FIESCHI, Sinibaldo
Figlio di Giovanni Stefano e di Caterina Carpanino, nacque a Genova nel 1626: è questa la data più probabile, desunta dall'atto di ascrizione nella nobiltà genovese, del 1649 (Arch. di Stato di Genova, Nobilitatis, 2835). Pur discendendo dal quarto ramo dei conti di Lavagna, le fortune della famiglia furono sempre di modesta entità, anche se il F. possedette capitali impiegati nel Banco di S. Giorgio.
Avvolte nell'oscurità restano le modalità della prima formazione, apparentemente parca di studi. È comunque certo che sin dalla tormentata giovinezza il F. si dimostrò assorbito dall'ideologia dell'onore che esplicava nel portare armi e nell'accompagnarsi a bravi. Nel 1645 subì una prima indagine per detenzione di coltello e presto incorse nelle leggi sul "discolato", tese a frenare le intemperanze dei giovani nobili: nel 1648 gli venne inflitta una condanna per uso di armi e due anni dopo fu indiziato di un furto di seta e di minacce al derubato, ma l'accusa non venne provata. Si era pure unito a gruppi che turbavano la pubblica quiete e infastidivano, pare, i conventi femminili. Imprigionato nel 1652, fuggì dalle carceri guadagnandosi tre anni di relegazione in Corsica.
Il ritrovamento di tre pistole in una sua casa di Sestri nel 1655 e la pena comminata di sette anni e mezzo di relegazione in Sicilia fecero preferire al F. l'alternativa di impiegarsi nell'esercito del re Cattolico in Fiandra: una soluzione forse combinata dalla famiglia con l'assenso di senatori amici per allontanare il giovane da una vita turbolenta e indisciplinata. La viscerale ammirazione per la Francia - "parve che portasse nel cuore un fior di giglio" (Leti, II,p. 337) - indusse tuttavia il F. a cambiare meta e a dirigersi verso il Ducato di Milano per unirsi alle armate francesi contro gli Spagnoli nell'assedio di Pavia. Una scelta mal vista dai Serenissimi, che li spinse a comminare il bando al disubbidiente suddito.
Dopo un breve soggiorno a Parigi, alla fine del 1656 il F. si trovava in Inghilterra per curarvi non meglio specificati affari personali: per un non benevolo anonimo si trattava di falsificazione di preziosi. Sono, questi, anni di confuse notizie sui suoi movimenti: non sembra, come in genere asserito, che prima di recarsi in Inghilterra, dove sarebbe giunto solo nel 1661,sia passato in Portogallo nel 1659 a combattere di nuovo contro gli Spagnoli. Certo è che nelle feste natalizie del 1660 per "evitare molti scandali e disordini" (Arch. di Stato di Genova, Nobilitatis, 2842, n. 32) sposò a Londra l'inglese Mary Owenden, che egli aveva indotto a farsi cattolica contro la volontà della famiglia. Dall'unione, conclusa all'apparenza con una sorta di separazione consensuale, nacquero due figli: Roboaldo nel novembre 1661, che seguì il padre a Genova; e Giacomo nel 1663 o 1664, che restò invece con la madre.
Sia che fosse dedito ai "negozi", sia che menasse vita "da cavagliero", nella capitale inglese il F. ebbe modo di stringere legami con diversi esponenti della restaurata aristocrazia e della corte e con l'ambasciatore del Portogallo, F. de Mello. Non appare credibile l'indicazione che vorrebbe il F. al seguito di Caterina di Braganza nel viaggio dal Portogallo all'Intilterra, per andare in sposa a Carlo II, più probabile che egli sia stato ammesso nel seguito di Caterina solo dal momento in cui questa toccò terra inglese a Portsmouth, il 13 maggio 1662, e a ogni modo nutrì non infondate speranze di ottenere un lucroso incarico a corte al servizio della regina.
Già inviato di Genova a Parigi, Giovanni Luca Durazzo era stato nominato ambasciatore straordinario per recare le felicitazioni della Repubblica a Carlo II. Al fine di ottenere alla Repubblica onoranze e titoli regi (riconosciuti nell'udienza del 20 genn. 1662), Durazzo decise di ricorrere alle entrature del Fieschi. Questi fece poi da intermediario nei contatti che il duca di York, poi Giacomo II, tramite il suo segretario tentò di intavolare con l'ambasciatore per coinvolgere capitali e uomini genovesi nelle imprese della Compagnia della Guinea. Memore dell'essenziale aiuto fornitogli, una volta a Genova il Durazzo perorò a favore del F., e lo stesso Carlo II interpose nell'ottobre 1662 la sua alta protezione presso i Serenissimi, che deliberarono la revoca del bando e la riammissione dell'esule alla loro benevolenza. Abbandonata l'Inghilterra, nel 1664 il F. era a Milano come commissario generale e capitano delle lance della guardia di Paolo Spinola Doria, generale dell'esercito milanese. Al F. si deve la splendida edizione della descrizione della grandiosa festa che si tenne a Milano non più tardi del 1666, alla quale concorse come capitano di una delle quattro squadre partecipanti al torneo (Amore e gloria. Festa d'armi a cavallo celebrata nel regio ducal palazzo..., Milano s. d.). Nel maggio 1666 otteneva la nomina per due anni a residente della Repubblica presso la Sublime Porta "perché favorito del magnifico Gio. Luca", denunciavano indispettiti alcuni anonimi rammentando ai Serenissimi gli agitati trascorsi del F. con la giustizia, forse per attaccare indirettamente i troppo attivi Durazzo (Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, 1582): un incarico di prestigio che premiando le capacità del F. avrebbe dovuto sancire la riconciliazione tra Genova e il suo indisciplinato cittadino; prolungatosi sino al 1675 tra polemiche, finì invece per rappresentare la causa della definitiva rottura.
La missione per avviare le normali relazioni con la Porta partì il 23 giugno 1666, guidata da Giovanni Agostino Durazzo in veste di ambasciatore straordinario, che, insediati il F. a Costantinopoli e O. Doria nel consolato di Smirne, rientrò in patria un anno dopo. Ruolo delicato quello del F. sul quale gli storici danno un giudizio drastico, attribuendo al suo operato la causa della chiusura nel 1682 dei rapporti tra Genova e la Porta. In verità la sua azione, almeno sino al 1671, deve essere giudicata nel complesso positiva. Si fece apprezzare dalla corte ottomana per l'abilità, puntualità e schiettezza del suo agire. Con intelligente disponibilità, e forse affascinato da un mondo così diverso, rifiutava di giudicare la realtà ottomana sulla scorta di inapplicabili parametri europei: "non è possibile dar legge alli Turchi, e [...] bisogna compire al loro cerimoniale secondo l'uso del paese" (Arch. di Stato Genova, Arch. segr. 2171, lettera del 26 ott. 1671). Oltre a dare utili indicazioni per facilitarne il commercio, favorì le monete trasportate dalle navi genovesi, almeno quelle coniate dalle zecche pubbliche per il Levante, contro le interessate denunce dei residenti delle altre nazioni europee, e difese le prerogative assicurate ai Genovesi. Anche l'accusa rivolta al F. di essersi piegato agli interessi francesi sembra infondata: nella sua azione non ebbe remore a scontrarsi con il brutale ambasciatore francese D. de la Haye-Vantelet, tanto che nell'agosto 1668 il Senato genovese, temendo che Parigi potesse adombrarsi di quell'opposizione, impose al suo residente di adottare "maniere soavi". Con il successore Ch. de Nointel, raffinato cultore di antichità greche e romane, ambasciatore dal 1670, il F. non tardò ad assumere un diverso atteggiamento sfociato probabilmente in amicizia, incontro di personalità e di sensibilità che non pare andasse a detrimento dei doveri imposti dall'ufficio.
Il fallimento genovese in Levante non va addossato soltanto al Fieschi. Nei rapporti con la Sublime Porta la Repubblica si muoveva contraddittoriamente, non credendo sino in fondo nelle prospettive commerciali che si potevano aprire. Il F. lamentò sempre tale freddezza e sollecitò un impegno maggiore e lungimirante: "per quanto costì si crede che questa missione sia vana e di nessun profitto, col tempo conosceranno il contrario" (ibid., dispaccio del 17 luglio 1670). Anche l'avidità dei commercianti genovesi, pronti a tutto pur di lucrare sulle monete adulterate battute nelle zecche private, pregiudicava la disponibilità di quei mercati: "che questa nattion genovese sia per negotiare rettamente [...] non vi è pericolo, prettendendo sempre guadagni esorbitanti, non contenti per il raggionevole" (ibid., 7 dic. 1670). A frenare il decollo del commercio levantino si aggiungeva infine la caotica circolazione monetaria turca, che scoraggiava l'invio di convogli mercantili genovesi.
L'atteggiamento e le istruzioni stesse del Senato genovese non favorivano il difficile compito del Fieschi. A Costantinopoli era stato nominato un residente con l'illusione di comprimere le spese imposte dal mantenimento di un'ambasceria, ma i Turchi non facevano distinzioni e pretendevano da tutti i diplomatici stranieri l'adozione di identici comportamenti e obblighi nel modo di condursi, di presentarsi a corte e di fornire le "regalie" ai vari ministri. Ciò aveva portato a sottovalutare l'ammontare delle uscite necessarie e il F. fin dal dicembre 1666 aveva illustrato al Senato quell'insostenibile situazione. Sordo ai suoi disperati appelli il governo, che anzi scambiò molta parte delle spese per personale propensione ad abitudini di vita dispendiose, il F. cominciò a fare debiti, prendendo a prestito somme agli esorbitanti tassi offerti sulla piazza, cosicché il denaro che con ritardo gli giungeva da Genova era appena sufficiente a pagare gli interessi. Prese anche a domandare con insistenza di fornirlo di mezzi o di "destrigarmi da questo laberinto" con l'invio di un nuovo residente. Il sostituto, P. Giustiniani, giunse a Costantinopoli nell'agosto 1671 con severissimi ordini: pagare i debiti del F., saliti a 20.000 pezzi da 8 e solo se accesi per necessità connesse al suo ufficio e soprattutto limitare ogni uscita, rifiutandosi all'uso dei "doni" abitualmente offerti a corte. Resosi conto della loro impraticabilità, l'afflitto Giustiniani cadde malato e alla fine di ottobre morì, forse suicida, prima che il F. avesse ottenuto la licenza di partire. Il visir Fadil Ahmed Köprülü, preoccupato di apparire condiscendente alle istanze francesi di interrompere i rapporti con la Repubblica, gli ordinò di continuare a ricoprire la rappresentanza sino all'arrivo di un altro residente, sebbene da Genova giungesse tassativo comando di non occupare più l'ufficio e di rientrare. Quasi ostaggio della Porta - "attualmente schiavo", non si dava alla fuga per "timore di maggior male" e di mettere in pericolo con se stesso "la nattione" (ibid., 28 dic. 1671) - disconosciuto dal suo governo (assorbito dallo scoppio della guerra savoina), non gli rimase che continuare ad accendere debiti, alla fine del soggiorno saliti a circa 36.000 leoni. In continua ricerca di denaro, non mancò nel 1674 di disporre di 15.500 pezzi che si trovavano presso il defunto console di Smirne G. L. Gentile per tacitare i creditori. Ciò decise il Senato a chiudere quell'incresciosa situazione con l'invio di Agostino Spinola. Sbarcato a Costantinopoli nel luglio 1675, per impedire il sequestro delle navi genovesi, lo Spinola si vide obbligato a sottoscrivere una dichiarazione in cui si diceva debitore se la Repubblica non avesse saldato le spese affrontate dal F., poi caricate con una tassa sul commercio genovese in Levante. Ottenuto finalmente il congedo, il F. si incamminò verso Vienna, e dopo "penosissimo, viaggio", nell'agosto 1676 raggiunse Padova e in dicembre Piacenza. Colpito intanto da provvedimenti degli inquisitori, cercò di contrattare alcune garanzie prima di rientrare a Genova, ottenendole se probabilmente nel 1677 si trovava nella sua casa di S. Lorenzo, protetta da immunità ecclesiastica.
Presto iniziò a stendere manifesti a difesa del suo operato e a dar fuori pungenti libelli, tra cui una feroce satira sulle "malattie" politiche della Repubblica. Riconosciuto autore degli irrispettosi versi, e per dare un segnale ai settori "critici" della nobiltà, nel 1679 o nel 1680 gli inquisitori lo fulminarono con tre anni di bando: appellatosi al Gran Consiglio, il Senato ne ordinò l'arresto per evitare altri clamori; ma, prevenuto a tempo, il F. sfuggì agli sbirri e si rifugiò a Parigi.
Li frequentò la cospicua colonia di emigrati genovesi che nutrivano rancori verso la Repubblica, tra cui G. P. Marana e il conte J.-L.-M. Fieschi, discendente del celebre Gian Luigi e suo lontano cugino, che si avviava a rendere pubbliche le rivendicazioni contro Genova per farsi restituire beni e feudi sequestrati alla famiglia nel 1547. Con quelle pretese il F. poco c'entrava: lui mirava solo a recuperare le somme sborsate a Costantinopoli e per questo non esitò ad avviare nel 1684 un'azione legale contro i procuratori dello Spinola e a chiedere invano "rapresaglie" contro le rendite parigine dei genovesi.
All'inizio il F. non pensava di rompere con Genova e si offriva al contrario di mediare tra la Repubblica e il cugino, ed era prodigo di consigli che denotavano un sicuro intuito politico. Già nel 1681 suggerì ai Serenissimi "un colpo di politica grande": togliere da mezzo i pretesti come quelli del conte per capire se Luigi XIV mirasse invece a "disegni più vasti" pregiudizievoli alla libertà della Repubblica. Più che avviare effimeri tentativi di riarmo, Genova doveva prevenire il gran re e intavolare trattative urgenti, inviando a Parigi un abile ministro per "placare il folgore che minaccia prima che prendi fuoco, perché poi non sarà più tempo o sarà con disavantaggio" (Arch. di Stato di Genova, Arch. segr. 1995, lettera a Gerolamo Fieschi, 17 nov. 1681).
Il F. non praticò soltanto gli ambienti degli esuli né visse ai margini della società, anzi in breve strinse solidi legami con i maggiori esponenti del mondo politico e militare di Parigi, tra tutti la côterie colbertiana: C. de Croissy, segretario agli Affari esteri, J.-B.-A. de Seignelay, F. Pidou de Saint-Olon. Gli incontri con quest'ultimo furono assidui e quando alla fine del 1681 venne nominato ambasciatore a Genova, sia il F. sia il Marana gli tratteggiarono il quadro della vita interna della Repubblica. Smessa ogni speranza di riconciliazione, nel Regno di Luigi XIV il F. trovò una nuova patria facendosi naturalizzare francese dal Parlamento.
Grazie ai contatti mantenuti con Genova e all'amicizia stretta con J.-A. de La Font, redattore delle gazzette d'Amsterdam e di Leida, tra il 1683 e il 1685 i due presero a fornire i giornali olandesi di articoli sulla situazione interna genovese, talvolta falsi ed esagerati ma più spesso puntuali e lucidi nei giudizi. Con la Francia ormai decisa a piegare la Repubblica ai suoi voleri e a disporre dei suoi porti, il dinamismo dei due émigrés mise in gravi ambasce il residente genovese P. M. De Martini. Solo la soppressione fisica poteva frenare la loro loquace e imbarazzante penna, una soluzione confortata nel febbraio 1684 dal parere dei teologi interpellati dagli inquisitori di Stato genovesi sulla liceità di sopprimere senza formalità sudditi pericolosi per la vita della Repubblica. Il timore della reazione francese e il precipitare degli eventi - il 21 giugno 1684 la flotta di Luigi XIV iniziò a bombardare Genova - consigliarono di accantonare quei drastici propositi, anche se il De Marini non mancava occasione per colpire il F. e screditarlo presso i suoi protettori. L'ultimo pretesto glielo fornì nel settembre 1685 una falsa polizza girata dal F. per ricavare 6.000 scudi d'oro da un'eredità genovese. Invitato davanti al tribunale parigino, si sottopose all'interrogatorio solo dopo la minaccia di arresto; ma, nonostante le trame del De Marini, il F. non ebbe a patire conseguenze giudiziarie.
Era l'ultimo exploit della sua travagliata vita. Le ripetute istanze perché "fosse restituito nel suo onore, roba e libertà" fatte a nome del re non smossero la Repubblica (ibid. 2204). Dopo il 1685 il F. scivolò nell'ombra senza più riemergere. La sua morte, avvenuta verosimilmente a Parigi, va posta entro il 1692, quando il figlio Roboaldo si diceva "quondam Sinibaldi".
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