collo, lungo i quali si trovano parecchi gruppi di linfoghiandole (le parotidee, le occipitali, le pretracheali, le paratracheali, ecc.), finiscono in massima parte col confluire nel gruppo maggiore delle linfoghiandole cervicali profonde. I vasi efferenti di queste formano i due grandi collettori del collo e cioè i tronchi giugulari che, accompagnando la vena giugulare profonda del lato corrispondente, sboccano: il destro, per lo più isolatamente nella vena anonima destra; il sinistro, invece, unendosi per lo più alla porzione terminale del condotto toracico.
Embriologia. - L'apparecchio linfatico s'abbozza nell'embrione un po' più tardi dell'apparecchio sanguifero, per la confluenza di lacune e spazî che appaiono dapprima disseminati e indipendenti nel mesenchima; s'ingrandiscono e si fondono successivamente per formare vere vie linfatiche continue che si uniscono secondariamente alle vene, in quei punti nei quali, come s'è visto, esiste, in condizioni definitive di sviluppo, la congiunzione dell'apparecchio linfatico col sanguifero. La formazione dei vasi linfatici è quindi centripeta, e cioè in direzione delle vene nelle quali hanno sbocco. Che le vene, specialmente a livello dei punti di congiunzione linfatico-venosa, contribuiscano anche attivamente, con l'emissione di qualche diverticolo, al loro congiungimento con le vie linfatiche viciniori non è da escludersi; ma è da scartarsi il concetto di una completa derivazione delle vie linfatiche dalle vene e una loro irradiazione in senso centrifugo o periferico. Le linfoghiandole si formano più tardi, in punti determinati delle vie linfatiche già formate, e sono precedute o da dilatazioni o da disposizioni plessiformi circoscritte, in corrispondenza delle quali il mesenchima si evolve in tessuto linfoide.
Anatomia patologica. - Gia fisiologicamente la linfa presenta delle modificazioni nei suoi costituenti. La parte liquida aumenta nei linfatici degli organi nei quali per maggiore lavoro aumenti la trasudazione del plasma dalle pareti vascolari, si fa lattiginosa nei vasi chiliferi per assorbimento di sostanze elaborate dall'intestino nella digestione. Nella parte corpuscolare si nota un aumento dei linfociti nei vasi efferenti delle ghiandole linfatiche. Patologicamente queste variazioni sono più sensibili. Nelle emorragie interstiziali la linfa si carica di globuli rossi, e vasi e ghiandole ne restano arrossati. Nella risoluzione della polmonite i linfatici polmonari assorbono i detriti dei leucociti degenerati in grasso, e la linfa si fa lattescente e lo stesso avviene per assorbimento di grasso da commozione del midollo delle ossa e per assorbimento di detriti cellulari e di fibrina all'intorno dei focolai infiammatorî. Nei linfatici penetrano anche: 1. elementi corpuscolari pervenuti negl'interstizî dei tessuti, e sono: o di origine esogena: tali la polvere di carbone, di silice, di ferro, che determinano l'antracosi, la silicosi, la siderosi delle ghiandole peribronchiali che si fanno sclerotiche, le polveri coloranti, iniettate a scopo di tatuaggio; o d'origine endogena per dissoluzione di corpuscoli rossi omogenei stravasati o eterogenei, iniettati, o pigmenti legati alla tubercolosi delle ghiandole surrenali (morbo di Addison). 2. microparassiti d'ordine vegetale o animale. Questi, penetrati da una soluzione di continuo o da un focolaio infiammatorio, possono determinare, nei vasi linfatici, un'infiammazione semplice, sierosa, con ispessimento edematoso della parete, o purulenta, che facilmente sconfinando, determina una perilinfangite che può condurre alla produzione di un flemmone. Altre volte ammassi fibrinopurulenti o di microorganismi possono dare un'ostruzione trombotica (trombolinfangite). Le linfangiti acute, se superficiali, sono rivelate da strie rossastre sottocutanee, da iperemia dell'avventizia vascolare. Se le linfangiti si fanno croniche, specialmente nei grossi dotti, avvengono proliferazioni e induramenti che ostruiscono più o meno i vasi e da ciò ectasie sovrastanti all'occlusione, che facilmente evolvono a cisti, che, se molto voluminose, possono rompersi, e a seconda della sede della rottura possono determinare un chilotorace o un'ascite chilosa (le stasi linfatiche persistenti nella cute vi determinano edemi e ispessimenti connettivali: pachidermia linfangectasia), se associate a ectasie, producono forti ispessimenti della cute e dei tessuti prossimiori conosciuti col nome di elefantiasi (v.). Tanto l'ascite chilosa quanto l'elefantiasi possono dipendere dall'ostruzione dei linfatici determinata dalle filarie (v.). Stasi ed ectasie linfatiche possono essere anche prodotte da compressioni dall'esterno (tumori, aneurismi). Linfangite specifica è la tubercolare, alla quale dobbiamo spesso la diffusione a distanza dell'infezione. Tipiche sono quelle dei linfatici sottosierosi peritoneali nella tubercolosi dell'intestino, e quella che s'osserva nella tubercolosi polmonare che si complica facilmente con la perilinfangite. Sull'intima dei grossi collettori linfatici (dotto toracico) facilmente si formano tubercoli che, subendo la mortificazione centrale, versano abbondante materiale infettante in circolo, determinando una tubercolosi miliare ematogena generalizzata.
I microparassiti, quando pure non ledano i vasi, sono trattenuti dalle ghiandole linfatiche che rappresentano una valida difesa contro le infezioni, in parte umorale, in parte istiogena, dovuta specialmente agli endotelî dei seni e alle cellule del reticolo per le loro proprietà granulopessiche e fagocitarie. Nelle ghiandole o sono trattenuti, permanendo a lungo inoffensivi (così in ghiandole peribronchiali macroscopicamente e istologicamente normali si può con l'innesto della cavia spesso dimostrare la presenza di bacilli tubercolari) o vi determinano un'infiammazione, linfoadenite acuta, che può essere iperplastica, per moltiplicazione degli elementi follicolari e degli endotelî dei seni che desquammano (catarro dei seni), o fibrinosa (difterite, polmonite), fibrinoso-emorragica (vaiolo), purulenta (da piogeni), nella quale piccoli focolai iniziali conducono a una colliquazione purulenta e a periadenite (bubbone venereo da bacillo di Ducrey), o necrotica (come nelle ghiandole mesenteriche dei tifosi), o icorosa, come nella peste, forme necrotiche e icorose che, vincendo la resistenza ghiandolare, permettono all'infezione di farsi generale. Stimoli settici ripetuti conducono a una linfadenite cronica fibrosa, che si può osservare anche nella sifilide, quando il tessuto granulomatoso specifico è scomparso per essere sostituito da connettivo.
Le adeniti acute e croniche si possono avere anche per via ematogena, e, oltre che dai microorganismi patogeni, possono essere determinate anche dalle semplici tossine. I bacilli tubercolari arrivano alle ghiandole o da focolai tubercolari già istituiti, più raramente attraverso cute e mucose sane, sia per via ematogena (e si hanno piccoli e isolati tubercoli), sia per via linfatica, e i tubercoli allora si fondono in una grossa massa centrale, caseosa, giallastra, facilmente removibile. Talora, per sovrapposizione di piogeni, il rammollimento si fa puriforme e le ghiandole, se superficiali, possono svuotarsi attraverso la cute per mezzo di tragitti fistolosi e il tutto può guarire con una cicatrice retraente. In individui più resistenti, la tubercolosi ghiandolare non conduce alla caseosi, ma semplicemente alla degenerazione ialina del tessuto connettivo di reazione (e le ghiandole appaiono dure, translucide al taglio) e ciò può avvenire tanto con localizzazioni bacillari nella ghiandola, come per azione delle sole tossine. Talora le masse caseose calcificano, guarigione anatomica questa, ma non assoluta, giacché la parte calcificata opportunamente inoculata nella cavia vi riproduce la malattia, e così si spiega come da queste calcificazioni ghiandolari possa ridestarsi un'infezione tubercolare locale o generale. Lo stesso si osserva avvenire per le calcificazioni residuanti alle suppurazioni ghiandolari, dalle quali può a forma setticemica dipartirsi un'infezione generale (setticemie criptogeniche). Le ghiandole linfatiche più colpite dalla tubercolosi sono le cervicali, le peribronchiali, le mesenteriche, giacché la bocca, le fauci con le tonsille, la mucosa bronchiale , l'intestino, rappresentano la principali vie di entrata dei bacilli.
Una speciale tubercolosi nei giovani, delle ghiandole del collo, (scrofolosi) era riferita ad altre infezioni; oggi si riconosce in rapporto allo stato costituzionale linfatico (v. diatesi) nel quale, insieme con un'iperplasia di tutti gli organi linfatici e un'aplasia del sistema vascolare (vasi e cuore), si congiunge una più facile disposizione alle infiammazioni delle mucose boccali, nasali, oculari, auricolari, ecc., che aprono poi la via all'infezione tubercolare. Se a questo quadro si aggiunge l'atrofia del timo, si ha lo "stato timo-linfatico", nel quale talora s'osservano morti improvvise. Un tempo alla tubercolosi si riferiva una rara malattia delle ghiandole linfatiche (malattia di Hodgkin, linfogranuloma maligno), oggi riferita o a una reazione iperplastica sistematizzata o a un virus ignoto che determina una reazione infiammatoria nelle ghiandole o nel tessuto linfoide (laddove esista) con caratteristiche proprie, tra cui la presenza di cellule grandi polinucleate (cellule di Sternberg), ben differenziabili dalle cellule giganti tubercolari (v. granuloma). Per i linfatici possono pervenire alle ghiandole anche cellule vive, come avviene per le cellule cancerose, che nella ghiandola o subito o a varia distanza di tempo possono moltiplicarsi e riprodurre il tumore, e da ciò la necessità di asportare sempre anche le ghiandole regionali.
Tumori dei vasi linfatici sono i linfangiomi e gli endoteliomi, i primi a evoluzione generalmente benigna, i secondi spesso maligna, tanto che istologicamente e clinicamente spesso si confondono con i cancri. I tumori delle ghiandole linfatiche sono più difficili a essere classificati, perché non sempre nell'esaminarli è facile definire se si tratti di iperplasia o di tumori, e, nel primo caso, se si tratti di lesione semplicemente localizzata o non piuttosto generalizzata a tutto l'apparato emopoietico. Così, per es., il linfosarcoma che può essere regionale o generalizzato, da alcuni è ascritto al grande gruppo dei sarcomi, da altri alle iperplasie linfomatose aleucemiche e per la contemporanea alterazione sistematizzata a tutto l'apparato emopoietico, e perché nel suo sviluppo infiltra e non distrugge (come fanno i sarcomi) l'organo nel quale si manifesta e perché i nodi secondarî non si producono per via ematogena, ma bensì dall'iperplasia di nidi di tessuto linfoide preesistente. Nelle ghiandole linfatiche si hanno però talora veri sarcomi e la lesione è unicamente ghiandolare senza risentimento analogo del restante apparato emopoietico. I cancri, nelle ghiandole linfatiche, sono sempre secondarî per proliferazione in seno alla ghiandola di cellule cancerose trasportatevi dai linfatici e si producono così nodi cancerosi che hanno tutti i caratteri del tumore dal quale derivano. I linfomi (v.), un tempo descritti fra i tumori, oggi sono riconosciuti in rapporto a fatti iperplastici che interessano in vario grado gli organi ematopoietici e il sangue (v. leucemia; pseudoleucemia).
Fisiologia. - Si deve anzitutto precisare che cosa s'intenda per sistema linfatico dal punto di vista fisiologico:
Anatomicamente esso comprende, oltre alle lacune (v. lacunare, sistema), ai capillari e ai grossi vasi ove fluisce la linfa, anche tutti gli organi che sono costituiti da tessuto linfatico. Non c'è ragione perciò di disgiungere dalle ghiandole linfatiche gli altri organi di analoga costituzione, come, fra i principali, le tonsille, il timo e la milza. Ma questa classificazione, dal punto di vista fisiologico, comprende organi che, se hanno analogie strutturali, posseggono tuttavia ben distinte funzioni, e non possono pertanto essere compresi in una trattazione unica. Meglio è pertanto rimandare il lettore alle singole voci che definiscono questi diversi organi.
Due sono le principali funzioni del sistema linfatico; quella che lo fa partecipe della costituzione morfologica del sangue, e quella che ne fa il sistema di comunicazione e di trasporto del materiale nutritizio, dei prodotti del metabolismo degli organi e dei tessuti, e di sostanze estranee all'organismo.
La prima di queste funzioni è così strettamente legata alla morfologia del tessuto linfatico, e ha così stretti legami con le alterazioni patologiche di esso, che può trovare più adeguata e completa trattazione nei capitoli sulla morfologia, sulla patologia e sull'anatomia patologica del sistema linfatico. Sicché, per evitare ripetizioni, ci limiteremo a illustrare come la linfa si produca, quale sia la sua costituzione e la sua funzione, e come essa circoli nell'organismo.
Delle ghiandole linfatiche ci soffermeremo soltanto a discutere qui se esse posseggano una funzione ormonica. P. Marfori ha isolato da esse una sostanza che egli definì linfoganglina, e che ha la proprietà di abbassare la pressione arteriosa, deprimendo la forza del cuore e dilatando i vasi sanguiferi. All'ipotesi che si tratti d'una sostanza depressiva simile a quelle che si possono estrarre da molti altri organi, o che la linfoganglina sia da identificare con la colina, Marfori ha contrapposto diversi argomenti e diverse prove sperimeritali. Egli e il suo allievo R. Chistoni ritengono che la ghiandola linfatica abbia una funzione endocrina e secerna un ormone che ha azione antagonista all'adrenalina. Alcuni ricercatori, come Wirth e Nils Berggren, non concordano nel considerare la linfoganglina come antagonista dell'adrenalina, avendo trovato che le due sostanze esercitano azioni simili su taluni substrati fisiologici. A noi sembra che la questione non sia tanto quella di sperimentare le virtù biologiche dell'estratto acquoso, più o meno purificato, della ghiandola, o quelle del principio attivo da essa isolato, quanto piuttosto d'indagare se quella sostanza si liberi dalla ghiandola linfatica, se cioè la ghiandola davvero elabori e metta in circolazione un ormone. Per darne la dimostrazione bisogna mettere a raffronto le virtù ormoniche della linfa prima e dopo il suo passaggio attraverso la ghiandola linfatica, e non ci sembra che questa, del resto non facile, prova sia stata raggiunta. Vero è che la linfa dei vasi efferenti dalla ghiandola linfatica e quella del dotto toracico esercitano un'azione emodinamica depressiva, ma con ciò non è dimostrato che a esercitare quest'azione sia proprio un ormone elaborato dalla ghiandola linfatica. Già dicemmo come la linfa raccolga le più diverse sostanze elaborate o eliminate da tutti i tessuti e da tutti gli organi, e non è facile dire a quale di esse sia da attribuire l'azione depressiva. Secondo L. Asher e A. G. Barbera, la linfa che proviene dai tessuti del capo contiene sempre metaboliti ad azione depressiva, e sarebbe anzi funzione della ghiandola linfatica quella di distruggerne l'azione depressiva prima che la linfa si getti nel sangue.
Come lo studio anatomico distingue un sistema lacunare nella compagine dei tessuti, le cavità sierose e un sistema vascolare linfatico, così la fisiologia distingue la linfa dei tessuti, la linfa delle cavità, la linfa dei vasi linfatici. Il sistema lacunare e capillare linfatico rappresenta l'ambiente interno nel quale ha luogo un reciproco scambio di materiale fra il sangue e i tessuti, mentre i vasi linfatici costituiscono un sistema di drenaggio che riconduce lentamente nel torrente sanguigno tutti i materiali della linfa sopravanzati dallo scambio diretto che ha avuto luogo nel sistema lacunare. Siccome il bisogno cli materiali nutritivi dei differenti tessuti e organi è assai diverso per quantità e per qualità, e siccome ogni organo o tessuto è sede di processi anabolici e catabolici specifici, ne segue che la linfa ha composizione diversa secondo il tessuto od organo nel cui sistema lacunare si raccoglie. Raccogliendo la linfa dai vasi collettori principali, o addirittura dal dotto toracico, non si può avere un'idea delle sue variazioni distrettuali di composizione, ma soltanto del complesso dei materiali che nei diversi distretti non sono stati impiegati dai tessuti, né riassorbiti dai vasi sanguiferi. La linfa ricavata dai più grossi tronchi linfatici degli arti superiori e inferiori non è molto diversa da quella del dotto toracico a digiuno. La linfa del fegato e dell'intestino è invece più ricca di residui solidi, e quella che si raccoglie in condizioni patologiche nelle grandi cavità sierose del peritoneo, delle pleure, del pericardio o della vaginale del testicolo, è assai diversa dalla linfa del dotto toracico, perché il suo peso specifico è assai più basso (1008-1015), perché contiene scarsissime quantità di albumina (2-7%), è quasi priva di elementi cellulari e non coagula spontaneamente. Lo studio della linfa sgorgante dal dotto toracico è quello che ha fornito maggiore copia di dati interessanti, sia che si consideri la linfa a composizione pressoché fissa che si produce a digiuno, sia che si considerino le profonde variazioni di composizione che susseguono all'ingestione di alimenti di diversa natura. La fistola del dotto toracico costituisce pertanto un prezioso metodo sperimentale d'indagine; così quella che si forma casualmente nell'uomo in seguito a traumi o a incidenti operatorî, come quella che si suole praticare nel cane con due diversi metodi (v. figura). La quantità media di linfa che si può raccogliere in 24 ore dal dotto toracico di un cane oscilla fra 50 e 65 cc. per ogni chilogrammo di peso dell'animale. Dal dotto toracico di uomini infermi furono viste sgorgare quantità di linfa variabili, in diverse condizioni di peso corporeo e di alimentazione, fra 1200 e 2300 cc. in 24 ore. Gli elementi cellulari della linfa, riconoscibili al microscopio, oscillano per numero solo da 1000 a 30.000 per cmc. Il massaggio dell'addome o degli arti e il lavoro muscolare li fanno molto aumentare di numero. La quasi totalità di queste cellule è costituita da linfociti, con rare forme leucocitarie.
Per studiare la composizione chimica della linfa bisogna ricorrere a quella che sgorga dal dotto toracico durante il digiuno, evitando cioè di colpire le variazioni indotte dall'assorbimento dei prodotti della digestione attraverso ai vasi chiliferi del mesenterio. S'ottengono così risultati pressoché costanti, rappresentati dalle seguenti percentuali: acqua 94, sostanze solide totali 6, albumina 42, grassi e lipoidi 4-9, sali 8. Il peso specifico della linfa è 1016-1023. Il suo cootenuto in fibrina 0,04-0,2%. Il glucosio, dosato a digiuno, è, come nel sangue, l'1‰. Non vi mancano i fermenti: uno che scinde i grassi e uno che scinde l'amido. Nella linfa alcune ghiandole a secrezione interna versano gli ormoni da essa elaborati.
I caratteri chimico-fisici della linfa furono studiati soprattutto da italiani: G. Fano, F. Bottazzi, G. Japelli, G. d'Errico, G. Vinci, P. Marfori, R. Chistoni, F. Buglia. Vennero trovati per le diverse costanti chimico-fisiche i seguenti valori medî: conduttività elettrica (x 37°) = 152; R = 0,60; vischiosità (η 39°) = 1,3 − 1,4; tensione superficiale (b 20°) = 6,478-7,37. Quest'ultima, secondo Buglia, è di 5,5-6,8 mg./mm. (15°), e s'abbassa fortemente se nella linfa sono presenti sali biliari o sostanze grasse derivanti dall'alimentazione. La linfa contiene alcune importanti sostanze battericide termostabili contro il bacillo del tifo, del paratifo A, della dissenteria, e del colon. È invece inattiva contro i cocchi patogeni.
Formazione della linfa. - Si suol fare distinzione fra la linfa trasudata dai capillari sanguiferi, quella che bagna i tessuti e quella che circola nei vasi linfatici. La linfa dei tessuti non è che quella trasudata dai capillari più o meno modificata, e non si può materialmente separarla dalle prime, ma nello studio della linfogenesi importa indagare anzitutto quale sia il meccanismo di formazione della linfa dei capillari sanguiferi. K. F. W. Ludwig pensa che sia in giuoco solamente un meccanismo di filtrazione, dovuto alla pressione del sangue nei capillari. Ostacolando il deflusso venoso del sangue, viene aumentata la pressione capillare e perciò anche la trasudazione della linfa. J. F. Cohnheim osservò questo fenomeno al microscopio provocando una stasi venosa nel peritoneo, nella lingua e nella membrana interdigitale della rana. La legatura della vena cava sopra l'ingresso delle vene epatiche, o la legatura della vena porta, aumenta fortemente il deflusso di linga dal dotto toracico. E così, mentre dal dotto linfatico principale del collo del cavallo si videro defluire 17 cmc. di linfa in un'ora, il deflusso aumentò a 42 cmc. dopoché era stato ostacolato il circolo venoso del capo con la compressione della giugulare.
Mentre è così evidente l'effetto della stasi venosa sulla trasudazione della linfa, meno chiaro è l'effetto dell'aumento della pressione arteriosa. La vasocostrizione diminuisce il deflusso di linfa, mentre esso aumenta in seguito alla vasodilatazione provocata dalla stimolazione del nervo sciatico o del moncone centrale del nervo vago. Stimolando le fibre vasodilatatrici della lingua che decorrono nel nervo linguale, o escludendo le fibre vasocostrittrici dell'ipoglosso, si ottiene un maggiore deflusso di linfa di questo distretto, mentre esso diminuisce stimolando l'ipoglosso. Se s'inietta indacocarminio in una vena, e contemporaneamente si stimola il nervo linguale, si osserva che la metà della lingua, dove ha avuto luogo la vasodilatazione, si colora più intensamente in azzurro, e lo stesso fenomeno avviene nell'orecchio di un coniglio albino nella quale si sia provocata la vasodilatazione col taglio del nervo auricularis magnus; oppure nella zampa di un cane che sia denervata col taglio del nervo sciatico. La linfa che sgorga dai distretti resi in tal modo iperemici è colorata in azzurro più intenso di quella che sgorga dai corrispondenti territorî normalmente irrorati. Entrano qui in giuoco anche fenomeni di permeabilità sui quali ritorneremo, ma l'importanza del fattore emodinamico e vasomotore è provata dal fatto che la più intensa colorazione azzurra del distretto paralizzato scompare più presto di quella meno intensa del corrispondente distretto normale. Ma gli esperimenti nei quali le variazioni della pressione arteriosa sono ottenute con l'enervazione delle pareti vasali, non escludono una alterazione della permeabilità di queste e perciò non servono a indagare i soli effetti delle variazioni della pressione. Se l'aumento di questo è ottenuto, per es., con la stimolazione del nervo splancnico, oppure del centro vasocostrittore bulbare, non si osservano tali mutamenti della composizione chimica del sangue che facciano pensare a una maggiore trasudazione di linfa. E che questa possa formarsi indipendentemente dalla pressione arteriosa è dimostrato dal fatto che non cessa il deflusso di linfa dal dotto toracico anche dopo l'occlusione dell'aorta. Se questa viene parzialmente compressa, si ha un forte aumento di pressione arteriosa, eppure il sangue arterioso e quello venoso conservano un'uguale concentrazione, il che significa che non è aumentata la fuoruscita di acqua per formare maggiore copia di linfa. Si cercò anche se diminuisse la formazione di linfa o addirittura penetrasse liquido dai tessuti nei capillari sanguiferi, quando in questi diminuisse la pressione. Vero è che il salasso provoca in pochi secondi la diluizione del sangue perché penetra liquido dai tessuti nei capillari, ma la diminuzione di pressione arteriosa provocata dal cloralio è accompagnata non già da una diminuzione, bensì da un aumento del deflusso di linfa dal dotto toracico, e si trovò che molti linfagoghi sono tali sebbene abbassino la pressione arteriosa e possano persino diminuire la forza del cuore. Se il salasso si limita, per es., a 0,24-0,37 della quantità di sangue dell'animale, il deflusso di linfa dal dotto toracico non diminuisce, anzi può aumentare, malgrado non sia indifferente la caduta di pressione così nel sistema arterioso come in quello venoso e nel distretto portale. H. J. Hamburger, A. Moussu e E. Kaufmann mostrarono che la quantità di linfa fluente dal principale dotto linfatico del collo del cavallo, se l'animale lavora, può aumentare moltissimo senza che aumenti la pressione carotidea e persino se diminuisca la pressione giugulare, cioè quando sicuramente manchi qualsiasi aumento della pressione capillare. Che durante il lavoro muscolare si producano nei muscoli striati sostanze linfagoghe, è reso credibile dal fatto che il sangue d'un cane fortemente affaticato, iniettato nelle vene d'un cane a riposo, provoca un aumento del flusso di linfa dal dotto toracico di questo ultimo. Se questi esperimenti pongono in dubbio l'importanza esclusiva della produzione di linfa per filtrazione, rimane certo tuttavia che la dilatazione attiva dei capillari costituisce un aumento della superficie filtrante. Nei muscoli, per es., durante la contrazione, la superficie dei capillari aumenta moltissimo, e anche in altri organi l'osservazione capillariscopica dimostra che l'irrorazione può variare entro limiti assai vasti, se si dilatino o si contraggano i capillari. Certo, queste ampie variazioni della superficie filtrante debbono esercitare sulla trasudazione un'influenza assai maggiore delle piccole variazioni che possono avvenire nella pressione capillare. E così si può spiegare come, anche se questa muti pochissimo, possano verificarsi grandi variazioni nella trasudazione di linfa. Il massaggio di un arto, o anche i movimenti passivi, aumentano il deflusso di linfa dall'arto stesso, perché ne dilatano i capillari. Questa condizione, in quanto dà maggiore importanza al fattore superficie anziché al fattore pressione, non si distacca sostanzialmente dalla dottrina di Ludwig della linfogenesi per filtrazione, anche se il movimento delle pareti vasali debbasi considerare come una funzione attiva di esse e non solamente un fenomeno passivo dovuto a influenze idrauliche. Ma ci si avvicina a un diverso concetto della trasudazione linfatica quando si consideri che essa avviene attraverso ai capillari, non solamente in rapporto alla superficie filtrante, ma per virtù propria delle pareti vasali, cioè con l'intervento di una specie di attività fisiologica che non può essere ridotta alle sole forze fisiche. Non basta infatti la sola vasodilatazione a produrre la trasudazione di linfa, se non concorrano anche speciali condizioni della parete dei capillari. Ciò è provato dal seguente esperimento: la stimolazione della chorda timpani produce maggiore secrezione di saliva, e aumenta moltissimo il deflusso di linfa dalla ghiandola sottomascellare. Il fenomeno è accompagnato da una forte vasodilatazione della ghiandola, e s'è creduto di potere a essa attribuire così la maggiore secrezione di saliva come il maggiore deflusso di linfa. Sennonché, avvelenando la ghiandola con atropina, mentre persiste la vasodilatazione consecutiva alla stimolazione della chorda timpani, cessa di verificarsi la secrezione di saliva e la produzione di linfa. La vasodilatazione, cioè l'aumento della superficie filtrante, non è dunque condizione sufficiente al prodursi della linfa, se non sia accompagnata da particolari condizioni della parete vasale, condizioni che l'atropina altera profondamente. Certo i fattori emodinamici non bastanti a spiegare la formazione di linfa, se si tien conto che questa non cessa di prodursi anche dopo la morte, cioè dopoché la pressione arteriosa è caduta a zero e anche quella dei capillari epatici è fortemente ridotta. Il deflusso postmortale di linfa dal dotto toracico potrebbe essere spiegato dal persistere dei movimenti peristaltici dell'intestino, ma in realtà non si tratta solamente del movimento d'una linfa preformata, bensì d'una vera e propria produzione postmortale di nuova linfa, perché quella che defluisce dal dotto toracico dopo la morte acquista proprietà chimiche e fisico-chimiche diverse dalle normali. Che la linfogenesi non si debba a un semplice processo di filtrazione, oltreché dalle suesposte ragioni, si può desumere dalla stessa composizione della linfa, che può essere diversa da quella del plasma sanguigno, ma che tende a uguagliarsi quando si cerchi di variare artificialmente la composizione dell'uno o dell'altro liquido. Così, per es., iniettando nel torrente sanguigno soluzioni ipertoniche di cloruro sodico o di zucchero, molto rapidamente esce acqua dal sangue nei tessuti e il punto di congelamento del sangue tende ad avvicinarsi a quello della linfa. La diffusione e l'osmosi hanno dunque una parte notevole nella linfogenesi, e costituiscono con la filtrazione i fattori fisici della produzione della linfa. Ma la permeabilità delle pareti capillari è dovuta altresì, come dicemmo, a fattori fisiologici e soprattutto allo stato delle cellule endoteliali. Per spiegare l'azione linfagoga di talune sostanze, si può ammettere che esse alterino l'endotelio e perciò la permeabilità delle pareti capillari, ma l'acido arsenioso, benché induca profonde alterazioni dell'endotelio, non produce un aumento nel deflusso della linfa. Perché la trasudazione linfatica avvenga, occorre anche un altro fattore cellulare, cioè la compartecipazione attiva dei tessuti. La formazione di linfa può essere agevolata da sostanze che R. P. Heidenhain chiamò linfagoghe. Alcune aumentano la trasudazione di linfa dai capillari sanguiferi, sebbene diminuiscano lievemente la pressione arteriosa: così il peptone, l'estratto di muscoli di gambero o di teste di sanguisuga, del corpo di taluni molluschi, il curaro, l'albumina d'uovo e la gelatina. Immediatamente dopo l'iniezione endovenosa di queste sostanze aumenta il deflusso della linfa dal dotto toracico, la linfa s'arricchisce di sostanze proteiche, diviene torbida e incoagulabile. Parallelamente aumenta le secrezione urinaria. Altre sostanze hanno invece l'azione linfagoga, perché aumenta non già la linfogenesi dal sangue, ma la quantità di linfa che proviene dai tessuti. Lo zucchero, l'urea, il cloruro sodico e altre sostanze cristalloidi, iniettate in dose alta nel sangue, passano rapidamente ai tessuti, sottraggono loro forti quantità di acqua, e la linfa che ne deriva, povera di colloidi, va ad aumentare il deflusso dal dotto toracico. Parallelamente diminuisce la secrezione urinaria.
Circolazione della linfa. - La linfa scorre nei vasi linfatici sotto una certa pressione. O. Weiss trovò che questa raggiunge il valore di 10-20 mm. d'acqua in un vaso linfatico del collo del cavallo. Nello stesso vaso il Weiss trovò che assai piccola è la velocità della linfa, 250-300 mm. al minuto. Essa può anche essere calcolata dal tempo che impiega una sostanza iniettata nei vasi linfatici del piede a uscire dal dotto toracico. Si vide che nell'uomo questo tempo fu di 10 minuti primi per l'indigosolfato sodico, di 20 per il peptone. Poiché adunque il tempo della comparsa nella linfa sgorgante dal dotto toracico, varia a seconda della sostanza iniettata, questo metodo indiretto non fornisce dati sicuri sulla velocità di scorrimento della linfa nei vasi. Donde si origina la spinta che muove la linfa e che riesce a sollevarla, contro la forza di gravità, dalle parti del corpo più declivi alle più alte? Soltanto in alcuni Anfibî, nei Rettili e nei Pesci esistono dei cuori linfatici che, pulsando ritmicamente, fanno scorrere la linfa. Anzi la rana possiede quattro cuori linfatici: due sacrali e due ascellari. Ma questi organi di propulsione mancano all'uomo e agli altri mammiferi, sicché si deve cercare altra causa al movimento della linfa. Alcuni vasi linfatici, le cui pareti sono formate di elementi muscolari, possono ritmicamente contrarsi in forma peristaltica, in media sei volte al minuto, e così fare scorrere la linfa che essi contengono. La cisterna di Pecquet e il dotto toracico hanno pareti costituite di fibrocellule muscolari riccamente innervate dal simpatico, a somiglianza dei vasi sanguiferi.
E. Gley e J. Camus hanno isolato nel cane la cisterna di Pecquet; l'hanno leggermente distesa con soluzione fisiologica introducendo a ciascun estremo di essa due cannule di vetro, e registrando le variazioni che subisce la pressione del liquido nella cisterna, quando le pareti di essa si contraggano o si rilascino (v. fig.). Stimolando il nervo splancnico sinistro s'ottiene quasi sempre una diminuzione della pressione, che corrisponde a una dilatazione della cisterna, ma vi sono condizioni in cui si può dimostrare che lo splancnico contiene anche fibre costrittrici. I nervi dilatatori e costrittori del dotto toracico sono situati nel tratto toracico della catena del simpatico. Costrizioni o dilatazioni dei grossi dotti linfatici si possono ottenere anche per via riflessa, e cioè stimolando un nervo di senso come lo sciatico. L'asfissia fa contrarre i vasi linfatici, così come fa contrarre tutti gli organi le cui pareti sono formate di fibrocellule muscolari. È assai probabile che quelle che compongono le pareti dei vasi linfatici si contraggano ritmicamente e così spingano innanzi la linfa, la cui circolazione reflua è impedita dalle valvole situate nei vasi. D'altra parte, se pure si sia trovato, come dicemmo, che la linfogenesi non può essere attribuita soltanto alla pressione del sangue nei capillari, non si può negare d'altra parte che la principale vis a tergo che spinge la linfa è pure sempre quella che deriva dal cuore. A ogni sistole cardiaca aumenta il volume degli organi e degli arti, e ne deve pure risentire anche la linfa una ritmica propulsione. La contrazione dei muscoli costituisce un altro momento propulsore di grande importanza e l'ascensione della linfa dagli arti inferiori è principalmente dovuta alle contrazioni muscolari. La linfa nei vasi viscerali è mossa soprattutto dalla meccanica respiratoria; la corrente linfatica è aspirata nei vasi intratoracici dalla pressione negativa inspiratoria ed è spinta nei vasi extratoracici dalla pressione espiratoria. Così la linfa vien fatta circolare e viene spinta nel dotto toracico, donde sbocca nel sangue della vena succlavia.
Fisiopatologia. - Le manifestazioni patologiche del sistema linfatico possono riguardare l'intero sistema, una delle sue parti costitutive essenziali: i vasi o le ghiandole, in generale tutte le sue cellule migranti, o infine una sezione di esso. L'atrofia delle ghiandole linfatiche e in genere dei follicoli linfatici dei diversi organi si ha di solito nella vecchiaia e può aversi in seguito a diverse intossicazioni croniche e in certe malattie croniche a lungo decorso che dànno luogo al marasma. Le degenerazioni possono colpire i singoli elementi oppure diffusamente gli organi linfatici; sono caratteristiche alcune forme che li colpiscono in toto delimitandoli elettivamente. Così accade talvolta per la degenerazione amiloide che colpisce, per esempio, i corpi di Malpighi della milza, in modo che essa appare disseminata da corpicciuoli simili a grani di sagù cotto. In rapporto con forme infiammatorie gravi si trovano anche necrosi più o meno estese. L'iperplasia del sistema linfatico si ha talora costituzionalmente. Tutte le formazioni linfatiche si presentano più voluminose del normale, dando luogo talora a disturbi generali e locali notevoli. Tra questi ultimi fra i più generalmente noti sono l'ingrossamento delle tonsille, le cosiddette vegetazioni adenoidi; ipertrofia delle formazioni linfatiche della faringe. Un'iperplasia di sezioni di tessuto linfatico, che può considerarsi come compensatoria o vicariante, si ha quando venga estirpata la milza o un gruppo di ghiandole linfatiche. La formazione di nuovo tessuto linfatico si ha in seguito a processi irritativi che persistono a lungo; i ganglî corrispondenti s'ingrossano, presentano tuberosità corrispondentemente a un'attiva moltiplicazione dei loro elementi; estirpati o feriti, invece, i ganglî non si riformano e non riformano le parti perdute, mentre i vasi linfatici estirpati o distrutti possono essere ricostituiti. Prima o dopo, generalmente parecchi mesi, si può constatare che nel punto in cui s'è interrotto il decorso dei linfatici anche con l'estirpazione di ganglî i vasi si sono rigenerati.
Un'infiammazione in un punto qualsiasi del corpo suole dare conseguenze che riguardano il sistema linfatico. Ordinariamente i ganglî più vicini e in diretta comunicazione col focolaio infiammatorio s'ingrossano e spesso divengono dolenti; si suole parlare in questi casi di risentimento ghiandolare. Il fatto è dovuto ad accumulo di elementi cellulari linfatici entro il ganglio e talora anche di leucociti. In altri casi l'infiammazione del focolaio primitivo periferico si propaga lungo i vasi linfatici e si ha allora il processo di linfangite. In questa affezione, quando si tratti di vasi sottocutanei, essi diventano apparenti anche alla superficie della cute come linee rosee o rosse. Per trasporto del materiale infettante (microorganismi) dal focolaio primitivo, il ganglio linfatico può diventare a sua volta sede d'infiammazione la quale può anche avere esito in suppurazione. Quando il ganglio è tumefatto fortemente, può diventare ben visibile e sporgere alla superficie del corpo (così, per es., nella peste, nell'ulcera venerea, ecc.): la formazione prende allora volgarmente il nome di bubbone. Se l'infiammazione si estende nei tessuti situati intorno al ganglio, o nella pelle sovrapposta, il bubbone può acquistare un colorito più o meno intensamente rosso o violaceo o cianotico. Caratteristiche le infiammazioni e ulcerazioni tifose delle placche di Peyer (gruppi di follicoli linfatici) dell'intestino, e l'infiammazione tubercolare delle ghiandole soprattutto del collo (scrofola). Gli esiti delle infiammazioni dei ganglî e delle formazioni linfatiche in generale possono essere la guarigione, oppure la sclerosi, l'atrofia, l'iperplasia permanente, la suppurazione e la necrosi talora con caseificazione. Il sistema linfatico può essere sede di tumori che hanno origine dai suoi elementi oppure si localizzano in esso provenendo da altri tessuti e organi (v. sotto).
Nelle leucemie linfatiche si ha un'iperplasia talora enorme di tutte le formazioni linfatiche, dovuta a una moltiplicazione attivissima di linfociti i quali si versano in gran numero nel sangue tanto da uguagliare e superare il numero dei globuli rossi. In questi casi in tutti gli organi possono trovarsi accumuli di linfociti, ossia tessuto linfatico in via di sviluppo; questi focolai si formano sia per migrazione dei linfociti, sia per moltiplicazione di essi entro i tessuti; infine da molti si ammette che possano prodursi anche sul luogo da elementi collettivi indifferenziati. Nelle leucemie mieloidi, ossia in quelle in cui si ha in circolo un aumento enorme di leucociti della serie midollare, si ha invece negli stessi ganglî linfatici e nelle formazioni linfatiche in genere la diminuzione graduale del tessuto linfatico di fronte all'invasione di quegli elementi.
Qualche volta si hanno ingrossamenti di ghiandole linfatiche per proliferazione abnorme dei linfociti, con iperplasia di tutte le formazioni linfatiche, comparsa di tessuto linfatico nei più diversi organi, e cioé tutti i caratteri della leucemia senza però l'aumento dei linfociti nel sangue (v. granuloma: Granuloma maligno). G. Banti ha diviso queste affezioni degli elementi linfatici in: linfoadenie semplici e linfoadenie sarcomatose. Le linfoadenie semplici si presentano con un'iperplasia di tutte le formazioni linfatiche dell'organismo e con sviluppo di accumuli di elementi linfatici anche nei più diversi organi; se ne ha una forma leucemica e una aleucemica a seconda che si ha o non un aumento di linfociti nel sangue circolante. Le linfoadenie sarcomatose o linfosarcomatosi, che presentano pure una forma leucemica e una forma aleucemica, si differenziano per uno sviluppo più rapido, una maggiore attività proliferativa e infiltrante degli elementi linfatici neoformati e talvolta anche per un'apparenza più giovanile e meno tipica degli elementi cellulari. La concezione di Banti da questo punto di vista avvicina la forma leucemica ai veri e proprî tumori; le cellule neoformate, nella forma leucemica, sarebbero versate nel sangue in gran parte a mano a mano che esse si formano, e le infiltrazioni leucemiche avrebbero il valore di metastasi neoplastiche. Parecchi agenti patologici possono determinare una modificazione della fomazione della linfa e del circolo linfatico. Alcune sostanze introdotte nell'organismo dànno luogo a un aumento di produzione di linfa e prendono il nome di linfagoghi (v. sopra).
Un ostacolo al decorso della linfa nei vasi linfatici può dare luogo a una stasi; date però le ricche anastomosi dei linfatici, alla formazione della stasi occorre che l'ostacolo sia molto importante ed esteso alla massima parte dei linfatici di una regione.
Perdurando una stasi linfatica, ha luogo un aumento di volume nell'organo, dovuto a formazione di sacche e diverticoli per parte dei linfatici stessi e a sviluppo di tessuto connettivo. Per questo processo le membra assumono una forma speciale cilindrica o sferoide per cui si parla di elefantiasi (v.).
I vasi linfatici possono presentare la trombosi, ossia l'ostruzione del vaso per parte di una massa solida formatasi a spese degli elementi costituenti la linfa; i trombi si formano là dove il vaso è alterato e più specialmente nelle linfangioiti. Processo più raro è quello dell'embolia, o arresto di una massa solida entro i vasi; di solito i materiali trasportati dalla linfa arrivano e sono trattenuti nei ganglî linfatici. Quando i vasi linfatici vengono feriti, può aversi un versamento di linfa che prende il nome di linforragia (v. sotto).
Insieme con le alterazioni patologiche del sistema linfatico, vengono considerate come strettamente legate a esse quelle che colpiscono i punti in cui ha luogo la prima formazione della linfa, ossia gli spazî intercellulari e le cavità chiuse del corpo; tutto questo sistema viene ora da molti considerato complessivamente sotto la denominazione di sistema lacunare (v. lacunare, sistema).
Le alterazioni dei liquidi dei tessuti e delle cavità sono certamente di grande importanza, in quanto essi costituiscono il vero mezzo in cui vivono le cellule e contengono le sostanze necessarie alla loro vita e i prodotti del loro ricambio materiale ancora poco mescolati fra loro. Ragioni di difficoltà tecniche hanno però finora impedito una analisi precisa di questi liquidi; essa è soltanto possibile quando crescono di quantità per processi patologici. Quando la quantità di questi liquidi cresce, si parla di trasudato e a seconda che essa si raccoglie in seno ai tessuti o in cavità chiuse del corpo prende il nome di edema o idrope. I diversi edemi o idropi assumono poi denominazioni diverse; così si parla di anasarca, quando l'edema è raccolto nella pelle e nel tessuto sottocutaneo; prende il nome di ascite l'idrope della cavità peritoneale, di idrotorace quello della cavità pleurica, idropericardio del pericardio, idrocele del testicolo, idrartro quello delle articolazioni, ecc. I trasudati sono in generale più poveri di albumina e più ricchi di sali del plasma sanguigno. Si discute molto sulla formazione dei trasudati (v. edema).
Patologia. - Le affezioni del sistema linfatico possono essere di natura traumatica, infiammatoria o neoplastica.
Lesioni delle vie linfatiche. - Le lesioni traumatiche assumono minore importanza nel sistema linfatico che in quello sanguigno, dove le ferite possono dare anche pericolo della vita. Le ferite delle vie linfatiche non sono frequenti, se si escludono tutte quelle che clinicamente non dànno segno di sé, poiché la linfa che esce dai vasi linfatici (linforragia) si confonde col sangue e viene da questo mascherata. La linforragia s'avverte quando proviene da vasi grossi, come il dotto toracico o un altro grosso tronco linfatico, o dopo estirpazione di ghiandole linfatiche, in modo che rimangano aperte le vie afferenti, oppure quando vengono ferite delle dilatazioni di vasi linfatici, vere varici o linfangectasie, lesioni tutte che possono dare perdita abbondante di linfa. Il dotto toracico può venire leso durante l'estirpazione di tumori del collo al di sopra della clavicola; si hanno anche casi di linforragia per ferite alla parte interna della coscia o al collo del piede, ecc. La linfa apparisce come un liquido chiaro filante che coagula subito al contatto dell'aria. In caso di linforragia da ferite di parti ove non esistano grossi vasi linfatici, basta la compressione per avere l'arresto della perdita; ma in caso di ferite di grossi tronchi linfatici, come la grande vena linfatica e il dotto toracico, si deve, se la compressione non dà risultato favorevole, procedere all'allacciatura del vaso. Si può avere per infezione della ferita una linfangite o infiammazione dei vasi linfatici con tutte le conseguenze che poi vedremo, oppure, fatto assai raro, la formazione di fistole linfatiche con perdita di quantità, talora assai rilevanti, di linfa, con tutte le conseguenze sulla nutrizione che si possono avere. La legatura di un grosso tronco linfatico, come il dotto toracico, non è seguita dal punto di vista funzionale da alcun disturbo per le numerose anastomosi che esistono tra gli innumerevoli vasi linfatici.
Si può avere una rottura di vasi linfatici per traumi senza ferita esterna, con la formazione di una raccolta di linfa sottocutaneamente da ricordare le cisti; in tali casi occorre con una siringa aspirare il liquido e dopo eseguire una fasciatura compressiva che impedisca la nuova raccolta di liquido. Dobbiamo accennare alla trombosi dei vasi linfatici che presuppone un'alterazione delle pareti vasali o un'infezione locale. Tale processo produce una formazione di cordoni, lungo il decorso dei vasi linfatici, più o meno duri, che possono essere trattati mediante applicazioni caldo-umide per facilitare la circolazione della linfa per le vie linfatiche collaterali che sono molto abbondanti e stabiliscono il compenso.
Passiamo adesso alle forme infiammatorie dei vasi linfatici cioè alla cosiddetta linfangite o linfangioite o angioleucite. Fu studiata per il primo da A. Velpeau, che l'interpretò dal punto di vista patogenetico e che rivelò l'ufficio che hanno i linfatici nella diffusione dei processi infiammatorî.
Appena i microbi penetrano in una soluzione di continuo della pelle, si trovano subito negli spazî linfatici ove provocano infiammazione del reticolo del derma e poi dei tronchi e da questi passano nelle ghiandole linfatiche. Talora il cammino è per tappe, ma tal'altra si trova il punto di innesto o si suppone, perché è esistita una soluzione di continuo, ma non ne rimane traccia e i microbi si trovano nei tronchi linfatici o direttamente nelle ghiandole linfatiche. Perciò, quando si trova un processo acuto infiammatorio di una ghiandola, si deve sempre cercare se è esistita questa soluzione di continuo della pelle in un punto qualsiasi del territorio tributario del sistema ghiandolare in parola. Il microbo che più facilmente produce la linfangite è lo streptococco piogeno, ma possono darla anche gli stafilococchi e talora anche il Bacterium coli nei processi perianali e rettali. Si trova sempre il punto d'inizio della linfangite, ma questa può venire anche per il passaggio del batterio attraverso la pelle integra o meglio da una mucosa senza ferite o dalle cripte tonsillari, dentro alle quali si annidano i batterî, che possono passare nei linfatici, appena circostanze favorevoli lo permettano. La progressione dell'infezione nei casi di linfangite si può fare per continuità, poiché il vaso ha un processo infiammatorio endovasale o perivasale e i batterî, seguendo il decorso dei vasi, vanno fino nelle ghiandole linfatiche; oppure l'infezione si propaga per embolia dal punto della prima localizzazione. Ciò avviene quando la linfa non è coagulata in modo che le cellule bianche possano portare a distanza gli agenti infettivi. Si capisce che, oltre una soluzione di continuo della cute, occorre, per lo sviluppo di una linfangite, la presenza di condizioni individuali di diminuita resistenza locale o generale, in modo che la lotta che s'ingaggia tra batterî e poteri difensivi dell'organismo termini con la sconfitta da parte delle cellule dell'organismo.
La linfangite può prendere i vasi reticolari e quelli tronculari. I primi sono situati nel derma e fanno parte della rete linfatica e, quando sono infiammati, dànno luogo ad ascessi dermici, a flittene, a escare necrotiche, ecc. Se l'infiammazione prende i tronchi linfatici, si hanno dei veri cordoni pieni di pus e il processo comincia nell'interno, e poi s'estende intorno al vaso, dando luogo a una perilinfangite, spesso con formazione di ascessi scaglionati lungo i tronchi. I sintomi della linfangite acuta sono locali e generali. Comincia come un'infezione acuta con febbre alta, preceduta da brividi di freddo, cefalea, talora vomito e prostrazione di forze o astenia. Localmente s'avverte intorno alla ferita, o nel punto ov'è avvenuta l'inoculazione, un rossore diffuso formato da una rete rossa finissima, con altre zone di arrossamento discontinue, talora unite alla prima mediante strisce rosse a margini non netti che seguono il decorso dei vasi linfatici. Tale linfangite reticolare è accompagnata da linfangite tronculare, che è caratterizzata da strisce rosse che seguono il decorso dei linfatici e che terminano alla prima stazione ganglionare da cui partono altre strisce rosse che seguono i linfatici fino alla seconda stazione ghiandolare. Però l'infiammazione può anche saltare una o due stazioni ghiandolari e localizzarsi in ghiandole distanti dal focolaio primitivo: così, p. es., una ferita infetta al piede può dare infiammazione delle ghiandole linfatiche dell'inguine senza localizzarsi prima in quelle del poplite. I cordoni dati dalla linfangite sono più o meno rilevati sulla superficie cutanea e moniliformi. La linfangite è per lo più ascendente, ma può essere anche retrograda e discendere verso la periferia dell'arto. La linfangite può risolversi, e questo è l'esito più abituale, se la cura è istituita subito, opportunamente. Si può avere una suppurazione con la formazione di ascessi linfangioitici multipli e scaglionati lungo i vasi infiammati. Un esito molto grave è quello della formazione di una canerena che inizia con la costituzione di flittene che si rompono e lasciano scoperto un tessuto necrotico bianco-grigio o nerastro. Quest'esito per lo più s'osserva in individui diabetici o deboli o convalescenti per gravi malattie o alcoolizzati ed è accompagnato da gravi fatti generali tossici, che sono quelli che dànno la morte per alterazioni parenchimali degli organi interni come il rene e il fegato. In questi casi il decorso può essere rapidissimo e terminare con la morte. Da un'infiltrazione superficiale intorno ai vasi linfatici si può avere la formazione di un flemmone profondo con ascessi sottoaponeurotici. Si possono avere pure complicanze per propagazione dell'infezione ai linfatici delle sierose, p. es., quella articolare, fino a dare artrite purulenta o, per metastasi viscerali, ascessi multipli a forma piemica, come pure l'endocardite settica.
La prognosi, abitualmente benigna, è in rapporto col decorso e con le possibili complicanze. Si distingua la linfangite dall'erisipela, da cui spesso è accompagnata per l'aspetto tipico abituale dell'erisipela; dalla flebite che dà luogo a cordoni molto più grossi che seguono il decorso delle vene e non terminano nei ganglî linfatici, l'arrossamento sul decorso delle vene è molto minore e non è la parte integrale della lesione.
La cura deve essere prima di tutto profilattica, poiché le ferite tratate bene fino dal principio non presentano complicanze linfangitiche (v. ferita). Ma a linfangite sviluppata dobbiamo localmente fare delle applicazioni calde antisettiche con soluzioni di acido salicilico, di borato di sodio, o, in alcune regioni. di acido fenico (escluse le dita, per il pericolo della cancrena carbolica); un preparato che ha sempre corrisposto è la soluzione di triclorofenolo in glicerina al tre o cinque per cento per pennellature sulla parte infiammata e nelle vicinanze e sul decorso dei vasi linfatici. Sono state adoperate anche le unzioni di pomata di ittiolo o l'ittiolo in glicerina al 10% e recentemente sono state anche magnificate le applicazioni secondo A. Besredka di vaccini dati da filtrati batterici per impacchi e di unzioni di pomate: ma se non abbiamo un'apertura della pelle per la penetrazione della sostanza, l'applicazione è di scarsa utilità. Appena si vede iniziarsi la formazione di un ascesso, intervenire precocemente con l'incisione che dà esito anche solo a una goccia di pus, ma che basta per limitare il processo. Se si hanno chiazze di cancrena, lo sbrigliamento deve essere fatto preferibilmente col bisturi elettrico per evitare che la trombosi dei vasi estenda il processo. Ma spesso bisognerà ricorrere a cure generali per vincere il processo infettivo e cioè alla sieroterapia antistreptococcica, alla vaccinoterapia, nei casi di cancrena al siero anticancrenoso e poi alla proteinoterapia aspecifica e alle iniezioni di metalli colloidali, di urotropina, per iniezioni sia intramuscolari sia endovenose. Per la cura degli ascessi e delle placche cancrenose saranno utili gl'impacchi e le lavande di soluzione di ipoclorito di calcio al 2-1% o di liquido di Dakin.
La linfangite cronica può essere sifilitica, forma rara che molte volte è piuttosto una forma semplice in individuo luetico; ma talora è data dalla lesione primitiva e produce la caratteristica adenite satellite dell'ulcera dura; nel periodo terziario si possono avere linfangiti sotto forma gommosa. La cura è la specifica.
La forma tubercolare è pure rara, mentre sono invece frequenti le adeniti tubercolari. La linfangite tubercolare è quasi sempre secondaria alla tubercolosi cutanea, ma si può osservare anche nel mesenterio. Si ha un induramento cordoniforme dei vasi linfatici, poiché, oltre a una linfangite, si ha sempre una perilinfangite nodosa e compartecipazione delle ghiandole linfatiche dalle quali talora parte in via retrograda il bacillo di Koch, che dà luogo a un'invasione di tutto il territorio linfatico. Spesso lungo il tragitto dei vasi linfatici si formano degli ascessi freddi che si ulcerano con le caratteristiche delle ulceri tubercolari. Giova molto la cura generale che si fa in tutte le forme tubercolari, ma spesso dobbiamo ricorrere all'estirpazione dei noduli linfangitici e delle ulcere, se si tratta di forme limitate, altrimenti le cure fisiche a base di raggi X o di radium troveranno larga applicazione previo un eventuale raschiamento per togliere le granulazioni e facilitare così l'azione dei raggi.
Come nelle vene e nelle arterie, si possono osservare nei vasi linfatici delle dilatazioni che si chiamano linfangectasie. Le dilatazioni possono interessare i vasi afferenti ed efferenti dei ganglî e le vie intragangliari e dare i cosiddetti adenolinfoceli; i tronchi linfatici dànno varici tronculari, le reti del derma varici reticolari. Queste linfangectasie possono essere prodotte da parassiti animali come la filaria nei paesi caldi (v. filarie). Ma si hanno delle linfangectasie, sebbene non frequenti, nei nostri paesi, che non sono date da parassiti. La semplice ostruzione meccanica dei vasi linfatici è insufficiente a dare una dilatazione permanente delle vie linfatiche; quindi si devono aggiungere condizioni anatomiche speciali per le quali si sviluppano le ectasie. Nei nostri paesi sono rarissimi i casi di linfangectasie idiopatiche e si confondono coi tumori delle vie linfatiche, con i cosiddetti linfangiomi.
Invece una lesione che ha una patogenesi riferentesi alle lesioni delle vie linfatiche e che si trova spessissimo nei paesi caldi, ma che si può trovare anche da noi, è l'elefantiasi (v.), che è data da una causa qualsiasi che dia luogo a infiammazione cronica del connettivo per un'infiltrazione che occluda i vasi linfatici.
Così infiammazioni streptococciche ripetute delle gambe sono seguite da sclerosi connettivale con modificazione della trama elastica della pelle. Il processo si localizza nella pelle e arriva fino all'aponeurosi, senza oltrepassare questa, e ha carattere progressivo, per cui la cura dev'essere energica e chirurgica. Abbiamo il metodo di W. S. Handley, col quale si stabilisce un drenaggio capillare a mezzo di fili di seta dalla zona infiltrata all'ascella o alla fossa iliaca (linfangioplastica) con risultati assai discutibili. E. Kondoleon, invece, ha fatto un drenaggio infossando bandellette di aponeurosi tra i muscoli. E. Payr ed E. Kondoleon hanno fatto larghe escissioni dell'aponeurosi in modo da dare una comunicazione tra il cellulare sottocutaneo e i tessuti profondi e ristabilire la circolazione linfatica. H. Walther ha posto un drenaggio di gomma fra la punta del triangolo di Scarpa e la parte inferiore dell'addome. Sono tutte operazioni però che non dànno risultati molto permanenti, ma si hanno dei casi di notevole miglioramento o per lo meno di arresto del processo.
Lesioni delle linfoghiandole. - Le lesioni traumatiche delle ghiandole linfatiche sono di poco valore e rientrano nelle leggi generali delle ferite delle parti molli; solo si ha la linforragia che cessa con la compressione. Le infiammazioni delle linfoghiandole si chiamano adeniti; esse possono essere acute e croniche.
Il modo di prodursi di un'adenite acuta è in rapporto con fatti settici che si sono sviluppati nel territorio tributario, dal punto di vista linfatico, dei ganglî affetti, cioè l'adenite si collega anatomicamente con la lesione originale. L'adenite può svilupparsi dopo e per causa di una linfangite o questa può mancare e aversi subito l'infezione dei ganglî o almeno sfuggire ogni localizzazione nei vasi linfatici in modo da sembrare che la localizzazione nei ganglî sia stata primitiva. Tutte le lesioni, sia traumatiche sia patologiche, della pelle e delle mucose possono essere causa d'infezioni dei vasi linfatici e di adeniti; i batterî sono trattenuti dal reticolo linfatico dei ganglî, reticolo che, oltre ad avere un ufficio puramente meccanico, ne ha uno difensivo, poiché gli elementi linfatici che sono nei ganglî stessi hanno potere di esercitare la fagocitosi, che è una delle difese dell'organismo contro i batterî, e l'attecchimento dei batteri nel ganglio dipende molto dall'esito della lotta tra leucociti e batterî. Uno degli effetti di questa lotta può essere un'attenuazione dei batterî passati attraverso ganglî (G. Perez) e un altro è il rimanere dei batterî senza dare segni di sé in un ganglio, attuando quello che si chiama "microbismo latente"; questi batterî in speciali condizioni tornano attivi producendo infezioni che possono apparire primitive. Nell'adenite acuta si ha il cosiddetto ingorgo dei ganglî per iperplasia degli elementi linfatici e degli altri elementi costituenti il ganglio stesso e il decorso ulteriore dipende dall'esito della lotta tra microbi ed elementi del ganglio; se questi sono vincitori, la tumefazione dal ganglio sparisce e si ha un ritorno al normale, nel caso, invece, che gli elementi si necrotizzino e i batterî proliferino attivamente, si ha la suppurazione del ganglio, cioè si forma un'adenite suppurativa con tumefazione del ganglio il quale presenta dei punti grigi che sono tanti ascessolini: questi confluiscono in un unico ascesso che occupa tutto il ganglio; l'infezione poi, guadagnando il tessuto intorno al ganglio, può indurvi una flogosi purulenta dando luogo così all'adenoflemmone.
I segni di un'adenite acuta sono dati dalla tumefazione del ganglio e dalla sua dolorabilità; il ganglio nei primi tempi rimane bene mobile, ma poi comincia l'infiltramento perigangliare, la cosiddetta periadenite, che rende il ganglio più fisso, finché, proseguendo il processo infiammatorio, il ganglio aderisce alla pelle che s'arrossa. Nel frattempo il ganglio aumenta la sua dolorabilità e la sua mollezza fino a che non comparisce, avvenuta la fusione purulenta, una fluttuazione che è indice di raccolta di pus. Però non sempre si ha la suppurazione, poiché talora si ha una risoluzione del processo o, per meglio dire, una regressione dei fatti; il ganglio comincia a essere meno dolente, diminuisce la tumefazione e a poco a poco tutto torna normale; però talora si hanno delle recidive per la persistenza dei microbi nel ganglio o per traumi che servono di causa occasionale per la reviviscenza del processo. Il processo infettivo può prendere altre ghiandole viciniori e così dare luogo a un processo di adenite diffusa di tutto un pacco gangliare con fatti infiltrativi diffusi. Come sintomi generali si possono avere febbre, anche elevata, e fenomeni settici di grande importanza; la febbre non manca mai e ha caratteri di febbre suppurativa, appena esiste una raccolta purulenta; le complicanze generali possono produrre o un'infezione del sangue o dare luogo allo sviluppo di ascessi metastatici in varî organi o in varî tessuti del corpo (celluliti). La diagnosi di adenoflemmone sarà facile quando si trovi, nella regione da cui provengono i linfatici tributarî dei gangli infetti, la porta di entrata; per cui si potrà, in un'adenite, ritrovare coi dati anatomici la porta d'entrata dell'infezione con quasi assoluta precisione.
La cura delle linfoadeniti acute è prima di tutto profilattica, col medicare accuratamente tutte le lesioni traumatiche che possono essere la porta d'entrata dei microbi che diano la linfangite e l'adenite. Al primo iniziarsi del turgore della ghiandola e della sua dolorabilità, sono utili gl'impacchi caldi sulla regione e le unzioni di soluzione di triclorofenolo o di pomata mercuriale o di pomata di ittiolo, e il riposo della parte; se si hanno sintomi generali gravi, occorre praticare la vaccinoterapia o la terapia proteinica aspecifica (caseal calcico, omnadina, ecc.). Se si va formando una raccolta di pus, intervenire precocemente appena si sente un poco di mollezza, senza attendere che si stabilisca un largo ascesso che potrebbe essere causa di scollamenti pericolosi e di ulcerazioni vasali. L'incisione deve essere ampia per dominare tutto il focolaio e, se il ganglio si presenta assai libero e non ancora è sviluppata la periadenite, conviene procedere all'enucleazione dei ganglî per troncare ogni pericolo di estensione maggiore del processo.
Una forma speciale di adenite è quella che segue e accompagna le ulcere veneree dei genitali (v. ulcera).
Un'altra forma di adenite con decorso subacuto è stata illustrata da O. Favre, Nicolas e Durand. È una forma di adenite che s'inizia con un nodulo inguinale doloroso, poco mobile, che è seguito dalla comparsa di altri a fare un'agglomerazione poliglandulare che si rammollisce in varî punti per focolai intraghiandolari che si ulcerano. Pare che sia di origine genitale in seguito a un'escoriazione della mucosa; non ne è ancora noto l'agente patogeno, ma si sa che è contagiosa e inoculabile. In queste forme la cura è l'ablazione in massa del pacchetto ghiandolare che toglie così il focolaio infettivo: si è tentata una terapia con raggi Röntgen, o con iodio o con emetina, ma per ora i risultati sono incerti.
Oltre alle adeniti acute, esistono quelle croniche che non si deve credere che siano tutte tubercolari, poiché si hanno delle forme non tubercolari che provengono da ripetute infezioni gangliari, che assumono poi il decorso cronico; certo non sono frequenti, ma neppure si deve escluderle. Prendono per lo più tutto il gruppo ghiandolare della regione del collo o dell'inguine. Sono lesioni che con le ricerche batteriologiche e con le inoculazioni dànno risultato negativo per la tubercolosi e non fanno abitualmente riscontrare la presenza di batterî; nonostante questo, alcuni credono che si tratti di forme tubercolari. La cura di tali forme è l'asportazione delle masse gangliari in blocco, dopo avere però escluso coi metodi clinici che si tratti di forme di leucemia o di altra forma simile, con esami del sangue o con l'estirpazione di una ghiandola a scopo diagnostico.
Il tipo più comune e più frequente di adeniti croniche è dato dalla forma tubercolare, che già da tempo era creduta specifica, ma che fu dimostrata poi nettamente tubercolare e per la struttura istologica tipica del ganglio colpito dalla tubercolosi e per la prova batteriologica e per l'inoculazione positiva negli animali da esperimento per lo sviluppo di una forma tubercolare magari dopo una serie di inoculazioni. Tali adeniti sono date dal bacillo di Koch, che penetra o per la pelle o per le mucose, specie faringea e tonsillare, e che dà in un primo tempo una linfangite, per poi localizzarsi nella ghiandola linfatica e ivi dare le lesioni caratteristiche. Certo deve contribuire molto la disposizione dell'organismo sia congenita sia acquisita per deperimento organico, per malattie esaurienti, ecc., ma la causa vera e propria è il bacillo della tubercolosi, il quale produce anche le forme dette scrofolose del collo caratterizzate da infiltrazione della cute, da adeniti e da ulcerazioni cutanee di aspetto sicuramente tubercolare. La localizzazione del bacillo di Koch nei ganglî può essere secondaria a una tubercolosi ossea o articolare o cutanea o anche viscerale, o può aversi in ganglî già ammalati per lesioni banali da piogeni attenuati o in ganglî cronicamente infiammati, come abbiamo accennato sopra, e che rappresenterebbero il tipo dell'antica scrofola; oppure il bacillo si localizza primitivamente nel ganglio, passando attraverso la cute o le mucose più o meno integre. Le ghiandole affette da tubercolosi appariscono ingrossate con polpa aumentata di volume, con granulazioni grige che sono date dai tubercoli, con struttura istologica tipica, con la formazione di ascesso o per meglio dire rammollimento del ganglio fino alla costituzione di una raccolta purisimile, che costituisce il cosiddetto "ascesso freddo", che può essere intraghiandolare, ma che può estendersi a dare una periadenite e quindi la formazione di un ascesso che si sviluppa sottocutaneamente fino a ulcerare la pelle. Il ganglio può subire la degenerazione caseosa, detta così per il suo aspetto e che colpisce singoli punti o la totalità del ganglio.
L'esito di tali adeniti può essere o la sclerosi, cioè la trasformazione in tessuto connettivale, evoluzione che sta a indicare la guarigione anatomica del processo tubercolare, o la calcificazione del ganglio per deposito di sali calcarei, come s'osserva facilmente nei ganglî dell'ilo del polmone, che spessissimo si trovano calcificati come postumo di un vecchio processo tubercolare spento. Si hanno così ammassi gangliari duri aderenti per la periadenite, i quali nel caso di un'estesa degenerazione caseosa dànno luogo invece a formazione di ascessi con tendenza all'ulcerazione della pelle; il pus che si trova negli ascessi freddi è per lo più molto fluido, sieropurulento, con stracci necrotici e caseosi; talora ha un aspetto come sieroso, tanto che ricorda le formazioni cistiche, ma che si differenziano per la presenza di elementi degenerati e per la struttura tipica del tessuto tubercolare nella parete della sacca.
Le adeniti tubercolari sono o uniche (forma unighiandolare) o multiple (forma polighiandolare) che fanno un vero pacchetto o un grappolo di ghiandole. Sul primo le ghiandole sono assai mobili, leggermente molli, ma poi o divengono più fisse o s'induriscono o subiscono un rammollimento fino alla colliquazione o alla formazione dell'ascesso freddo che nella sua evoluzione cerca di raggiungere la superficie del ganglio, produce la periadenite e quindi un ascesso intorno alla ghiandola con la tendenza all'ulcerazione della pelle e alla formazione di fistole da cui geme pus. Si formano ulcerazioni con margini scollati e con pelle circostante violacea in modo che la regione apparisce come tempestata da ulcerazioni di aspetto tubercolare, che, se vanno a guarigione, producono cicatrici retratte irregolari, tipiche di tali esiti del processo specifico.
Le adeniti tubercolari sono per lo più scarsamente dolenti; la febbre o manca o è molto modica, serale, con qualche brivido iniziale, specie se si ha un'infezione secondaria da piogeni. Da un'adenite tubercolare si può sviluppare una tubercolosi interna viscerale o una disseminazione generale del processo, ma per lo più con cure adatte guarisce bene lasciando come unico residuo le cicatrici delle ulcerazioni.
Talora si può nella diagnosi rimanere un poco in dubbio per dovere ammettere non una forma tubercolare, ma una neoplastica, che è il linfoadenoma non leucemico, come pure deve distinguersi l'adenite tubercolare dalla leucemia; in questo ci aiuterà l'esame del sangue che nella leucemia, oltre alle modificazioni morfologiche, presenta un considerevole aumento di numero dei globuli bianchi; in casi dubbî è bene fare l'estirpazione di un ganglio per l'esame istologico e la prova dell'inoculazione in animali recettivi. Così pure all'inguine si hanno delle forme sifilitiche che possono trarre in errore, ma l'anamnesi, la reazione di Wassermann e le altre reazioni sierologiche ci consentiranno un'esatta diagnosi.
La terapia delle adeniti tubercolari deve essere generale con cura climatica sul mare, o in montagna, con la somministrazione di iodio, arsenico, calcio e per bocca e per iniezioni, di olio di fegato di merluzzo; vitto nutriente. Le cure fisiche sono indicatissime sotto forma di cure solari (elioterapia) fatte molto prudentemente; o sotto forma di applicazioni di raggi ultravioletti o di radioterapia dopo avere però vuotato l'ascesso del ganglio. Si possono fare nell'interno del ganglio iniezioni modificatrici di iodio, glicerina iodoformizzata, olio con creosoto e iodoformio, ecc. Lo svuotamento del ganglio rammollito e dell'ascesso deve essere fatto precocemente, prima che la pelle sia alterata in modo da evitare le ulcerazioni. Si possono anche asportare le ghiandole, specie se si tratta di uno o due ganglî che abbiano tendenza alla suppurazione, prima che questo accada. L'estirpazione può rappresentare talora un'operazione molto grave per le aderenze, tanto che adesso viene praticata raramente, basandosi più specialmente sul trattamento generale.
Si tratta sempre di malattie a decorso molto lungo, la cui cura deve essere molto insistente poiché dall'insistenza di essa dipende il risultato della cura stessa. È da tenere molto conto dell'estetica, evitando cicatrici brutte aderenti che hanno in sé stesse indicata la natura della malattia.
I neoplasmi del sistema linfatico possono essere primitivi e secondarî. I tumori secondarî sono per lo più ripetizioni di epiteliomi che si sono sviluppati nel territorio linfatico da cui dipendono le ghiandole, o anche distanti da queste. I cancri si estendono seguendo le vie linfatiche, dando una specie di linfangite cancerigna, che talora apparisce in forma di sottili cordoni che seguono il decorso dei vasi linfatici e che terminano ai ganglî tributarî o seguono una via retrograda; in tali casi le cellule cancerigne sono trasportate nella corrente linfatica e si fermano a colonizzare nei ganglî. Per tale fatto, nell'esplorazione clinica di una regione affetta da cancro dobbiamo sempre andare a ricercare se i ganglî della regione viciniore e anche a distanza sono invasi, poiché dalla maggiore o minore invasione dei ganglî possiamo trarre gli elementi per giudicare dell'operabilità del tumore e anche, fino a un certo punto, della prognosi. Per fare un'operazione che s'avvicini il più possibile alla radicale, per evitare cioè la recidiva, occorre nei casi di cancro che siano estirpate tutte le ghiandole linfatiche delle regioni ove possono essersi allogate le cellule cancerigne. Ma, oltre a metastasi di cancro, si possono avere nelle vie e nei ganglî linfatici riproduzioni di altri tumori, come endoteliomi, periteliomi, linfangioendoteliomi, cioè tumori di origine connettivale che si sviluppano dagli endotelî o da formazioni periteliali, cioè perivascolari. Difficilmente si hanno metastasi da sarcomi, perché questi preferiscono le vie sanguigne. In ogni modo, dall'anatomia precisa delle vie linfatiche possiamo avere i dati per sapere ove portare l'indagine clinica, e quindi operatoria, per lo studio e l'asportazione delle ghiandole affette da possibili metastasi neoplastiche; purtroppo non in tutti i casi possiamo asportare il tumore, le vie linfatiche e i ganglî linfatici in blocco, ma spesso delle vie linfatiche non viene asportata che solo una parte; ecco la ragione per cui a tali operazioni è conveniente fare seguire applicazioni di raggi Röntgen o di radium per distruggere ciò che non si è potuto asportare chirurgicamente. Nelle ghiandole linfatiche si possono, per metastasi avvenute molto tempo prima, avere recidive di cancro, a distanza di tempo tale che al primo aspetto sembrano localizzazioni primitive, mentre nelle linfoghiandole non possono svilupparsi epiteliomi, essendo i ganglî privi di epitelio.
I tumori primitivi delle vie linfatiche sono rappresentati dai linfangiomi, cioè tumori fatti da vasi linfatici, come gli emoangiomi sono formati da vasi sanguigni. In tali tumori si ha neoformazione di vasi linfatici e di noduli linfatici e poi dilatazione dei vasi neoformati a fare anche delle vere cisti, come s'osserva spesso al collo. I linfangiomi possono localizzarsi nella lingua a dare la cosiddetta macroglossia, nelle labbra a dare la macrocheilia, con sviluppo enorme dell'organo: così pure possono dare luogo nelle varie parti del corpo a tumori o solidi o cistici isolati o uniti a tumori simili di vasi sanguigni. La cura non può essere che chirurgica e cioè l'asportazione del tumore o, se la sua asportazione non sia possibile, la sua resezione con allacciature atrofizzanti alla periferia. Gli altri tumori primitivi delle ghiandole linfatiche sono difficili a identificarsi (v. sopra: Anatomia patologica). Possiamo distinguerli a seconda che dànno o no modificazioni della composizione del sangue, perché nel secondo caso possono riguardare la chirurgia, mentre nel primo sono malattie sistematiche dell'apparecchio ematopoietico e leucopoietico, nelle quali si hanno alterazioni morfologiche e quantitative degli elementi costitutivi del sangue e più specialmente dei globuli bianchi. Così abbiamo una linfadenia che può essere accompagnata da aumento cospicuo del numero dei leucociti e allora si rientra nella comune leucemia (v.), o non avere alterazioni della formula ematologica e allora si ha un vasto gruppo da cui ogni giorno vengono tolte alcune forme e catalogate differentemente, come la linfogranulomatosi maligna che dà, oltre a una tumefazione delle ghiandole linfatiche, anche altre localizzazioni. Così pure vi sono i cosiddetti linfoadenomi che riproducono la struttura del tessuto linfoide. Appariscono come tumori delle ghiandole linfatiche più o meno aderenti che possono dare anche dei fatti di compressione con disturbi di vascolarizzazione; si localizzano prima al collo, sono indolenti e se al principio non dànno modificazioni dello stato generale, poi producono decadimento assai rapido e prendono andatura maligna. Sono da differenziare da malattie sistematiche del sangue e dalle forme tubercolari, cosa che all'inizio è assai difficile; un dato differenziale è la fissità più precoce dei ganglî tubercolari, è la generalizzazione nel linfoadenoma con lesioni bilaterali precoci: la tendenza nelle forme tubercolari al rammollimento può essere un dato diagnostico importante. Però la diagnosi di tali forme è difficile e spesso bisogna ricorrere all'esame microscopico di un ganglio estirpato.
In tali casi, se precoci, l'estirpazione dei ganglî affetti puo dare buon risultato: nelle forme avanzate la cura medica a base arsenicale e la radiumterapia, nonché la röntgenterapia, potranno dare qualche risultato transitorio. Nei sarcomi linfatici e nei linfosarcomi, se all'inizio, si può fare l'estirpazione, ma se sono un poco avanzati, è meglio applicare il radium o i raggi X. La terapia fisica potrà almeno fare cessare dei fatti di compressione dolorosi, anche se, come pare, non dà una guarigione. Nelle forme caratterizzate da iperplasie degli elementi linfatici l'asportazione è la cura migliore.
Patologia Veterinaria. - Tra le adeniti ricordiamo l'adenite equina (v. adenite: Adenite equina). Le principali forme di linfangioite clinicamente dimostrabili si rilevano: a) nella morva cutanea, malattia infettiva e contagiosa, sostenuta dal B. mallei, contraddistinta da cordoni linfatici, duri, poco dolenti e in rapporto circolatorio con noduli e ulceri cutanee; b) nella linfangite ulcerosa del cavallo, malattia infettiva e contagiosa sostenuta dal B. di Preisz e Nocard, caratterizzata da un processo infiammatorio dei vasi linfatici sottocutanei con tendenza alla formazione di ulcere e senza reazione ganglionare; c) nella linfangite epizootica o farcino criptococcico, malattia cronica, infettiva e contagiosa dei solipedi, sostenuta dal Cryptococcus farcinosus di Rivolta, contrassegnata da un processo purulento a carico dei vasi linfatici sottocutanei e dei ganglî regionali; d) nel farcino bovino (lymphangioitis farcinosa bovis), malattia infettiva cronica dovuta a una varietà di Streptotrix (Nocardia farcinica), caratterizzata da un processo infiammatorio purulento dei vasi e dei ganglî linfatici superficiali.
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