Siria
Sìria. – La rivolta siriana, iniziata nel marzo 2011 sull’onda delle rivoluzioni vittoriose in Tunisia (gennaio) e in Egitto (febbraio), ha subìto nei mesi successivi una progressiva militarizzazione. Censurata e repressa con durezza sin dai suoi primi passi, la protesta non ha mai conosciuto la partecipazione popolare pacifica e imponente delle piazze tunisine ed egiziane in rivolta e si è trasformata già nell’autunno del 2011 in insurrezione armata. A far quadrato intorno al presidente siriano Asad (v. ), l’esercito, i potenti servizi segreti, Mukhabārāt, e la comunità degli alauiti, la setta religiosa minoritaria di origine sciita cui appartiene la dinastia degli al-Asad e che occupa tutti i posti chiave nel governo, nell’amministrazione pubblica, nell’esercito e nel partito Ba‛th, vera spina dorsale del regime (v. ). Nel fronte degli insorti, accanto al blocco maggioritario sunnita, le componenti non confessionali e pacifiste dell’opposizione cercano di non essere sopraffatte dalla radicalizzazione dello scontro che favorisce naturalmente le voci più estremiste e violente. La brutalità della repressione del regime, a più riprese responsabile del massacro di popolazione inerme a Hama, Homs, Aleppo e in altre città, non ha scalfito la sostanziale immobilità della comunità internazionale che, accorsa in armi in Libia al fianco degli insorti contro Gheddafi, ha scelto in Siria di restare a guardare. Eppure non sono pochi i paesi che, indifferenti al dramma del popolo siriano, combattono la loro guerra diplomatica per conquistare la supremazia nella regione o per affermare il proprio peso sulla scena mondiale. Sul piano regionale sono Iran e Arabia Saudita i due colossi che si combattono a distanza sul territorio siriano: il regime sciita iraniano, alleato di al-Asad, deve difendersi dalla tradizionale ostilità del regno saudita, campione dell’islam sunnita e intenzionato a frenare qualsiasi tentativo di espansionismo iraniano, spalleggiato peraltro in questa impresa dagli Stati Uniti. L’Iran, dal canto suo, sostiene al-Asad per non perdere un prezioso alleato, l’unico che abbia nel mondo arabo, e vedere al potere al suo posto uno schieramento sunnita sicuramente nemico. Ciò nonostante non si può non sottolineare la notevole distanza tra i due regimi: confessionale il primo, laico il secondo. Con grande determinazione è scesa in campo anche la Turchia, che sostiene l’opposizione interna al regime e auspica la caduta di al-Asad. Sul piano mondiale Russia e Cina, in contrapposizione a Unione Europea e Stati Uniti (che con molta riluttanza sostengono gli insorti), impediscono una presa di posizione troppo decisa delle Nazioni Unite contro la S., ponendo il veto nel Consiglio di sicurezza. Non hanno incontrato fortuna, peraltro, i tentativi di soluzione diplomatica del conflitto messi in campo prima dalla Lega araba tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 e poi nell’ottobre del 2012 dal nuovo inviato delle Nazioni Unite Lakhdar Brahimi (al-Akhḍar al-Ibrāhīmī), che ha sostituito nell’incarico Kofi Annan, con un infruttuoso giro di colloqui in Arabia Saudita, Iran, Iraq e Turchia e un incontro con lo stesso al-Asad.
Un regime in bilico. – Nell’estate 2012 l’impenetrabile linea di difesa del regime ha mostrato i segni di un'incrinatura: mentre si registravano significative defezioni ai vertici dell’esercito, fin lì quasi compatto nella lealtà alla dittatura di al-Asad, nel mese di luglio un attentato suicida al quartier generale della sicurezza a Damasco uccideva il ministro della Difesa e il suo vice, cognato di al-Asad. L’attentato era il segnale dei progressi militari compiuti sul campo, anche nella stessa capitale, dall’Esercito siriano libero (ESL), che coordina l’azione dei gruppi armati che combattono contro il regime. Fondato nell’estate del 2011, con base organizzativa in Turchia, l’ESL è costituito per la maggior parte da soldati disertori e da giovani volontari. Dopo l’attentato, tra l’estate e l’autunno, particolarmente drammatica appariva la situazione ad Aleppo, la città più popolosa della S., teatro di combattimenti tra l’ESL e le forze lealiste che ricorrevano all’uso dei blindati e dei bombardamenti aerei colpendo indiscriminatamente la popolazione. Mentre gli organismi umanitari internazionali denunciavano le responsabilità del regime nei crimini di massa contro i civili (arresti arbitrari, violenze, sparizione di persone, uccisioni sommarie), al-Asad cercava di confondere la situazione facendo leva sulle preoccupazioni dei paesi occidentali e denunciando le collusioni dei ribelli con le formazioni islamiche più radicali e il terrorismo legato ad al-Qā‘ida. Pericolo, questo, messo in luce anche dagli oppositori laici del regime, che auspicavano un crollo immediato della dittatura per evitare un rafforzamento del fondamentalismo veicolato da questi gruppi terroristi, primo fra tutti Jabhat al-Nusra (Ğabhat al-nuṣra li-Ahl al-Shām «Fronte del sostegno per il popolo siriano»), che si sono mostrati un’arma più efficace per combattere al-Asad degli aiuti promessi e mai arrivati dall’esterno. Nei primi mesi del 2013 si assisteva a un ulteriore imbarbarimento del conflitto con l’attentato all’università di Aleppo: oltre ottanta le vittime che si aggiungevano alla cifra stimata dalle Nazioni Unite di circa 60.000 morti dall’inizio della rivolta. Di fronte all’acuirsi della tensione nella regione, anche Israele è sceso in campo alla fine di gennaio con un raid aereo al confine siro-libanese, un flebile spiraglio di speranza è rappresentato dall’apertura al dialogo da parte della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, una piattaforma nata nel novembre 2012 che raccoglie i principali gruppi di ribelli comprese le formazioni militari.